Copertina
Autore Brigitte Reimann
Titolo Franziska Linkerhand
EdizioneVoland, Roma, 2005, Amazzoni 26 , pag. 540, cop.fle., dim. 145x205x35 mm , Isbn 978-88-88700-31-1
OriginaleFranziska Linkerhand
EdizioneAufbau Verlag, Berlin, 1998
TraduttoreAntonella Cerminara
LettoreLuca Vita, 2005
Classe narrativa tedesca
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

CAPITOLO I



Oh Ben, Ben dov'eri un anno fa, dov'eri tre anni fa? Per quali strade hai camminato, in quali fiumi ti sei bagnato, con quali donne hai dormito? Ripeti solo un gesto studiato quando mi baci l'orecchio o la piega del braccio? Impazzisco dalla gelosia... Il presente non mi fa paura... ma i tuoi ricordi, dai quali non mi posso difendere, le immagini nella tua testa, che non posso vedere, un dolore che non ho condiviso... Vorrei triplicare la mia vita per riguadagnare il molto, troppo tempo in cui tu non ci sei stato.

Dio mio, quando dicesti che una volta, dodici anni fa, sei venuto nella nostra città, eri seduto in una sala d'aspetto... e io cento metri più in là, a scuola – non potevo essere sul marciapiede, non potevo incontrarti già allora, con dodici preziosi anni di anticipo? Oh, tu mi avresti ignorato, ero in prima ginnasio ed ero terribilmente brutta, tutta capelli e ossa, ero ingenua e per la prima volta innamorata... non di te. E sette, otto anni dopo, sempre in viaggio, hai passeggiato per l'Altmarkt con tua moglie – era luglio, non è vero? C'erano le vacanze... – e tu eri soltanto una delle figurine colorate che dall'impalcatura vedevo brulicare cinque piani più in basso...

Dov'eri quella volta che mi chiamarono all'esame e quasi morivo di paura? Perché non mi hai tenuto la mano, allora, nel corridoio dell'università? Perché non eri seduto tu al mio letto quando ero malata? Perché non hai ballato tu con me le sere alla mensa (una baracca bassa, calda e piena di fumo, rock 'n' roll dal disco e la voce di Elvis the Pelvis), e non hai bevuto birra con me dalla stessa bottiglia? Un altro, non ricordo più il suo viso... È ingiusto, Ben, amore mio, così a lungo senza di te, senza la tua bocca, senza la tua mano piccola e forte, che quando camminiamo mi appoggi sulla nuca... Sola, le cento notti alla finestra sul parco rigoglioso sopra la fossa comune, e tutti gli altri sparsi ai quattro venti: i miei genitori al di là del confine, la Gran Dama morta, Wilhelm a Duhna da qualche parte oltre Mosca e quell'uomo in una taverna, forse con una ragazza, che ne so... E dov'eri quella volta a maggio – i ciliegi, la strada assolata – l'ultimo giorno di guerra, quando arrivarono i russi?

Verso mattina caddero alcuni colpi nel giardino dei vicini. Wilhelm trovò i morti, esposti sul prato, due bambini, la donna che sembrava una bambola e l'ingegnere capo. Pettinger era stato un ragazzo gentile e grassoccio che detestava le uniformi, ma che indossava come un'uniforme i pantaloni alla zuava, la camicia a righe sottili e il papillon, e ogni giorno andava al laminatoio in bicicletta con i suoi robusti polpacci – il laminatoio si trovava fuori città, sotto i pini e le reti mimetiche, la filiale di un complesso di acciaierie renane – e Wilhelm avrebbe giurato che questo piacevole vicino, il tenero padre della sua cinguettante famiglia, non avrebbe saputo dire neanche come si tiene in mano una pistola.

Sulla fronte della bambina brulicavano formiche nere, i ciliegi erano in piena fioritura e l'aria era carica di ronzii di api, cupi e irrequieti. (La settimana prima una mina aerea ha fatto crollare il bunker alla stazione; lavoravano con i guanti di gomma, ubriachi fradici e dopo il primo scoppio cadde su di loro una cascata di cadaveri e Wilhelm si sentì male, ma solo per la grappa, disse.) Girò la donna che giaceva a braccia spalancate sul neonato.

A fatica sua sorella cercava di fuggire come una puzzola tra le assi dello steccato. "Scappa!" gridò Wilhelm. L'afferrò per le braccia e per le gambe e la gettò al di là del recinto e lei strisciò nell'erba a quattro zampe insultandolo, a distanza di sicurezza, con la sua squillante voce di ragazzina.

A mezzogiorno rimbombò di nuovo l'artiglieria contraerea e la signora Linkerhand, con un monacale vestito di lino tessuto a mano, la crocchia bassa sulla nuca, vagava per casa pregando ad alta voce. Con umiltà, respirava nell'atrio l'odore della gente povera. Un bambino piagnucolava; dietro la porta aperta della cucina alcune rifugiate litigavano per un coperchio e sulle scale risuonarono nuovamente alterchi e insulti della Slesia.

Wihlelm era nella stanza blu, alla finestra, e guardava attraverso le fessure delle Imposte, le cui strisce di luce gli rigavano il viso, il tappeto blu, i mobili giallo miele: la sorella dagli arruffati capelli castani modellava in una cassetta di sabbia un magnifico castello come quello delle favole, con merli, torri e finestre dagli alti archi, stava seduta sui calcagni, ogni tanto nel cielo risuonava una granata, simile al sibilo di una falce, ma non era la paura a piegarne il busto in avanti (la paura arrivò solo dopo, anni dopo, sulle ali a delta dei caccia a reazione), e Wilhelm rideva dell'astuto animaletto che si fingeva morto finché un colpo sonoro da qualche parte tra le rovine della città non segnalava che il pericolo era passato. Il gioco si ripeteva: fare la riverenza sotto l'arco, una volta passato l'allarme riemergere, sempre con un'espressione di solenne zelo dipinta sul volto; Ercolino sempre in piedi, pensava Wilhelm, la piccola ha ragione; infine lo infastidì il viso impavido di lei: era ingenua come un leprotto a primavera che non riconosce l'ombra della poiana in volo sopra il campo.

Gridò da dietro le veneziane: "Torna immediatamente a casa!"

Franziska stava piantando un bosco di equiseto... alberelli piccoli e molto carini, Ben, ma forse tu non te li ricordi, o probabilmente a Berlino non hai mai giocato in giardino, nel cortile... in cambio naturalmente sai tutto sui tempi d'oro dell'equiseto nell'era terziaria o giurassica, sulle condizioni ambientali per i sauri, e anche questo è sicuramente molto utile... Franziska stava piantando un bosco sotto le mura del castello e cercò di calmarlo con un gesto delle mani bagnate e sporche. L'autorità fraterna di Wilhelm, fondata su rapidi ceffoni, aveva cominciato a vacillare; da quando una notte era tornato dalla città con i capelli bruciati, senza ciglia, con la camicia bruna strappata e senza croce uncinata; parlava a voce alta, era molesto e stordito come tutti gli adulti che di lì a poco avrebbero allontanato Franziska, dimenticandosene per mezza giornata, l'avrebbero poi cercata urlando e infine stretta a sé ricoprendola di baci.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 14

Più che la preoccupazione per il proprio corpo, lo agitava il pensiero riguardo il destino dei libri, erano la passione della sua vita priva di passioni, erano le sue avventure e le sue dissolutezze; egli fiutava i libri, bottini di caccia nei negozi di antiquariato e nelle oscure librerie e qui il parsimonioso padre di famiglia diventava uno scialacquatore, il coscienzioso commerciante uno scaltro barattatore che fingeva, esitava, contraffaceva e godeva senza scrupoli i grandi momenti del collezionista, il trionfo, quando riusciva con l'astuzia a carpire a un ignorante un esemplare prezioso a un prezzo irrisorio. L'economia di casa era modesta, il lusso nel vestire proibito, i bambini andavano in biancheria di lino e in loden, e un teatro di marionette che avrebbe stimolato la loro fantasia era molto più bello dei giocattoli dei bambini dei vicini.

