Copertina
Autore Elisée Reclus
Titolo Storia di un ruscello
Edizioneeleuthera, Milano, 2005 , pag. 160, cop.fle., dim. 125x190x10 mm , Isbn 978-88-89490-05-1
OriginaleHistoire d'un Ruisseau [1869]
CuratoreMarcella Schmidt di Friedberg
TraduttoreAlberto Panaro
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe natura , geografia , ragazzi
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

       Introduzione                         7
       di Marcella Schmidt di Friedberg
       Riferimenti bibliografici           16

    I. La sorgente                         19
   II. L'acqua del deserto                 28
  III. Il torrente di montagna             39
   IV. La grotta                           44
    V. La voragine                         51
   VI. Il burrone                          57
  VII. Le sorgenti della valle             63
 VIII. Le rapide e le cascate              71
   IX. Le sinuosità e i vortici            77
    X. L'inondazione                       85
   XI. Le rive e gli isolotti              92
  XII. La passeggiata                      99
 XIII. Il bagno                           106
  XIV. La pesca                           112
   XV. L'irrigazione                      120
  XVI. Il mulino e la fabbrica            127
 XVII. La barca e il convoglio di tronchi 135
XVIII. L'acqua in città                   143
  XIX. Il fiume                           149
   XX. Il ciclo delle acque               154


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 19

I
LA SORGENTE



La storia di un ruscello, anche di quello che nasce e si perde fra il muschio, è la storia dell'infinito. Quelle goccioline che scintillano hanno attraversato il granito, il calcare e l'argilla; sono state neve sulla fredda montagna, molecola di vapore in una nuvola, bianca schiuma sulla cresta delle onde; il sole, nel suo corso giornaliero, le ha fatte risplendere dei più vividi riflessi; la pallida luce della luna le ha cosparse di vaghe iridescenze; il fulmine le ha trasformate in idrogeno e ossigeno, e poi con un nuovo impatto ha fatto scorrere come acqua quegli elementi primordiali. Tutti gli agenti dell'atmosfera e dello spazio, tutte le forze cosmiche hanno lavorato insieme per modificare continuamente l'aspetto e la posizione dell'impercettibile gocciolina. Anch'essa è un mondo, come gli astri immensi che ruotano nei cieli, e la sua orbita si sviluppa di ciclo in ciclo in un movimento senza sosta.

Ma il nostro sguardo non e abbastanza ampio da abbracciare nel suo insieme il circuito della goccia e ci limitiamo a seguirla nei suoi giri e nei suoi salti, da quando appare nella sorgente fino a quando si mescola con l'acqua del grande fiume o dell'oceano. Deboli come siamo, cerchiamo di misurare la natura secondo le nostre capacità; ogni suo fenomeno si riduce per noi alla quantità ridotta di impressioni che abbiamo provato. Che cos'è il ruscello, se non l'angolino grazioso in cui abbiamo visto l'acqua scorrere all'ombra degli alberi, in cui abbiamo visto oscillare l'erba flessuosa e fremere i giunchi degli isolotti? La sponda fiorita su cui ci piaceva stenderci al sole sognando la libertà, il sentiero sinuoso che costeggia la corrente e che seguivamo a passi lenti osservando il filo dell'acqua, l'angolo di roccia da cui la massa compatta si tuffa in una cascata e si rifrange in schiuma, la sorgente gorgogliante: nel nostro ricordo, più o meno, il ruscello è tutto qui. Il resto si perde in una nebbia indistinta.

