Autore Gianluigi Ricuperati
Titolo La produzione di meraviglia
EdizioneMondadori, Milano, 2013, Scrittori italiani e stranieri , pag. 180, ill., cop.rig.sov., dim. 16x24x1,8 cm , Isbn 978-88-04-62467-7
LettoreLuca Vita, 2016
Classe narrativa italiana












 

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Indice


  7 FANTASTIC VOYAGE

 93 LA PRODUZIONE DI MERAVIGLIA

119 ALCUNE CARTE DELLA COLLEZIONE DI REMΜ
    (riavvolgimento del racconto per immagini)

165 TROPOSFERA

169 LITOSFERA


 

 

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Pagina 9

Succederanno cose fantastiche, poi cose terribili, e fra le prime e le seconde c'è un piccolo aereo. Θ il decimo giorno, il decimo mese, il quattordicesimo anno, il ventunesimo secolo. Tutto è aumentato.

Un piccolo aereo sta per attraversare le Alpi – pochissime le nuvole, quasi nessuna – e all'interno ci sono due persone, un maschio muto e una femmina incantata che guarda al di là del vetro. L'autunno è trasparente. Venticinque minuti fa hanno sistemato sulle orecchie le cuffie antirumore e il microfono dentro cui parlare. Lei.

Un piccolo aereo è partito venti minuti fa dalla pista di decollo di Ivrea, dove scintillano antiche architetture civili. Un piccolo aereo si è lanciato nell'aria, ha preso quota, ritratto i flap, rotto la maglia di bassa pressione, ha puntato verso l'alto. Lui non parla, non ha mai parlato: le corde vocali non funzionano, per difetto congenito. Ma non è indispensabile possedere una voce quando ci sono così tante immagini disponibili, carte da mostrare tutte le volte che è urgente esprimere un concetto o si desidera qualcosa, o è necessario scappare, o comprare, o umiliare qualcuno. O, magari, solo avvicinarlo.

Lui, Remì, guarda avanti, ma anche in basso, lungo un arco che tocca le ginocchia e comprende tutti i pulsanti, gli schermi e ogni singola leva della strumentazione. Osserva il cielo, che è un vertice.

Anche lei, Ione, guarda avanti, ma ogni tanto scruta il cielo dal finestrino alla sua destra. Nessuno dei due volta il capo verso l'altro, per ora. Lei sente nelle cuffie il respiro di lui, un affanno lieve. Lui sente le parole di lei, interrotte da pochissime pause. Parla come un fatto clamoroso.


Un'ora fa un piccolo aereo è stato ispezionato con attenzione da due tecnici che sembravano conoscere bene Remì. Forse perché aveva acquistato l'aereo un anno prima e da almeno tre frequentava la scuola di volo, sempre lì, sempre in orari diversi. Forse qualcuno aveva raccontato ai tecnici chi era e che mestiere faceva. O forse lo sapevano già, come molti altri maschi che lo riconoscono in giro, quando viaggia per tornei. Prima di salire sull'aereo è comparso un pennarello indelebile nero tra le mani di Remì. Lui ci ha giocato, lo ha fatto roteare come se fosse la pala di un mulino, ma lentamente, senza creare effetti ottici. Appena salito lo ha appoggiato. Poi lo ha ripreso in mano, e infine lo ha riposto nel tascone destro del giaccone.

Lei ha occhi attenti, talvolta liquidi, talvolta incapaci di rispondere alla violenza del momento, e la notte precedente è stata, come momento, lungo e violento.

Ione è molto bella - gli zigomi risucchiano il volto in una specie di triangolo o di sfinge, e quando arriva l'estate ogni esposizione al sole porta con sé una leggera colata di efelidi. Ha gli occhi di una principessa egizia. Odia molte cose e ama ascoltare certe canzoni a ripetizione. Adora interrogarsi per minuti interi e solitari intorno a cose come il tema di una canzone, il suo significato, l'occasione da cui è nata, la porzione di realtà della quale è specchio. Dice spesso a qualche amico di odiare le metafore che prendono spunto dai movimenti tellurici: "Questa stanza è un terremoto", o "Sei un vulcano". «"Sei un vulcano" è la peggiore di tutte» dice aprendo le braccia, come se stesse per suonare un gong.

Lui indossa un paio di pantaloni verde scuro, con i tasconi ai lati. Su ciascun fianco è impressa la scritta "Alligator".

