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| << | < | > | >> |Pagina 9Quando ero un bambino, all'Isola, i giorni di festa venivano annunciati dall'Alborada. Alle prime luci dell'aurora dalle dita rosate, così ci insegnavano a chiamarla a scuola, Orazio il sacrestano accendeva dei razzi colmi di polvere nera. La miccia era corta e grezza di canapa. I botti risuonavano senza calore e senza fumo, secchi, puntuali. Uno dopo l'altro, come i grani del rosario, che le vegliarde recitavano durante le funzioni del Vespro, nel freddo della chiesa di San Noè.Il paese viveva della pesca sanguinosa e della conservazione faticosa dei tonni, argentate mandrie dell'azzurro mar Mediterraneo, ed era troppo piccolo, poche case allungate sulle rocce del porto, per non svegliarsi di colpo all'Alborada. La prima esplosione faceva saltare tutti sotto le trapunte colore del sale, ricamate la sera dalle nonne. Gli altri colpi si infilavano nelle orecchie rapidi, ma nessuno brontolava. Non c'era pesca quel giorno, reti da cardare o arpioni da affilare come rasoi per colpire le pelli blu e le carni rosse dei tonni. Per le donne non c'era fatica di panni da lavare e torcere alla roggia e bambini da mandare a scuola, sperando che il buco nella scarpa non diventasse troppo grande prima della mattanza, prima che la foga selvatica dei tonni pagasse per la nostra vita di un anno. Quando i colpi esaurivano la raffica pirotecnica, Orazio slegava le campane e le sfogava in tocchi brevi nell'aria limpida ma ancora grigia. All'ultimo rintocco ci si rigirava, gli uomini distesi e le donne già predisposte ad accendere il focolare per un caffè, almeno quando se ne aveva, altrimenti orzo o infuso di cicoria amara. C'era, tra Alborada e i primi risvegli, una zona felice di Purgatorio, di attesa. Certi che il giorno della festa fosse arrivato e promettesse, come in Leopardi, riposo e gioie effimere, sospesi in una terra di nessuno, un'aria libera dalla prigionia dei doveri, delle corvée, del lavoro. Il paese attendeva il futuro, non ancora desto ma ammonito, vezzeggiato, come le mamme con i figli assonnati, - Svegliati, torno tra cinque minuti con il caffellatte. Solo io non dormivo più all'Alborada. Al primo scoppio schizzavo fuori dalla trapunta e mi schermavo dalla guazza con una cerata gialla. Correvo. Correvo per i viottoli selciati e deserti, il cuore mi pompava gonfio contro lo sterno e le costole smagrite. Volavo sulle reti colore della rafia cruda, passavo a un palmo dagli arpioni e dalle ancore rugginose. Saltavo da una bitta all'altra in equilibrio sull'acqua gelata del porto, lasciavo scorrere la mano lungo il nero cancello sonoro della scuola scivolando sui ciottoli davanti alla Tonnara grande, l'edificio giallo di tufo che deteneva la nostra vita e la nostra fortuna. Puntavo verso San Noè e dietro di me, sulla collina dell'Impisu, l'impiccato, dove si levava la forca al tempo dei turchi saracini, le capre brucavano l'erba croccante di sale. Raschiavo le zolle ruvide, mi sbucciavo le ginocchia sui lastroni del mercato e imboccavo la collina, planando come un gabbiano felice sul sagrato di San Noè. La mia sfida era semplice. Attraversare il paese, partendo al primo botto e inginocchiarmi sotto la paterna figura di san Noè prima che l'ultima miccia di Orazio chiudesse l'Alborada. Arrivato, pregavo che il patrono dell'Arca, custode per quaranta giorni e quaranta notti della nostra specie e di tutte le varietà di piante e animali, intercedesse anche per me, la mia famiglia e il villaggio. Quale grazia chiedessi, non so dire. Neppure bene capivo quella parola, intercedere, ma mi sembrava che la mia corsa folle e infantile, allo scoppio dell'Alborada, fosse un rito essenziale, sacro, da ripetere ogni anno. Orazio scendeva bofonchiando da vecchio solitario e mi scorgeva sul sagrato, - Anche stavolta? Sei proprio matto tu. Hai pregato? Bene. Ora torna a letto. Non lo ascoltavo