La sorgente soprattutto, il punto in cui il rivolo d'acqua, fin allora nascosto, improvvisamente appare: ecco il luogo affascinante verso il quale ci sentiamo irresistibilmente attratti. Che la sorgente sembri dormire nel prato come una semplice pozza fra i giunchi, che gorgogli nella sabbia giocando con le pagliuzze di quarzo o di mica che salgono, scendono e rimbalzano in un vortice ininterrotto, che sgorghi modestamente fra due pietre, all'ombra discreta dei grandi alberi, oppure che zampilli rumorosamente da una fessura della roccia: come non sentirsi affascinati da questa acqua che, appena sfuggita all'oscurità, riflette così allegramente la luce? Se anche noi godiamo del quadro incantevole della sorgente, ci è facile capire perché gli arabi, gli spagnoli, i montanari dei Pirenei e tanti altri di ogni razza e clima abbiano visto nelle sorgenti degli «occhi» attraverso i quali esseri rinchiusi nel buio delle rocce vengono per un attimo a contemplare il verde e lo spazio. Liberata dalla prigione, la ninfa guarda lieta il cielo azzurro, gli alberi, i fili d'erba, le canne dondolanti. Riflette la grande natura nel chiaro zaffiro dei suoi occhi, e sotto quello sguardo limpido ci sentiamo pervasi da una misteriosa tenerezza.

[...]

Presso di noi, lontani discendenti degli arii, sussistono ancora qua e là tracce dell'antica adorazione delle fonti. Dopo la fuga degli antichi dèi e la distruzione dei loro templi, le popolazioni cristiane continuarono in tante località a venerare le acque sgorganti. In Beozia, ad esempio, alle sorgenti del Cefiso, vediamo ergersi le une accanto alle altre le rovine di due ninfei greci dalle eleganti colonne e le pesanti costruzioni di una cappella del Medioevo. Anche nell'Europa occidentale chiese e conventi sono stati costruiti accanto a qualche sorgente; ma per lo più gli incantevoli siti in cui l'acqua nasce zampillando lieta dal suolo sono stati maledetti come luoghi infestati dai demoni. Durante i dolenti secoli del Medioevo la paura aveva trasformato gli uomini. Faceva loro scorgere volti ghignanti dove i loro antenati avevano intravisto il sorriso degli dèi; aveva trasformato in anticamera dell'inferno la terra ridente che per i greci era la base dell'Olimpo. I tetri maghi, comprendendo istintivamente che la libertà poteva rinascere dall'amore per la natura, avevano dedicato la terra ai genii infernali, avevano abbandonato ai demoni e ai fantasmi le querce in cui un tempo abitavano le driadi e le sorgenti in cui si erano bagnate le ninfe. Sulla riva delle acque zampillanti ritornavano gli spettri dei morti per mescolare i loro singhiozzi al fremito lamentoso degli alberi e al mormorio lieve dell'acqua sui ciottoli; alla sera gli animali selvatici si radunavano e il bieco lupo mannaro stava in agguato dietro a un cespuglio pronto a balzare addosso al viandante. In Francia, quante «fonti del diavolo» e quanti «gorghi d'inferno» evitati da contadini superstiziosi! Eppure, d'infernale in quelle temute sorgenti potevano trovare solo la selvaggia maestà del luogo o la profondità verde e azzurra dell'acqua.

Ora spetta a tutti gli uomini che amano la poesia e la scienza, a tutti coloro che vogliono lavorare insieme per la felicità umana, togliere il sortilegio lanciato contro le sorgenti dai preti ignoranti del Medioevo. Evidentemente non adoreremo più, come i nostri antenati arii, semiti o iberi, l'acqua che sgorga gorgogliando dal suolo; per ringraziarla della vita e delle ricchezze che dispensa alla società non costruiremo ninfei e non verseremo libagioni solenni. Ma faremo di più, in onore della sorgente. La studieremo nel suo fluire, nelle sue increspature, nella sabbia che trascina con sé e nella terra che scioglie; nonostante le tenebre, risaliremo il suo corso sotterraneo fino alla prima goccia che stilla attraverso la roccia; alla luce del giorno, la seguiremo da una cascata all'altra, da un meandro all'altro fino all'immenso serbatoio del mare in cui va a riversarsi; scopriremo il ruolo immenso che svolge nella storia del pianeta con il suo lavoro incessante. Nello stesso tempo impareremo a utilizzarla in modo completo per l'irrigazione delle nostre campagne e per l'attivazione delle nostre risorse, sapremo farla lavorare per il bene comune dell'umanità, invece di lasciare che devasti le coltivazioni e si perda nelle paludi mefitiche. Quando finalmente l'avremo conosciuta a fondo e la sorgente sarà diventata la nostra alleata fedele nell'opera di abbellimento del globo, ne apprezzeremo ancor meglio il fascino e la bellezza; non la vedremo solo con uno sguardo di ammirazione infantile. L'acqua, come la terra che anima, deve sembrarci ogni giorno più bella, dato che la natura si è ripresa, non senza fatica, dalla sua lunga maledizione. Le tradizioni dei nostri precursori, i cittadini della Grecia che guardavano con tanto amore il profilo dei monti, lo zampillio dell'acqua, i contorni delle sponde, sono state riprese dagli artisti per quanto riguarda sia la terra intera che la sorgente, e grazie a questo ritorno verso la natura, l'umanità fiorisce di nuova giovinezza e nuova gioia.

