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| << | < | > | >> |IndicePARTE PRIMA PERCORSI GENERATIVI DELLA DEMOCRAZIA INTERCULTURALE Capitolo primo Multiculturale/interculturale. Il motore antropologico 7 Capitolo secondo Immigrazione e cittadinanza. Il motore demografico 25 Capitolo terzo Soggetto multiplo e pluralità culturale. Il motore psicosociale 37 Capitolo quarto Diritti umani come interfaccia culturale. Il motore ideale 97 Capitolo quinto Fedi e diritto. Il motore religioso 177 PARTE SECONDA CODICI INTERCULTURALI DELL'ESPERIENZA GIURIDICA Capitolo sesto Interpretare/Contestualizzare gli indici di diversità culturale 217 Capitolo settimo Tradurre la diversità culturale 241 Capitolo ottavo Percorsi di integrazione giuridica interculturale 311 Conclusione 347 Bibliografia 353 |
| << | < | > | >> |Pagina 25Capitolo secondo
Immigrazione e cittadinanza. Il motore demografico
La trasformazione in senso multiculturale delle società democratiche
occidentali ha una causa
detonante:
l'immigrazione.
L'ingresso di nuovi soggetti all'interno dei territori nazionali solleva il
problema di regolare le modalità di attraversamento delle frontiere; di
disciplinare le modalità di inserimento sociale dei «nuovi
venuti»; di stabilire il grado di partecipazione di essi alla vita sociale; di
determinare se e in quale misura siano titolari di diritti e doveri. La
questione, in breve, è se e con quali modalità gli immigrati
siano soggetti di diritto; quindi se e per quali ragioni debbano essere distinti
dai cittadini, che invece usufruiscono della soggettività
giuridica in modo pieno. Immigrazione e cittadinanza rappresentano perciò «le
colonne d'Ercole» che traghettano il fenomeno della
multiculturalità e le sue possibili qualificazioni giuridiche nella
dimensione interculturale.
Perché aprire le frontiere? Cittadinanza e immigrazione danno vita a un intero arcipelago di questioni politiche e giuridiche. Inizierò ad analizzarle proponendo un quesito pratico. Per quali ragioni uno Stato dovrebbe accettare l'ingresso di non-cittadini all'interno del proprio territorio? Rispondere a questa domanda implica la proposizione di un interrogativo ancora più generale. Perché un gruppo sociale già esistente e relativamente consolidato dovrebbe aprirsi, accogliere al suo interno soggetti esterni ed estranei? Le ragioni plausibili per adottare strategie politiche di apertura delle frontiere possono essere di due ordini: rispettivamente interne o esterne al gruppo. La distinzione tra di esse non è tuttavia assoluta e d'immediata evidenza. Richiede perciò qualche specificazione preliminare. Le ragioni cosiddette interne hanno a che fare con i princìpi attorno ai quali il popolo si aggrega; i suoi codici culturali; i suoi valori di fondo. Le ragioni cosiddette esterne hanno a che fare con le condizioni di sopravvivenza della comunità statale. L'ambiente esterno e i suoi elementi costitutivi (fattori naturali, presenza di altri gruppi, relazioni con essi e così via) possono rendere necessaria o conveniente l'apertura della comunità a soggetti estranei.
Per certi versi, le ragioni cosiddette esterne, così definite, sono
anch'esse interne, almeno in senso lato. In fondo è sempre l'interesse
del gruppo nazionale o della comunità statale a determinare la rilevanza di
queste ragioni di confronto o d'integrazione dell'estraneo.
Si può dire, tuttavia, che rimangano esterne per la provenienza del
loro fattore scatenante, meglio per la loro causa efficiente.
