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| << | < | > | >> |IndicePrefazione alla seconda edizione 9 Introduzione 18 Capitolo 1 - Una guerra a chi? 23 Capitolo 2 - Guerra su una parola 50 Capitolo 3 - Un nemico chiamato "terrore" 77 Capitolo 4 - Guerra come metafora 107 Capitolo 5 - Terrore come costruzione della nazione 136 Capitolo 6 - Terrore e status quo 156 Capitolo 7 - Terrore di Stato 178 Capitolo 8 - Terrore e democrazia 198 Capitolo 9 - Le origini del terrorismo globale 220 Capitolo 10 - La fonte del furore 240 Capitolo 11 - In nome degli oppressi 258 Capitolo 12 - Morte del combattente per la libertà 277 Capitolo 13 - La guerra al terrore 300 Capitolo 14 - Il terrore sul Nilo 319 Capitolo 15 - Un mondo in guerra 346 Capitolo 16 - Il Dio della ribellione 364 Conclusione - Lo scontro di definizioni 392 Postfazione - Guerra alla Gran Bretagna 400 Glossario 418 Letture consigliate 427 Ringraziamenti 429 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Prefazione alla seconda edizione"Terroristi e poliziotti escono dallo stesso cestino" Joseph Conrad, "L'agente segreto", 1907 Un uomo seduto in mezzo al pubblico appariva visibilmente arrabbiato. La sua voce tradiva esasperazione mentre mi urlava: "Lei dev'essere svitato o stupido se non sa che cos'è il terrorismo". Una donna seduta vicino a lui ignorò il moderatore del dibattito rivolgendosi direttamente a me con evidente incredulità: "Sta dicendo che approva l'uccisione di civili nella metropolitana di Londra?" Stavo partecipando a una discussione all'Edinburgh International Book Festival, intitolato con qualche pretesa Terrorismo, Cause e Rimedi. Era trascorso un mese dagli attentati suicidi alla metropolitana londinese. Da quando nel marzo 2005 era stato pubblicata la prima edizione di A cena con i terroristi, avevo preso parte a numerosi festival letterari e forum accademici. In ciascuno di essi avevo discusso la tesi fondante del libro che avete tra le mani: il problema di raggiungere un consenso universale sul significato del termine "terrorismo". In vent'anni di cronaca su conflitti e insurrezioni non avevo mai descritto i militanti armati come "terroristi". Avevo anche evitato di utilizzare l'espressione "combattenti per la libertà". Concordo con l'espressione idiomatica, semplice ma duratura, che "chi per qualcuno è un terrorista per qualcun altro è un combattente per la libertà". La storia è piena di esempi di questa duplice interpretazione. Da Cesare e Bruto a Gengis Khan, da Owain Glyndwr ai martiri di Tolpuddle, guerra e resistenza, l'assassinio di innocenti e il rovesciamento dei potenti diventano la narrazione del nostro passato. Se l'espressione precedente fosse esistita nel 1776, George Washington sarebbe stato considerato un "terrorista" dalla corte di Giorgio III e un "combattente per la libertà" (nonché un patriota) dagli americani. Menachem Begin era un "terrorista" per i governanti coloniali inglesi e un "combattente per la libertà" per quelli che rivendicavano uno stato ebraico. Nelson Mandela, che sosteneva il rovesciamento violento del regime dell'apartheid in Sudafrica era un "terrorista" per Margaret Thatcher e un "combattente per la libertà" per Tony Blair. Il "terrorismo", come definito dalla recente legislazione governativa, è un tema centrale della storia del genere umano. L'espressione "un terrorista per qualcuno" venne utilizzata per la prima volta nel XX secolo dai corrispondenti esteri e dagli esperti di affari internazionali impegnati a raccontare i conflitti in giro