Ione non ha mai volato su mezzi così instabili, e tutto le sembra molto pericoloso. Ha iniziato ad aver paura subito, nei primi istanti dopo aver lasciato l'orlo della Terra, quando le ali non riuscivano a trattenere l'istinto di tremare; lei che parla senza sosta ora non dice una parola.

Remì tiene le gambe rigide, i muscoli tesi, le mascelle serrate. Θ un campione di poker, di quelli che sembrano attori o lottatori, maschere e sportivi allo stesso tempo, e si vedono nelle tv in chiaro a tarda sera e sui canali specializzati a ogni ora del giorno. Annoiati o concentrati sulle carte. Gli occhi nascosti da visiere, occhiali, i gesti da attori consumati. Remì è giovane, ma sembra più esperto di tutti i suoi avversari. Guadagna tre milioni di dollari all'anno, e non ha mai dormito più di tre ore e mezzo a notte. Già a quattro mesi si svegliava di continuo. Si riaddormentava. Si risvegliava. Piangeva, si guardava intorno, mangiava, defecava, poi si riaddormentava, ma per poco. A fine giornata il suo bilancio di sonno era davvero magro. Crescendo - e si cresce poco, piano piano, quando non si dorme mai -, aveva scoperto che il sonno è definito "imperativo biologico" da alcuni scienziati. E aveva scoperto soprattutto che dormendo poco avrebbe potuto imparare, fare calcoli, studiare strategie, leggere, guardare cartoni animati, film, fantasticare e scrivere lettere ad amici immaginari, a ogni anno la sua bella scoperta.


Doveva esserci un portentoso segno meno nei micron in cui si svolse la combinazione di seme e ovulo, il giorno in cui i suoi genitori si erano accoppiati. Il figlio che sarebbe venuto avrebbe fatto esperienza di alcune mancanze: saltate le corde vocali, saltato l'interruttore del sonno, si sarebbero determinate diverse patologie secondarie.

Piccolo, pallido, isolato. Per miracolo o per reazione evolutiva gli altri sensi avevano mostrato qualità di adattamento notevoli, proprio come nelle storie di supereroi: oltre alla vista da pilota, ci sentiva benissimo, e questo, paradossalmente, aumentava la distanza dal mondo, la sua parte di vita a parte. Gli altri erano qualcosa da ascoltare, ma nessuno avrebbe mai sentito la sua voce. Remì era rimasto così colpito dalle definizioni mediche dei suoi vari malanni che sul diario di quinta elementare, accanto a nome cognome indirizzo e numero di telefono, aveva segnato "imperatore biologico".


Anche se il poker e il tennis hanno un aspetto in comune - chi guarda i giocatori, in questi sport, rimane perlopiù in silenzio - il poker non è come il tennis. Nel tennis professionistico ci sono stadi gremiti di persone, tutte abbastanza attente, tutte col fiato sospeso, che osservano la pallina muoversi da una parte all'altra. Quando guardi una partita di tennis dentro uno stadio, una finale, per esempio, o anche un trentaduesimo di finale di un torneo importante, con un colpo d'occhio vedi tutti così terribilmente presenti, svegli, e pensi: "Presto, fra qualche ora, le persone radunate in questo posto, in questo preciso istante, si saranno addormentate".

Col poker, invece, hai l'idea esattamente opposta: tutti sembrano semiaddormentati, come i passeggeri di un volo intercontinentale nel mezzo dell'oceano dopo la proiezione di un film, le maschere sugli occhi. Al tavolo verde, pur con le luci e i riflettori e le telecamere e l'attenzione e la tensione, soffia una brezza ipnotica, i gesti si ripetono meccanicamente e i corpi sono per il 70 per cento della loro superficie immobili. Ma le cose non stanno proprio così. Il poker è il contrario del tennis, e tutti i giocatori, l'arbitro, gli astanti, gli spettatori, sono accomunati da un solo credo: il sonno è dannoso. Ma loro, diversamente dagli spettatori del tennis, non si addormenteranno mai, o almeno questa è l'impressione che danno. Ecco uno dei talenti che avevano spinto Remì a giocare a poker.


La mattina, prima di andare a scuola, Remì aveva terribili discussioni silenziose con sua madre, perché puntava i piedi, non voleva tornare in mezzo a quella mandria di compagni orrendi che lo prendevano in giro per le occhiaie - aveva due mezzelune, a nove anni, disegnate con una matita naturale e innaturale insieme. Lo prendevano in giro perché non dormiva, che a pensarci è uno strano modo di divertirsi, ma a nove anni succede questo e altro, e la situazione tende a peggiorare nelle stagioni successive, almeno fino alla fine del liceo.