Le ragioni «interne» Svolte queste precisazioni, passerò adesso ad analizzare più da vicino le ragioni interne. Al riguardo può essere utile porre un ulteriore interrogativo. Chiedersi, cioè, se sia coerente con i princìpi di una democrazia costituzionale escludere la possibilità di accesso agli stranieri. Per rispondere è necessario ricordare che tra questi princìpi vi è la libertà personale; la libertà di circolazione; la tutela della dignità umana; l'uguaglianza di fronte alla legge a prescindere da differenze di lingua, razza, credo religioso, opinioni politiche e, quindi, anche di appartenenza culturale. Alla luce di queste premesse può dunque riproporsi una delle precedenti domande, stavolta in termini negativi: è legittimo negare a un non-cittadino l'ingresso all'interno del territorio dello Stato? Una lettura in chiave solo formale del concetto di cittadinanza farebbe pensare alla possibilità di una risposta positiva. In fondo, potrebbe dirsi, ogni ordinamento deve poter essere in grado di decidere liberamente, anzi sovranamente, di ammettere o non ammettere qualcuno sul suo territorio; oppure a chi riservare la titolarità della cittadinanza. Negare questa possibilità significherebbe negare la sovranità o comunque due dei suoi aspetti salienti: il controllo del territorio e dei suoi confini; la possibilità di determinare in autonomia a chi e a quali condizioni attribuire la soggettività giuridica. Tuttavia, negli ordinamenti democratico-costituzionali la cittadinanza è un'implicazione, se non pure una proiezione del riconoscimento dei diritti dell'individuo colto nella sua dimensione antropologica, preistituzionale. I diritti cioè precedono la definizione della cittadinanza, le sue connotazioni. Questo perché è la convergenza politica e culturale sui diritti che dà vita all'ordinamento e quindi alla cittadinanza. Piaccia o non piaccia, a dispetto di ogni forma di realismo politico, è così che si articola la retorica fondativa delle democrazie costituzionali; sono queste le sue finzioni costitutive. In base ad esse, i diritti umani e/o fondamentali sono il presupposto cronologico e logico della concettualizzazione della cittadinanza e dei suoi contenuti. Se così è, perde allora plausibilità parlare di un conferimento della titolarità dei diritti del tutto subordinato all'attribuzione della cittadinanza. Questa considerazione spiega perché gli ordinamenti democratici fondati sul riconoscimento dei diritti a livello costituzionale abbiano forti difficoltà nel legittimare la negazione ai non-cittadini della possibilità d'ingresso all'interno del proprio territorio. Più analiticamente, libertà personale, libertà di circolazione e soggiorno, libertà di manifestazione del pensiero, tutela della dignità umana, eguaglianza si danno come prerogative in qualche modo preordinamentali, se non addirittura prepolitiche. Questo perché l'ordinamento e la stessa società civile si costituiscono mediante esse e da esse ricevono la loro connotazione costitutiva. Di là dalle scansioni positive o dall'esegesi formale delle disposizioni delle singole costituzioni, di fronte agli ordinamenti democratico-costituzionali tutti ne godono, dunque anche chi è straniero. Il suo diritto di «circolare» preesiste perciò alla creazione dei confini (statali) e include – almeno in linea teorica – anche la possibilità di varcarli. In breve, colui che chiede di entrare nel territorio di uno stato ha la libertà di circolarvi; ha la libertà personale; ha diritto di essere trattato nel rispetto della sua dignità; ha diritto all'eguaglianza di trattamento: tutto ciò in quanto è un individuo della specie uomo, e non subordinatamente al suo essere cittadino. Una comunità statale, costruita sul riconoscimento di quei diritti, non può dirsi coerentemente sovrana di negare in assoluto e senza motivazioni l'ingresso a chi si presenti alle sue frontiere. Il che non significa naturalmente che non possa farlo mai. Potrà farlo solo a determinate condizioni di coerenza con il suo assetto costituzionale. | << | < | > | >> |Pagina 97Capitolo quarto
Diritti umani come interfaccia culturale. Il motore ideale
I diritti umani e/o fondamentali sono un codice che può ospitare innumerevoli versioni della soggettività sociale e giuridica. Le dichiarazioni dei diritti dell'uomo contengono una serie di icone, di forme della soggettività. A ognuna di esse corrisponde un diritto e l'enunciazione di un diritto. Alla base vi è un'idea dell'individuo, del singolo essere umano. Le sue connotazioni principali sono la libertà, l'uguaglianza, l'autodeterminazione, la dignità. A queste caratteristiche ideali fa da contrappeso il dovere di solidarietà. Se queste caratteristiche siano naturali, cioè facciano parte integrante della natura umana, non è possibile accertarlo scientificamente. È così perché si tratta di caratteristiche ideali. Esse possono partecipare dell'esistente, possono darsi nella realtà concreta dell'esperienza sociale. Ma possono anche mancare o venir meno. Questo però non è determinante per accertare cosa significhino. In fondo anche il cibo può scarseggiare, ma nessuno pensa per questo che