La casa editrice era piccola ma molto rinomata, un'impresa patriarcale, fondata dal nonno di Linkerhand (aveva raggiunto un'età molto avanzata e Wilhelm si ricordava ancora di quel signore dalla barba bianca che ogni pomeriggio tra le quattro e le cinque camminava arzillo lungo il viale, le mani incrociate dietro la schiena, tre passi davanti alla sua signora che lo seguiva trotterellando senza fiato). Gli orgogliosi tipografi anziani componevano senza problemi testi in greco e in ebraico. Linkerhand non riusciva a capacitarsi di come le altre case editrici meno serie potessero pubblicare almanacchi, romanzi popolari e fogli illustrati; durante la guerra, quando il mercato estero per le opere tedesche era chiuso, una serie di libri piccoli e maneggevoli gli permisero un bel guadagno e la coscienza pulita, con le novelle di Tieck, Eichendorff, Hauff e Brentano e altri poeti dei quali i nazionalsocialisti si erano dichiarati eredi spirituali. Nel '37 Si procurò una considerevole somma di denaro per aiutare un compagno di studi ebreo a scappare ad Haifa... no, Ben, quell'uomo non era la sua puntata segreta a un gioco d'azzardo. Ho letto le lettere che si sono scritti per molto tempo dopo la fine della guerra, finché mio padre non andò a Bamberg... Ma in realtà aveva i suoi due pfennig da parte, e questa non è una storia nobile. È vero, odiava l'impegno politico, per lo meno il proprio... Nel marzo del '33 consigliò a due collaboratori di entrare nel partito. I due poveracci avevano un paio d'anni di disoccupazione alle spalle... Uno dei due poi è morto sul fronte orientale. L'altro fu arrestato dalla GPU subito dopo la resa e morì in un lager...

Franziska si svegliava con i quattro colpi di tamburo, Beethoven, diceva suo padre, così il destino bussa alla porta e, prima di sbattere fuori casa la figlia, non trascurava mai di dare indicazioni riguardo il registro e il numero dell'opera, un onore pedante che tributava solo a Beethoveen e a Mozart; accanto a questi maestri c'era solo Herr Hayden, che faceva morire dalla noia, e un sospetto Litz, che risuonava per i comunicati speciali e veniva additato dal padre come un fanfarone e un ciarlatano. A casa Franziska non poteva cantare i Lieder; tutto a suo tempo e ogni cosa al proprio posto: le SA (marciano all'alzabandiera con passo tranquillo e sicuro, il braccio teso verso l'alto; patria, ecco le tue stelle, è il pomeriggio dei piccoli, alla luce delle candele della VDA grosse, blu, che gocciano malinconicamente; sui sentieri di campagna, quando raccoglievano erbe officinali, millefoglie e trifoglio e i piedi nudi e stanchi di bambini, con il passo cadenzato, sollevavano la polvere estiva, un due tre, Galoppano i dragoni blu; a braccetto con la migliore amica, chiassose e ingenue, La prima volta fa ancora male; nel cortile della scuola, Oh, du mein Neckartal, volteggiavano in cerchio a due a due, la testa all'indietro, i piedi premuti forte l'uno contro l'altro, finché avevano il capogiro, con le mani incrociate, strillavano e strillavano tino a cadere... ,cor Oh, nel Neckartal, dove fioriscono i lillà, rullavano i carri armati americani e per il cortile della scuola dondolavano tra le stampelle corpi senza arti, uomini con il camice rigato dell'ospedale militare saltellavano su una gamba sola e nel corridoio giaceva su una branda montata in fretta un ragazzo della Gioventù hitleriana, tirava su con il naso moccio e lacrime osservando beffardo i disegni degli alunni alle pareti, e tra le ondate di dolore si compiaceva del variopinto e molto chiacchierato bouquet della sua futura fidanzata, F.L., terza classe, una ragazzina. Si chiamava Jakob, aveva nel piede la scheggia di una bomba contraerea, non c'era più morfina e il dottor Peterson disse: "Sì, sì, i nostri giovani tedeschi saldi come l'acciaio, resistenti come il cuoio."

Franziska si accoccolò dietro la poltrona rossa, sapeva da tempo che non ci sarebbe stato un quinto colpo di tamburo, ma un discorso interrotto da brusii e scricchiolii di una certa Bibisì da Londra (...dopo essere stata scoperta un paio di volte a origliare, il mio cervello cominciò ad associare un ceffone alla formulazione di un'opinione e la mia prima lezione di educazione civica fu: quando i bambini devono andarsene fuori vuol dire che si parla di politica). Era abbastanza sveglia da capire che non doveva raccontare di Londra né ripetere quei nomi ridicoli Reichsheini e Maresciallo Meier a scuola e tra le amiche, come invece faceva il dottor Peterson, mentre la signora Linkerhand si portava un dito alle labbra e gli rivolgeva sguardi di scongiuro... Lo zio Peterson dava dei colpetti sul petto magro di Franziska e raccontava storielle sui suoi vicini, tipo: "Pensa Fränzchen, ora il mio vicino ha un cane dal muso enorme che si chiama Nazi..." Quella sera dunque Franziska ascoltò la voce da Londra, ora vicina ora lontana, che oscillava come un pezzo di sughero sulla cresta dell'onda, e sentì una frase che le rimase impressa nella memoria e, chissà perché, all'inizio solo come una sequenza di parole: "Mai nella storia dei popoli si è visto un regime fallire così miseramente come il millenario Reich nazista." Tirò fuori la testa da dietro la poltrona e chiese: "Nonna, che cos'è un regime?" Linkerhand sussultò. La nonna sorrise abbassando la testa verso il crocifisso d'oro. Prese l'ascoltatrice clandestina per l'orecchio e la mise alla porta.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 20

La via curvava seguendo l'ansa del fiume e si immetteva, qualche centinaio di passi oltre la casa dei Linkerhand, sulla strada maestra, sulla sinistra rumoreggiavano i prati acquitrinosi, coperti a perdita d'occhio di anemoni che ondeggiavano bianchi e sottili al vento. I ciliegi attorcigliati lungo la strada, d'estate davano ciliegie selvatiche color rosso pallido. Franziska si sedette su una pietra miliare, allungò le gambe e lasciò che i raggi del sole le scorressero addosso come acqua calda... Pietra miliare 17, Ben, mi ricordo il numero, non perché significasse qualcosa in particolare o qualcosa in più o in meno rispetto al campo di anemoni tremanti, o alla polvere, o ai fiori appassiti del ciliegio che si spargevano sulla strada principale, ma tutto questo appartiene a un'unica immagine, alle campane, alla pace, e questa è rimasta la mia idea di pace fino all'anno scorso, d'estate, quando io e te ci perdemmo, ti ricordi, eravamo distesi in un campo di grano, sì, sentivamo anche le campane di qualche chiesa di paese e c'era odore di fieno - oh, Ben, volevamo dormire in un fienile...

Penserai che io finora non sia riuscita a liberarmi del mio odio infantile e che abbia ridotto la signora direttrice a una caricatura, ma mancava solo che baciasse il parafango della macchina del Führer come diceva Reger, e ne sarebbe stata capace... e le noci non mi piacciono poi tanto... perché, vorrei sapere perché è venuta a sfogarsi proprio da noi? Una volta, era inverno, i prigionieri di guerra scavavano delle buche sulla nostra strada, erano russi, avevano l'aspetto di quegli orrendi personaggi che si vedevano nelle immagini della propaganda del rosso paradiso sovietico, vestiti di stracci, con la barba e con gli occhi della fame. Era terribile e mia madre non ebbe più il coraggio di affacciarsi alla finestra, che miseria, disse, non si può guardare... mio padre ci fece una lezione sulla dignità dell'uomo, sui diritti di guerra e sulla convenzione di Ginevra, la nonna andò in cucina e tagliò una montagna di pane. È un dovere per noi cristiani, disse. Prima, in Renania, aveva organizzato una sorta di mensa per gli studenti poveri, cucinava dolci fatti con le uova e io le chiedevo se anche i dolci fatti con le uova facessero parte dei doveri di noi cristiani. Lei rideva (aveva un modo insolito di ridere alzando le spalle) e diceva: Quello, cara la mia Fränzchen, era uno scherzo.

