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| << | < | > | >> |IndiceVII Nota tecnica La politica perduta 3 Prologo 10 I. La politica e il «problema del male» 35 II. La politica degli «antichi» e dei «moderni»: dalla Giustizia alla Forza 59 III.La politica in frantumi 91 IV. Purgatorio perduto... Fenomenologia della crisi della politica moderna 107 Epilogo. Alla ricerca di una «politica del futuro» |
| << | < | > | >> |Pagina 3PrologoIl 26 ottobre 2002, alle 4,30 del mattino, le forze speciali russe del Gruppo Alpha ricevono l'ordine di fare irruzione nel teatro Dubrovska, a Mosca, dove un commando ceceno tiene in ostaggio 922 persone. L'azione è fulminea, ma il risultato devastante. Muoiono non solo tutti i sequestratori - 41, tra cui 19 donne -, ma anche un buon numero di ostaggi. Poche decine, si ammette all'inizio, poi 60, 90... infine - è il terribile bilancio ufficiale - 128, di cui solo cinque per ferite da arma da fuoco, tutti gli altri a causa del misterioso gas utilizzato dalle forze di sicurezza nel corso del blitz. I ricoverati in ospedale sono 646, di cui 45 in gravissime condizioni: «Ci hanno avvelenato come scarafaggi», dichiara al quotidiano «Kommersant» una sopravvissuta. «Non ho visto ferite da proiettili - aggiunge un medico - quelli che morivano, affogavano nel proprio vomito, soffocati dalla lingua e col cuore paralizzato». Sono molti i dubbi sollevati e le domande inquietanti che si rincorrono a caldo. Ci si domanda perché nessuna delle giovani donne del commando abbia azionato la cintura da kamikaze di cui era dotata. Perché l'accesso agli ospedali sia stato per giorni vietato ai parenti delle vittime, ai media, a chiunque potesse diffondere informazioni non controllate. E perché i medici non fossero in possesso dell'antidoto in grado di curare gli intossicati. Soprattutto ci si chiede che tipo di gas fosse quello: gas nervino? il famigerato BZ (benzilato di metile) come suggerirono alcuni esperti occidentali? o comunque un qualche composto vietato dal trattato contro le armi chimiche sottoscritto dalla stessa Russia nel 1997? Oppure, ancora, il Pentanyl, come sosterranno, infine, le autorità russe: un anestetico impiegato in dosi triple rispetto alla norma. E il mondo si divide. Non lungo le linee verticali dei tradizionali schieramenti geopolitici (Est contro Ovest, Nord contro Sud, mondo «libero» contro mondo socialista, ecc.), ma lungo quelle orizzontali dei ruoli e delle funzioni. Da una parte i «politici» di ogni paese, pronti a offrire solidarietà convinta al decisore unico dell'azione, Vladimir Putin: il presidente degli Stati Uniti George W. Bush gli assicurerà personalmente, per telefono, «ogni possibile sostegno e assistenza»; il primo ministro inglese Tony Blair e il presidente francese Jacques Chirac si congratuleranno il giorno stesso, per la felice «fine della crisi degli ostaggi», e il ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer affermerà che «nessuno se non i sequestratori può essere ritenuto responsabile della morte di tanti innocenti», mentre il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi esprimerà in un caloroso messaggio la sua «solidarietà e stima nei confronti del presidente Putin che ha saputo affrontare e risolvere con coraggio una situazione ad altissimo rischio»; né sarebbe mancato un convinto messaggio di plauso da parte di Saddam Hussein, allora ancora alla guida dell'Iraq. Dall'altra parte le organizzazioni umanitarie, per una volta unite alla maggior parte dei commentatori internazionali, denunciano l'orrore di quella soluzione: Amnesty International parla di «crimini di guerra» e di «gravi violazioni della Convenzione di Ginevra». «Le Monde» di «crimini contro l'umanità» («Se Saddam Hussein è colpevole di crimini contro l'umanità per i curdi, allora lo è anche Vladimir Putin per il trattamento