La madre aveva costruito un impianto retorico tutto suo, a uso e consumo di Remì, una serie di sillogismi che il figlio avrebbe scordato ma che terminavano con la frase: "Il sonno è dannoso", e qualcuno dei compagni di classe avrebbe dovuto vedere, crescendo, l'espressione di questo bambino piccolo e bianco, con due melanzane tagliate sotto gli occhi neri, mentre apriva la bocca come a schioccare una specie di bacio a quella mamma che ogni mattina partiva da Ramsete II e Pitagora per illustrare un teorema indimostrabile e risibile, la cui inevitabile conclusione era che il sonno è la dannazione e la desolazione, ed erano gli altri a doversi sentire in difetto, non lui.

«Siamo noi gli sfigati, noi che dormiamo» aggiungeva talvolta la madre, incurante della prescrizione classica secondo cui non si usano mai parolacce per educare i figli. Ma era un modo di mettersi sullo stesso piano di Remì e dei suoi compagni, per la madre, e forse tutto ciò che desiderava era occuparsi degli sfottò e del bullismo senza sentirsi straziare dentro, senza provare la voglia di uccidere quei bambini uno per uno, tagliando a ciascuno le corde vocali e svegliandoli a ogni ora della notte, loro e le loro famiglie.

Avrebbe voluto contrastarli con quella saggia sospensione di emotività, tipo: "Sediamoci e parliamone", ma nei minuti che separavano le lamentele mattutine del suo bambino dal punto di non ritorno passato il quale sarebbe arrivato irrimediabilmente in ritardo, non c'erano tavoli, o meglio, c'era quello della colazione, ma ogni discorso suonava frettoloso e appiccicoso, e suo marito era già andato via, e c'erano pantaloni da far indossare, scarpe da appaiare, la casa da percorrere nella sua lunghezza per non far rapprendere il latte sul fuoco, e qualche banconota da togliere dal portafoglio per lasciarla alla donna delle pulizie, quindi non potevano sedersi intorno ad alcun tremendo retorico: "Discutiamone".

Il suo bambino puntava i piedi aggrappandosi al letto dei genitori come una vela, come se dovesse impedire al vento di portarlo lontano da lì, e sudava e batteva i tacchi contro le assi rovinate del parquet, e lei avrebbe tanto voluto che il tempo si fermasse e una voce quasi angelica intonasse "mmm" e "sleep tonight", e al termine della canzone il suo bambino avesse la propulsione galattica di andare e schiaffeggiare il programma scolastico, le fanciulle, i fanciulli, la maestra, e prendere note su note.

Invece stava lì, bloccata da una volontaria interdizione ad agire che le faceva nascere lacrime da rigettare all'insù con effetto immediato, e l'unica scelta diventava inginocchiarsi e allacciargli le scarpe, rischiando di farsi pizzicare la pelle già stanca della mano tra il metacarpo e la suola, mentre sosteneva che Ramsete II avesse illuminato a giorno il palazzo dei faraoni anche la notte, per far fruttare meglio il tempo della sua vita, e che Pitagora non dormisse mai (non era esattamente vero); poi veniva una serie arguta di connessioni e ragionamenti, sempre gli stessi e sempre con minime variazioni – perché con i bambini l'arte è tutta nel cambiare qualche millimetro a ciascun centimetro – e infine giungeva la fatidica frase, «Il sonno è dannoso», che chiedeva di ripetere insieme come un salmo responsoriale o un canto delle pie donne da recitare all'infinito: «Il sonno è dannoso, mamma», con i piedi che pian piano puntavano meno sul legno e la presa che mollava le lenzuola, e un breve incontro di sguardi di fuoco. E poi: «Il sonno è dannoso, ma anche il ritardo, big boy, andiamo» e in meno di cinque minuti e trenta secondi si ritrovavano entrambi in garage, nell'immenso reticolo di travi di cemento grezzo, "brutalista", aveva letto lui in qualche ricerca notturna sull'architettura della casa in cui abitavano, progettata e costruita all'inizio degli anni Settanta, quando quello stile veniva regolarmente apprezzato e pagato dalla critica, dalle università, dai pianificatori e dai costruttori. Per chi ci andava a vivere, solo un'occhiata veloce ogni mattina, la trama di un'abitudine, e l'aggettivo che non ti aspetti strappato dalle pagine di un'enciclopedia Larousse fra le dita di un bambino senza voce.