cibarsi non sia un bisogno naturale. Fruire di quei diritti può dunque costituire un bisogno altrettanto naturale che cibarsi, o dissetarsi. Decisivo è credere che la loro fruizione sia una proiezione normale della vita umana; che la loro negazione sia una menomazione grave, mortificante le potenzialità dell'essere umano. Descrivere i diritti umani come un oggetto di credenza non deve far pensare tuttavia a un surrettizio tentativo di svalutazione. L'essere umano è un animale culturale. La sua esistenza è affidata alle sue capacità simboliche e immaginative. La sua stessa natura lo proietta in un mondo di possibilità e non di semplici automatismi predefiniti. La sua dotazione distintiva rispetto al resto del regno animale è un linguaggio potente, idoneo sia a comunicare, sia a rappresentare il mondo, le esperienze. Grazie a questa dotazione l'uomo può progettare, ideare situazioni nuove, controllare il corso degli eventi, creare condizioni di esistenza non disponibili nel presente. Per far questo esprime giudizi sul mondo, attraverso i giudizi crea simboli, manipolando i simboli conosce il suo ambiente, lo modifica e riposiziona se stesso al suo interno. Tutte le attività adesso descritte compongono la dimensione naturale dell'uomo, benché si tratti di attività culturali, simboliche. I diritti umani definiscono alcune modalità per lo svolgimento delle attività umane all'interno dei contesti sociali. Essi pertengono alla dimensione culturale dell'essere umano. Nulla di strano dunque che siano oggetto di credenza e che la loro esistenza sia condizionata dal fatto che le comunità umane credano in essi. Entro certi limiti, d'altronde, anche i fatti accertabili scientificamente sono veri fintantoché si crede in essi. In quanto oggetto di conoscenza, non sono indipendenti dalla conoscenza stessa, dai suoi assunti, dai procedimenti di acquisizione e di verifica. Mettere in discussione quegli assunti potrebbe significare porre in dubbio o persino sconfessare l'esistenza di fatti, di oggetti, di entità ritenute vere. In fondo anche le nostre conoscenze sul mondo vengono acquisite per trasmissione culturale. La maggior parte dei nostri saperi è oggetto di fede; essi s'impadroniscono delle nostre menti d'autorità in quanto trasmessi dal contesto culturale, dalle persone di cui ci fidiamo. Solo in una percentuale minima ciascun uomo riesce a sottoporre a verifica sperimentale, o comunque a critica, l'enciclopedia di saperi acquisita per trasmissione culturale. Dunque, anche la conoscenza dei fatti, del mondo empirico ha una componente fideistica o pistica (dal greco pistis, che significa appunto fede) poiché anch'essa è frutto di un'elaborazione culturale.
Proclamare i diritti umani come attinenti alla natura (culturale)
dell'uomo è una scelta euristica e politica. Essi permettono di farsi
un'idea più esatta degli essere umani e delle condizioni necessarie
perché essi possano vivere insieme senza distruggersi reciprocamente. Acquisire
questa conoscenza serve a stabilire l'asse di legittimazione dei sistemi
sociali, politici e giuridici e le loro condizioni di buon funzionamento. Un
assetto sociale e istituzionale che misconoscesse quei diritti mortificherebbe
le potenzialità e i bisogni umani oltre la soglia del tollerabile, innescando
così i semi della discordia e della guerra.
I diritti umani come prodotto culturale La storia esibisce un'ampia casistica di società e non in tutte i diritti umani, così come interpretati dal pensiero politico occidentale, hanno trovato corrispondente riconoscimento. Ma non basta. Nonostante la petizione di universalità ad essi soggiacente, i diritti umani sono oggetto di contestazione da parte di culture diverse da quella occidentale. Entrambe le circostanze non debbono tuttavia scandalizzare più di tanto. Come si è detto, i diritti umani sono diritti per antonomasia, sono i diritti dell'Uomo come essere culturale. E la cultura è un fenomeno in movimento, cangiante perché dinamico è il complesso di saperi e prassi che gli uomini utilizzano per conoscere il mondo, modificarlo e, insieme ad esso, conoscere e modificare se stessi. L'uomo è al tempo stesso padre e figlio della sua cultura, delle sue acquisizioni culturali. Anche la sua natura è quindi in movimento, in costante trasformazione. È quindi perfettamente comprensibile, direi normale che i diritti e il diritto siano pensati, immaginati e percepiti in modo differente in seno a differenti contesti storici e geografici. Ma a dispetto delle apparenze, tutto ciò non ne compromette la possibile universalità. L'universalità dei diritti non può essere pensata come un attributo, una connotazione indipendente dai luoghi, dalle condizioni materiali e ideali che fanno da sfondo a ogni esperienza sociale. In ogni tempo e luogo gli uomini, le società umane hanno sviluppato un'idea dell'Uomo e a questa idea hanno connesso differenti prerogative a carico degli individui. È vero, solo l'Occidente moderno ha elaborato la categoria dei Diritti dell'Uomo, con le lettere maiuscole poste a indicare la loro indisponibilità, la loro priorità rispetto a qualsiasi assetto istituzionale, a qualsiasi