Quando incominciò il rinascimento dei popoli europei, uno strano mito si diffuse fra gli uomini. Si raccontava che lontano, molto lontano, al di là dei confini del mondo conosciuto, esisteva una fonte meravigliosa che riuniva tutte le virtù delle altre sorgenti. Non solo guariva, ma ringiovaniva e rendeva immortali. Moltitudini credettero a questa favola e si misero alla ricerca dell'acqua pura della giovinezza, sperando di trovarla non all'ingresso degli inferi, come l'acqua nera dello Stige, ma al contrario in un paradiso terrestre, in mezzo ai fiori e al verde, in un'eterna primavera. Dopo la scoperta del Nuovo Mondo centinaia e poi migliaia di soldati spagnoli si avventurarono con coraggio inaudito in mezzo a terre sconosciute, attraverso foreste, paludi, fiumi e montagne, attraverso deserti privi di risorse e regioni popolate di nemici; camminavano, e ogni tappa era segnata dalla caduta di molti di loro; ma i superstiti avanzavano sempre, sperando di trovare finalmente, in compenso delle loro fatiche, quell'acqua miracolosa il cui contatto avrebbe loro permesso di vincere la morte. Si dice che ancor oggi qualche pescatore, discendente dei primi conquistatori spagnoli, si aggiri attorno alle isole negli stretti delle Bahamas, sperando di veder gorgogliare in una spiaggia l'acqua prodigiosa. E come si spiega che uomini che godevano del resto pienamente di buon senso e forza d'animo cercassero con tanta passione la sorgente divina che doveva ringiovanire il loro corpo e si esponessero tranquillamente a qualsiasi pericolo nella speranza di trovarla? Il fatto è che nulla pareva impossibile a coloro che avevano visto compiersi le meraviglie del Rinascimento. In Italia, i dotti avevano resuscitato il mondo greco con i suoi filosofi e i suoi artisti; nella nebbiosa Germania, i maghi avevano trovato il modo di fare scrivere il legno e il metallo; i libri si stampavano da soli e il campo sconfinato della scienza si spalancava alla massa del popolo, prima condannato alle tenebre; infine, i navigatori genovesi, veneziani, spagnoli, portoghesi avevano fatto comparire, come un secondo pianeta attaccato al nostro, un continente nuovo con le sue piante, i suoi animali, le sue popolazioni e le sue divinità. L'immenso rinnovamento generale aveva inebriato le menti. Il Medioevo sprofondava nell'abisso dei secoli e per gli uomini incominciava una nuova era più felice e più libera. Coloro che si erano liberati grazie allo studio capivano che solo la scienza, il lavoro, l'unione fraterna potevano accrescere la potenza dell'umanità e farla trionfare sul tempo; ma i rozzi soldati, eroi a rovescio, andavano a cercare nel passato leggendario la grande era di rinnovamento che si apriva proprio grazie alle conquiste dell'osservazione e alla negazione dei prodigi. Avevano bisogno di un simbolo materiale per credere al progresso e questo simbolo era quella fontana in cui le membra di un vecchio avrebbero ritrovato la forza e la bellezza. L'immagine che si presentava naturalmente alla loro mente era quella di una fonte che zampillava verso la libertà dal fondo del suolo tenebroso e subito faceva nascere sulle sue sponde le foglie, i fiori e la giovinezza.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 39