per il mondo. Dopo gli attacchi di New York e Washington nel 2001, l'alleanza dei governi che avevano dichiarato "guerra al terrorismo" ha intimato di schierarsi in un "conflitto globale" che riguarda tutti. La frase risoluta pronunciata da George W. Bush, "O con noi, o con i terroristi", sembra togliere ogni possibilità a giornalisti, commentatori e cittadini di comportarsi come osservatori imparziali. La "guerra al terrorismo" richiede una condanna inequivocabile di un certo tipo di violenza politica che i suoi nemici chiamano "terrorismo". A partire dalla fine della Guerra Fredda, i think tanks [letteralmente 'serbatoi di idee'; il termine indica gruppi autonomi che riuniscono professionisti al fine di organizzare ricerche e campagne politiche, NdT] negli Stati Uniti hanno promosso l'idea che il mondo avesse sperimentato una discontinuità storica cruciale. Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations con sede a New York, ai primi del 2005 ha dichiarato: "Gli storici si possono concedere il lusso di discutere se il terrorismo fosse giustificabile o meno in certe situazioni del passato. Noi no. Il terrorismo moderno è troppo distruttivo per essere tollerato e ancora meno sostenuto". Di conseguenza, forse non dovrebbe sorprendere l'accoglienza ostile che ho ricevuto a Edimburgo nell'agosto 2005. Lo scopo del mio discorso era quello di sfidare la visione mondiale proposta dal Presidente Bush e dai suoi alleati. Io ponevo deliberatamente delle domande provocatorie: Sarebbe stato moralmente diverso se a uccidere 52 civili il 7 luglio fossero state quattro bombe sganciate su Londra da un aereo? Sarebbe stato in qualche modo più accettabile se i responsabili avessero sostenuto che obiettivo del raid erano le stazioni di polizia, le linee elettriche o le installazioni logistiche piuttosto che i civili, che erano stati soltanto un danno collaterale? Se quattro bombe sono riuscite a terrorizzare Londra e a innervosire la Gran Bretagna, che effetto hanno potuto avere i massicci e ripetuti bombardamenti della loro città sugli abitanti di Baghdad? Nelle sei settimane dell'invasione a cavallo tra marzo e aprile del 2003, i bombardamenti, i colpi di fucili e artiglieria e dei carri armati hanno provocato la morte di 8.000 civili iracheni. Altri 20.000 sono rimasti feriti (secondo Iraq Body Count, un'organizzazione di monitoraggio indipendente. Altri hanno stimato cifre molto più alte). Questi civili sono in qualche modo meno innocenti delle 52 persone dilaniate dalle esplosioni mentre viaggiavano sulla rete dei trasporti londinesi? Come vi sentireste se soldati iracheni camminassero per le vostre strade? E magari occasionalmente facessero irruzione nelle vostre case per arrestare qualcuno che vi è caro. Se vi dicessero che hanno invaso la Gran Bretagna per darvi una vita migliore, accogliereste con gioia la loro presenza? Se le forze armate tedesche fossero riuscite a raggiungere Londra nel 1940, avreste accettato Hitler come vostro nuovo leader e sostenuto i nazisti?
I dolorosi accadimenti londinesi del luglio 2005 non mutano il caso politico
o linguistico su cui è costruita la narrazione di questo libro o il significato
di prendere in esame queste domande. Per i lettori che vivono nel Regno Unito,
lo rende persino più rilevante dal momento che la "guerra al terrorismo" non è
più un fenomeno globale nebuloso. Questa ha portato in Gran Bretagna i sintomi
della guerra: metallo mutilante, panico, morte e distruzione, che avevano già
colpito molte altre parti del mondo.
