Autore Marco Revelli
Titolo Dentro e contro
SottotitoloQuando il populismo è di governo
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2015, i Robinson Letture , pag. 144, cop.fle., dim. 14x21x1,3 cm , Isbn 978-88-581-2123-8
LettoreRiccardo Terzi, 2016
Classe politica , paesi: Italia: 2010 , movimenti












 

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Indice


   Prologo                                      VII

ANTEFATTO
EUTANASIA DI UNA REPUBBLICA PARLAMENTARE          3

   Prima del diluvio...                           5
   Lo tsunami del febbraio 2013                  11
   Il grillo-talpa                               15
   Dai partiti pigliatutti al meetup             19
   Un populismo di transizione                   27
   Le mappe sconvolte della politica italiana    33

IL FATTO
L'AVVENTO DEL FUNAMBOLO                          59

   Un uomo solo al comando                       61
   La tecnica dell'illusionista                  67
   La troika interiorizzata                      77
   La rivoluzione conservatrice                  85

IL CONTESTO
LA BRECCIA (ATENE) E LA GABBIA (ROMA)           109

   Le sfide nello spazio europeo                111


Note                                            135
Indice dei nomi                                 141


 

 

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Pagina VII

Prologo



La crisi italiana è andata producendo, ad alta velocità, uno dei fenomeni politici più anomali, oggi, in Europa: un populismo di tipo nuovo, virulento e nello stesso tempo istituzionale. Tanto più preoccupante perché emergente, a differenza di altre patologie simili, non al margine ma nel centro stesso del sistema di potere; non dal basso, come solitamente avviene per questo genere di movimenti, ma dall'alto, dal cuore del potere esecutivo, dal governo stesso. Mi riferisco, come è evidente, al rozzo Stil Novo introdotto da Matteo Renzi, con la convinzione che non si tratti, semplicemente, di una questione di stile. O di comunicazione, come frettolosamente lo si classifica. Ma che tutto ciò che si è consumato — e per certi versi continua a consumarsi — sotto i nostri occhi alluda a una vera e propria mutazione genetica del nostro assetto istituzionale e dell'immaginario politico che gli fa da contorno, in senso, appunto, populista.

Se per populismo si intende infatti l'evocazione, in ampia misura retorica, di un certo popolo, al di fuori delle sue istituzioni rappresentative e per molti versi contrapposto alla propria stessa rappresentanza, al corpo cioè dei propri rappresentanti riconfigurati in «casta», allora non c'è dubbio che Renzi ne interpreti una variante particolarmente virulenta. Θ tipico del suo modus operandi, da quando ha varcato la soglia di Palazzo Chigi, lavorare per aggirare e tendenzialmente liquidare ogni mediazione istituzionale (a cominciare dal parlamento) e sociale (a cominciare dal sindacato) per istituire un rapporto diretto capo-massa. Le maniche di camicia ostentate nei palazzi del potere, neanche fosse il leader di un movimento di descamisados anziché provenire da una tradizione democristiana di lungo corso e da uno dei pezzi più formalistici dell'establishment, quale è stato in questi anni il Pd. Il lessico da gita scolastica, anche dove si parla di argomenti seri. Il tweet a raffica come forma principe di comunicazione, e il cellulare ossessivamente in mano come uno studente medio durante la ricreazione. Tutto parla di questo progetto di disintermediazione, incarnato nella sua stessa persona.

Si annunciò per quello che voleva essere, o comunque apparire, fin dal primo intervento al Senato – lo ricordate? a quello stesso Senato che si preparava a trasformare in una camera di amministratori locali –, già il 24 febbraio 2014, appena dieci giorni dopo la defenestrazione di Letta. Discorso volutamente sgangherato, informalmente involgarito, con quello sguardo perduto lontano, nell'occhio delle telecamere, per sembrare puntato sull'intimità delle famiglie, comunque oltre i volti preoccupati dei senatori seduti davanti. Tutto alludeva, fin da allora, a una volontà esplicita di far tabula rasa della società cosiddetta di mezzo, delle molteplici strutture di mediazione del rapporto tra popolo e Stato, che siano le forme consolidate della democrazia rappresentativa – il parlamento in primo luogo –, o quelle sperimentate della rappresentanza sociale e dei gruppi di interesse, come i sindacati, le organizzazioni di categoria, le Camere di Commercio, e persino Confindustria se necessario, sulle orme dell'amico Marchionne, liquidati tutti come concertativi. E di verticalizzare quel rapporto sull'asse personalizzato dell'uomo solo al comando. Del «mi gioco tutto, io». Anche «quello che è vostro».