potere politico. Ma ciò è stato possibile ed è avvenuto all'interno di un cammino culturale ricco di contingenze, di situazioni complessive (geografiche, politiche, economiche, scientifiche, ecc.) peculiari, direi di più, locali. L'invenzione dei diritti dell'uomo è anch'essa un fatto storico germinato su un intero paesaggio di circostanze storiche. Tra queste, condizioni socio-economiche e politiche determinate hanno reso salienti alcuni aspetti del patrimonio culturale esistente. L'Europa del XVII-XVIII secolo è un luogo fisico e ideale, è un ambiente culturale con alcune caratteristiche specifiche: l'idea dei Diritti dell'Uomo venne generata per valorizzarne alcune e superarne altre. Essa in un certo senso galleggiava sull'esistente, non è piovuta dallo spazio, non si è affacciata alla coscienza politica per apparizione, come una cometa. La contingenza dell'esperienza storica domina questo scenario. Ma, ancora, essa non toglie nulla alla potenziale universalità, all'umanità dell'invenzione di quei diritti. Il diritto è un metodo di organizzazione delle relazioni sociali per mezzo di regole e secondo valori condivisi a livello comunitario. In questa accezione esso è riscontrabile presso tutti i popoli, presso tutte le esperienze culturali. Con diversi accenti, posti ora sull'individuo, ora sulla collettività; sui doveri, piuttosto che sui diritti; sulla libertà piuttosto che sulla solidarietà, esso è sempre Umano. Al tempo stesso è ed è sempre stato umano, nel senso che ha immancabilmente disegnato un'area di azioni permesse contrapposta a un'area di azioni vietate. In tutte le società o comunità organizzate dal diritto, gli oggetti, i beni tutelati giuridicamente sono stati circondati da un'aura di intangibilità, se non pure di sacralità. Storicamente la loro sottrazione alle dinamiche dell'esistente e la loro attrazione nella sfera dell'intangibile, del sacro costituiva un requisito necessario all'ordine sociale e, in ultima istanza, alla sopravvivenza stessa della comunità. Sul rispetto di quei beni, di quei valori si fondava l'autorità delle istituzioni. Sulla fedeltà, anzi sulla fede in quei valori poggiava la possibilità di una convivenza pacifica all'interno del corpo sociale. Sotto questa luce si può dire quindi che tutto il diritto è sempre stato Umano, quantomeno nella sua dimensione ideale. E nello stesso senso sono Umani i diritti umani di oggi. Ma come è possibile – si chiederà qualcuno – che i diritti umani siano al tempo stesso universali e locali, storicamente e culturalmente condizionati? La risposta al quesito è insieme semplice e complessa. È semplice perché basterebbe dire che ogni popolo, ogni comunità in ogni diversa fase storica, e in ogni diversa situazione geografica, legge l'universalità secondo le lenti che gli fornisce il suo tempo presente. È complessa perché, per rispondere in modo adeguato e soddisfacente, bisognerebbe chiarire le ragioni che spingono a porsi questa domanda. Accade oggi che i rappresentanti di culture diverse da quella occidentale contestino l'universalità dei Diritti dell'Uomo. Lo fanno, sostengono, perché i diritti dell'uomo sono lo specchio, il riflesso della illegittima autouniversalizzazione del soggetto occidentale. Il tentativo di imporre quei diritti come codice giuridico dell'umanità, la loro esportazione forzata oltre i confini geo-politici dell'occidente sono dunque bollati come atti di imperialismo culturale, di etnocentrismo ai danni degli altri popoli, delle altre culture presenti sul pianeta. Come tenterò di mostrare, in queste critiche c'è molto di vero, benché sostanzialmente falso sia il bersaglio sul quale si dirigono, e cioè l'idea che possano aversi Diritti Universali dell'Uomo. Rendere conto di questa posizione teorica richiede un percorso argomentativo piuttosto lungo e complesso, che interseca però i nodi centrali del diritto interculturale. Procederò per gradi. | << | < | > | >> |Pagina 177Capitolo quinto
Fedi e diritto. Il motore religioso
L'inizio del terzo millennio coincide con il prepotente riaffacciarsi delle religioni nella sfera pubblica. Nei rapporti internazionali, così come nelle dinamiche politiche interne, la religione ha acquisito una visibilità che aveva perduto da molto tempo. La modernità aveva visto il progressivo arretrare della religione, del suo peso nell'ambito politico e sociale. L'astro della democrazia aveva portato con sé, lungo la sua ascesa, gli alfieri della secolarizzazione e della laicità. Lungo l'arco di quasi quattro secoli il linguaggio pubblico aveva cementato l'erigersi di poderosi confini tra sfera politica e sfera religiosa, tra fede e ragione, tra stato e chiesa, tra diritto e teologia. Questo scenario popolato da distinzioni ha accompagnato le dinamiche sociali dell'Occidente moderno. Nel caso dei domini coloniali, protrattisi fino agli anni più recenti, è stato anche esportato nei paesi extra-occidentali, spesso alterando profondamente gli antichi equilibri sociali e i rapporti ivi sussistenti tra sfera pubblica e religione. Adesso la trasformazione in senso multiculturale delle società statali si accompagna a un rigurgito delle