III
IL TORRENTE DI MONTAGNA



Fra gli innumerevoli ruscelli che scorrono sulla superficie della terra e si gettano nell'oceano o confluiscono per formare piccoli e grandi fiumi, quello di cui seguiremo il corso non ha nulla che lo segnali particolarmente all'attenzione degli uomini. Non nasce dalle alte montagne ricoperte di ghiacci; le sue rive non offrono una vegetazione particolarmente rigogliosa; il suo nome non è celebre nella storia. È senz'altro grazioso; ma quale ruscello non lo è, a meno che non scorra attraverso paludi fetide per gli scarichi delle città, o le sue sponde non siano state rovinate da coltivazioni sconsiderate?

I monti da cui discendono le prime acque del ruscelletto sono di altezza media: verdi fino alla vetta, hanno prati vellutati in tutte le valli, folti boschi su tutti i fianchi e pascoli sfumati dai vapori azzurrini dell'aria sui pendii più alti. Una cima dalle ampie dorsali domina le altre sommità, che si allineano in una lunga fila e proiettano una successione di colline in tutte le valli laterali. Le brusche pendenze, i promontori sporgenti, non permettono di cogliere con lo sguardo la disposizione del paesaggio: di primo acchito si vede solo una specie di labirinto in cui depressioni e alture si alternano in modo disordinato; ma se ci librassimo come un uccello o ci dondolassimo nella navicella di un pallone aerostatico, vedremmo che i margini del bacino si dispongono in cerchio attorno a tutte le sorgenti del ruscello, come un anfiteatro, e che tutte le vallette che si aprono nell'ampia cerchia piegano convergendo l'una verso l'altra e si riuniscono in una vallata comune. La catena principale, con i suoi picchi, forma il bordo più elevato del bacino; i due fianchi sono costituiti dalle catene minori che si abbassano gradualmente man mano che si allontanano dal crinale maggiore, trasformandosi in basse colline che convergono fino a chiudere il bacino parallelamente alle montagne. Ma lasciano un varco, quello attraverso il quale si slancia appunto il ruscello.

I monti sono diversi per altezza, e anche per la natura del terreno, il profilo, l'aspetto generale. La cima più elevata, che sembra il pastore del gregge di montagne, è un'ampia cupola dai potenti contrafforti: la massa di granito nascosta sotto la vegetazione si può individuare attraverso il movimento maestoso del rilievo. Altre cime più modeste, lì attorno, mostrano lunghe creste dentate e ripide pendenze; sono assise scistose che il nucleo di granito ha formato sollevandosi. Più lontano appaiono alture calcaree tagliate a picco, che si prolungano in altipiani leggermente arrotondati. Ogni vetta ha una sua vita propria, si direbbe; come un essere distinto, ha la sua particolare ossatura e la forma esteriore corrispondente; ogni ruscelletto che scende dai suoi fianchi ha il proprio corso e le proprie caratteristiche, il suo fruscio, il suo mormorio o il suo rimbombo.

La sorgente che nasce all'altezza maggiore e gode del corso più lungo fino a valle è quella del picco più elevato. Spesso nelle giornate piovose, o anche quando più in basso un bel sole illumina le campagne, abbiamo visto, a chilometri di distanza, formarsi la sorgente nel cielo lassù in alto. Una nube bianca s'innalza come fumo dalla cima lontana, si espande, avvolge i pascoli e si sfrangia in fiocchi incalzati dal vento. «La montagna si mette il cappello», dice il contadino, e questo cappello di nuvole non è altro che la sorgente sotto altra forma: dopo essere stata nuvola, nebbia, pioggia dirotta, riapparirà come sorgente qualche centinaio di metri più in basso, in un crepaccio della roccia o in una piccola ondulazione del terreno.