Ora, non c'è dubbio che in questa spericolata operazione l'ex sindaco di Firenze proiettato a velocità vertiginosa sul grande schermo nazionale abbia potuto contare su un dato sacrosanto di realtà, costituito appunto dalla macroscopica crisi della rappresentanza. Dei suoi soggetti e dei suoi istituti – praticamente tutti –, ben visibile nei fatti di cronaca di un lungo periodo di preparazione e di degenerazione: nell'impotenza mostrata dal parlamento a più riprese, dalla crisi che portò al governo Monti fino alle vergognose scene che accompagnarono la rielezione di Giorgio Napolitano a presidente della Repubblica. Nel discredito dei parlamentari (in buona parte), dei consiglieri regionali (il peggior ceto politico della Repubblica), degli amministratori provinciali e comunali, giù giù a cascata lungo tutta la scala degli organi elettivi, nessuno salvo. Persino nello status dei protagonisti attuali: nessuno dei leader che si spartiscono la scena, da Grillo, a Berlusconi, a Salvini, a Renzi stesso ha un blasone parlamentare.

Ma a differenza di chi non ha voluto neppur prendere atto di quella crisi – e cioè la precedente maggioranza del Pd, che infatti si è andata a schiantare senza neppure capire perché – e di quanti (pochi) su quella crisi si arrovellano per cercarne una uscita in avanti, Renzi ha deciso di quotarla alla propria borsa. Θ il primo che ha scelto consapevolmente di capitalizzare sulla crisi degli ordinamenti rappresentativi e della forma-partito che ne faceva da base. Per valorizzare il proprio personale ruolo nel quadro di un modello di gestione del potere esplicitamente post-democratico. O, diciamolo pure senza temere di apparire retrò, antidemocratico. Fondato su una forma estrema di decisionismo, non più neppure legittimata dai contenuti, ma dal metodo. Decidere per decidere. Decidere in fretta. Anzi, fare in fretta anche senza decidere, perché comunque quello che conterà al fine del consenso non sarà un fatto concreto ma piuttosto il racconto di un fare (Crozza docet).

Per questo vedevano lontano, acutamente lontano, gli autori del documento dell'associazione Libertà e Giustizia, i primi a essere usciti allo scoperto, quando denunciarono fin dall'inizio del percorso renziano il reale rischio di un autoritarismo di tipo nuovo. Basato sullo sconquasso dell'architettura istituzionale e sulla rottamazione dell'idea stessa di democrazia rappresentativa, fatta con giovanilistica noncuranza – con «studentesca spensieratezza», per usare un'espressione gobettiana –, nel quadro di una partita in cui l'azzardo prevale sul calcolo, la velocità sul pensiero. «Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali», recitava l'appello sottoscritto da alcuni dei più prestigiosi costituzionalisti italiani, da Gustavo Zagrebelsky a Lorenza Carlassare e Stefano Rodotà, oltre che da numerosi intellettuali da sempre schierati sul fronte dell'impegno civile. E concludevano: «Una democrazia plebiscitaria non è scritta nella nostra Costituzione e non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare».

Era il 27 marzo del 2014. Da allora quel processo di manomissione del nostro ordinamento democratico e rappresentativo è andato avanti, provocando già non pochi cedimenti strutturali: in particolare sul versante della rappresentanza politica, con la nuova legge elettorale, e di quella sociale con l'umiliazione del mondo del lavoro e delle sue organizzazioni. E altri preparandosi a condurre in porto, con il cosiddetto decreto Boschi in materia di revisione costituzionale che finirebbe di cerchiare la botte. Consegnandoci così un sistema politico di tipo padronale, esposto alle tentazioni plebiscitarie e alle scorribande proprietarie del cacicco di turno. Senza più anticorpi, né contrappesi.

Certo, la marcia si è fatta, col tempo, meno trionfale. Le fragilità culturali e í difetti di carattere hanno scavato in quel piedistallo di consenso che le elezioni europee gli avevano regalato. Lo stesso partito che aveva scalato per scalare il paese si va facendo ogni giorno più volatile ed evanescente, man mano che la leadership carismatica si attenua e stenta a funzionare come polarità aggregante dall'alto, mentre i potentati locali vanno assomigliando a premoderne marche di confine. Θ comunque ipotizzabile, visti i cattivi venti che spirano dall'alto d'Europa, che il suo cammino – sia pure più tortuoso e impervio – continui, sostenuto da un'oligarchia sovrana ancora potente e, a livello continentale, ancora scarsamente contrastata. Oppure è possibile, come temono (o sperano) in molti, che Matteo Renzi non riesca a portare in fondo il proprio progetto per sedersi infine sul trono che si è costruito. Che, come il cattivo giocatore di poker costretto a rilanciare continuamente la posta a ogni mano perduta, alla resa dei conti – un voto di fiducia mal riposto, un eccesso di arroganza mal compensato, una falla non mimetizzabile nel bilancio dello Stato, uno smottamento del suo elettorato – finisca per inciampare. E faccia default, consegnando il paese – e noi stessi – a un altro, persino più aggressivo e demagogo di lui. In ogni caso, ci troveremmo comunque in una post-democrazia dal profilo inedito. E – questo è certo – assai meno desiderabile.