identità religiose. Anzi, i conflitti imbastiti a partire dalle differenze culturali tendono a trasformarsi in conflitti religiosi. Perché accade questo? Perché il confronto tra culture si tramuta o comunque dà vita a confronti interreligiosi, spesso conflittuali? La risposta a simili quesiti va ricercata muovendosi su più registri di analisi. Il rapporto tra religione e cultura è quello principale; molto però influisce anche il codice ideale della democrazia moderna e la sua affermazione storica in antitesi alle società di antico regime dominate dalla legittimazione politica su base religiosa. Ogni cultura – si è detto più volte – costituisce un'enciclopedia di saperi e prassi orientati a fornire agli individui schemi di azione e di posizionamento nel mondo. Il sapere e l'agire sono ordinati perciò in ogni circuito culturale alla costruzione di un cosmo materiale e simbolico. La realizzazione di questa costruzione immaginaria è un atto sociale. Essa ha dunque le sue coordinate, le sue mete, i suoi orizzonti di senso. I parametri normativi di ogni cultura sono i suoi valori, cioè gli obiettivi che è bene perseguire. Come ogni obiettivo o fine essi sono oggetto di credenza, di fede. Nessun valore esiste naturalisticamente, cioè come dato di fatto indipendente dall'azione umana, diversamente non sarebbe un valore. Anche gli oggetti naturali che funzionano da ancoraggi per i valori vengono assunti come fini o come dati esistenziali bisognosi di un'azione umana che li qualifichi, li conservi, li modifichi, ne assicuri la sussistenza, ecc. Senza valori non esisterebbe alcuna cultura, alcun sapere culturale. Cultura e società sono cioè entità immaginarie, nel senso che la loro realizzazione transita attraverso le loro proiezioni immaginarie. Cultura e credenza, cultura e fede sono perciò intimamente legate.
Il legame tra cultura e fede spiega perché le cifre di senso di ogni
circuito culturale siano strettamente intrecciate con le corrispondenti
tradizioni religiose. Gli oggetti di fede, in qualità di saperi culturali, sono
trasmessi attraverso le generazioni sotto forma di abiti, di
imperativi pratici, di schemi di interpretazione e categorizzazione
del mondo. È inevitabile dunque che ogni cultura si autocomprenda
attraverso i suoi modelli di credenze. E reagisca quando la loro stabilità viene
messa in pericolo o semplicemente in discussione.
Fede, culture ed esperienza giuridica Il contatto tra culture e ancor di più la convivenza forzata e l'interdipendenza prodotte dalle società multiculturali pongono in una condizione di stress gli automatismi dei comportamenti e la fede nei saperi socialmente acquisiti. Ogni individuo così si trova a doversi confrontare con mondi immaginari nuovi, inconsueti; con schemi di comportamento inusuali che sono appunto proiezione di quei contesti immaginari; infine con modelli di categorizzazione della realtà che fatica a comprendere e a fare propri. Nelle situazioni di incertezza il bisogno di ancorarsi a oggetti di fede si fa più forte, direi quasi vitale. Il sottofondo di credenze, persino l'atteggiamento mentale di tipo fideistico soggiacente a ogni enciclopedia culturale si pone allora in primo piano, invadendo la scena della coscienza. Sulla base di queste indicazioni non è difficile comprendere la ragione del tendenziale commutarsi dei conflitti culturali in conflitti religiosi. Soggettività e credenza, percezione e affermazione del Sé sociale, indici normativi della cultura sono strettamente connessi. Il linguaggio esprime a un primo, basilare livello di normatività gli schemi di credenza nei quali si inscrive la soggettività. Ogni linguaggio contiene in sé una descrizione del mondo, che in quanto condivisa da una comunità di parlanti è normativa. La condivisione è l'altra faccia dell'oggettivazione sociale dell'Io e del cosmo che ospita le sue proiezioni pratiche e ideali. La stabilità delle credenze che sorreggono le categorizzazioni linguistiche è perciò l'ipoteca che garantisce l'esistenza personale, il rispecchiarsi del Sé nel suo orizzonte sociale. Vi è una spinta psicologica primaria a irrigidire i patrimoni di credenze, creando magari enclavi, circuiti privilegiati dentro i quali preservarne la stabilità. Niente di strano allora che i confronti culturali si articolino spesso come scontri tra diversi «credo». Scontri che tendono a investire tutti gli aspetti dell'esistenza, anche quelli più riposti nelle pieghe della quotidianità, della vita personale. Sono questi i luoghi dove si costruisce e si alimenta l'identità personale, un po' le banche dove viene mantenuta salda, al sicuro, la realtà immaginaria dell'Io. La religione occupa in ogni enciclopedia culturale la casella dei fondamenti, delle matrici di produzione di senso. Ogni sapere religioso tende a disegnare gli orizzonti ultimi di interpretazione del mondo, a definire le coordinate che danno ordine all'esistenza. Poco conta che si sia concretamente fedeli oppure atei. La funzione della religione – intesa in senso antropologico come agenzia di produzione di senso – cementa la solidarietà sociale e il linguaggio comunitario. Essa si trova soluta