Nel settembre 2005, oltre 150 leader mondiali si sono riuniti al palazzo delle Nazioni Unite a New York per un summit di tre giorni che ha segnato il 60° anniversario dell'organizzazione. Uno dei primi obiettivi dell'incontro era quello di trovare un accordo sul significato del "terrorismo"; il segretario generale Kofi Annan ha promesso alle nazioni occidentali che le Nazioni Unite si sarebbero accordate su una definizione "no excuses". George W. Bush ha annunciato davanti al suo pubblico di Presidenti e primi ministri: "I terroristi devono sapere che il mondo è unito contro di loro". Tony Blair ha ottenuto il sostegno dei 15 membri del Consiglio di Sicurezza per rompere con quelli che "incitano al terrorismo" e anche con quelli che compiono "atti terroristici". Tutto ciò ha ampliato i poteri della Commissione antiterrorismo dell'ONU, creata nel 2001 per costringere gli stati membri ad armonizzare le leggi antiterrorismo. Il problema, con queste misure antiterrorismo, è che l'ONU non è riuscita a trovare un accordo su ciò che costituisce "terrorismo". Gli sforzi per redigere un trattato antiterrorismo globale sono in una fase di stallo dal 1996. La questione è stata a lungo una delle più delicate per l'ONU, principalmente per il fatto che spesso sono gli stessi governi a ricorrere al terrore per raggiungere i propri obiettivi. Alcuni stati spingono per escludere i "combattenti per la libertà", mentre altri insistono che qualunque definizione deve garantire i governi e i loro soldati. Altri si chiedono se la definizione di "terrorismo" si possa applicare all'invasione dell'Iraq guidata dagli USA nel 2003 senza l'appoggio dell'ONU. L' Operation Shock and Awe (Operazione colpisci e terrorizza) mirava, come suggerisce il suo nome, a terrorizzare la popolazione civile spingendola a sostenere il rovesciamento di Saddam Hussein. In passato il dibattito si era concentrato sul conflitto arabo-israeliano: la classificazione degli attentatori suicidi palestinesi e l'attività militare israeliana nella West Bank e a Gaza. Com'era prevedibile, l'Assemblea generale ha fallito ancora una volta nel suo tentativo di raggiungere un accordo riguardo a una chiara definizione di "terrorismo". Le due parti si sono attestate su posizioni note da tempo: Stati Uniti e Comunità Europea hanno condannato ogni azione che colpisca la popolazione civile; i 56 paesi membri dell'Organizzazione della conferenza islamica hanno insistito per escludere i "movimenti di liberazione nazionale". Egitto, Iran e palestinesi hanno sostenuto che qualunque definizione non dovrebbe contemplare "il diritto legittimo dei popoli di resistere all'occupazione straniera". Tale formulazione avrebbe significato che i rapimenti e i bombardamenti compiuti da al Qaeda in Mesopotamia non sarebbero stati classificati come terrorismo dall'ONU, né lo sarebbero stati gli attentati suicidi commessi dai militanti palestinesi in Israele. Un membro della delegazione pakistana ha spiegato: "L'ONU deve fare una differenza tra terroristi e combattenti per la libertà. Se qualcuno stesse cercando di sottomettere la vostra popolazione civile... e sparasse a un membro della vostra famiglia, potremmo attenderci una risposta". Gli avvocati che rappresentavano i governi occidentali hanno affermato che gli stati non possono essere terroristi, possono solo combattere guerre. Eppure quegli stessi avvocati utilizzano già la legislazione diretta contro il "terrorismo di Stato" al fine di condannare paesi accusati di fornire assistenza a gruppi armati. E se servizi segreti stranieri piazzassero una bomba nella metropolitana di Londra, questo non sarebbe considerato, secondo la legge inglese, un atto di terrorismo? Il blocco occidentale all'ONU ha inoltre sostenuto che vi sono distinzioni morali chiave tra bombardare dall'aria (persino quando lo scopo è seminare terrore) e collocare una bomba in una strada affollata. Secondo i suoi esponenti, un attacco aereo ha degli obiettivi militari, mentre una bomba "terrorista" ha lo scopo deliberato di uccidere dei civili. Questo argomento rivela ben presto la sua fragilità: l'elenco degli obiettivi da bombardare è così ampio (come inevitabilmente è) da includere centrali elettriche, ponti e vie di comunicazione strategiche, stazioni della polizia e dei riservisti, fabbriche che contribuiscono allo sforzo bellico e così via. Anche i