La guardia si girò mentre lei distribuiva il pane; poveraccio, non aveva più le dita della mano sinistra. Però si sparse la voce, e la vicina gridò che avrebbe portato la nonna davanti alla Corte Popolare di Giustizia, si sporgeva dal recinto come quando pescava le noci e mia nonna dal terrazzo rispondeva ai suoi insulti in un dialetto così stretto che lo avresti potuto tagliare con un coltello e, Ben, era meravigliosamente volgare quando prendeva il via. Alla fine si accostò alla vicina che stava scoppiando dalla rabbia e, dando il meglio di sé, la Gran Dama disse: Oh, merde.

Credo che non avesse paura di niente al mondo, forse perché per tutta la vita era stata una donna ricca e non aveva dovuto inchinarsi dinanzi a nessuno né dire alcunché per fare piacere agli altri. Ma faceva anche parte della sua natura e lei era, per lo meno nel suo ambiente, una serena anarchica... tanto che gli altri la temevano. Inspiegabile, tra persone colte... disse mio padre che non capiva che la vicina era una fanatica... il fanatismo è solo l'aspetto visibile della decadenza e ha a che vedere più con il basso ventre che con la testa. Questo è il mio punto di vista, Ben, e non c'è bisogno che tu lo condivida.

Infine mia madre disse che si sarebbe fatta carico lei della cosa, andò a Canossa e si fece umiliare... Non le volevo bene, Ben, ma quel giorno quando tornò si chiuse in camera, e per tutto il giorno sentii il suo pianto da dietro la porta, mi fece male il cuore e avrei voluto strozzare la vicina... è possibile umiliare a tal punto una persona?

...Qui, dunque, alla pietra miliare 17, Linkerhand trovò sua figlia, con le trecce disfatte, le gambe bagnate dal sole, e in quell'istante tutte le sirene della città presero a ululare e le campane elevarono le loro voci al di sopra di quelle sirene stonate; tintinnante e affannosa l'ultima campana dal tetto distrutto della chiesa di Sant'Anna e il rintocco in tre tempi della Nostra Amata Signora, mentre il vento portava lo scampanio oltre il fiume, verso il cielo, poi di nuovo sulla terra, come uno stormo di uccelli stanchi. Linkerhand si levò gli occhiali e con un movimento ossequioso (più vicino a te, mio Dio) si tolse il cilindro e disse: "Questa è la pace, figlia mia." Franziska spalancò gli occhi meravigliata perché non era cambiato nulla, perché la parola magica pace non aveva reso più splendente la luce del pomeriggio, i prati nudi non si erano ricoperti di fiori, l'aria non si era riempita di cori di giubilo.

La prese per mano e tornarono indietro, sotto i tronchi contorti dei ciliegi, le cui foglie gettavano ombre che danzavano sull'asfalto. Franziska dette un calcio a un sasso rotondo ed esclamò: "E chi ha vinto, allora, i russi o gli americani?" "Vinto? Tutte le guerre sono perse, figlia mia."

Le campane continuavano a suonare senza fine, senza fine si librava lo stormo di uccelli, vibrava lo stormo di suoni, lo stormo di paura verso il blu che ricadeva tristemente verso il basso e Franziska vide che la pace aveva incantato almeno la strada e aveva addobbato ogni casa di bianco, coperto di neve i davanzali e le imposte delle finestre. Camminando, Linkerhand evitava le buche delle bombe, teneva Franziska per mano e lei saltava a piedi uniti. Non voleva far vedere la paura: la strada imbandierata di lenzuola, la mano umida del padre, il sasso rotondo rotolato lontano nell'erba verso il basso, segno di cattivo auspicio.

Tutti gli abitanti, anche le donne dei rifugiati con i loro bambini, si erano raccolti sulla porta d'ingresso come una famiglia alla fine della gita che aspetta con aria seria e concentrata il flash della foto di gruppo. Lo spavento rendeva i loro volti per un istante molto simili, il trambusto di festa che scuoteva la città li aveva uniti: l'avvertimento valeva per tutti, in tutte le case qualsiasi cosa fosse successa, sarebbe successa a tutti... Solo allora, quando le campane tacquero, capirono di essere stati abbandonati, come se la dirà intera si fosse nuovamente frammentata in tutte le sue singole case, piani, cantine, rovine, un pezzo di continente si dissolse in zolle impotenti che si allontanarono seguendo la corrente, da sole.

Si sentirono rulli di tamburi che irruppero nel silenzio teso. Poi cominciò a vibrare il vetro colorato con la sua rondine di primavera su campi e boschi e Wilhelm mise il braccio sulle spalle della sorella e d'istinto la stringeva sempre più forte, ogni volta che il rumore cupo del tamburo risuonava più nitido e tagliente e il suo corpo tremava per la paura di tradirsi. Il vetro della finestra tintinnò quando i carri armati svoltarono per la strada; si muovevano con difficoltà in curva facendo stridere i cingoli, ma sul tratto diritto i motori aumentavano i giri.

Nessuno sparo, nessun caloroso urlo di festa, nessun colpo con il calcio del fucile che scheggiasse le porte: tutti gli orrori della conquista, temuti dalle persone rinchiuse in casa, svanirono nell'attimo in cui i vincitori entrarono, e adesso che quel momento era superato tirarono il fiato. Raccolsero tutte le loro speranze nell'unico disperato desiderio che il tempo passasse e questo accadde veramente, mentre con i visi svuotati dalla tensione ascoltavano per la centesima volta lo stridore dei cingoli in curva, il rumore dei motori che impetuosi facevano tremare le mura sbattendo contro i bordi della strada e, a dire la verità, non avvenne altro, se non che il tempo passò e che fu loro concessa una proroga.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 31

CAPITOLO II



Sabbia, sabbia, sabbia. Questo cielo noioso. Questi pini noiosi. Vorrei un cespuglio blu, un albero rosa, o il cielo verde... qualcosa fuori dall'ordinario, una palma, l'aurora boreale, il sole a mezzanotte.

Perché qui non succede mai nulla? Nulla, tra cento anni ci alzeremo ancora ogni mattina alle cinque, sbadiglieremo, correremo al lavatoio, berremo il nostro caffellatte, muoveremo montagne di sabbia, mangeremo, dormiremo, ci alzeremo, sabbia nella minestra, sabbia nelle scarpe... uomini delle baracche, buoi nel recinto e con gli occhi bendati, sempre in cerchio, sempre in cerchio... Questa è la nostra libertà, questo il grandioso e audace disordine al quale siamo corsi incontro. Lo scambio è valso la pena: mal di schiena e leggi invece di mal di testa e parametri.

Perché non ci siamo spinti oltre, fino alla Terra del Fuoco o all'Amazzonia? A volte sogno l'Amazzonia e le foreste vergini, rigogliose e opprimenti... Ma come sarà? Serpenti e zanzare, fin troppo caldo, senza acqua per lavarsi, i fiori dell'ibisco non rosso porpora come nel sogno, e l'Amazzonia puzza, ci scommetto, puzza. Tutto un imbroglio. Tahiti — un imbroglio. Il porto bianco di Rio — un imbroglio. Di vero ci sono solo il caldo e il freddo, la sabbia, la polvere del carbone, le unghie spezzate e i maledetti pini sempreverdi...