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Pagina 27

Un populismo di transizione



Si possono cogliere già qui, in nuce, i punti di forza e, insieme, quelli di debolezza di questa forma sorgente di mobilitazione e di organizzazione politica. E anche gli aspetti di possibile imitazione da parte di altri imprenditori politici in agguato nell'ampia arena generata dalla sempre più evidente crisis of confidence nei confronti dei tradizionali soggetti istituzionali.

I punti di forza sono evidenti. Intanto la perentorietà del messaggio. La promessa, secca, di un nuovo inizio. Di un'alterità totale. Di una diversità assoluta rispetto al tutto noto, in grado di garantire quella rottura di continuità che sembra essere l'unica aspettativa di chi dalla continuità mortale dell'universo politico era stato portato all'esasperazione. La capacità di farsi ascoltare nel brusio di fondo di una sfera pubblica logorata, perché si parla da un altrove, in una lingua inedita, distanziandosi e differenziandosi da tutto ciò che appare, alle vittime di una crisi sistemica, come la causa del proprio indistinto fallimento. E, nello stesso tempo, da tutti coloro, individui o gruppi, che sembrano condividere, agli occhi di una massa smarrita, lo stigma dell'impotenza e dell'incapacità: si pensi alla potenza di quello stentoreo «Arrendetevi!», lanciato dal palco di Piazza San Giovanni, mentre tutti gli altri protagonisti della campagna elettorale si riparavano nel chiuso di un teatro o di una sala da conferenze.

E poi la formidabile performatività del medium usato. La capacità del messaggio di comunicarsi velocemente – anche se in superficie – sfruttando la viralità della Rete e le bolle di emotività del pubblico grazie anche alla sua semplicità, sempre one point oriented, come ha ben messo in evidenza Carlo Freccero – sempre mirato su temi singoli, sui quali ottenere il massimo di semplicità e di chiarezza. Unita alla celerità dei processi organizzativi, favorita dalla virtualità dei rapporti: il modello dei meetup è, sotto questo profilo, esemplare, come esemplare è la velocità con cui il reticolo rizomatico di essi si è esteso nei territori ancorando, per così dire, la nube comunicativa al locale: lanciati come progetto il 16 luglio del 2005 erano già più di 40 dopo le prime due settimane, 102 alla vigilia delle mobilitazioni offline del primo V-Day e più di 500 dopo le amministrative del 2011, per un totale di oltre 75.000 iscritti. Infine la possibilità di creare un senso caldo di comunità senza il costo aggiuntivo e i tempi viscosi della frequentazione fisica («la sofferenza delle riunioni inconcludenti, il tempo sprecato nelle serate eterne in sezione o al circolo»), grazie alla tecnologia gerarchizzante affidata al software di gestione e al ruolo profetico del leader.

Una «comunità istantanea» si potrebbe dire (consapevoli dell'ossimoro), generata con i tempi compressi della comunicazione digitale e fondata sul carattere multi-tasking di tale tecnologia, capace di tenere dentro sia la dimensione ludica sia quella politica e professionale, gioco e lavoro, tempo libero e tempo produttivo: come hanno affermato gli stessi Grillo e Casaleggio nel sottolineare «le grandi potenzialità della piattaforma on line Meetup», essa offre infatti alla platea reticolare degli aderenti la possibilità «di divertirsi, stare insieme e condividere idee e proposte per un mondo migliore, a partire dalla propria città», coniugando «esigenze di socialità e tempo libero con l'interesse per i problemi sociali e politici partendo dal livello territoriale».

Altrettanto evidenti sono i punti di debolezza, esattamente simmetrici e speculari ai primi. Per la sua stessa istantanea performatività – per il suo carattere intrinsecamente virale –, il messaggio tende a essere volatile, l'adesione instabile, esposta ai flussi e ai riflussi della comunicazione in Rete. Così come tendenzialmente intermittente rischia di essere la mobilitazione da essa – e all'interno di essa – generata, sempre bisognosa, per mantenere la propria tensione interna, di un nemico visibile e personalizzabile, di un obiettivo univoco e chiaramente identificabile, pena il riflusso e l'evaporazione della massa aggregata.

