Copertina
Autore Gianni Riotta
Titolo Principe delle nuvole
EdizioneRizzoli, Milano, 1997, La Scala
LettoreRenato di Stefano, 1997
Classe narrativa italiana
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al sito dell'editore








 

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Pagina 11 [ inizio libro ]

PROLOGO
«"Una sola grazia chiedo a Dio: aver comandato a Waterloo la mia ultima battaglia. Dover sempre combattere è un destino terribile. In guerra, gridando gli ordini, mi dimentico dei sentimenti. Cessato il fuoco, comincia l'angoscia. L'anima e la ragione si usurano, impossibile pensare alla gloria. Nel momento della vittoria, mi smarrisco. Mi creda, dolce amica, con l'eccezione di una battaglia perduta, la più grande disgrazia che possa capitare agli uomini è una battaglia vinta. Io spero di non dover combattere. Mai più". Così confidava Arthur Wellesley, il primo duca di Wellington, a Lady Shelley, trenta giorni dopo la battaglia decisiva vinta contro l'imperatore Napoleone Bonaparte a Waterloo, il 18 giugno 1815».

Il colonnello Carlo Terzo sospese la lettura e alzò lo sguardo al sole, aspettando una risposta. Ma il tenente Amedeo Campari, piedi ben piantati sulla sabbia della spiaggia maremmana, guardava in silenzio l'orizzonte del mare e tirava di fioretto contro l'infinito. Nel balenare di luce della lama, il libeccio piegava la cima dei pini, rovesciando sulla riva bianche ondate di spuma. Mancava un quarto a mezzogiorno del 27 maggio 1940.

Mischiando le pagine del manoscritto come fossero carte da gioco, il colonnello Terzo provò a leggere un secondo aneddoto: «Alla vigilia dell'attacco per liberare Pavia, assediata da Francesco I, il 21 febbraio 1525, Fernando d'Avalos, il marchese di Pescara, studia gli ordini da impartire alla fanteria spagnola. ...

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Pagina 35

... Sotto un cielo così hanno combattuto Scipione a Zama-Naraggara e il bravo duca d'Aosta all'Amba Alagi. Un colore nitido, che definisce le rovine alla perfezione, come se fosse stato il cielo, e non l'esplosivo, a crearle. Un colore esigente. Viverci dentro ti costringe al rigore, alla fatica di capire. Io ne ho paura. Paura che questa luce senza ombre mi mostri le inutili rovine della mia vita, con la stessa crudeltà con cui rischiara i mattoni di tufo rovesciati al Cassaro. Ci sono là imprigionati, mi ha spiegato la signora Astraco, putti e angioletti barocchi con le ali spezzate insieme a vetri piombati, pentole, libri e cadaveri. Quando il caldo s'è fatto asfissiante, ai militi dell'Unpa, la protezione antiaerea, non è rimasto che seppellire i poveri cadaveri, colando calce viva dentro le macerie. Come a Visby. Il piano di guerra errato che Ciano teneva nella sua cassaforte, quella notte del 40, conduce a questi mattoni spezzati nell'azzurro. Ho provato a suggerirgli che andare in guerra a quel modo era pazzesco. Gli ho detto di Clausewitz, della sofferenza, ma non mi ascoltò. Potevo urlare, implorarlo, farmi sentire. Invece ho giocato con i soldatini di Marengo, davanti alla povera Emma. E quando mi decisi a spiegargli che cosa vuol dire combattere e soffrire, era troppo tardi. Non ho mai sentito questo turbamento in altre città. Solo qui, dove mia moglie muore, in una città che io non conoscerò. Anche il piano strategico della mia vita è errato. Pensavo di poter tutto prevedere e capire, di rendermi invulnerabile al dolore e al Fato, con lo studio della guerra. Ora la mia guerra è perduta ed Emma malata. Io non ho neppure combattuto, né mai lo farò. Il destino mi ha svelato i segreti della vittoria, senza concedermi di combattere. E mi ha così spezzato e rivoltato al sole, come i mattoni gialli delle case".