inflitto alla Cecenia»). Le immagini di quella tragedia, pochi frame di cattiva qualità - i corpi delle ragazze del commando, velate di nero, abbandonate sulle sedie di velluto rosso della sala come addormentate, con le loro artigianali cinture esplosive inutilizzate, i pullman usati come improvvisati mezzi di soccorso, stipati di cadaveri infilati sui sedili come in un film horror -, dureranno poco sui video internazionali e nell'immaginario collettivo. Certo assai meno delle immagini spettacolari dell'11 settembre, assurte invece a simbolo ossessivo della svolta d'inizio millennio. E tuttavia come quelle, forse piú di quelle, «mettono in scena», con la forza e la semplificazione dell'evento, l'essenza della rottura epocale che si sta consumando: l'esasperazione e l' éclatement forse definitivo della dimensione politica, per lo meno nella forma in cui l'ha conosciuta e concepita la modernità. L'assolutizzazione e insieme la caduta del Politico, nell'epoca della modernità compiuta. O, forse meglio, la drammatizzazione e la crisi di quel nesso virtuoso tra Potere e Ordine che aveva rappresentato la forma specifica della legittimazione politica «dei moderni». Come già all'inizio del suo percorso quadrisecolare, anche ora la tragedia del potere si rappresenta in un teatro. È significativo che praticamente tutti i commenti piú seri della «strage di Mosca» si siano concentrati non tanto sulle modalità dell'azione, e neppure - può apparire strano ma è cosi -, sulla questione del «terrorismo», sui suoi metodi e i suoi protagonisti, o sulla tragedia cecena, quanto sul comportamento del protagonista occulto di tutta la vicenda. Sul modo in cui, attraverso quella «decisione ultima» - e mortale - Vladimir Putin abbia riaffermato (o tentato di riaffermare) la propria «sovranità». Dunque sul carattere essenzialmente politico - potremmo dire «costitutivamente» politico, nel senso della capacità di quell'atto di rivelare l'essenza della politica e anche di «fondarla» -, di quell'evento, non per come esso si verificava là dove le telecamere erano puntate (l'indecifrabile e insensato movimento degli uomini e dei mezzi blindati in via Dubrovska), ma per il significato che esso assumeva nelle stanze inaccessibili del Cremlino e negli atti del «nuovo zar». E ciò, ancora una volta, tanto sul versante dei piu entusiasti apologeti di quella decisione e di quell'esito, quanto su quello dei critici piu radicali: di coloro che vi colsero il segno di un restaurato primato della sovranità politica come di chi vi intuí, al contrario, il presagio di un irreversibile declino. «Abbiamo vinto - dichiarerà, in quell'occasione Aleksandr Dugin, leader di una piccola formazione politica russa, "Eurasia", ma ideologo di quella corrente ideologica panrussa, insieme nazionalista e socialista, che incrocia buona parte delle sensibilità presenti nel blocco di sostegno di Putin. - Non è stato facile. Il prezzo pagato è alto. Ma cosi è. Le vittime innocenti non sono morte come bestie avvelenate. Sono cadute per la Patria, per il Paese. Perché ogni Russo, ogni cittadino della Russia è già in guerra - pochi qui intorno ci amano, e nessuno si sente esattamente addolorato. Ed in ogni momento dobbiamo essere pronti a pagare un prezzo per il fatto che il nostro paese è la Russia, che la nostra lingua è il Russo, che siamo cittadini di una grande Patria». «Grandezza, dignità, orgoglio, libertà - aggiungeva Dugin - hanno sempre un prezzo. Non ci sarà pietà per noi. Certo, anche noi dobbiamo essere pietosi, ma non prima di aver calcato il nostro stivale sul petto del nemico sconfitto. Non prima di questo. Non prima». E concludeva: «D'ora in avanti il presidente Putin ha assunto una nuova responsabilità di fronte alla Nazione. Essa crede in lui, e non vanamente, come Egli ha appena dimostrato». | << | < | > | >> |Pagina 35II.