D'inverno, e anche in primavera, l'acqua che poi sgorga dal suolo come sorgente permanente si presenta sotto forma di neve depositata dal vento sulle alture. I nembi grigiastri che si impigliano nelle cime non evaporano senza lasciare tracce del loro passaggio; dove dal basso si scorgeva il verde dei pascoli, ora si stende una coltre abbagliante di neve. Questo bianco strato di fiocchi è, sotto una nuova forma, la nube di vapori che si condensava nello spazio e sarà presto il ruscello che si slancia allegramente verso la pianura. Mentre la superficie della neve caduta si ghiaccia e s'indurisce nella fredda atmosfera dell'inverno, in particolare durante la notte, un oscuro lavoro si compie al di sotto del grande laboratorio della montagna: le goccioline che il sole ha fuso durante il giorno penetrano nel suolo fino alla roccia e da un granello di sabbia all'altro, da un cristallo di quarzo a una molecola d'argilla, scendono impercettibilmente lungo i pendii; si mescolano, diventano gocce e poi, unendosi le une alle altre, fili d'acqua che filtrano sotterraneamente al di sotto delle radici dell'erba o nelle crepe della roccia sottostante. Poi, quando arrivano i primi caldi dell'anno, la neve fonde rapidamente in acqua e gonfia i ruscelletti nascosti, e l'erba, che sembrava bruciata da un incendio, riappare alla luce e verdeggia di nuovo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 77

IX
LE SINUOSITÀ E I VORTICI



Dalle rocce della montagna alla bassa pianura, il suolo, modificato dall'acqua nel corso del tempo, si inclina con una pendenza regolare verso la riva dell'oceano; il ruscello, quindi, dovrebbe scorrere in linea retta, spinto dal suo peso. Invece no, il suo corso è una successione di curve. La linea retta è una pura astrazione della mente e, come il punto matematico, altra chimera, esiste solo per i geometri. Nelle profondità celesti il sole, i satelliti, le comete roteano in immensi girotondi; sulla nostra sfera planetaria, trascinata come tutte le altre in una spirale di ellissi infinite, gli uragani, i turbini, i venti, i soffi più lievi dell'atmosfera si propagano volteggiando in circoli; le acque del mare si corrugano e si distendono in onde arrotondate; tutte le forme organiche, animali e piante, presentano nelle loro cellule e nei loro vasi soltanto superfici curve e sinuosità: anche i duri cristalli, osservati attraverso il microscopio, non hanno più quei piani regolari, quegli spigoli inflessibili che vediamo quando li guardiamo ad occhio nudo: i denti, le guglie, le spicole, le strie dei minerali e degli organismi infinitamente piccoli rivelano le morbide ondulazioni dei loro contorni sotto lo sguardo dello strumento che li scruta. Ovunque si produca un movimento, sia nella pietra che in tutti gli altri corpi e nell'insieme dei mondi, questo movimento, risultato di diverse forze, si compie secondo una direzione curvilinea.

Nel caso del ruscelletto e dell'acqua che lo ricolma, non c'è bisogno di armarsi gli occhi di un microscopio per vederne le sinuosità e i vortici. Anche il letto è tortuoso, e al suo interno, e sotto gli alberi che gli fanno ombra, tutto si muove in cerchi, gorghi, spirali; le erbe del fondo con le loro chiome ondulate, le increspature della superficie, le libellule che volano sopra i giunchi, che si incontrano, si separano e poi si incontrano ancora, i moscerini che volteggiano in un girotondo senza fine, il vento che passa disegnando in nero sullo specchio brillante dell'acqua soffi circolari: vedo solo curve graziosamente incrociate, cerchi allacciati l'uno all'altro, figure dai contorni ondeggianti. Come indicano i movimenti successivi d'immersione e di emersione di una foglia travolta, l'acqua appena scesa verso il fondo risale, formando una nuova curva, verso la superficie, si distende alla luce, poi sparisce ancora al di sotto di altre curve liquide che a loro volta, un attimo prima, erano scese verso il fondo. Sotto l'impulso della corrente, le molecole dell'acqua cambiano continuamente la rispettiva posizione; si dirigono verso destra, ma un'altra molecola le fa deviare a sinistra. Nel letto comune, ogni gocciolina ha il suo corso particolare, una serie bizzarra di curve verticali, orizzontali, oblique, comprese nei grandi meandri del ruscello: così si sviluppano le ellissi dei pianeti nell'immensa orbita solare che li trascina.