Non mi ascoltare, Ben, mi sento orribile, più orribile di quanto un uomo possa immaginare... e lei sarà considerata impura per sette giorni, proprio così, Mosè lo sapeva. Ti piacerebbe adesso dormire in un letto insieme a me? Altri alla nostra età... altri hanno un letto, una casa, dei bambini, un televisore e un lampadario rosso in camera. I lampedari rossi dovrebbero essere vietati.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 36

Di notte si svegliò a causa di un dolore sconosciuto, penetrante, di aghi smussati nella sua schiena di bambina, e trovò una macchia di sangue sul lenzuolo. All'inizio, con un impulso d'orgoglio, pensò di essersi avvicinata alla terra promessa degli adulti, poi le venne in mente che avrebbe dovuto dirlo alla madre perché queste erano le regole di famiglia, vedeva già le palpebre da monaca abbassate e il naso arricciato in un'espressione di decenza, nauseante, avrebbe dovuto confidarsi — così dice il catechismo, la madre è la migliore amica della figlia — confidarsi a una donna che ancora costringeva la carne peccaminosa del suo collo in colletti inamidati, che cercava nella cartella di Franziska i bigliettini che l'avrebbero tradita, che non ammetteva scherzi equivoci e che si mostrava ai propri figli vestita sempre in modo impeccabile, abbottonata e corazzata contro i pensieri sulla sua indecente esistenza terrena...

La povera bambina rimase accovacciata nel bagno per un'ora, sulle fredde piastrelle della vasca, ascoltava la madre lì vicino che frugava nell'armadio della biancheria e spingeva i cassetti, ascoltava il tintinnio delle bottigliette di cristallo e i sospiri di una donna che stava invecchiando, e infine intuì che più del momento di penoso imbarazzo temeva un certo sorriso, quel balenio di trionfo negli occhi della matrona... Mi hanno, pensava Franziska, colta da panico. Si sentì catturata e consegnata alla cerchia delle donne, al suo ciclo che la sottometteva alla luna e al carosello dei doveri che ogni mattina la costringevano a togliere dai mobili la polvere insidiosa, invincibile, e dopo ogni pranzo a immergere le posate unte nell'acqua bollente, che la costringevano per nove mesi, torturata dalla nausea, a trascinarsi dietro un corpo estraneo, nutrito dai suoi liquidi e dal suo sangue e a urlare in una sala parto... e guardava fissa, stordita dalla visione di un barbaro processo, il suo pancino olivastro, che le appariva già più arrotondato del giorno prima, e sospirò. Un recipiente, pensò, sono diventata un recipiente.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 40

Fino a diciassette anni, Wilhelm relegò la sorella minore allo stato di bozzolo. Conduceva una vita separata da quella della famiglia, poco più di un affittuario che dopo pranzo butta il tovagliolo sul tavolo e sparisce fino al pasto successivo. Studiava Fisica nucleare, era capovoga (l'ho visto a volte alle regate, il grande bisonte volava in una nuvola di schiuma e urla nelle rapide del Mississipi), guidava una Dixi celeste che strepitava come una trebbiatrice, ed era vanitoso nel vestire, sempre all'ultima moda. Aveva una mente lucida, sembrava prendere le cose come un gioco, laddove altri sfacchinavano, a lui tutto cadeva in grembo, anche le ragazze, anche i voti brillanti in Scienze sociali. Io pensavo che non meritasse né le ragazze né gli ottimi voti e gli dicevo: sei cinico. Non avevo ancora conosciuto un cinico. Una volta posò la mano sulla mia testa e disse: "Non sono le convinzioni a essere premiate, mia piccola puritana."

Allora, durante l'ora di Storia leggevamo il Manifesto comunista. Andavo in giro tutto il giorno, scossa dalla violenza profetica del Programma, dal pathos di quelle frasi, che mi si fissarono indelebili: Un fantasma si aggira per l'Europa... Io vidi queste frasi scritte sulle lavagne e, davvero Ben, allora, mi si confondeva un po' tutto: Mosè e Marx con la sua barba, il Manifesto e le Tavole dei Comandamenti sul monte Sinai, perché ero stata educata alla devozione, ero portata per il Vecchio Testamento, due anni prima senza molta convinzione avevo fatto la comunione, non ero molto toccata dal mistero e dal gusto insipido dell'ostia. Avevo poi letto Feuerbach ed ero fuggita dalla religione, non senza la coscienza sporca, dinanzi al povero vecchio caro Dio... ma non fuggii in maniera definitiva, questo lo si vedrà più avanti, nella semioscurità del fumo marrone di una chiesa di campagna, il portone sempre aperto ai bisognosi e agli emarginati, la cui lampada perpetua sembra oscillare nella nicchia come uno scarafaggio rosso rubino, in questo silenzio ancora marcatamente tangibile che cala freddo e putrido sul volto e sulle mani, interrotto dal ticchettio dell'orologio a pendolo nella navata laterale tra i pesanti stendardi della chiesa, i santi di gesso policromo e i mazzi di fiori appassiti avvolti nella carta che emanano un forte odore d'autunno...

Wilhelm, quando la sentiva parlare a voce alta nella stanza, sventolava il libretto rosso e diceva: "Prima imparavi a memoria i monologhi di Grätchen. Oh, neige, neige... che Goethe pronunciava neiche, altrimenti non avrebbe potuto fare la rima con Schmerzenreiche. Popoli il tuo mondo di illusioni, purtroppo anche di illusioni politiche. La filosofia, figlia mia, è diventata la più sterile tra le discipline umanistiche... La questione di classe è acqua passata." Si divertiva a confonderla? "Non ci sono classi sociali" gridò a un tratto, aggrottò la fronte, attorciglio un baffo immaginario e in quel preciso momento lei ebbe la certezza che la stesse prendendo in giro, poi continuò con una voce contraffatta: "Per me esistono tre categorie di persone: quelle che hanno capito la meccanica quantistica, quelle che la capiranno - e le altre.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 44

Franziska ricordava ancora quell'anno scolastico sensazionale, quando fecero ritorno i reduci delle ultime classi del liceo. Riempirono il vecchio ginnasio Auguste Victoria con un odore di ribellione, Lucky Strike e giacche di uniformi sudate, disprezzavano gli insegnanti e tormentavano il bidello, tirarono il collo alle sue oche e fumavano sulle scale, e i più piccoli, le nullità della quarto ginnasio, ascoltavano entusiasti il chiasso dai loro casti corridori, i ritmi taglienti di Caledonia e il testo beffardo di Wolk an's Gewehr sulla musica di In the mood di Glenn Miller. Durante l'esame di maturità innalzarono la bandiera nera degli anarchici e si presentarono all'orale ubriachi, un atto di forza che faceva appello al senso di colpa degli insegnanti; tino di loro venne espulso: fu la vittima che l'intero collegio sbalordito sacrificò sull'altare vacillante della rispettabilità.

Erano uomini. Affascinavano Franziska con le loro battute cattive, con la loro genialità sfrontata, erano saggi e miscredenti, usavano un linguaggio da sciamani... odiavano i vocaboli lirici dei tempi della scuola, avevano consumato in marcia sia la patria che l'eroismo, sia il popolo che il paese, grazie delle chiacchiere, dicevano, a noi mai più, no e poi no, e con un'ostinazione masochista — ora invece, Ben, penso solo che non hanno fatto altro che continuare a trascinarsi dietro il proprio fardello di recriminazioni, pieno di giudizi moralistici, lirismo politico e nuovi spauracchi; avevano i loro dei e pregavano il solo e unico Planck e anche il mio pel di carota, per il quale la patria era un misticismo (poiché aveva marciato con gli altri dietro la bandiera della gioventù per il pane e per la libertà, marsch, fanfara, uno-due, colpo di tacco sul selciato che sussulta: sacra Patria, stiamo arrivando...), persino Wilhelm era in grado di annunciare ad alta voce banalità di questo genere: la patria dei fisici é la terra...