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Pagina 25

L'uomo che per primo lo aveva introdotto al gioco delle carte - giochi innocenti e sterili come scopa, rubamazzetto, scopone scientifico - era il marito della tata che lo guardava e gli preparava da mangiare quando i genitori non c'erano. Durante l'anno scolastico ovviamente la tata era sempre a casa di Remì, ma quando arrivava l'estate, soprattutto a giugno e luglio, i due lo ospitavano nella casa di campagna dove abitavano, in quell'area che si definiva campagna ma nel giro di una vita sarebbe diventata periferia.

L'uomo che gli spalancò un mondo si chiamava Luciano, era alto un metro e ottantanove e possedeva un cranio rugoso e calvo che lo rendeva tanto simile, agli occhi di Remì, a Telly Savalas, quell'attore americano che dalle tv dell'epoca, profonde e lente come il tubo catodico ospitato, recitava - con voce profonda, ammonitoria - «Please, don't smoke, just, don't smoke». Telly Savalas era anche la faccia di Kojak, e aveva un cancro alla prostata causato dal fumo, anche se a Remì era sempre piaciuto pensare che fosse alle corde vocali, perché aveva già sette o otto anni ed è l'età in cui si comincia ad avere maggior consapevolezza di se stessi e si paragonano le proprie sfortune prendendo a modello conoscenti o sconosciuti, personaggi famosi e gente comune.

"Almeno lui ha parlato nei film" aveva scritto su un foglio con grafia incerta, mentre la tata, una signora che allora avrà avuto almeno sessant'anni, lo guardava interrogativa raccogliendo i cocci di un vaso che il bambino aveva lanciato contro il televisore.

Era sempre abbastanza calmo, ma di tanto in tanto soffriva di questi eccessi d'ira, e sua madre aveva consigliato alla tata - che si chiamava Mariuccia - di costringerlo a spiegare il gesto appena compiuto, ancor prima di scusarsi, perché mentre quest'ultima azione era poco amata da qualunque ragazzino al mondo punito per una marachella, la prima - mostrare al mondo la natura esplicita della propria difficoltà, della ferita del momento - era il suo speciale problema, e andava risolto con grazia. Remì, senza particolare grazia, aveva l'abitudine di tirare le cose, come gli infanti di dieci mesi o un anno e mezzo, anche se lui ne aveva sette o otto.

Lanciava soprammobili, lampade, piatti, scarpe. Lo faceva di rado, d'accordo: ma implacabilmente, senza mai imparare a controllarsi davvero, perché prima di riuscirci ci avrebbe messo dieci anni, almeno, e in tutto quel tempo puntellato da cocci, in quasi ogni giorno di quelle lunghe stagioni granitiche, la tata Mariuccia sarebbe stata lì, intessuta di pazienza, a raccogliere i pezzi e farsi scrivere le ragioni più assurde dietro le lettere delle bollette.

«Poi le cose rotte le paga la Signora», la chiamava così Luciano, "Signora", mentre Mariuccia la chiamava "Dottoressa", perché era laureata. Luciano era sempre stato distante dal nuovo lavoro di Mariuccia, che era andata in pensione a cinquant'anni, lasciando un impiego di segretaria d'azienda che non l'aveva mai appassionata. Remì l'appassionava, invece, anche se naturalmente lo faceva per i soldi, ma tra lei e il marito era sempre lui quello che spingeva per truccare i conti della spesa e ottenere rimborsi per ogni singolo danno: lei pensava alle stesse cose, ma aveva sempre davanti il bambino. Lui ebbe il bambino davanti soprattutto da un momento in poi, la sera in cui iniziò a giocare a carte.

Prima di allora Remì era la ragione-per-la-quale del loro aumento di reddito, visto che alla pensione di Luciano e a quella di Mariuccia si erano aggiunte le quasi novecentomila lire che la mamma di Remì consegnava in una busta ogni 27 del mese. Era un lavoro che oltretutto distoglieva Mariuccia dalle conseguenze pesanti delle sue frequenti cadute in stati depressivi inspiegabili: avevano tutto, pensava Luciano, in quei primi anni Ottanta, dall'alto del loro status di maturi ex impiegati ai quali lo Stato provvedeva in toto. Avevano il solarium una volta al mese. Avevano i nuovi canali televisivi privati e ogni mese le più diffuse riviste di cucito e motociclismo in casella, più l'abbonamento a "Cosmopolitan", che lui le aveva regalato per Natale compilando personalmente il tagliando e mettendosi d'accordo col postino perché il plico venisse infilato senza danni entro la fessura non proprio ampia della buca, giù in androne. Avevano due figli che non li inondavano di problemi: la maggiore si era appena sposata ed era emigrata in Francia, mettendosi con un ispettore di polizia che assomigliava tanto al signore di Magnum P.I. Lui insegnava "palestra", così diceva per risparmiare sulle preposizioni, e grazie al suo lavoro i genitori avevano ottenuto degli ingressi gratuiti al solarium.