militanti possono utilizzare questo argomento per giustificare le loro carneficine; di recente in Iraq i ribelli hanno affermato che un ristorante era diventato un loro obiettivo perché era frequentato regolarmente dalle reclute della polizia. Coloro che propongono una nuova convenzione, supportata universalmente, riguardo al terrorismo non riescono a comprendere la rabbia e la paura provate da numerose nazioni nei confronti dell'ipocrisia dell'Occidente. Il blocco occidentale, Israele incluso, viene percepito come quello che fa un uso illegale della forza dello stato e poi si aspetta che il mondo intero sottoscriva una definizione di "terrorismo" che non riconosce il diritto di resistere. A dispetto del fallimento del tentativo della comunità internazionale di definire il terrorismo, i governi occidentali hanno cambiato le regole della guerra e introdotto in tutta fretta una legislazione interna per combattere questo nemico mal definito. La decisione assunta nel 2002 dal Presidente Bush di mettere da parte le Convenzioni di Ginevra nella lotta ai "terroristi" ha legittimato l'uso della tortura e le conseguenze di questa politica si sono viste a Guantanamo, Abu Ghraib e nella rete segreta di prigioni nell'Europa Orientale e più oltre, dove la CIA ha nascosto e interrogato i detenuti. Nella sua prigione di Blemarsh, la Gran Bretagna tieni rinchiusi i prigionieri sulla base di leggi che ignorano il principio, vecchio di tre secoli, dell' habeas corpus, il diritto di ogni cittadino di essere accusato o liberato. Dopo gli attacchi al World Trade Center e al Pentagono, Tony Blair ha fatto approvare in tutta fretta dal Parlamento una legge antiterrorismo che prevede la detenzione all'infinito di stranieri sospettati di "terrorismo". Nonostante fosse stata giudicata illegale dalla Camera dei Lord, tale legislazione di fatto ha imposto ordini di controllo equivalenti agli arresti domiciliari, un'altra forma di detenzione a tempo indeterminato. Attualmente, queste misure sono state accantonate in favore di ordini di deportazione, che conferiscono al governo il potere di riportare quelli accusati di "giustificare o esaltare il terrorismo" al loro paese di origine. Ciò ha costretto la Gran Bretagna a una deroga dagli accordi internazionali sulla tortura; contemporaneamente il governo ha sottoscritto un "memorandum d'intesa" bilaterale con alcuni regimi dispotici che, sulla carta, dovrebbe garantire che i sospetti riconsegnati non vengano torturati o maltrattati. Il governo ha poi esteso la durata del fermo di polizia nel caso di un sospettato contro cui non siano state mosse accuse, portandolo da 14 a 28 giorni con un'altra legge antiterrorismo introdotta nei mesi successivi del 2005. Solo cinque anni fa, prima dell'approvazione del Terrorism Act 2000, al quarto giorno di carcere un sospettato doveva essere portato davanti a un giudice. Questa legge più recente classifica come reato criminale "incitare, giustificare o esaltare il terrorismo". Per incarcerare qualcuno è sufficiente provare che una persona accusata di violenza "terrorista" sia stata "indirettamente incoraggiata" dalle parole o dagli scritti di una terza parte. Ciò significa che una persona può commettere un reato anche se non è nelle sue intenzioni spingere altri ad agire in base alle parole da essa pronunciate. La legge non è diretta a ciò che le persone fanno, ma a ciò che dicono; è un reato dire qualunque cosa possa incoraggiare qualunque azione di grave violenza a sostegno di qualunque causa politica in qualunque parte del mondo. Chiunque giustifichi la resistenza all'occupazione, in Iraq come nei territori palestinesi, può essere perseguito. In Gran Bretagna numerosi musulmani ritengono che la legislazione antiterrorismo li abbia resi de facto nemici dello stato inglese. Incredibilmente, la nuova legislazione esclude l'"esaltazione" degli eventi che accadono in Irlanda. Che dire allora di coloro che celebrano le azioni dei "volontari" dell'IRA che hanno collocato bombe in Gran Bretagna o ucciso soldati inglesi? O di quelli che distribuiscono gli scritti di individui come Bobby Sands, che incoraggiava lo scontro violento con lo stato inglese? Sarà legale ma, secondo i funzionari governativi, anche criminale chiamare "martiri" gli attentatori dell'11 settembre. La maggior parte dei musulmani non crede più al governo inglese. Sanno che la