...Una sera, ricordava Franziska, mentre stavano discutendo il caso Oppenheimer, e Saalfeld ascoltava i discorsi solo a metà e, di tanto in tanto, quando rimaneva appeso ai suoi voli pindarici, spargeva gentilmente un po' di frasi vuote, Saalfeld dunque, sempre con il boccone in bocca, indolente e sgraziato, disse: "Right or wrong, my country" e Wilhelm lo aggredì, il processo non gli aveva insegnato che stavano già portando sulle loro spalle di ragazzi il peso delle responsabilità future? Tamburellò con le nocche sulla fronte architettonicamente arcuata del suo amico tranquillo e indifferente, ed esclamò: "Viva l'illegalità!" e, nonostante sapesse che Saalfeld non pensava minimamente né alla carriera né alla nomenclatura, gli gridò: "Tu avrai successo, sei un idiota specializzato, sei un cervellone. Una nuvola incombe sull'intero pianeta. Oppenheimer doveva rifiutarsi." Rivolgendosi alla sorellina continuò: "Già oggi bastano una ventina di bombe per rendere la terra inabitabile. Esistono superbombe con la forza esplosiva di quindici megaton. Questo corrisponde alla forza di quindici milioni di bombe da una tonnellata, sempre che per te significhi qualcosa."

Lei scosse la testa. Gli altri ascoltavano annoiati, conoscevano a memoria i conti in megaton e megamorti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 58

Ma non è questo il problema... Noi rifiutavamo entrambi il nostro vecchio mondo e il nuovo non ci accoglieva o ci accettava solo con riserva. C'erano tempi, Ben, in cui eravamo come posseduti, radicali, intolleranti fino alla crudeltà, rinnegavamo noi stessi, ci tappavamo gli occhi e le orecchie e dicevamo sì, sì a tutto... Come faccio a raccontarti, Ben, di Kreuzberg, Berlino, il cortile interno, la Stube e la cucina? A otto anni vendevi giornali sotto i ponti, alle fermate dei tram, e la più grande ambizione era la scuola media, più tardi diventare magari direttore di un'azienda, o forse impiegato, sicuramente qualcosa di meglio di tuo padre, e uno stipendio al posto di un paga settimanale... Wilhelm, alla tua età, aveva già davanti a sé la carriera decisa dalla famiglia, ginnasio, viaggi di formazione, ovviamente la Grecia e l'Italia, l'università, a seconda della sua inclinazione, Medicina, Giurisprudenza o Storia dell'arte; io, invece, il liceo, il pianoforte, all'università per qualche semestre finché, con tanto di cappello, spunta la persona adatta a portare avanti la casa editrice.

Però non abbiamo lasciato perdere solo le vecchie condizioni di vita diventate incerte, ma anche gli ideali a esse legati, l'atteggiamento, mi capisci... Volevamo convincere gli altri con il nostro zelo? Questo è vero solo in parte. Eravamo dei rinnegati... Sai cosa penso oggi? Dovevamo continuamente confermare a noi stessi che avevamo votato giusto, che eravamo passati al migliore dei mondi possibili – doveva essere perfetto, non potevamo esserci sbagliati.

Appartenevamo alla categoria denominata Altro... Alla maturità ci fecero compilare alcuni questionari; riguardo l'appartenenza alla classe sociale c'erano tre lettere O, C, e A, Operaio, Contadino e Altro. Vedi, mi ricordo ancora oggi questa sciocchezza, questa maledetta A deve avermi offeso a morte. Mi sembra che nel calvinismo esista il concetto della predestinazione, la scelta della grazia, sai, e allora ti puoi affannare quanto vuoi, puoi camminare a testa in giù – sei prescelto oppure no, un potere superiore ha deciso per te da tempo, prima che tu abbia emesso il primo vagito, decretando paradiso o inferno. Proprio così ci sentivamo: etichettati. E una volta etichettato come borghese, lo rimanevi per sempre. Non ti posso dire quanto abbiamo sofferto per questa atmosfera di sospetto...

Oh no, non è successo niente di sconvolgente. Non mi posso nemmeno mettere a urlare: Guardate, è stato commesso un crimine! Sospetti come punture d'ago, una piccola guerra idiota per un libro (perché naturalmente avevamo un gusto decadente), per le scarpe di Wilhelm con la suola in para (perché naturalmente eravamo inclini alla non-cultura americana dei gangster), le nostre preoccupazioni erano piccoli dolori intellettuali... Oh, ma perché ripetere queste assurdità? Vecchie storie che nessuno vuole più sentire. In fin dei conti non siamo mica morti. Abbiamo imparato a tenere la bocca chiusa, a non fare domande scomode, a non attaccare le persone influenti, siamo un po' insoddisfatti, un po' disonesti, un po' deformi, ma per il resto tutto a posto. Wilhelm prende la laurea, viene mandato all'estero, riceve un'automobile dal Contingente Speciale, ha un appartamento di quattro stanze che resta vuoto per la maggior parte dell'anno, mentre lui lavora a Dubna e sua moglie compra abiti firmati Jacques Heym da Exquisit, e il club che frequenta è così disgustosamente elegante, che puoi entrare solo accompagnato da lei per godere dello spettacolo delle mogli di mestiere, che fumano Queensize e leggono "Constanze" e disapprovano il mio taglio di capelli fatto in casa. Lui ci va solo per la moglie, quell'oca deficiente; dice che gli viene sempre voglia di cacare sul tappeto...

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 72

"Ora non puoi non ridere... Secondo me anche Damocle, una volta abituato alla spada, raccontava storielle di paura, humour nero. È una di quelle storie con la morale che mio padre ricordava sempre volentieri: di Dionisio, il tiranno, che dette a un proprio cortigiano tutte le gioie di una posizione molto prestigiosa, ma allo stesso tempo, per dimostrargliene i pericoli (sto solo ripetendo le parole di mio padre)... allo stesso tempo dunque, fece appendere a un crine di cavallo una spada tagliente sulla testa dell'ignaro beato... Non so come sia finita la storia per Damocle, però scommetto che dopo tre giorni gli è tornata la fame e dopo tre settimane ha iniziato a filosofeggiare insieme a i suoi amici sulla resistenza dei crini di cavallo... e così anche noi ci siamo abituati alla bomba e al fatto che essa rappresenti l'esplosivo ago della bilancia."

"Abituati, abituati" disse Jakob. "È legittima difesa, non possiamo farci toccare da tutto, ci costruiamo barriere che funzionano, devono funzionare, oggigiorno ti vengono serviti di primo mattino, a colazione assieme al giornale, centinaia di cadaveri e torture, linciaggi, terzi gradi, gas lacrimogeni, gas nervino, chi riuscirebbe a sopportarlo? Si tratta di legittima difesa..." Chiuse dietro di sé la stanza delle proprie paure, delle nuvole, dei sogni di cenere bianca. "Altrimenti non si può vivere, non così" disse, e per la prima volta si sentì superiore, sentì di appartenere a un'altra generazione, più saggia, quella delle persone provate "e noi sappiamo cosa vuol dire vivere, perché sappiamo di cosa parliamo quando diciamo morte."

Lei lo guardò e si accorse della fronte profondamente segnata dalle rughe, così inadeguata sotto le palpebre lisce, come se il suo viso fosse stato composto in maniera arbitraria da due volti diversi, quello di un vecchio e quello di un ventenne. "Noi" disse "abbiamo dissotterrato dalle cantine i cadaveri marci, i femori, i teschi e i morti annegati per lo scoppio delle tubature dell'acqua. I morti per il fosforo erano neri, secchi e piccoli come bambini e si dissolvevano in cenere solamente toccandoli... Prima, quando dovevo andare in cantina a prendere le mele o i crauti, cantavo... Dopo tutto questo trovavo divertenti le mummie, o i cuori che parlano e i gatti con un occhio solo di Mister Poe, i personaggi dei fumetti... Ma cosa ne sapete voi? Quando voi avete cominciato a vivere, le città erano già state risistemate, allora anche il cielo era già stato ricostruito."