mai. Orazio mi girava le spalle cadenti e rientrava in chiesa ad allestire l'altare. Io aspettavo che il cuore mi si sistemasse nel petto e mi avviavo passo passo verso il molo. Là un raro branco di pesci volanti, libellule frenetiche, batteva le onde con la stessa energia che io mi sentivo liberata nell'anima. Avevo adempiuto al voto, alla mia richiesta di grazia sconosciuta. Mio padre era scomparso al largo dell'Oceano Indiano, inghiottito dalle onde con un carico di tappeti arabi, e mia madre viveva con la pensione, tra i poveri dell'Isola non stavamo tra gli affamati. Papà mi aveva lasciato in eredità i libri del nonno, luogotenente di Garibaldi nella Liberazione d'Italia. Almanacchi navali, atlanti, cronache delle gesta militari delle Camicie Rosse, in America e in Europa. Io li leggevo e leggevo. Sapevo, solo per quelle ore, solo durante la mia attesa al molo, dopo l'Alborada e prima che il paese si svegliasse, come sarebbe stata la mia vita. La scuola e la gioventù. Una ragazza con il pullover azzurro e i capelli sulle spalle, passeggiare sulla spiaggia e una chitarra dal balcone, con le nenie che i nostri uomini avevano imparato in Spagna. L'amore e la felicità e la tenerezza. Può un bambino immaginare la vita con gli occhi di un adulto? Crediamo sia impossibile, non è vero? Releghiamo non solo i bambini di oggi, ma noi stessi da piccoli, in un perenne asilo d'infanzia, come se giocattoli e illusioni fossero tutto. E invece no, o almeno non è così per noi che crescemmo all'Isola. Io avevo ben chiaro, nella mia fuga tra gli scoppi sonori dei razzi e i rintocchi bronzei delle campane, cosa volevo dalla mia vita. Non mi importava solo della gloria, dei viaggi, delle imprese costanti e miracolose che avrei compiuto sulle acque tropicali, vendicando il naufragio di mio padre. Le avventure le davo per certe, appannaggio sicuro degli eroi che campeggiavano, rutilantí di colori, sugli album popolari. Lo sdegnoso Cesare rapito dai pirati, il generale Desaix nell'ultima carica a Marengo, mio nonno che preparava il caffè a Garibaldi e lo precedeva indolente sotto il fuoco borbonico, - Generale, era buona la miscela di stamattina? - Manes, se non fai attenzione a quei moschetti, domattina non me ne prepari un altro. Manes è il mio cognome, Giovannino è il mio nome, ma tutti mi hanno sempre chiamato Nino, Nino Manes, un uomo che, ne ero certo guardando le onde fragorose del giorno di festa, avrebbe segnato di sé la Storia. E con la fama volevo anche l'amore. L'idea che un bambino poteva avere della passione erotica non andava allora oltre le battute salaci degli anziani che tiravano su dal marciapiede mozziconi sogguardando una candida sposina o i baci umidi di qualche diva platinata di Hollywood. Bastavano quelle emozioni al mio cuore e alle mie fantasie. Avessi saputo disegnare come mio padre, le sue albe sull'oceano brillavano in olio, appese al capezzale del letto, avrei tracciato con mano ferma il volto della mia amata a venire. Ecco le labbra rotonde, gli occhi morbidi e dolci, gli zigomi appena segnati, ecco il sorriso lieve e la fronte, coperta dalla frangia come usava fra le ragazze da marito. La vedevo sempre con il golf azzurro, di notte in riva al mare e sentivo nelle orecchie una canzone in voga, "Lungo le spiagge deserte a piedi nudi con te...". Il cuore mi picchiava come un passero becchetta la graniglia, l'amore e il futuro erano quella maglia colore del cielo e quella ragazza viva solo per me: ma quanto viva!
Tornavo a casa umido, sbandato, come se avessi speso
la mia prima, acerba, notte di nozze. Mamma mi dava un
uovo battuto con lo zucchero e il marsala, mio padre aveva
lasciato una scorta del liquore, SOM, diceva l'etichetta
nera di china: Superior Old Marsala. S'era rassegnata,
povera donna, alla mia scorribanda, e credo si sarebbe
stupita se l'avessi mancata una sola volta.
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