negli abiti linguistici e di comportamento. Sotto questo aspetto può persino parlarsi di una religiosità laica, cognitiva che corrisponde agli oggetti di credenza e quindi ai valori sottratti alla negoziazione interindividuale, contingente, momentanea. Lo stato di latenza della consapevolezza fideistica non ha bisogno di etichette quando lo spazio vitale di una cultura è chiuso, definito da confini, in qualche misura autarchico. Ma il discorso cambia notevolmente allorché quei confini divengono promiscui, labili, porosi. La situazione di multiculturalità si rivela allora come una condizione di latente interculturalità. I saperi culturali si intrecciano, si imbastardiscono, si corrompono lungo gli itinerari che segnano la realizzazione degli scopi pratici, della vita quotidiana. Il bisogno di identificare, di riconoscere, di etichettare i propri saperi e quindi di distinguerli, diviene in queste situazioni estremamente importante. La religione così, nella sua dimensione confessionale o istituzionale, assume una valenza identificante, direi quasi che si fa garante ideale della sopravvivenza personale. Colta nella sua funzione di matrice culturale la religione ha un significato antropologico, che può anche prescindere dalle sue dimensioni istituzionali. Essa confina con un atteggiamento cognitivo. Sacerdoti, scritture sacre, articolazioni confessionali ne sono la conseguenza, più che il presupposto. Nei momenti di crisi, di fondazione o rifondazione dei circuiti sociali la dimensione istituzionale, esplicitamente sacrale, rituale, liturgica diviene invece essenziale. Essa contribuisce a fissare lo zenit dell'azione sociale, la stella polare di orientamento delle norme di convivenza, l'asse di trascendentalizzazione dei circuiti attorno ai quali si materializza l'identità soggettiva. È questo il momento della creazione degli orizzonti di senso, racchiusi in enunciazioni dal carattere universale, cosmologico, i testi sacri. Come piattaforma di codificazione dei significati sociali essi saranno poi soggetti a interpretazione e reificazione. Le loro proiezioni si incarneranno negli abiti vitali. La loro significazione diverrà dunque situata in senso sociale. Le modalità e le fasi di reificazione seguiranno l'evoluzione delle diverse compagini sociali che le ospitano. Il circuito fondativo o rifondativo potrà quindi reiterarsi a seconda delle necessità e dell'intensità delle metamorfosi vissute dalla società. Quando il mondo muta, le religioni vengono chiamate all'appello. Riaffacciandosi sull'arena pubblica nella loro espressione istituzionale o confessionale sono tuttavia destinatarie di richieste, di petizioni di senso d'ordine antropologico. La dimensione istituzionale serve soltanto a conferire una connotazione identitaria al loro rientro in scena. È per questa ragione che se esse non riescono a produrre nuove matrici di senso, finiscono, come è sovente accaduto nella storia, per collassare su se stesse. | << | < | > | >> |Pagina 195La secolarizzazione coloniale: un errore storico e culturaleLa capacità di adattarsi ai mutamenti, persino alla concorrenza di altre fedi, in qualche modo ha caratterizzato sia le religioni dell'estremo oriente (induismo, buddismo, taoismo, confucianesimo, shintoismo, ecc.), sia, seppure in minor misura, la stessa religione islamica. La dogmatica dell' infedele, e cioè le derive fondamentaliste, sono apparse in forma endemica in quelle culture proprio in concomitanza all'importazione forzata e al confronto antagonistico con i processi di secolarizzazione di matrice occidentale. Il colonialismo prima e il postcolonialismo poi hanno sostanzialmente imposto a quelle culture la ricetta della secolarizzazione, sottovalutando talvolta maliziosamente le connotazioni profondamente cristiane che essa reca con sé. In molti casi secolarizzare è equivalso a cristianizzare quelle società o se non altro ad assimilarne le categorie organizzative a quelle proprie della tradizione cristiana: a partire dall'idea di una separazione netta tra sfera spirituale e sfera temporale, tra sfera religiosa e sfera etica, sino alla sovrapposizione alle dinamiche sociali locali di una struttura organizzativa e giuridica di tipo sistematico e gerarchico. L'influenza occidentale ha assunto i toni della colonizzazione culturale non solo durante il periodo di dominazione da parte delle potenze occidentali, ma anche successivamente alla conquista dell'indipendenza politica da parte dei paesi precedentemente sottomessi. Ciò è accaduto perché la retorica dell'indipendenza era imperniata sull'ideale della libertà dei popoli e si coniugava quasi implicitamente con l'autodeterminazione su base democratica. All'indomani della conquista dell'indipendenza la realizzazione del progetto democratico si dimostrò in molti paesi una chimera. Facevano da ostacolo sia condizioni economiche non in grado di supportare l'organizzazione democratica della società, sia una situazione complessiva di impreparazione culturale ad assorbire, adattando alle proprie tradizioni, i princìpi della democrazia occidentale. Costituzionalismo e liberalismo vennero e sono ancor oggi avvertiti