La politica degli «antichi» e dei «moderni»: dalla Giustizia alla Forza
Remota itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia? - Senza giustizia, che cosa sarebbero in realtà i regni, se non bande di ladroni? E che cosa le bande di ladroni, se non piccoli regni? Anche una banda di ladroni è, infatti, un'associazione di uomini, nella quale c'è un capo che comanda, nella quale è riconosciuto un patto sociale [pacto societatis astringitur] e la divisione del bottino è regolata secondo convenzioni primieramente accordate. Se questa associazione di malfattori cresce fino al punto da occupare un paese e stabilisce in esso la sua propria sede, essa sottomette popoli e città e si arroga apertamente il titolo di regno, titolo che le è assegnato non dalla rinuncia alla cupidigia, ma dalla conquista dell'impunità. Intelligente e verace fu, perciò, la risposta data ad Alessandro il Grande da un pirata che era caduto in suo potere. Avendogli chiesto il re per quale motivo infestasse il mare, con audace libertà, il pirata rispose: «Per lo stesso motivo per cui tu infesti la terra; ma poiché io lo faccio con un piccolo naviglio sono chiamato pirata, perché tu lo fai con una grande flotta, sei chiamato imperatore». Il brano, notissimo, è tratto dal De civitate dei di sant'Agostino (dal paragrafo intitolato, appunto, Il potere senza giustizia: un gran seguito di ladrocinii), il quale l'aveva tratto a sua volta dal De re publica di Cicerone (da quello che è stato definito l'«unico esempio di trattato politico nella letteratura latina»). Dunque due autori-simbolo della lunga classicità. Lo si confronti con un altro passo - anch'esso divenuto una pietra miliare della riflessione politica -, tratto dalla celebre conferenza di Max Weber sulla Politica come professione (o come «vocazione»: il termine tedesco Beruf non permette di distinguere tra i due significati). Da quello che, a buona ragione, può essere considerato come un vero manifesto della politica del «moderno». In quella conferenza, tenuta nel 1918 - immediatamente a ridosso della grande cesura da cui nacque, nella piu sanguinosa delle tragedie storiche vissute dall'umanità, il «secolo breve» -, Weber si poneva, in fondo, la stessa domanda che già era stata di Cicerone e di Agostino: «che cos'è un'associazione politica? ... che cos'è uno Stato?»; qual è cioè l'elemento qualificante capace di distinguerlo da ogni altro tipo di associazione umana? Fornendo, però, una risposta esattamente opposta giacché - sosteneva - quell'elemento non può consistere nel «contenuto del suo agire». In un qualche fine perseguito, o in un qualche valore praticato («Non vi è nessuna funzione che un'associazione politica non abbia una volta o l'altra esercitata, né alcuna di cui si possa dire che essa l'abbia sempre esercitata, ossia che sempre ed esclusivamente appartenga alle associazioni definite come politiche»). Se un tratto distintivo può essere trovato - sarà la conclusione, in certo qual modo scandalosa, di Weber -, questo non può consistere che nel «mezzo specifico che appartiene allo Stato come ad ogni associazione politica: la forza fisica». A cui aggiungeva, a scanso di equivoci: Se vi fossero solo organismi sociali in cui fosse ignota la forza come mezzo, il concetto di «stato» sarebbe scomparso e al suo posto sarebbe subentrato ciò che, in questo senso particolare della parola, sarebbe chiamato «anarchia» [...]. Lo stato, al pari delle associazioni politiche che lo hanno preceduto storicamente, consiste in un rapporto di dominazione di alcuni uomini su altri uomini, il quale poggia sul mezzo della forza legittima [poco prima aveva scritto: «il quale esige per sé (con successo) il monopolio della forza fisica legittima» o, secondo altre traduzioni «il monopolio legittimo della violenza »). Ora, si provi a incrociare - come su un piano cartesiano - queste due (opposte) linee di riflessione. Otterremo una nuova coordinata per tentare di abbozzare il profilo di quello che abbiamo chiamato il «paradigma politico della modernità». E per misurarne la distanza da quello «degli antichi», per cosí dire. La quale non consiste solo nella metamorfosi del problema del male da mistero a strumento (di cui si è appena detto), ma anche in una seconda «torsione». In un secondo slittamento, relativo ai fattori identificanti del «politico», dalla Giustizia alla Forza. Dalla centralità di un valore sostantivo e finale (valido cioè in sé) come appunto la pratica della Giustizia, alla centralità di un fattore formale e strumentale (valido solo in quanto funzionale a un risultato voluto) come l'uso - esclusivo - della Forza. | << | < | > | >> |Pagina 82L'argomento geopolitico.