Gran Bretagna viene attaccata non per quello che è, ma per quello che fa; così ha affermato, in un video rilasciato da al Qaeda, l'attentatore suicida Mohammed Sidique Khan. Quando, nel settembre 2005, Tony Blair ha dichiarato alle Nazioni Unite che "la radice del terrorismo non è una decisione di politica estera, per quanto controversa, ma una dottrina del fanatismo e noi abbiamo il compito di unirci per estirparla", la maggior parte dei musulmani era convinta stesse mentendo. Ho trascorso quattro mesi prima dell'attacco del 7 luglio a indagare i comportamenti e i punti di vista dei musulmani in Gran Bretagna. Il mio viaggio nelle loro case e comunità sparse per tutta la Gran Bretagna è l'oggetto della Postfazione di questo libro. La rabbia che ho potuto vedere con i miei occhi era così intensa e amara che potevo quasi sentirne il sapore. Sono in tanti a riconoscere che le politiche adottate dai governi occidentali a partire dal settembre 2001 hanno contribuito a creare la violenza che la "guerra al terrore" avrebbe dovuto prevenire. Da quando questo libro è stato terminato, il mondo è diventato un posto più pericoloso. Nell'ottobre 2005, un altro attentato dinamitardo ha devastato Bali. La crisi nel Kashmir ha colpito la capitale indiana New Delhi poco dopo nel corso dello stesso mese, uccidendo circa 70 persone. In seguito, la guerra in Iraq si è fatta sentire in Giordania, dove oltre 50 persone sono morte nella sua capitale, Amman. L'anno in cui è stata scritta buona parte di questo libro, il 2003, ha fatto registrare il più alto numero di attacchi "terroristici" (come vengono definiti negli Stati Uniti) in oltre due decenni. Nel 2004 quella cifra è triplicata. Il numero degli attacchi registrati nel 2005 è stato persino più grande. Il segretario della Difesa, Donald Rumsfeld ha dichiarato: "Ci mancano i parametri per sapere se stiamo vincendo o perdendo la guerra globale al terrore". Tra il mare di sangue quotidianamente versato in Iraq e il desiderio crescente di ritirare le truppe, forse Mister Rumsfeld farebbe bene a rivedere le statistiche della sua stessa amministrazione. Nel novembre 2005, un'influente rivista politica americana ha previsto che gli effetti della guerra in Iraq si faranno sentire in America negli anni a venire; gran parte del sostegno dato ai mujaheddin in Afghanistan negli anni '80 si è rivelato strumentale alla formazione di al Qaeda e agli attacchi su Brooklyn e Washington sferrati un decennio più tardi. La CIA l'ha definito un "blowback", un contraccolpo. Secondo Foreign Affairs: "L'attuale guerra in Iraq genererà un feroce contraccolpo, che - come prevede una valutazione della CIA resa nota di recente - potrebbe risultare più lungo e più forte di quello provocato dall'Afghanistan". In Iraq si continuano a fare sottili giochi di parole sul linguaggio utilizzato per descrivere il movimento di resistenza. Quando nel novembre 2005 un soldato inglese rimase ucciso da una bomba sulla strada vicino a Basra, un portavoce dell'esercito, rispondendo alla domanda su quali ribelli ci fossero dietro l'attacco, rispose: "In realtà non abbiamo problemi con i ribelli. Sono più gli elementi terroristici... questi possono rappresentare un grave rischio per noi stessi e per la popolazione locale di Basra". Dal momento che le nazioni occidentali non trattano con i "terroristi", i leader occidentali, rendendosi conto che l'opposizione all'occupazione non può essere sconfitta con mezzi militari, hanno pensato di ricorrere al termine "ribelli" per definire i militanti. Nello stesso mese, il Presidente dell'Iraq Jalal Talabani ha annunciato la sua volontà di parlare a questi "ribelli". Nel 2005 altri sviluppi hanno continuato a rafforzare le divisioni nel nostro mondo. La promessa degli Stati Uniti di portare la democrazia nella nazione più popolosa del Medio Oriente è stata disattesa. Hosni Mubarak è stato eletto Presidente dell'Egitto per la prima volta su mandato del popolo; il capo dell'opposizione è stato arrestato e ha descritto una campagna orchestrata per screditarlo ed emarginarlo. Per la maggior parte degli arabi, l'affermazione che l'America vuole sviluppare la libertà e la democrazia nella regione è una burla. Dopotutto, i soliti beneficiari di un genuino allargamento del mandato popolare sono i partiti islamici che si oppongono fieramente alla politica USA in Medio Oriente.