come corpi estranei: vettori di una cultura straniera, quella occidentale appunto, imposta agli usi e alle dinamiche sociali come una sovrastruttura di potere funzionale all'interesse di alcune classi emergenti o direttamente dei gruppi di pressione foraggiati e sostenuti dai potentati economici euro-americani. A causa del dominio coloniale le culture locali sono state sostanzialmente atrofizzate nel proprio cammino di evoluzione. Esse non hanno potuto maturare un'evoluzione interna che le conducesse a sviluppare autonomamente modelli di organizzazione economico-sociale in grado di assorbire, fare proprio e adattare il sistema di organizzazione democratica. All'indomani dell'indipendenza in molti contesti si innescò così una reazione di rigetto delle strutture di ispirazione democratica da parte delle popolazioni. E, poiché l'esperienza sociale precoloniale era connotata da una forte continuità tra immaginario pubblico e tradizione religiosa, il risultato finale fu inevitabile. La religione divenne un feticcio della lotta politica. Circostanza ulteriormente fomentata dal fatto che il pensiero democratico e liberale si autorappresentava come intimamente, strutturalmente secolarizzato, quindi orientato a escludere la religione e il sapere religioso dalla sfera pubblica. Il vento della democrazia e del costituzionalismo dei diritti importava o tentava di importare in realtà anche modelli della soggettività e categorie giuridiche di ispirazione occidentale. Modelli in molti casi dotati di forte continuità con quelli imposti con la forza durante il periodo di dominazione coloniale. È potuto accadere così che l'importazione dell'etica della secolarizzazione e del suo plafond culturale di matrice cristiano-occidentale abbia innescato in quei paesi derive fondamentaliste su base religiosa, tradizionalmente invece estranee alla loro tradizione. La responsabilità del prodursi di questi fenomeni non va ricercata nella secolarizzazione in sé e forse nemmeno, o comunque non esclusivamente, nell'utilizzo strumentale degli ideali democratici e umanitari da parte delle multinazionali del guadagno al fine di garantirsi il controllo dei mercati (... e non solo) dei paesi ex-coloniali. Alla base dell'antagonismo politico, prodotto dai tentativi di secolarizzazione democratica, va riconosciuta probabilmente la continuità tra le forme istituzionali ed etiche coestensiva ai modelli di secolarizzazione della vita pubblica e la tradizione culturale cristiano-occidentale. Attraverso le sue autonarrazioni di marca laicista la modernità occidentale ha spesso occultato i propri debiti con la tradizione etica cristiana. Ora, questa mancanza di consapevolezza è relativamente innocua finché rimane confinata in un contesto che è comunque interno a quella tradizione. Diviene il detonatore di conflitti radicali, invece, quando investe altri contesti culturali estranei. Gli Altri, proprio per la loro differenza di mentalità, sono assai più sensibili nel cogliere la relatività culturale e i nessi di derivazione religiosa di opzioni istituzionali invece reputati razionali, naturali, ovvi all'occhio della ragione e quindi persino universali almeno dagli appartenenti al mondo occidentale. Le strumentalizzazioni politiche, la ricerca nella religione di una fonte di legittimazione alternativa all'etica secolarizzata della democrazia, le lotte per il potere economico e il tentativo di controllo sociale per mezzo di slogan e modelli di appartenenza communitaria hanno fatto il resto. Il parto della combinazione di questi fattori è stato il fondamentalismo e le sue ben note implicazioni sul piano delle relazioni internazionali. Non credo sia un paradosso affermare che l'esportazione della secolarizzazione ha sollecitato la conversione dei conflitti politici e culturali in conflitti religiosi, in guerre di religione a sfondo etnico. | << | < | > | >> |Pagina 357ConclusioneLa metamorfosi in senso multiculturale delle società democratiche occidentali ha modificato profondamente il loro plafond culturale tradizionale. Molte delle categorie e dei dualismi generati dal pensiero moderno rischiano di vacillare, di smarrire il loro contesto di significato a fronte di un simile mutamento epocale. Questo perché il linguaggio sociale si sta trasformando e in parte si è già trasformato. I luoghi fisici e immaginari di dislocazione e manifestazione della soggettività hanno di conseguenza smarrito i propri confini storici. Gli argini, le linee divisorie tra i domini della religione, della politica, della libertà e dell'autorità, dell'area pubblica e di quella privata, della cittadinanza e della coscienza sono sottoposti a un processo di erosione profonda, se non di vera e propria frantumazione. È il cantiere delle democrazie multiculturali contemporanee. Un luogo dove all'ombra delle fastose vestigia del passato prossimo, prima fra tutte quella del benessere economico, è incessante il lavorio, l'avanzare implacabile del nuovo. Molti parlano di post-modernità, di crisi imminente, se non già flagrante, della razionalità politica occidentale, degli ideali del liberalismo e del costituzionalismo democratico.