«Società globale del rischio», «uomo planetario» o «città planetaria»: entrambi gli argomenti - tanto quello tecnologico quanto quello che si è definito antropologico - fanno capo, a ben guardare, a quella fondamentale sconnessione spaziale che va sotto il nome di Globalizzazione. E in cui si annida, in fondo, l'elemento piu radicale - il contesto fondamentale - della falsificazione attuale del paradigma politico dei moderni. La globalizzazione intesa qui, naturalmente, non come semplice fenomeno economico (o finanziario): come mondializzazione dei mercati delle merci e dei capitali, secondo la vulgata che va per la maggiore nel circuito mediatico e nella chiacchiera politica. Ma piuttosto - e con effetti ben piu devastanti - come fenomeno assai piu profondo, e totale, capace di coinvolgere e mutare le coordinate essenziali della mentalità collettiva e dell'essere sociale: la globalizzazione come vera e propria «rivoluzione spaziale» intendendo con questo termine una trasformazione qualitativa e sostanziale della percezione sociale dello spazio. O, se si preferisce, della percezione dello spazio sociale, dell'ambito, cioè, entro il quale si collocano gli eventi avvertiti come suscettibili di influenzare direttamente e in tempo reale la propria vita quotidiana. Dunque un mutamento dello statuto stesso della spazialità, che introduce un tipo di cesura - una svolta, appunto, di natura epocale -, paragonabile a quelle che spezzano il tempo periodizzandolo. Distinguendolo in differenti «epoche». Lo «spazio sociale» della globalizzazione - in ciò sta il suo carattere rivoluzionario, che lo rende diverso da tutto quanto è stato finora - è uno spazio globale (come dice la parola stessa). Dunque uno spazio «totale», che coincide, senza apparenti residui, con l'intera estensione del pianeta (con il tutto spaziale che possiamo esperire); che esaurisce, per la prima volta nella storia, tutto lo spazio praticabile, trascendendo (e surdeterminando) ogni altro spazio «parziale». Il fenomeno è percepito (e tematizzato), in prima approssimazione, come «sfondamento», abbattimento di confini, cancellazione delle antiche linee di demarcazione e di segmentazione che frammentavano, fino a ieri, lo spazio planetario in spazi territorializzati: «La globalizzazione - osserva opportunamente Carlo Galli - è essenzialmente sconfinamento, sfondamento di confini, deformazione di geografie politiche». Con essa - aggiunge - «si realizza per la prima volta nella storia dell'umanità l'unificazione del mondo. Di un mondo senza centro ma con molte periferie, unificato ma non unitario, tecnicizzato ed economicizzato ma non neutralizzato». | << | < | > | >> |Pagina 93La democrazia svuotata.Ed è questo il secondo «fantasma» che ritorna, nella penombra creata dal crepuscolo del «paradigma politico dei moderni»: il congedo dall'universo dei diritti. L'oblio di un modello di società fondato su un repertorio di diritti fondamentali garantiti pubblicamente da un potere capace di farli valere secondo una logica universalistica sia pur nello spazio particolare della propria sovranità. E il passaggio a una società strutturata su privilegi. Su prerogative non universalizzabili, particolaristiche e personalizzate: sulla possibilità, in qualche misura esclusiva, di abitare aree privilegiate di uno spazio socialmente eterogeneo (una sorta di jus soli post-territoriale), o di accedere a flussi di ricchezza sempre piú mobili e selettivi (penso a chi «lavora in dollari» in paesi con monete deboli, o a chi opera sul mercato delle armi in paesi africani d'indigenza assoluta...), in un mondo a molti strati, in cui in ogni singolo punto finiscono per operare «legalità» diverse, principii di autorità e di remunerazione differenziati, occasioni di immunità inedite. Nell'introdurre un volume divenuto giustamente famoso - L'età dei diritti -, Norberto Bobbio connetteva strettamente la diffusione dei diritti soggettivi - civili, politici e sociali - con la diffusione della democrazia in Occidente. L'assunzione di quel repertorio impegnativo di garanzie che va sotto l'espressione «diritti dell'uomo» come fondamento dell'ordine politico, era