Lei ricordava la sabbia, l'equiseto, la riverenza sotto l'arco che stride, il sibilo vicino di una falce. "Non conoscevamo ancora il verbo morire o lo conoscevamo solo come parola... Una volta, durante una gita scolastica, ci spararono da un aereo a bassa quota, eravamo delle ragazzine, lo si doveva pur vedere dall'alto... Corremmo a ripararci in un fienile, corremmo come lepri e naturalmente cademmo nelle trappole per lepri. Non riesco a ricordarmi della paura della morte... Una caccia alla lepre, sì, con il mitra, vedo ancora la sabbia calpestata... sento ancora i bombardamenti. E le sirene... non te le puoi dimenticare. Ancora oggi, ogni sabato a mezzogiorno penso: ci risiamo."

"Non si può vivere così" ripeté Jakob. "E se lo vuoi sapere, preferisco attenermi a Lutero, penso sia stato Lutero a dire: venissi anche a sapere che domani arriva la fine del mondo, oggi comunque non esiterei a piantare un alberello di mele. Non ci arrendiamo... Dopo ogni catastrofe, quando cadde il fuoco dal cielo o quando ci fu la grande alluvione, l'uomo era ancora lì, per levare il proprio grido e far volare una colomba..." Si batté il dito contro una tempia e in tono fraterno disse: "No, qualsiasi cosa accada, l'uomo sfiderà sempre il tempo a lui concesso."

"La sfida del tempo" disse lei. "Sì, questa è buona e me la voglio ricordare." Così l'ho tenuta a mente e ci ho ripensato spesso dopo quella sera che io definii fatale e discutibile; eppure fu soltanto un errore, un tentativo inadeguato di trovare una soluzione diversa alla regola aritmetica per la quale uno più uno fa sempre due. Comunque sia, la nostra amicizia — per ragioni di semplicità definisco quel nostro rapporto cordiale e spinoso amicizia — sopravvisse a quell'equivoco. Ritrovammo anche abbastanza facilmente il tono con il quale parlavamo prima, possibile che fosse una cosa confusa e spropositata, ma eravamo ragazzi impegnati, addirittura fanatici, anche se nel giro di mezz'ora eravamo capaci di passare da un argomento all'altro.

Saltavamo da un idolo all'altro con un ritmo da togliere il respiro, oggi spasimavamo per Brecht, domani per Mauriac o per il be-bop e per il fatto di andare in giro a piedi nudi o per le icone e per un buon pianoforte ben temperato; una volta andammo per quattro sere consecutive allo Stadttheater ad applaudire il marchese di Posa che declamava: Concedeteci libertà di pensiero, sire! Ci hanno notato ed era quello che volevamo. Jakob era contro la mia protesta...

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 82

Mi abituai anche ad andarlo a cercare la sera in giro per i locali. All'inizio rimanevo sulla porta (un rimprovero muto come quelle madri con quattro figli attaccati alla sottana) poi cominciai a sedermi al tavolo accanto a lui ubriaco; fammi fare brutta figura, dài, conta i bicchieri che mi sono scolato... Più tardi poi avrei avuto anch'io un locale dove rifugiarmi, a casa il soffitto mi pesava addosso.

L'oste era carino. Il locale in generale era molto accogliente, c'erano sempre fiori sulla tavola e un grande bancone rivestito di nichel dove sentirsi a casa, e dietro il bancone una parete di foto di cani pastore. L'osteera un uomo forte, bello, in guerra era stato paracadutista e aveva perso entrambe le gambe. Portava le protesi e a ogni passo si sentiva il cigolio dell'articolazione metallica, ma sulle gambe artificiali si muoveva in maniera veloce e sicura.

I clienti erano persone genuine, tranquille e serie, lavoratori con mogli al seguito e giovani coppie che bevevano birra al banco.

Eravamo molto amici, l'oste e io, per qualche tempo veniva tutte le sere anche Peterson, stavamo seduti al banco su una specie di sgabello e parlavamo un po' di tutto, di come era prima e di come è adesso, e di quando Chruscëv si è tolto la scarpa all'ONU, parlavamo di libri e di incidenti stradali e cose simili, e ci ubriacavamo. Era un posto davvero delizioso, tranquillo, capisci, e c'era sempre qualcuno con cui parlare. Ogni sera alla stessa ora entrava dalla porta il cane pastore nero dell'oste, passava con andatura regale tra i tavoli e riceveva gli omaggi dei clienti. Abbassava con un colpo di zampa la maniglia della porta che dava sulla stanza di dietro.

Allora fu così. Mi lasciai semplicemente andare... La sera, quando divampavano le luci, iniziava l'attesa e Mr. Hyde strisciava per le strade... allora si separava dalla Franziska che spasimava per il suo professore, che penava dietro la Fisica delle costruzioni e che stava realizzando il progetto per un teatro: non si conoscevano, non volevano avere niente a che fare l'uno con l'altra, ma i confini iniziavano a confondersi e a volte, catapultata improvvisamente fuori dal rapporto felice con il giorno, si chiedeva allarmata: ma io chi sono?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 105

CAPITOLO V



Conosci la storia di Tamerlano e dell'architetto persiano a cui l'amore donò le ali? La tigre spossata, mentre si trovava in un campo di battaglia in Medio Oriente, fece costruire un palazzo a Samarcanda per la sua favorita e ti puoi immaginare cosa accadde: il persiano si innamorò perdutamente della concubina del suo committente. Lei era una bellissima principessa cinese e l'architetto si struggeva di desiderio pensando ai suoi occhi a mandorla e alle sopracciglia inarcate come uno spicchio di luna.

Dunque, quando Tamerlano tornò a Samarcanda, capì che l'architetto era vittima dell'amore per la bella principessa, proprio lei, la preferita e la più amata da Timur-Beg; mise in guardia il persiano e gli mostrò cinque uova colorate ognuna di un colore diverso, e disse: "Vedi, esteriormente sono diverse, ma hanno tutte lo stesso sapore." L'architetto invece gli mostrò due bicchieri, uno pieno d'acqua e l'altro di vodka e rispose: "Vedi, sembrano uguali ma hanno un sapore completamente diverso."

Per quanto si sforzasse, l'architetto non riusciva proprio a distogliere il pensiero dalla principessa. Un giorno la scorse a viso scoperto e fu rapito dalla sua bellezza al punto da dimenticare il terribile Tamerlano e la sua ira. La baciò... La principessa si coprì velocemente il volto con il velo, il bacio però era stato così ardente di passione da lasciarle una bruciatura sulla guancia. Quando Tamerlano scoprì il segno, ordinò di catturare il persiano e di ucciderlo. L'architetto sfuggì agli inseguitori rifugiandosi sulla cima di un minareto e quando si accorse di essere spacciato, quando già sentiva il loro fiato sul collo, allargò le braccia e si buttò giù, nel vuoto, ma in virtù del suo grande amore gli spuntarono le ali e volò via verso la Persia, verso casa...

Una leggenda che mi raccontava mio padre, l'aveva letta in un libro di Christopher Marlowe, che lui ammira e disapprova, una mente geniale e un attaccabrighe, morto a trent'anni con un coltello nel petto, pugnalato in un'osteria o per le strade di Londra...

"A trent'anni" diceva mio padre "chissà cos'altro avrebbe potuto creare se non avesse sprecato la propria vita e non avesse sperperato tutto in prostitute, zuffe e sbornie..."

Ero ancora piccola, avevo undici o dodici anni, mi sarebbe piaciuto avere una foto di questo Marlowe, pensavo che avrei preferito vivere trent'anni selvaggi piuttosto che settanta docili e tranquilli. E in seguito, ogni volta che mi sentivo inquieta, quando mi prendeva la smania per chissà cosa o per chissà chi, mi tornava in mente la storia dell'architetto persiano, e avevo in mente proprio lui quando incontrai di nuovo Django; il giorno prima della mia partenza avevo portato le valigie alla stazione e passeggiavo per la Lange Gasse attraversando l'Altmarkt e mi sentivo come su un trampolino in cima a una torre alta cinque metri, nulla di grandioso, no, no, sono vigliacca, non mi piace saltare, magari cado di pancia, come? a meno che non ci sia qualcuno che sta lì a guardare e ad applaudire - essere coraggiosa davanti a un pubblico non è difficile, ma da sola, caro mio, da sola...