Come la legittimazione carismatica, anche la mobilitazione on line soffre la quotidianità – il tempo grigio dell'ordinarietà –, pagando pegno al proprio insostituibile bisogno di straordinarietà. La velocità di aggregazione del popolo della Rete è direttamente proporzionale alla sua potenziale velocità di dissoluzione, se non alimentata da un permanente rilancio: dalla capacità di alzare sistematicamente il tiro dell'invettiva e della propria autogenesi, di surriscaldare la temperatura della massa in sospensione attraverso l'uso di iperboli e di eccessi linguistici, di fidelizzare il proprio pubblico con dosi massicce di emotività.

Allo stesso modo per l'ordine del discorso, vincolato alla propria struttura segmentata che ne impedisce una reale messa a sistema: una capacità dell'analisi di penetrare al di sotto della superficie fenomenica dei fatti denunciati per individuarne i connotati di fondo, le dinamiche macro, i fondamenti nei confronti dei quali organizzare programmaticamente l'iniziativa politica. La stessa struttura semplificata della logica binaria che sottende la comunicazione digitale (0/l, Yes/No, Vero/Falso, ecc.), finisce per troncare sul nascere ogni processualità argomentativa, le basi stesse dell'elaborazione discorsiva e del confronto dialogico, sostituito da una serie irrelata e puntiforme di pronunciamenti elementari – di click –, irriducibili alla strutturale complessità delle problematiche sociali, spesso alimentata dalla carica adrenalinica che caratterizza patologicamente la comunicazione in Rete, dal mascheramento dei suoi interlocutori e dalla virtualità evanescente dei soggetti in gioco, nella maggior parte invisibili l'uno all'altro a esclusione del leader, unico a possedere una – invadente – corporeità.

La stessa comunità così prodotta sconta la propria origine tecnologica e virtuale: tende a essere una comunità provvisoria. O comunque solo provvisoriamente armonica perché non alimentata da nessuna tradizione – non c'è bisogno di scomodare Ferdinand Tφnnies per ricordare che ogni Gemeinschaft presuppone un sottostante ordine tradizionale –, esposta ai flussi emotivi che viaggiano nell'etere: comunità sospesa nell'aria (all'opposto dell'originario «suolo»), intessuta dal flusso di messaggi e di parole e capace di consistere solo finché questo prosegue con il fascino che proviene dall'incantamento linguistico, ma pronta a raffreddarsi e a spegnersi quando questo cessi di pompare energia.

A rivelare il carattere bizzarro, anomalo, della comunità di appartenenza del M5S è la stessa struttura del loro non-partito, sorta di costruzione a più strati – come del resto le altre, tradizionali, forme organizzative assunte dai partiti –, ma a differenza di quelle più asimmetrica, simile per certi versi a una piramide a gradoni con i diversi livelli sovrapposti ma, tuttavia, fuori asse, disallineati, come per un assemblaggio provvisorio, in cui ogni piano muove con una logica propria, disarmonica rispetto alle altre: al vertice, in (quasi) perfetta solitudine, un solo uomo, il capo – anzi il capo-comico –, l'unico a concentrare su di sé le luci della ribalta, chiamato a gestire il gioco della rappresentazione (la dimensione spettacolare della politica che ha in buona misura sostituito e fagocitato il ruolo della rappresentanza). Al livello intermedio i rappresentanti veri e propri, i 108 deputati e i 54 senatori scaraventati in parlamento dall'onda anomala dello tsunami che li ha sradicati dalle pieghe di una società civile periferica e oscura, a esercitare il mestiere tradizionale delle classiche democrazie rappresentative: quello che la politologia chiama il «party in the office». Infine, al livello del suolo (il «party on the ground») un elettorato diffuso, inedito, trasversale, accampato attraverso tutti i cleavages che strutturano lo spazio politico (destra-sinistra, generazionali, produttivi, territoriali), materializzatosi nelle urne in poche settimane, forse in alcuni mesi, ancora comunque allo stato liquido.