insieme la condizione e la funzione della moderna democrazia: «La democrazia scriveva - è la società dei cittadini, e i sudditi diventano cittadini quando vengono loro riconosciuti alcuni diritti fondamentali». «Senza diritti dell'uomo riconosciuti e protetti - aggiungeva - non c'è democrazia». È dunque inevitabile che l'indebolimento della tutela dei «diritti» - soprattutto di quelli piú connessi con le possibilità di una «vita dignitosa», e con l'accesso ai beni fondamentali per un'esistenza civile - si accompagni all'indebolimento del principio democratico. E ne riveli la crisi (occultata sotto una crescente «retorica della democrazia»). Le nostre democrazie sono oggi, indubbiamente, piú deboli (non nel senso di «meno sicure», ma meno «impegnative», meno partecipative, meno responsabili verso i propri cittadini, se di «cittadini» si può ancora parlare per una moltitudine dal profilo e dai diritti sempre piú incerti). Vivono un paradosso evidente: che mentre il modello democratico si estende «all'esterno» dei propri luoghi d'origine, nello spazio-mondo (conquista nuove aree, nuovi paesi, addirittura giustifica imprese belliche per «imporlo»: la democratizzazione ha sostituito la civilizzazione del vecchio colonialismo nella retorica delle imprese «imperiali»), esso si estenua «all'interno». Perde «densità», si fa sempre piú formale e meno rappresentativo. La crisi della spazialità statuale-nazionale, del suo modello di sovranità, in assenza di un'ingegneria istituzionale adeguata alle nuove dimensioni dello «spazio sociale» globalizzato, di meccanismi di garanzia e di tutela sganciati dall'antica cittadinanza e dotati di efficacia universale, si riflette direttamente sull'assetto democratico a base territoriale. Diviene direttamente crisi della democrazia, come regime fondato sulla «sovranità popolare». Una democrazia che non sia piú in grado di tutelare lo status di cittadino dei propri elettori, e la capacità di questi di determinare autonomamente le scelte dei propri rappresentanti, cessa di essere tale. Muta la propria natura. In un contesto nel quale le decisioni fondamentali sulle questioni che attengono direttamente ai problemi della vita e della morte dei propri cittadini, della loro salute, del loro regime alimentare, delle condizioni ambientali in cui vivono (in una parola, ai presupposti essenziali della «nuda vita») siano sottratte ai diretti interessati, e demandate ad agenzie transnazionali, a tecnocrazie non elettive, o a gruppi finanziari, industriali e commerciali, non ha piu senso parlare di «democrazia». Neppure nel significato ristretto che il termine aveva assunto nel passaggio al Novecento, sotto la pressione delle teorie elitiste: non piu come «governo del popolo» ma come regime politico nel quale le élites governanti vengono selezionate attraverso una libera competizione per la conquista del consenso maggioritario dei rappresentati a cui devono rispondere. Neppure nel senso, cioè, di una pura «democrazia rappresentativa». Ed è esattamente ciò che avviene oggi, quando istituzioni non rappresentative come il Wto, o il Fondo monetario internazionale, o la Banca Mondiale, o gli organismi direttivi delle diverse alleanze militari macroregionali e delle varie Agenzie continentali (Nafta, Asean, ma anche la Commissione Europea) assumono decisioni vitali (o mortali) nel campo delle politiche alimentari, energetiche, sul regime dell'acqua, sul clima, sui saperi e la loro circolazione, ecc. O quando decisioni cruciali (come la partecipazione a una guerra) vengono prese «di concerto» tra i vertici politico-militari-diplomatici dei diversi paesi, ignorando la volontà dei rispettivi corpi elettorali, e talvolta violando apertamente le rispettive carte costituzionali. | << | < | > | >> |Pagina 97Religioni di guerra.Ma è soprattutto il terzo «fantasma» che fa sentire con fragore il proprio ritorno, nella cronaca piu recente: la fusione, imprevista, di religione e politica. La ripoliticizzazione del sacro (dell'identità culturale), e la risacralizzazione del profano (del conflitto, della guerra...). La cesura storica che aveva segnato la genesi del moderno, aveva anche separato, nettamente - come si è visto - il regno di Cesare da quello di Dio. Governo degli uomini e salvezza dell'anima. Filosofia e teologia. La «funzionalizzazione del male» come condizione della sua normalizzazione, per usare una felice espressione di Pier