All'improvviso vidi Django. Che spavento. Non balla più a piedi nudi sul selciato con i pantaloni arrotolati, non va più nell'osteria della signora Pia Maria a mangiare i panini con il pesce, o almeno non è più costretto a farlo, non sto dicendo che i vecchi panini al pesce e i pantaloni arrotolati vogliano dire giovinezza... oh, Django, il mio zingaro, il mio complice, lui, che aveva intenzione di superare alla grande Hindemith, ha preso qualche chilo, nel modo in cui ingrassano le persone magre, in modo molle e floscio, né troppo asciutto né troppo in carne, e i suoi riccioli neri si sono diradati sulla fronte, l'ho notato quando si è tolto il cappello. Django che porta un cappello era proprio l'ultima cosa che mi sarei aspettata! Elegante, di quell'eleganza sobria, ordinaria, tipica della classe media. Si tolse la bombetta e sorrise gentile e insicuro, non mi aveva riconosciuta.

"Django..." dissi e arrossii perché all'improvviso mi sentivo come se avessi detto qualcosa di sconvenientemente familiare... mi guardò in un modo, sai, indignato, come un adulto al quale ti rivolgi con uno stupido nomignolo dei tempi di scuola.

"Franziska" disse infine dipingendo con la voce un punto interrogativo. Gettò lo sguardo sul mio anulare.

"Linkerhand, sì, tutt'ora. Voglio dire... di nuovo."

Stava cortesemente chinato in avanti, con il suo stupido cappello in mano, io mi arrabbiai e dissi: "Non occorre che tu mi faccia le condoglianze." Eravamo sotto il colonnato, davanti alla vetrina dell'Exquisit, un angolo ventoso, urtati in continuazione dai passanti, e recitavamo come in un duetto tutte le frasi più stupide previste dal protocollo: che coincidenza, bene grazie, grazie anche a te, sette anni, sì, sì, il tempo passa, per poco non ti avrei, neanche io ero sicuro che, perché i tuoi capelli lunghi erano così belli, sic transit, la musica ah no non ho tempo, il lavoro, la famiglia, l'architettura, sì, il vecchio sogno, famiglia, grazie a Dio no, pardon, i bambini danno tanta gioia, io sono, tu sei, lui è, lei è, avremmo, dovevamo, il tempo passa blablablaaa... e diventavo sempre più furiosa, perché anche la sua voce era cambiata... prima, sai, aveva una voce d'ottone e quando cantava, Ben, ti scendevano dei cubetti di ghiaccio lungo la spina dorsale, un suono che sprigionava più sesso di un intero gruppo di ballerine in calze nere... e adesso parlava come se si rotolasse una caramella alla crema sulla lingua e mi raccontava con la sua maledetta vocina cremosa che insegna Fisica, è sposato ed è tornato in città da quattro anni. Quattro anni senza mai incrociarci e pensai che non era necessario incontrarsi neanche il mio ultimo giorno.

Gridò: "Martin!" Il bambino stava sotto l'arco con il rivenditore del lotto, arrivò immediatamente, non correva, non saltava, un nano dall'aria solenne, con un papillon e un berretto da fantino, mi fece la riverenza e dava l'impressione che mai in vita sua avrebbe spaccato il vetro di una finestra. Restò accanto a noi in silenzio, fissandomi come gli altri bambini fissano gli estranei, ma in un paio di momenti osservai i suoi occhi e, Ben, quel viso era tutto occhi... gli occhi neri di Django, il cantastorie, e anche se sembravano rispecchiare un'anima docile, sul fondo si celava un piccolo gallo rosso che cantava. Il bimbo ci riserverà qualche sorpresa... questo mi piaceva, se lo meritava Django, ma mi piaceva anche il modo in cui interagiva con il figlio, non la solita tiritera dai-la-manina-alla-zia, e neanche la farsa di trattarlo alla pari. Teneva semplicemente la mano sulla sua spalla e poi, per attraversare, lo prese per la manina e lo guidò... mio padre mi ha tenuto e guidato così solo una volta, lungo la strada polverosa sotto i ciliegi, mentre suonavano tutte le campane dei campanili, il primo giorno di pace.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 116

Lui si tolse gli occhiali, gesto di fuga, e trasformò sua figlia in un piccolo spettro senza volto che sgambettava. "Ho esitato a lungo prima di metterti al corrente" disse. "Non volevo farti preoccupare, magari turbare la tua coscienza, dato che il nostro passo ormai deciso è in contrasto con le leggi, leggi che non affermo non siano disumane..." si interruppe, irritato, cercò gli occhiali con le mani: non sentiva ridere Franziska, quello spettro variopinto?

"Oh papà," disse lei "hai preparato un bel discorso e mi vuoi dire che tagliate la corda, che ve ne andate, ve la svignate, scappate, traslocate, trova tu la parola adatta. Ti dispiace se fumo?"

Lui scosse la testa. Disse di essere sollevato nel vedere che la notizia l'aveva lasciata imperturbabile e Franziska alzò le spalle. "Perché no? Me l'aspettavo, non mi interessa." Lui taceva voltando la testa al rumore dei passi mentre lei andava su e giù per la stanza fumando, con il pollice agganciato alla cintura, e sentiva gli occhi incolori e acquosi puntati su di lei, lo sguardo inerme di un miope che la commuoveva e la amareggiava: quest'uomo vecchio si è fatto canuto, è un'ombra e per giunta di troppo, non è più capace nemmeno di attraversare la strada da solo, lo mettono sotto, in tutti i sensi, e mi piacerebbe che davvero non me ne importasse più niente. "A Bamberg," disse lei "e di nuovo una casa editrice. Dio mio, in pasto alla concorrenza, e come pensi di cavartela contro cento nomi affermati?"

"Non fasciarti la testa al posto mio" disse Linkerhand. "Il nostro nome gode ancora di una buona reputazione... almeno presso una determinata fetta di lettori, seppure piccola."

"Dopo quindici anni!" disse lei precipitosamente. "Ma dove vivi? Nessuno si ricorda più di noi, nessuno, siamo finiti, siamo dimenticati e con il nostro nome nessuno ti farà più credito... abbiamo perso il treno." Incalzò caparbia, provocata dai rimproveri muti: "Hai perso il treno una volta per tutte, e hai perso anche la coincidenza. Vivi sulla tua montagna incantata e fingi di essere nel diciannovesimo secolo, per te Zola è già troppo moderno, una brutale testa di rapa, e quando mi hai restituito il libro di Hemingway lo tenevi tra due dita come se fosse un vecchio ratto morto e non ne avevi lette neanche due pagine. E pensi che io non sappia perché non chiedi mai del mio lavoro? Per te noi siamo degli ingegneri senza una scintilla di spirito, dilettanti buoni a nulla che guastano ogni cosa. Gli antichi hanno fatto tutto meglio, Michelangelo era un titano e Pöppelmann è adorabile, sì, sì, sì, questa tiritera la conosco a memoria e potresti perfino avere ragione se ti degnassi almeno una volta, ti prego papà, anche solo una volta, di renderti conto che noi non costruiamo per i re e che non usiamo il tesoro dei re, che noi... che voi, voi avete perso la guerra e che il quaranta per cento della città è stato bombardato. Scusami non volevo urlare. Mi dispiace." Andò velocemente verso di lui, non si lasciò andare a un gesto caloroso che sarebbe stato imbarazzante per entrambi — come abbracciarlo, stringergli la mano, la mano bianca, gonfia, cosparsa delle macchie della vecchiaia, che tamburellava sul tavolo — si sedette però sul tappeto accanto ai suoi piedi e mostrò rispetto e una certa infantile sottomissione. "Siamo proprio un bel quadro di genere, padre e figlia... scommettiamo che non hai nemmeno notato che nel frattempo sono cresciuta, sì, cresciuta, e sono diventata giudiziosa, comprensiva, forse troppo, fino alla debolezza."