Giù al porto prese a manovrare una nave da guerra americana, dipinta di grigio, a prua la stella bianca. Terzo entrò nello studio, aprì un cassetto dello scrittoio e prese un binocolo tedesco da marina, regalo di Campari. Dalla terrazza cercò di decifrare il modello della nave e i suoi armamentí. Lo strumento era formidabile, Campari l'aveva vinto a poker al tenente Nicolas Walter, un cattolico tedesco che avrebbe poi riscontrato a Stalingrado. Terzo distinse i marinai in divisa candida, i cannoncini protetti dai teloni impermeabili, poi si distrasse e prese ad ispezionare il mare fino all'orizzonte. Il vento era caduto e le strade fantastiche disegnate dalle correnti diventavano per lui i crocicchi della città d'acqua.

"Se il mare fosse un magico campo di battaglia", pensava Terzo, "ora sorgerebbero due eserciti, uno fronteggíando l'orizzonte, l'altro la città. La corrente che viene dal Capo Gallo sarebbe un fiume e il generale Orizzonte la sceglierebbe per appoggiare il suo fianco destro. Il generale Città eleggerebbe come costone di resistenza l'Isola delle Femmine, per far affluire le riserve lungo la corrente salmastra giù in fondo. Poi la battaglia. Dai bassi fondalí della laguna, la prima carica. La schiuma delle onde è il fumo dell'artiglieria".

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Pagina 55

«"I principi della strategia sono:

«1. Riunire le forze

«2. Individuare la forza principale del nemico

«3. Batterla

«4. Costringere il nemico ad accettare le nostre condizioni, fino ad occuparne il terreno". Cosi si esprimeva Napoleone Bonaparte, considerato da molti, anche se non da me, il maggiore stratega della storia. E così tu ti aspetteresti che io cominciassi la mia lezione. Non è vero?».

Salvatore Dragonara guardò il suo nuovo maestro, vide una rondine passare a falce nera sulla terrazza e non rispose: non si aspettava nulla, ma gli parve educato annuire. Con un piccolo inchino, Terzo riprese: «E invece no. Invece la mia prima lezione di storia e critica della strategia sarà semplicemente farti ragionare, come facevo con gli allievi dell'Accademia, su "Vincere o morire? Il caso nella strategia classica". Perché i principi veri della strategia sono diversi da quelli esposti da Napoleone. I due soli cardini della strategia e della battaglia sono le domande: "Perché si vince?" e "Perché si viene sconfitti?". O meglio le infinite risposte che cerchiamo di dare a questi interrogativi. Nella tua vita quotidiana, così come nella più feroce delle battaglie, Hastings, 14 ottobre 1066, Omaha Beach in Normandia, 6 giugno 1944, noi possiano rintracciare dettagli invisibili a prima vista, eppure chiarissimi se studiati con attenzione, che ci spiegano come si vince e come si perde, quanto effimero sia il confine tra vittoria e sconfitta e come, per un nulla, lo si attraversi. Grandi vittorie sul campo si sono tramutate in altrettante sconfitte, perché si può sempre impugnare una condizione disperata, trasformandola in forza. Sei pronto?».

Dragonara apri un quadernetto nero, le prime pagine già fitte di righe e sospirò.

«Bene», disse Terzo perplesso. Non era ancora riuscito ad attrarre l'attenzione dello studente. In Accademia, di solito, tutti drizzavano le orecchie il primo giorno, convinti di diventare in fretta Alessandro Magno. Ma quel ragazzo era rimasto freddo. «Ogni battaglia contiene un simbolo», spiegò allora, deciso a conquistarlo, «e tocca a noi riconoscerlo. Tu sai come si vince, in guerra o nella vita?».

«Nossignore. Non ne ho idea».