Tra i diversi gruppi pochissimi tratti comuni, anzi, per la verità quasi nessuno. Nulla accomuna Grillo ai propri eletti: né l'età (l'uno più vicino ai 70, gli altri in maggioranza intorno ai 30/40), né l'immagine (scarmigliato e trasgressivo l'uno, ordinati e pettinati gli altri), men che meno il linguaggio. Istrione e provocatorio l'uomo della rappresentazione, ordinari e in fondo burocratici quelli della rappresentanza. Allo stesso modo, quasi nulla accomuna il piccolo manipolo dei parlamentari e il grande esercito degli elettori: sostanzialmente omogenei socialmente i primi, provenienti in prevalenza dall'area selettiva del precariato intellettuale, dalla cosiddetta creative class all'italiana (proletaroidi intellettuali più che broker newyorkesi), della micro-imprenditoria o del lavoro autonomo di terza generazione; del tutto eterogenei gli altri, unificati solo dalla comune condizione di vittime della crisi, in maggioranza declassati, indebitati, marginalizzati, impoveriti, operai in cassa e lavoratori autonomi in rosso, diplomati scoraggiati e precari cronici, piccoli commercianti a rischio di fallimento e strati impiegatizi fino a ieri sicuri, oggi assediati dai mutui e dal credito al consumo: quelli che hanno perso il posto a tavola, che non vivono di politica o all'ombra della politica, che non partecipano dei vantaggi delle rendite finanziarie, che non hanno rendite di posizione o che le stanno perdendo. Quelli, insomma, che l'ondata del credit crunch e della recessione ha preso in pieno e tenuti sott'acqua. Una platea troppo ampia e multiforme per identificarsi nella propria rappresentanza parlamentare, unificata piuttosto – ed evocata come corpo collettivo – dalla chiamata dall'alto del nuovo Grande Narratore e dal suo racconto che rovescia, questa volta, e sostituisce – provvisoriamente – quello dell'illusionista di ieri. In attesa, ora lo sappiamo, dell'illusionista di domani.

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Pagina 34

[...]

Su cui, tuttavia, incombeva – inquietante, apparentemente rassicurante ma in realtà minacciosa – la voce, forse dal sen fuggita o forse volutamente espressa – del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Il quale, a pochi giorni dal voto, quando tutti in Europa s'interrogavano sulla impossibile risolvibilità del rebus di governo italiano, per – come si suol dire – rassicurare i mercati inquietati dal rischio del caos politico italiano, a conclusione di uno dei periodici incontri del board della Banca, in conferenza stampa, invitò tutti a rasserenarsi e a non preoccuparsi perché – così disse testualmente – «abbiamo il pilota automatico». Disse proprio così, in inglese: «auto-pilot». E la stampa economica di tutto il mondo diffuse il messaggio.

I mercati si rassicurarono, e infatti lo spread si riallineò rapidamente. Ma per la democrazia italiana quella sortita verbale non suonò affatto rassicurante, perché anche agli occhi del più distratto ascoltatore voleva dire che in fondo il voto dei 33 milioni di cittadini che ancora si erano recati alle urne non contava niente. Non era in grado di modificare le linee fondamentali della politica italiana. In sostanza, diceva quel messaggio che la democrazia è sospesa. E che è in azione un altro livello di governo, sottratto al voto, fuori della portata degli elettori, indipendente dalla stessa composizione del parlamento, il quale assume l'agenda Monti come unica alternativa legittima e concepibile. E, al di sopra dell'agenda Monti, il programma tracciato con piglio costituente dallo stesso Mario Draghi e da Jean-Claude Trichet, a nome del Consiglio Direttivo della Bce, nella fatidica lettera del 4 agosto del 2011 al governo italiano.

In essa, è bene ricordarlo, si rammentava (minacciosamente) che in sede di eurogruppo tutti i capi di Stato e di governo dei paesi dell'euro avevano riaffermato «solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». E si comunicava, in modo sbrigativo, una sorta di memorandum – non diverso da quello somministrato in quello stesso periodo alla Grecia, solo meno dettagliato – i cui punti fondamentali (le misure ritenute essenziali) erano «la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali attraverso liberalizzazioni su larga scala» (in palese contrasto con il referendum appena tenutosi in Italia sull'acqua e sui beni comuni); l'ulteriore riforma (in realtà lo scardinamento) «del sistema di contrattazione collettiva» con la prospettiva della liquidazione dei contratti di lavoro nazionali; «una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti», con l'abbattimento delle garanzie residue in uscita e la minimizzazione di quelle in entrata; politiche di bilancio volte ad accelerare e anticiparne il pareggio (si parlava allora del 2013 come nuova deadline), grazie anche a una radicale riforma del sistema pensionistico e a «una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi» (sic!); l'introduzione di «una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali». La lettera concludeva – a conferma del taglio costituente – sollecitando «anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio».