A volte passeggiava davanti alla casa dei Linkerhand; non poteva più camminare nel giardino con il tempietto circondato dai clematis, portieri e sbarre bianche e rosse facevano da guardia al passo carrabile, ma la sala della composizione affacciava sulla strada e nelle sere d'estate, quando i vetri erano aperti, Franziska vedeva i tipografi alle linotype sotto la luce del neon, mezzi nudi nella stanza che ribolliva di calore, con le spalle lucide di sudore, e sentiva le matrici incastrarsi con un clic nelle casse... Si fermava sotto una finestra, annusava il profumo del piombo caldo e dell'olio dei macchinari e appoggiando le mani sul muro sentiva una sottile commozione, un'eco battente proveniente dalla sala macchine che sembrava far vibrare le pietre... "Rilegare libri" disse "è assolutamente emozionante quanto scriverli, sì, c'è ancora chi si ricorda della casa editrice. Proprio di recente il professor Schubert mi ha chiesto di procurargli un paio di volumi dell' Architettura Tedesca."

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 145

CAPITOLO VI



A Natale ti cercai per la prima volta, Ben, dappertutto, nella città vecchia e in quella nuova, per le strade e nei locali, ossessionata dall'idea che anche tu fossi solo; non riuscivo mai, quando pensavo a te, a collegarti a qualcuno, a una donna, a dei bambini, padre e madre, a una comoda casa con stufe, letti matrimoniali, una tavola apparecchiata, pantofole e polizze assicurative... Intorno a te c'era un odore di avventura e di indipendenza fiera e selvaggia, credevo che tu fossi come avrei voluto essere anche io, come desideravo che fosse Wilhelm; Wilhelm, come l'avevo visto una notte, un gorilla vecchio e solo che non appartiene a nessuno, solamente a me... Tu mi appartenevi, e finché rimanevi uno sconosciuto, potevo inventare per te un carattere e costruire storie intorno a re, un uomo qualsiasi con i tratti di mio fratello, la mia creatura: avevo tutte le possibilità del mondo perché non ti conoscevo.

Avrei potuto vederti in qualunque momento avessi voluto, la cameriera disse che venivi qui ogni sera tranne il sabato e la domenica, allora andai al ristorante solamente il sabato e la domenica, qualche volta da sola e qualche volta anche con Jazwauk... ma no, non c'è niente da confessare e se anche ci fosse, tu non vorresti saperlo, e in effetti era solo il mio alano di accompagnamento, un uomo dall'aspetto demoniaco, il tipo che aumenta il prestigio di una donna, il ragazzo più carino, non era complicato, non aveva ambizioni, solo il diavolo sa perché è diventato architetto: l'architettura non faceva per lui...

Madame, la cara mamma, diceva sempre che non possedevo il senso della famiglia perché non tenevo in considerazione le sue stupide passeggiate ed escursioni domenicali con il vestito bianco di voile e tre passi dietro i miei cari genitori, e ai compleanni restavo seduta in un angolo con il muso scuro come le nuvole da temporale, e leggevo invece di mostrare i miei quaderni di scuola o recitare poesie — come se tutti i miei parenti fossero ansiosi di sentirmi recitare con voce stridente La Fideiussione... Si sarebbe quasi uccisa perché non volevo imparare a suonare il pianoforte, a martellare Chopin come Elfriede, la ragazza accanto, e poi sono stonata come una campana.

Invece a Natale ogni cosa appariva diversa, Ben, e già tutta la settimana che lo precedeva, quando portavamo dal fornaio le ciotole piene di pasta di pane speziato e rimanevamo seduti sul muretto tiepido e pieno di farina accanto al forno per aspettare i biscotti, e le donne stavano lì con le teglie appoggiate ai fianchi e chiacchieravano, e si sentiva fino in strada l'odore di cannella, nocciole e canna da zucchero. La Gran Dama riceveva un sacco di pacchetti, perfino al quinto anno di guerra, non c'era da stupirsi, con i suoi contatti... Marzapane di Lubecca, pagnotte e lo Holstentor di marzapane, e il panpepato da Aquisgrana e i Lebkuchen da Norimberga nelle scatole colorate, sulle quali erano raffigurati le torri della città e il Bratwurstglöckl e le castellane con i copricapo appuntiti e ricoperti di veli.

La neve sulla terrazza non veniva più spazzata via perché le orme gigantesche facessero impressione, le tracce che il dottor Peterson continuava a lasciare ogni anno, nonostante Wilhelm mi avesse già raccontato la verità su Babbo Natale. La vigilia di Natale mi batteva forte il cuore, anche Wilhelm poteva sbagliare, non è vero? e rimanevo in ascolto dietro la porta che dava nella sala da pranzo, in attesa dello scalpiccio di piedi leggeri e nudi, piedi di colombe, piedi del cielo; sei pazza, diceva Wilhelm, lui non credeva più a niente, per lui una corrente d'aria attraverso il buco della serratura era per l'appunto solo una corrente d'aria proveniente per esempio dalla finestra aperta, e comunque non l'angelo bianco che spicca il volo in un fruscio come un cigno — tu e Wilhelm, voi negate il fascino a qualunque cosa, dovete sempre spiegare tutto: la ragazza segata come trucco con specchi e teli, il gioco luminoso dei pesci come aggressione intraspecifica e le pene d'amore come reazione dell'acido nucleico, se solo poteste, infilereste a ogni persona un elettrodo in testa e un piano di connessioni elettriche in tasca, in modo da essere in grado di autopilotarsi, accoppiarsi a reazione, autoregolarsi e autocontrollarsi... oh, ma statemi lontano con i vostri cervelli da computer!

Puntuale, alle sei, la nonna suona la campanella e la porta si apriva, noi entravamo incespicando, solenni e accecati dalle centomila candele, e il vecchio carillon suonava Vom Himmel hoch da komme ich her, dai toni commoventi e lievi, a ogni verso saltavano alcune note, lì dove la puntina del grammofono era spezzata oppure ridotta a un piccolo moncherino. L'abete arrivava fino al soffitto e gli addobbi luccicavano, le catenelle di cristallo fuori moda, ancora di quando la nonna era bambina, le noci dorate e le sfere verdi e rosse, grandi e pesanti come palle di cannone, e svariate figurine di piombo, di lacca e di argento ossidato, che però avevano un aspetto più pagano, animali fiabeschi e simulacri portafortuna dalla pancia grossa.

Sul tavolo, un mostro di tavolo intorno al quale avrebbero potuto prendere posto tutti i cavalieri di re Artù, erano posati i regali, naturalmente io sapevo sempre in anticipo quello che avrei ricevuto: qualcosa di pratico e sobrio da mia madre, un vestito e un cappotto, lino o loden s'intende, perché allora era ancora il periodo degli abiti tessuti a mano dalla Norna, e dalla Gran Dama un anello, una spilla di granati o un medaglione d'oro con la ciocca di un morto, di un suo amante defunto forse, chissà, lei ne aveva viste di cotte e di crude e mia madre rinunciava alla sua impertinente malizia soltanto perché era Natale... e mio padre mi regalava dei burattini per il teatro delle marionette, un coccodrillo e un poliziotto, una principessa e un diavolo con la coda lunga, e tantissimi libri — poverino, non aveva la minima idea dell'animo dei bambini: a sei anni leggevo Hoffmann con i suoi fantasmi, e di notte mi rifugiavo urlando nel letto di Wilhelm, la maniglia della porta mi faceva le smorfie, e di quel che succedeva nell'orologio a pendolo preferisco non parlarne proprio...

Sì, era così a Natale, pace e armonia, mio padre guardava con amore Wilhelm e me, cercando di nascondere per una sera la sorpresa di aver messo al mondo dei giovani animali esotici, la Gran Dama ci portava con sé alla messa di mezzanotte, ci spruzzava qualche goccia di acqua benedetta sulla fronte e faceva un inchino abile ed elegante davanti all'altare, piuttosto una reverenza da corte, ma con un viso fervido — perché a Natale e a Pasqua, Ben, e il giorno del Corpus Domini, lei era sempre molto cattolica...

| << |  <  |