Avevano i soldi per la casa delle vacanze in montagna. Certo, ogni estate avevano questo bambino muto, non particolarmente adatto alle camminate e agli sport, ma una seccatura – intrattenere una fonte di reddito insonne, ogni fantomatica sera estiva, anno dopo anno – divenne un gioco, per Luciano, più eccitante delle bocce.

E nelle bocce, Luciano, era un campioncino: serio, non rideva né scherzava mai con i compagni, ognuno il proprio borsello di pelle, le suole modeste che scalciavano contro il tessuto di ghiaia del campetto rettangolare, delimitato a destra e sinistra da una rete verde scuro. Le sfere di metallo, lucide e bronzee, roteavano oppure si lasciavano accompagnare dall'effetto della gravità, lanciate da gesti che facevano quasi sempre un arco, o una mezza parentesi graffa.

Gli anziani puntavano a misteriose traiettorie, attendevano in silenzio il clangore secco delle bocce, una contro l'altra. Era il massimo della competizione che potevano permettersi, e per i più longevi sarebbe stato così per decenni. Ma tutti, fra un lancio e una misurazione, aprivano le pagine di un quotidiano, chiacchieravano, gridavano qualcosa alle mogli sedute al di là della rete, o discutevano del pentapartito. Solo Luciano, diritto e militare, pur non avendo mai combattuto in guerra, restava sempre concentrato come un arbitro, senza possibilità di distrarsi. Ogni tanto interrompeva i compagni con frasi come: "Calma e sangue freddo", oppure: "Ehi, socio della birra, cosa credi di fare, quella boccia è fuori".

L'altra passione di Luciano erano le carte, ma visto che non si può insegnare subito a un bambino scala quaranta o burraco, aveva promesso a Mariuccia che avrebbero cominciato con giochi semplici. Gli amici delle bocce non coincidevano perfettamente con quelli delle carte, anche se c'era un sottoinsieme di persone che partecipava a entrambe le sessioni – quella pomeridiana all'aria aperta e quella serale, dopo cena, condita di superalcolici, pause per prendere le medicine, in certi casi dolcetti o frutta secca, e sigarette.

Durante gli incontri serali Luciano si comportava come alla pineta, dove c'era il centro sociale del paese, con una competitività repressa e un eccesso di controllo – sopracciglia tese, bocca quasi sempre serrata, si potevano immaginare i denti strisciare nella tensione. A Remì tutto questo piaceva, quando si svegliava e spiava le scene di gioco che si svolgevano in cucina, in mezzo ai pifferi suonati dalle zanzare sotto la luce: Luciano rappresentava per lui una strana specie di "pari". Come nelle storie del ciclo di Artù che guardava in tv e poi leggeva sui libri che la mamma si raccomandava di amare più e meglio dei cartoni animati, anche la tavola rotonda di Remì non contava molte persone, a parte i genitori, qualche medico appassionato e l'insegnante di sostegno. Mai un coetaneo, visto che nonostante i ripetuti tentativi di affiancarlo ad altri pazienti nelle sue condizioni la volontà di Remì era sempre stata forte e chiara: "Voglio solo adulti intorno a me" aveva scritto sulla lavagna di una psicologa infantile con cui si era incontrato un paio di volte.

Lei ne aveva discusso con la mamma e il papà, e naturalmente aveva cercato di parlarne con Remì, ma lui le opponeva solo un no con la testa: "Voglio solo adulti intorno a me", come se non fosse abbastanza esplicito. Era un ordine, non una richiesta. E Luciano, che compiva settant'anni nell'estate in cui gli insegnò a giocare a carte, che teneva sotto controllo la moglie, gli altri giocatori al tavolo, i compagni di bocce, i vicini di casa, e non sorrideva quasi mai e non sviava mai dalle poche frasi sempre uguali e sempre ripetute in variazioni minime, proprio come un vecchio isterico con qualcosa da insegnare, ecco, Luciano lo attraeva molto, perché era tutto l'opposto dei bambini che aveva intorno.

«Il fante vale otto.»

Remì annuiva.

«La donna vale nove.»

Remì annuiva e segnava.

«I sette sono preziosi, ma il sette di quadri più degli altri.»

Remì annuiva e disegnava un rombo con un sette dentro.

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