Sull'inadeguatezza a sostenere un simile programma era saltato il governo Berlusconi. Molto di quel programma era stato messo in opera dal governo Monti. Ma evidentemente numerosi punti restavano da attuare, e soprattutto la metafisica influente che lo animava – l'immagine di costituzione materiale che implicava – doveva divenire l'asse portante permanente della politica italiana, a prescindere dalla composizione parlamentare e dalla volontà popolare. E a quello i custodi dell'ortodossia – o del «Berlin consensus» che dir si voglia – si posero al lavoro, nei Palazzi (a cominciare dal «più alto colle») come nelle redazioni dei principali media. Si deve a quei vincoli – evidentemente inseriti come parametri nella memoria del «pilota automatico» – lo stallo che ha caratterizzato le settimane immediatamente successive al voto del 24 e 25 febbraio 2013, con il povero Bersani a segnare il passo contro il muro di un'impossibile centralità del proprio partito, e il Movimento 5 Stelle incredibilmente tenuto ai margini estremi dal playmaker del Quirinale, mentre il quadro politico si logorava con velocità crescente fino al momento in cui il nuovo parlamento, senza neanche essere riuscito in due mesi a profilare una maggioranza possibile, si andò a schiantare contro il primo ostacolo da saltare: quello dell'elezione presidenziale.

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Il terzo scenario focalizzava l'attenzione sul livello istituzionale e sulla proiezione, in chiave di ingegneria costituzionale, della pratica inaugurata e consolidata dal presidente Napolitano nel biennio precedente, immaginando una qualche formalizzazione del mutamento della forma di governo già consumato nei fatti – una sorta di traduzione della nuova costituzione materiale in una corrispondente Costituzione formale –, da realizzare in un quadro di confusione crescente e con un'enfatizzazione delle retoriche emergenziali. In fondo, come si è visto, l'Italia aveva cessato di essere in senso proprio una democrazia parlamentare da tempo. Per lo meno nella prassi consolidata dei suoi principali organi, a cominciare da quello che avrebbe dovuto esercitare un ruolo di garanzia e che invece si era posto come il motore delle reiterate forzature dei limiti.

Certo, non si può dire che si fosse trattato, in senso tecnico, di un colpo di Stato. Possiamo chiamarlo come si vuole: di una cronicizzazione dello stato d'eccezione. Di una sospensione della forma di governo sul modello della «dittatura commissaria» schmittiana. Di un'autoesclusione dell'organo collegiale di indirizzo politico (il parlamento, appunto), e dell'inevitabile surrogazione di esso (in politica í vuoti non esistono, come si aprono vengono riempiti) da parte dell'unico altro potere apicale da esso indipendente (la presidenza della Repubblica, appunto). Comunque sia, indubbiamente di uno slittamento della sede della sovranità da un potere all'altro si era trattato: dal legislativo all'esecutivo. Da un organo collegiale a uno monocratico. Da un'assemblea rappresentativa a una carica personalizzata. Ora ci si sarebbe potuto aspettare che qualcuno – a destra, a sinistra, in forma bipartisan, dall'interno o dall'esterno del recinto istituzionale – mettesse all'incasso quanto ottenuto sul piano della prassi consolidata, rivendicandone una qualche formalizzazione in termini irreversibili. E traducendo sul piano normativo quanto già era avvenuto sul piano mentale, in un immaginario collettivo logorato in un lungo processo di desistenza e di assuefazione.

Si pensi all'effetto di disarmo morale prodotto dalle molteplici retoriche messe in campo al vertice dello Stato e su pressoché tutti i principali media per giustificare o comunque far digerire al paese i giganteschi compromessi e le macroscopiche sospensioni di coscienza necessarie per permettere la nascita e la sopravvivenza del governo delle larghe intese. Furono, quei mesi, una gigantesca palestra di anestetizzazione morale di fronte ai vizi privati e pubblici. Vennero sdoganati comportamenti che scardinano il lavoro pedagogico di generazioni. Θ stato autorevolmente autorizzato l'inaccettabile per qualunque comunità civile, come se l'appartenere al circolo magico del potere permettesse tutto. Fin dall'origine: fin da quando fu presentato come normale, e – anzi – «politicamente necessario», il matrimonio indecente che ha dato vita al governo Letta-Berlusconi cancellando così d'un tratto, in nome dello stato di necessità l'anomalia italiana costituita dalla persona di Silvio Berlusconi, dalla sua trasgressione di tutti i caratteri di virtù pubblica e privata. E per questa via, sancendo unanimemente l'ammissibilità della compravendita dei corpi e delle menti, della frode e dell'evasione fiscale, dell'ostentazione del privilegio e della pratica del non-sa-chi-sono-io, della menzogna sistematica e della falsificazione dei fatti, e aprendo la strada al dilagare della candidatura degli impresentabili in forma bipartisan. Che altro significato dare al fatto che la parte che – almeno sul piano dell'immagine - si era presentata nel ventennio precedente come l'alternativa a quel modello etico e antropologico, d'un colpo ne accettava il connubio in un'indistinta maggioranza politica?