In Iraq, a eccezione della sparuta élite politica occidentalizzata, pochi
credono in un futuro in cui elezioni in stile americano determineranno i loro
governanti. La maggioranza sciita ha ricevuto indicazioni dai suoi capi
religiosi di appoggiare il "processo democratico" a patto che i rappresentanti
del clero possano mettere le mani sul futuro potere. I leader curdi, induriti da
anni di lotta per uno stato indipendente, sembrano anch'essi alleati
inaffidabili nel tentativo americano di imporre elezioni significative in un
Iraq unito e democratico.
Spero che, se non per altre ragioni, almeno per quelle legali, questo libro non sia visto come un tentativo di giustificare o esaltare il "terrorismo". Il suo scopo primo è quello di invitare i lettori a mettersi nei panni altrui. I musulmani di tutto il mondo si sentono vittimizzati e sfidati dal potere economico e militare dominante dell'Ovest. Sono in milioni a credere che alla loro visione del mondo non sia più garantita la dignità o uno spazio soddisfacente per svilupparsi insieme a quella della civiltà occidentale. Sono convinto che gli argomenti a favore della violenza politica richiedano la giustificazione morale più alta. L'ostacolo posto alla violenza tollerata dovrebbe essere lo stesso tanto nel caso di responsabilità di un esercito nazionale quanto in quello di un movimento di resistenza non statale. L'altezza di questo ostacolo venne aumentata subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, così come i bombardamenti che rasero al suolo le città tedesche "al solo scopo di seminare terrore", secondo quanto scritto da Winston Churchill, spinsero le democrazie occidentali a esaminare più da vicino gli orrori militari compiuti in loro nome. La "guerra al terrorismo" ha abbassato considerevolmente questo ostacolo. Oggi, a eccezione dei pacifisti, abbiamo la necessità di riformulare un codice legittimo di ragioni per cui combattere: a sostegno di un esercito nazionale, o per resistere alla sua aggressione. Una parola che non ha un significato preciso o concordato è diventata il perno di un'ideologia che sta dividendo il mondo. È urgente comprendere le ragioni per cui ci troviamo a fronteggiare questo livello di violenza globale. Il libro racconta la storia di come ha avuto origine questa terribile situazione... con l'uso improprio di una parola, "terrorismo". Phil Rees, dicembre 2005 | << | < | > | >> |Pagina 220Capitolo 9
Le origini del terrorismo globale
"La militanza islamica è emersa come la singola minaccia forse più grave all'alleanza della NATO e alla sicurezza Occidentale" Willy Claes, segretario generale della NATO, 1995 Mentre me ne stavo seduto sulle rocce della costa mediterranea di Beirut, era difficile immaginare che per quasi due decenni la città era stata il passaggio obbligato per una forma di violenza politica in sviluppo che travalicava le frontiere. Nel 1970, i capi della Rote Armee Fraktion della Germania Ovest, Andreas Baader e Ulrike Meinhof, passarono dai campi di addestramento gestiti dall'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). Tornarono in Europa per istigare e ispirare la violenza politica di sinistra in tutto il mondo. Un anno dopo, l'OLP, l'organizzazione cui viene accreditata l'inaugurazione del "terrorismo internazionale", trasferì il suo quartier generale a Beirut. Hezbollah, la milizia sciita formata nel 1982 e addestrata dalle Guardie rivoluzionarie iraniane, dopo essere stata espulsa, un decennio dopo, impiantò il suo quartier generale nel sud della città. La sua leadership in Iran non voleva soltanto trasformare il paese, ma esportare in tutto il mondo la sua rivoluzione. Le vittime della violenza politica si trovavano in ogni parte del mondo. Il "terrorismo" aveva una portata globale. Durante la guerra civile (1975-90), il Libano era martoriato dalle carneficine: centosettantamila