Visto nel suo insieme, anche il ruscello si sposta da una parte all'altra, come le gocce che lo compongono. La massa liquida, bloccata da una roccia o da un tronco d'albero posto di traverso, sfugge lateralmente e va a sbattere contro un argine. Respinta dall'ostacolo, rimbalza verso la riva opposta, la investe e, rimandata ancora indietro obliquamente, si slancia in senso inverso. Così la corrente si sposta continuamente da un bordo all'altro attraverso curve successive: dalla sorgente alla foce, è un lungo rimbalzo dell'acqua tra le due rive. Curve convesse e concave si alternano lungo i bordi: è un ritmo, una musica per lo sguardo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 112

XIV
LA PESCA



Il ruscello per noi non è solo il più bell'ornamento del paesaggio e un luogo di piaceri e d'incanti; è anche un serbatoio di cibo per la vita materiale dell'uomo, perché la sua acqua feconda nutre piante e pesci che servono alla nostra sussistenza. L'incessante battaglia per la vita che ci ha fatto diventare nemici degli animali delle praterie e degli uccelli del cielo eccita anche i nostri istinti contro le popolazioni del ruscello. Vedendo la trota guizzare nell'onda, rapida come un raggio di luce, la maggior parte di noi non si accontenta di ammirare la forma slanciata del suo corpo e l'agilità straordinaria dei suoi movimenti, ma rimpiange di non averla catturata mentre guizzava e di non aver potuto farla alla griglia per il pasto. La terribile bocca armata di denti che si apre al centro del nostro volto ci rende simili alla tigre, allo squalo, al coccodrillo. Come loro. siamo belve feroci.

Nelle ere antiche, quando i nostri antenati non conoscevano ancora l'arte di coltivare il suolo, di seminare i chicchi fecondi per fare spuntare le spighe, l'uomo, se non ricorreva all'antropofagia, non aveva altre risorse per alimentarsi all'infuori delle radici estratte dal suolo, i germogli delle erbe commestibili, i cadaveri degli animali uccisi nella foresta e il pesce catturato in mare o nelle acque correnti. Così, spinto dal bisogno, aveva acquisito, come pescatore, un'abilità che a noi sarebbe sembrata straordinaria. Non meno abile del luccio o della lontra, raramente mancava la preda che aveva preso di mira. Immobile sulla riva come un tronco d'albero, aspettava pazientemente che il pesce passasse a portata di mano, poi improvvisamente lo afferrava e gli schiacciava la testa su una pietra. Allo stesso modo, gli indigeni d'America che vivono ancora allo stato selvaggio trafiggono a colpo sicuro il pesce con il giavellotto scagliato dalla riva o con la freccia scoccata dalla loro cerbottana.

Del resto, un tempo i ruscelli e i fiumi erano molto più ricchi di pesce che non oggi. Dopo avere catturato nell'acqua corrente le prede necessarie al pasto della famiglia, il selvaggio soddisfatto lasciava che le migliaia o milioni di uova deposte sulla sabbia o fra i giunchi si sviluppassero in pace. Grazie alla straordinaria fecondità delle specie animali, le acque erano sempre popolate, sempre esuberanti di vita. Ma l'uomo, reso più ingegnoso dai progressi della civiltà, ha trovato il modo di distruggere queste razze prolifiche, le cui femmine potrebbero, nel corso di qualche generazione, riempire le acque di una sicura massa di carne. Nella sua avida imprevidenza, è arrivato a sterminare completamente certe specie che un tempo vivevano nei ruscelli. Non si è servito solo di reti che sbarrano la massa d'acqua e imprigionano tutta la popolazione, ma è ricorso anche al veleno per distruggere in un colpo solo moltitudini di pesci, facendo un'ultima cattura più abbondante delle altre.