E d'altra parte, quale messaggio è stato veicolato da quell'udienza al Quirinale, il giorno dopo la condanna a sette anni per concussione e prostituzione minorile? E come interpretare la simpatetica (e bipartisan) condivisione del lutto processuale per un uomo di governo accusato di una delle più gigantesche frodi fiscali ai danni dello Stato che continua a rappresentare? Aggiungendovi la disponibilità, affermata con studentesca irresponsabilità, a metter mano con quella bella compagnia alle parti più delicate della Costituzione, compreso quel 138 che costituisce l'articolo di chiusura che dovrebbe garantirci, tutti, contro i colpi di mano di aggregazioni corsare.

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Le sfide nello spazio europeo



In un vecchio saggio del 1990 (un altro secolo, un altro mondo) sui movimenti di protesta e il loro rapporto con la politica, Sidney Tarrow — politologo di fama, buon conoscitore dei fatti italiani — dedicava un corposo capitolo a Coloro che osano. Cioè a quei gruppi, o se si preferisce a quei soggetti, politici o sociali, che si spingono là dove nessuno fino ad allora riteneva fosse possibile. E all'importanza che essi assumono nei passaggi fondamentali del mutamento politico, per aprire un «nuovo tempo».

Per meglio esprimere il proprio concetto Tarrow faceva ricorso a un passaggio del celebre racconto di Italo Calvino Il barone rampante, quello in cui Biagio, il fratello minore di Cosimo — il rampante — così riflette su quel comportamento per lui assurdo: «Non che io non avessi capito che mio fratello per ora si rifiutava di scendere, ma facevo finta di non capire per obbligarlo a pronunciarsi, a dire: "Sì, voglio restare sugli alberi fino all'ora di merenda, o fino al tramonto, o all'ora di cena, o finché non è buio", qualcosa che insomma segnasse un limite, una proporzione al suo atto di protesta. Invece non diceva nulla di simile, e io ne provavo un po' paura». Ed era proprio quel silenzio, e la paura che esso generava per la mancanza di un limite e di una «proporzione stabilita», ciò che dava forza al gesto, e gli attribuiva una straordinaria efficacia: perché rendeva «reale l'impossibile». Dava una forma concreta all'impensabile.

Allo stesso modo del racconto fantastico, rifletteva Tarrow, accade anche nella storia quando un gesto di rottura – quello che può apparire un momento di follia – «rompe la crosta consolidata del senso comune», e in quella breccia può irrompere l'onda di protesta degli altri, della massa, perché l'azione anomala «dei primi» ha dimostrato agli altri – potremmo dire a tutti – che «il sistema è vulnerabile, che la sfida può funzionare e che le loro richieste possono essere soddisfatte». Naturalmente egli applicava quel modello al proprio tema, ai movimenti di protesta della fine degli anni Sessanta, in particolare al Sessantotto italiano come segmento del Sessantotto globale. Ma lo stesso schema può valere per un'infinità di altre fratture storiche, all'indietro nel tempo, per le «grandi rivoluzioni» a cui Tarrow fa riferimento – l'Ottantanove francese, la Comune di Parigi, l'«assalto al Palazzo d'Inverno» –, e in avanti nel tempo, per le «piccole rivoluzioni» successive al Muro di Berlino – breccia anche fisica in un cemento che sembrava impensabile sbriciolare – alle cosiddette primavere arabe (indipendentemente dall'esito spesso nefasto di esse). E, perché no, all'invernale primavera di Atene.

Quanto è avvenuto in Grecia il 25 gennaio – la vittoria elettorale di Syriza ben oltre le stesse anticipazioni della vigilia, la formazione di un governo guidato da Alexis Tsipras con un mandato popolare esplicito a sfidare la Troika e la logica dell'austerità di cui quella è il simbolo – non può essere confinato tra í fatti periferici (cronaca di un piccolo paese al margine del continente). Né ricondotto all'ordinaria amministrazione cui la democrazia a bassa intensità – o la «post-democrazia» – che caratterizza l'area europea ci aveva abituato. Ha avuto, in sé, nel momento stesso in cui si è materializzata nelle urne quella rottura, una natura intrinsecamente più ampia, in qualche misura direttamente trans-nazionale, e una dimensione più profonda, da cesura temporale.