morti, trecentomila feriti e ottocentomila senzatetto. Un libanese su cinque era fuggito all'estero. Il paese era diventato un vortice politico, fatto a pezzi dai suoi vicini; sembrava stesse compiendo una sorta di hara-kiri nazionale. Fu su questo terreno senza legge che presero corpo nuovi approcci alla violenza politica, resi possibili dagli avanzamenti tecnologici nelle comunicazioni satellitari e nei viaggi aerei. Vicino alla Linea Verde che divideva la città (tra le comunità cristiana e musulmana), ogni proprietà era segnata da buchi di proiettili. La gente viveva senza vetri alle finestre, acqua corrente o elettricità. I balconi, un tempo eleganti, di Rue Damascus adesso erano drappeggiati da vestiti cenciosi stesi al vento ad asciugare. Gli uomini agli angoli delle strade sedevano su poltrone e divani che un tempo appartenevano a salotti lussuosi. L'unica prova che vidi con i miei occhi del riemergere di Beirut dalle devastazioni della guerra fu un negozio aperto al pianterreno. I due piani superiori erano abbandonati, mentre il piano sotto era stato ristrutturato: larghe vetrine, lampade alogene e i buchi di proiettili chiusi con lo stucco. Il negozio vendeva borse e accessori di Louis Vuitton. La prima volta incontrai Khalil nell'ufficio al piano superiore di un piccolo giornale radicale a cui contribuiva occasionalmente con qualche articolo. Indossava un giubbotto leggero color cachi che sembrava preso a uno spaccio militare. Non aveva un fisico imponente, ma era forte e muscoloso, ed aveva una faccia ovale. Khalil era stato un combattente nell'OLP durante gli anni '70 e adesso lavorava con Hezbollah come consigliere militare non ufficiale. Era un palestinese nato e cresciuto nel Libano meridionale. Non si considerava libanese: "Sono palestinese e la Palestina è la mia patria", disse. Suo padre era fuggito in Libano da adolescente, nel 1948, quando Israele venne ritagliato dalla Palestina. "Mio padre dovette andarsene, altrimenti sarebbe stato ucciso". Più di una generazione dopo, nel 1982, la storia si ripeté: lo stesso Khalil venne allontanato da casa sua dagli israeliani. Era stato cresciuto a Khiam, una città nel Libano meridionale dove suo padre aveva incontrato la madre nei primi anni '50. "All'inizio i miei genitori vivevano in un campo profughi", ricordò. "Poi mio padre costruì una casa con le sue mani". Sollevò le mani, robuste e nere come il carbone. Negli anni '70, Khalil rimase coinvolto nelle operazioni dell'OLP sul confine settentrionale con Israele. Poi il nemico rispose con tale ferocia che Khalil fu costretto ad abbandonare la sua casa e l'esercito israeliano si stabilì nel suo villaggio per quasi due decenni. I militari utilizzarono il vecchio forte del Mandato francese vicino alla sua casa come carcere e imprigionarono molti dei suoi vicini. Khalil mi raccontò storie tremende sulla prigione di Khiam: ai prigionieri venivano strappate le unghie, fili elettrici venivano attaccati sui loro organi genitali. Disse di non essere più riuscito a tornare nella sua casa di famiglia. "Che cosa posso fare se non combattere queste persone?", chiese. Khalil era stato testimone della complicata guerra civile che aveva visto schierate numerose fazioni e aveva lasciato il Libano in rovina. Quando parlavamo di politica i suoi occhi sorridevano; spesso mostrava rabbia rispetto alle azioni di Israele, ma non una rabbia irrazionale. "Perché mai i palestinesi dovrebbero soffrire per gli ebrei?", chiese in un tono più inquisitorio che arrabbiato. "Gli inglesi si arresero al terrorismo ebraico. Scapparono dagli ebrei. Noi eravamo troppo deboli. Eravamo miti e tranquilli. Fu solo dopo i dirottamenti e gli eventi di Monaco che ottenemmo il rispetto di tutti. Poi avete detto che i terroristi eravamo noi. Allora chi ci ha trasformato in terroristi?" Khalil vedeva agli anni '70 come