Paolo Portinaro; la riclassificazione (esplicita e dichiarata) di esso come instrumentum regni, al di là dell'indubbia amoralità e dell'inevitabile patina di cinismo con cui veniva ricoperta e ornata l'arte politica, aveva per lo meno avuto il merito (non secondario) di separare le ragioni del Potere da quelle di Dio (o per lo meno di aprire la strada a quella separazione). | << | < | > | >> |Pagina 135Non è piú, questa, solo un'idea regolativa. Decine, forse centinaia di migliaia di donne e di uomini sono al lavoro, negli interstizi del disordine globale, per «riannodare i nodi», ricucire le lacerazioni, «elaborare il male». Per sciogliere i grumi d'inimicizia che i dislivelli planetari (il ritorno feroce dell'ineguaglianza), i conflitti identitari (etnici, religiosi, la degradazione della «politica delle tribú»), lo spettacolo osceno dell'ingiustizia rappresentato sul palcoscenico del sistema-mondo, vanno con velocità crescente addensando. Li si trova a Banja Luka e a Prjedor come a Baghdad o in quella terra che solo con impietosa ironia si può continuare a definire «santa», nella miseria radicale delle favelas latinoamericane come nel fetore delle periferie africane, nel cuore di Kabul come nelle banlieux di Parigi, o negli slum di New York o di Londra, tra le macerie di Grozny e la polvere di Mogadiscio, a riparare dal basso i danni che i flussi sradicanti dell'economia e della politica (del Mercato e dello Stato) producono. Sono loro che «vedono» (e raccontano) quello che i giornalisti professionisti ignorano passandogli accanto. E sono loro quelli che riparano ciò che gli eserciti frantumano (corpi e cose) e lasciano dietro di sé in pezzi. I politici di professione, gli «statisti» - quelli che dominano sulle prime pagine dei giornali e che decidono l'impiego degli eserciti - li guardano con un sorriso di commiserazione, come si guardano le anime belle. Ma sono loro l'unico embrione, fragile, esposto, di uno spazio pubblico non avvelenato o devastato nella città planetaria.Non sono ancora il presente. Sono tutt'al piú un vago presagio di futuro. Di una possibile, inedita, politica del futuro. E dovranno a lungo convivere con la politica del passato: quella degli Stati (e della ragion di Stato), degli eserciti, delle diplomazie. Quella che crede ancora nell'onnipotenza della Tecnica (nella tirannia salvifica del «sistema dei mezzi»). Quella che sta dentro i confini. Che elabora la propria razionalità dentro la logica segregante delle frontiere. Quella che considera pazzia l'idea di un disarmo unilaterale. Che assimila il riconoscimento e l'assunzione del torto al tradimento. Che identifica la nonviolenza con la resa senza resistenza. Come osservava Balducci, viviamo tutti una «duplice appartenenza»: alla Tribú e alla Città planetaria, alle regole asfittiche ma efficaci della prima e ai principì universali ma incerti della seconda. È però certo che, se saranno liberi di operare e di pensare; se gli sarà dato il tempo lungo che tutte le mutazioni antropologiche richiedono (nessuna di esse è istantanea, nessuna può assoggettarsi alla tirannia dell'urgenza che invece domina e devasta la politica); se non saranno schiacciati prima dalla pressione dall'alto dei vecchi leviatani, saranno loro - gli uomini che già hanno un piede nella città planetaria - a offrire il nucleo pulsante di un nuovo, possibile, «paradigma della politica».
Potranno fallire, non c'è dubbio: perché gli uomini delle tribú sono piú
sordi del lecito, e incapaci di ascolto e di accompagnamento. Perché chi
possiede ancora (o s'illude di possedere) il monopolio della forza ne fa un uso
tale da rendere impossibile ogni parola. Perché il «discorso dell'ordine» rende
muto e impossibile ogni «ordine del discorso». O perché l'odio è ormai a un
limite tale da sommergere ogni alternativa. O semplicemente perché non
troveranno il lessico, la capacità di racconto e di rappresentazione di sé, per
trasformare un'esperienza in un modello. Ma sarebbe una sconfitta, per
tutti.
E la politica della «prima modernità» si rivelerebbe tanto assoluta, e chiusa in
sé, da non consentire neppure quell'
uscita di sicurezza
che, quattro secoli or sono - in presenza di un'altra rivoluzione spaziale, di
un'altra sfida antropologica - era stato possibile aprire nel pur compatto, e
apparentemente insuperabile, «paradigma politico degli antichi».
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