Quel voto sembra rispondere davvero al profilo di «quelli che osano». Perché, col suo solo essere stato espresso, ha rotto un tabù. O un incantesimo. O comunque un senso comune che diceva che le dogmatiche dominanti nel cuore d'Europa sono indiscutibili come le leggi di natura e i principii della fisica meccanica. Che il credo neolíberista è la vera e unica costituzione materiale del continente, con i suoi postulati del Rigore e dell'Austerità. E che il debito è una colpa, che deve essere espiata dai popoli per responsabilità oggettiva. Ha affermato, quel voto – per lo meno affermato, per ora, ma con l'alto volume della vox populi – che si può contraddire il sovrano nudo. Non solo: che è giusto farlo, perché le regole del sovrano sono mortali (nel senso di produttrici di morte). E che a nessun popolo può essere imposto il suicidio sociale. In questo senso il voto greco – materializzando l'impensabile – ha aperto una breccia nel muro di subalternità e di conformismo che chiudeva l'Europa nella propria gabbia (28 governi unanimi nell'assoggettamento al dogma).

In quella breccia – se fosse confermata come tale, se restasse aperta sufficientemente a lungo, se riuscisse a sopravvivere alla rappresaglia dei «numi irati» – potrebbero infilarsi i popoli e i paesi che di quello stesso dogma penitenziale e di quella stessa austerità sono al medesimo modo vittime. In primo luogo gli spagnoli, dove la rapida crescita di Podemos – che alle amministrative di maggio si è affermato conquistando due comuni come quelli di Madrid e Barcellona – rivela che la marcia è già in corso. Ma anche gli irlandesi, con il Sinn Féin stimato ormai, nei più recenti sondaggi, gomito a gomito con il Fine Gael di centro-destra per la guida del prossimo governo, con il 24%. E persino noi, che ci siamo risparmiati finora il naufragio sociale che ha colpito la Grecia (tuttavia stiamo solo di poco sopra il pelo dell'acqua), con un debito quasi sette volte superiore al loro e allo stesso modo non rimborsabile, un livello di disoccupazione giovanile paragonabile e una tendenziale necrotizzazione del tessuto produttivo che non lascia presagire niente di buono.

Lo sanno benissimo le oligarchie del potere europee, nazionali e globali. E per questo hanno fatto di tutto, in questi mesi, con minacciosità crescente, per spegnere quella scintilla. Per sigillare quella breccia e scoraggiare íl contagio, con un livello di aggressività e di autoritarismo nella gestione delle istituzioni comunitarie che non ha precedenti nella storia dell'Unione europea. Per oltre quattro mesi i negoziatori di Bruxelles – Eurogruppo, Presidenza della Commissione Europea, funzionari della Bce e del Fmi – hanno tenuto in stallo la trattativa, considerando il testo del Memorandum immodificabile e ignorando ogni proposta di emendamento di esso da parte dei greci, fedeli alla filosofia dell'onnipotente ministro delle Finanze tedesco Schδuble, per il quale non si può «permettere a delle elezioni di cambiare le cose» e al capo dell'Eurogruppo Dijsselbloem, il quale fin dall'inizio impose l'alternativa «o il memorandum o il fallimento del programma di aiuti». Come ha scritto il ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, «in realtà non avevano che un obiettivo: umiliare il nostro governo e obbligarci a capitolare, anche se ciò determinava per loro stessi, e definitivamente, l'impossibilità di recuperare le somme prestate».

Intendimento divenuto evidente al mondo intero in quell'ultima, drammatica notte tra la domenica 12 e il lunedì 13 luglio, quando l'Europa sfiorò la catastrofe nel tentativo di infliggere alla Grecia e al suo governo una lezione esemplare, che servisse di monito a chiunque s'illudesse di poterne modificare i dogmi fallimentari. Allora gli osservatori internazionali non coinvolti in quella sorta di ordalia diplomatica guardarono esterrefatti e in parte inorriditi per l'insensatezza e la ferocia delle proposte (si pensi all'idea di conferire il patrimonio pubblico greco, Partenone compreso, in un fondo in Lussemburgo a controllo tedesco), quello scatenamento di passioni violente, contrarie a ogni razionalità che non fosse la vendetta. Il «Guardian» usò il termine waterboarding. «Der Spiegel» definì le proposte dell'Eurogruppo Der Katalog der Grausamkeiten (il catalogo delle atrocità), parlando di deliberata mortificazione della Grecia. Ambrose Evans-Pritchard – un commentatore conservatore, ma non accecato dall'odio – scrisse profeticamente sul «Telegraph» che i «creditori vogliono vedere questi Klepht ribelli [greci che nel Cinquecento si opposero al dominio ottomano] pendere impiccati dalle colonne del Partenone, al pari dei banditi», perché non sopportano di essere contraddetti dai testimoni del proprio fallimento. E aggiunse che «se vogliamo datare il momento in cui l'ordine liberale nell'Atlantico ha perso la sua autorità – e il momento in cui il Progetto Europeo ha cessato di essere una forza storica capace di motivare – be', il momento potrebbe essere proprio questo».

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