un'"epoca d'oro" per i palestinesi, una resurrezione della fiducia nazionale dopo l'umiliazione della guerra del 1967. Sentiva anche che in quei giorni la causa palestinese era unita strettamente ad altre vicende globali, come la lotta contro l'apartheid in Sudafrica. Da adolescente era stato ispirato dalla letteratura comunista prestatagli da un amico di famiglia. Entrò in Fatah, la fazione dell'OLP di Yasser Arafat, e venne scelto per frequentare una scuola di addestramento militare sovietica a Sevastopol. Fece esercitazioni anche a Cuba e in Vietnam; alle porte di Hanoi apprese le tecniche della guerriglia urbana in una città artificiale costruita sul modello di una città del Medio Oriente. Secondo i sovietici era un vero combattente "globale" per la libertà degli oppressi, agli occhi dell'Occidente un "terrorista". Come nota Bruce Hoffman nel suo Inside Terrorism, l'OLP aveva accolto nei suoi campi in Giordania militanti da ogni parte del mondo "per l'addestramento, l'indottrinamento e la costruzione collettiva di ponti rivoluzionari transnazionali". Fu una pietra miliare nella storia della ribellione: probabilmente la prima volta che un'organizzazione militante ne addestrò un'altra. Hoffman prosegue: "L'OLP come organizzazione terrorista è senza dubbio unica nella storia. Fu la prima veramente 'internazionale' e abbracciò un orientamento internazionalista di gran lunga più consistente della maggior parte degli altri gruppi terroristi. Alcuni resoconti suggeriscono che nei primi anni '80 almeno quaranta gruppi differenti - in Asia, America, Nordamerica, Europa e Medio Oriente - erano stati addestrati dall'OLP nei suoi campi in Giordania, Libano e Yemen e altre regioni". La lotta per uno stato Palestinese divenne unica per un'altra importante ragione: mise insieme militanti spinti alla violenza politica da tre diversi motivi (sia pure talvolta sovrapposti): il nazionalismo, l'antimperialismo e l'islamismo politico. La mancanza di un singolo obiettivo ideologico ha provocato contrasti e lunghi periodi di lotte interne, tuttavia l'ampio movimento non è mai stato in grado di abbracciare questi elementi rivoluzionari spesso in conflitto. Negli anni '80, mentre l'impatto politico del comunismo era in declino, alcune delle ambizioni più rivoluzionarie dell'OLP furono innestate su un modello radicale e politicizzato dell'Islam. Per alcuni palestinesi, successivamente alla Rivoluzione iraniana del 1979, l'Islam emerse come una "teologia della liberazione" antimperialista. La jihad islamica palestinese si modellò sul movimento sciita libanese Hezbollah. Khalil, nella sua ideologia di ribellione, aveva coniugato l'Islam con il comunismo. Lasciò Fatah e l'OLP nel 1982, quando Yasser Arafat fuggì da Israele e navigò verso un ignominioso esilio a Tunisi. "È un codardo", disse. "Avrebbe dovuto restare e lottare come un uomo. Non ha orgoglio. È un coniglio". Khalil era visibilmente infuriato quando parlava di Arafat, diventando velenoso e offensivo. Quando affrontava la questione di Israele, invece, utilizzava il linguaggio del dibattito politico, sviluppando il suo argomento e giustificando il ricorso alla violenza.
Khalil diceva di essere diventato comunista perché voleva combattere per un
mondo più giusto. Quando ritenne che l'OLP avesse capitolato, si unì a Hezbollah.
A spingerlo a questa scelta, come testimoniavano anche i due bicchierini di vodka
che avevamo davanti, non era stato il fervore islamico. Si era unito a Hezbollah
perché gli sembrava l'unico movimento che si contrapponesse con efficacia a
Israele. Era la sua fiducia nel comunismo, non il Corano, ad alimentare la sua
rabbia. Adesso combatteva sotto il vessillo dell'Islam, ma le sue motivazioni
restavano le stesse: l'ingiustizia, la povertà e la causa palestinese. Il nemico
era Israele.
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