Ma i veri pescatori, quelli che sono sensibili all'onore di chiamarsi così, condannano questi metodi vergognosi di distruzione di massa, che non richiedono né sagacia né conoscenza dei costumi della fauna. D'altra parte, per un contrasto che sembra strano a prima vista, il pescatore ama quelle povere bestie di cui è diventato persecutore, studia le loro abitudini e il loro genere di vita con una specie di entusiasmo, cerca di scoprire in loro virtù e intelligenza; come il cacciatore che parla delle imprese della volpe, il pescatore si esalta a raccontare l'acume della carpa e le astuzie della trota; le rispetta come avversari, le vuole combattere lealmente e se la prende con i bracconieri indegni che agiscono in modo da distruggere la specie.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 154

XX
IL CICLO DELLE ACQUE



Come il grande fiume, che sia il Rodano, il Danubio o il Rio delle Amazzoni, il mare è composto da migliaia e migliaia di ruscelletti che si versano nei suoi tributari. Queste acque, accorse da ogni dove in tutti i continenti, si mescolano una prima volta nel fiume, e una seconda volta, in modo ancora più totale, nelle immense profondità degli abissi marini, abbastanza grandi da contenere l'acqua che è affluita da tutte le foci dei fiumi per cinquanta milioni di anni. Il mare, con i suoi movimenti di flusso e riflusso, il suo ininterrotto moto ondoso, le sue tempeste, le sue correnti e sottocorrenti, porta l'acqua di tutti i fiumi dall'una all'altra estremità del globo. La gocciolina scaturita dalla roccia in una grotta di montagna fa il giro del pianeta; depurata dalle alluvioni terrestri che trascinava con sé, scioglie molecole saline e di onda in onda, secondo le zone che attraversa, cambia peso specifico, salinità, colore, trasparenza. Anche la fauna degli esseri infinitamente piccoli che la abitano si modifica sotto i diversi climi; a volte i microscopici animali fosforescenti che la popolano la fanno brillare di notte come una scintilla, a volte infusori d'altro tipo la fanno assomigliare a una macchia di latte. Anche la sua temperatura varia senza fine. Nei mari polari, la gocciolina si trasforma in un piccolo cristallo di ghiaccio; nei mari equatoriali, si riscalda abbastanza perché i coralli possano depositare le loro molecole calcaree. Paragonato all'oceano sconfinato, il ruscelletto di montagna non è niente, eppure le sue acque, scomposte all'infinito, le ritroveremmo in tutti i mari e su tutte le rive se fosse possibile seguirle con lo sguardo nel loro immenso circuito.

Per ogni goccia marina che un tempo era parte del ruscello la durata del viaggio è diversa. Una, appena entrata nell'oceano, è afferrata dalle fronde di un'alga e serve a gonfiare i suoi tessuti; un'altra è assorbita da un organismo animale; una terza, presa prigioniera in un cristallo di sale, si deposita su una spiaggia sabbiosa; un'altra ancora si trasforma in vapore e sale invisibile nello spazio. È questa la via che imbocca prima o poi qualsiasi molecola d'acqua: liberatasi grazie a una sua improvvisa espansione, sfugge ai legami che la trattenevano sulla superficie orizzontale dei mari e si innalza nell'atmosfera, dove viaggia come ha viaggiato nell'oceano, ma sotto un'altra forma. Il vapore acqueo imbeve tutta la massa d'aria, anche al di sopra dei deserti torridi, dove per centinaia di chilometri non scorre un filo d'acqua; sale fino agli estremi limiti dell'oceano atmosferico, a sessanta chilometri di altezza perpendicolarmente allo specchio del mare, e probabilmente una parte di questo vapore si indirizza anche verso altri sistemi di pianeti o di soli, perché i bolidi che attraversano i cieli stellati come frecce luminose e lasciano cadere al suolo le loro scintille devono in cambio portare con sé un po' dell'aria umida che ossida la loro superficie.

| << |  <  |