A dispetto delle possibili apparenze e di eventuali giudizi
a pelle
l'intera trattazione qui presentata è un tentativo di non smarrire
l'eredità, direi anche il patrimonio ideale del liberalismo. Perché ciò
sia possibile tuttavia bisogna guardare in faccia il mutamento, accettarlo per
poterlo controllare. Questo significa che per mantenere la
direzione è necessario acconsentire a cambiare percorso. E se il liberalismo è
la stella polare, la meta in vista, penso che la creazione di
una soggettività interculturale nei diversi circuiti comunicativi,
compreso quello giuridico, sia il percorso alternativo.
Mongolfiere e gattopardi L'approdo a questa conclusione è l'esito di un processo di distanziamento dalle coordinate, dagli abiti culturali della tradizione occidentale, gli stessi che hanno ospitato indubbiamente e sino a oggi le manifestazioni salienti dell'esperienza democratica. Esse sono espressione di un dialetto culturale, di un idioma storicamente e geograficamente collocato e delimitato. Di questa relatività e della connessa limitatezza è necessario prendere atto e cognizione proprio attraverso il confronto con l' Altro, con chi preme alle frontiere e con chi le ha già varcate. Gli ideali democratici e il linguaggio dei diritti non possono essere considerati un patrimonio geloso, da preservare dalle contaminazioni. Il loro universalismo, la petizione di universalità ad essi sottesa, e che li anima, sono intimamente votati all'apertura culturale, alla contaminazione, all'inclusione di chiunque sia altro rispetto a chiunque se ne faccia assertore. Acquisire consapevolezza della relatività dei nostri abiti culturali, a fronte dell'universalismo potenziale degli ideali democratici e del linguaggio dei diritti, equivale un po' a imparare a guardarsi dall'alto. Distanziarsi da sé, dagli schemi usuali di autocomprensione per riuscire a collocarsi nello spazio proprio, effettivo, dell'esperienza storica: è questo il compito preliminare che spetta alla coscienza occidentale. Un compito che va affrontato in silenzio, senza grandi proclami politici, ma piuttosto attraverso un lavoro capillare volto a svelare la propria relatività culturale attraverso l'esame degli abiti di comportamento, delle formae mentis che accompagnano le scansioni della soggettività nel suo manifestarsi quotidiano. Un po', per usare una metafora, come salire in mongolfiera, allontanandosi da terra sommessamente, praticamente silenti per osservare dall'alto senza essere visti, senza alterare almeno in prima battuta gli equilibri dell'esistente. Si tratta di un invito rivolto sia a chi è giurista o si prepara ad esserlo, sia a chi giurista non è. Ed è qui formulato nel convincimento che la multiculturalità non può trovar spazio nel contesto delle società democratiche, e quindi anche in quella italiana, eludendo il confronto con l'esperienza giuridica o illudendosi di non intercettarne la forza conformativa, il potere coercitivo. La proposta di creare un lessico giuridico interculturale è immediatamente consequenziale a quella presa di distanza ed è orientata a fornire un vocabolario per il confronto politico in grado di gestire e integrare democraticamente la diversità culturale. La definizione di una soggettività interculturale, anche sul piano giuridico, è a mio giudizio l'unico modo per far salva la possibilità di elaborare una risposta democratica alla multiculturalità. Una risposta che non neghi in linea di principio la sussistenza e l'effettività sociale di una grammatica giuridica dell'uguaglianza, contraltare e mezzo indispensabile a garantire il pluralismo democratico e la stabilità delle sue dinamiche di manifestazione e sviluppo. Certamente, elaborare un lessico giuridico interculturale è operazione complessa, di poderosa difficoltà e dai confini indeterminati e forse indeterminabili. Ma è appunto un tentativo di cambiare percorso, mantenendo salda la direzione del liberalismo democratico. Un gesto da gattopardi, per usare un'altra metafora, questa volta letteraria; un modo di cambiare per rimanere se stessi, in altri termini una scelta di adattamento. Adattarsi d'altronde è un modo di manifestare l'intelligenza della realtà. E l'adattamento, la capacità di normalizzare il mutamento integrandolo, è una delle cifre cognitive del processo democratico, dell'idea di partecipazione integrata alle decisioni da parte di soggetti sempre mutevoli, ma potenzialmente destinatari di esse.
Le linee guida presentate nel corso della trattazione costituiscono solo
possibili
rotte di navigazione,
sequenze di
segnavia
verso la ricerca giuridica interculturale vera e propria.
Più tecnicamente ho tentato di prospettare una griglia metodologica rivolta a
definire i prerequisiti teorici e costituzionali del lavoro da svolgere.
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