«Adattandosi alla realtà in modo intelligente e audace, ma soprattutto, al momento cruciale, osando una manovra originale. Una manovra che il nemico non sa immaginare e i tuoi soldati non si sognano neppure, una manovra, bada bene Salvatore, che anche tu, partendo per la guerra, non avevi in animo di saper compiere. Batti il nemico se batti te stesso, se ti superi, rivelandoti paziente, saggio e tenace. Soffrendo come mai avresti pensato di riuscire a soffrire. Morale, ecco la parola. Considera il caso di Alessandro alla battaglia di Arbela-Gaugamela. Due anni prima, ad Isso, nel 333 avanti Cristo, Dario s'era fatto stringere da Alessandro in un campo angusto, riportando una rovinosa sconfitta. Proviamo a ragionare come lui. Ricordati: in guerra vince chi pensa di più e più in fretta, chi riesce a pensare come il suo avversario, fino a guidarne i comportamenti. Si vince conquistando il cervello del nemico, non il suo esercito, come reputava Hitler.

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Pagina 90

«Dimmi dunque», chiese Terzo a Salvatore mentre a pochi passi da loro Emma raccontava a Fiore di una sfilata di moda all'atelier Bresson, prima della guerra, «che cosa hai trovato sul tema difensiva-offensiva che ti ho assegnato?».

«Mi sono preparato sulla battaglia degli Speroni d'oro», rispose Dragonara un po' deluso: sperava di passeggiare in pace.

«Sentiamo», approvò Terzo, pensando "Esempio ben scelto, il ragazzo detesta la guerra, ma ha cervello".

«Il 18 maggio del 1302 i villaggi delle Fiandre si ribellano contro Filippo IV detto il Bello. Per soffocare la rivolta, il conte di Artois raduna una formidabile schiera di nobili cavalieri francesi e di fiamminghi fedeli al re e ostili alla rivolta della borghesia locale. Li appoggiano mercenari genovesi armati di balestra e squadroni di cavalleria tedesca. L'11 di luglio l'esercito reale si avvicina a Courtrai ... ».

«Conosci il nome fiammingo della città?», chiese Terzo, subito assorbito nel racconto.

«No».

«Kortrijk. Va' avanti».

«I fiamminghi si schierano sotto il comando del conte Guy de Dampierre. Tra loro non ci sono soldati, cavalieri e nobili, ma artigiani, filatori, vasai, conciapelli. Molti reggono la lunga alabarda ... ».

«Detta?», incalzò Terzo.

«"Goedendag"», stavolta il ragazzo era pronto, «i cavalieri francesi scrutano la marmaglia e ridono. Sono certi di mettere in fuga quei rustici, con poche cariche...».

«Perché?».

«Dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente e le invasioni barbariche, la supremazia passa dalla fanteria, che aveva assicurato, con la falange e la legione, le vittorie ad Alessandro e Cesare, alla cavalleria. Per tutto il medioevo, i cavalieri dominano sui fanti, considerati poco più che servitori sul campo di battaglia. Il fante, male armato, peggio nutrito, ignorante, non può che scappare quando il cavaliere, smagliante nell'armatura d'acciaio, lancia in resta e piume al vento, carica ventre a terra, benedetto dal re e dalla Chiesa».

«E allora?».

«A Courtrai però, Guy de Dampierre ignora la tradizione favorevole alla cavalleria ... ».

«Benissimo».

«Si adatta alla situazione ... ».

«Perfetto».

«Trasforma la propria debolezza in forza e la potenza dell'avversario in difficoltà».

«Magnifico!». Terzo era così entusiasta del suo pupillo che assestò un calcio a una lattina di pelati, mandandola in un fosso circondato da cespugli di papiro. Svegliate, le rane gracidarono in coro.

«Guy de Dampierre ha venticinque anni, e viene da una famiglia aristocratica. Suo padre, il conte Dampierre, è stato imprigionato, per rappresaglia, da re Filippo. Guy prende la testa dei ribelli, rivelandosi stratega eccelso».

«Tattico intelligente», ridimensionò Terzo.

Il ragazzo tenne duro: «Stratega, colonnello, perché Guy mette la strategia militare al servizio della politica. E, se permette, glielo dimostro».

Terzo lo guardò perplesso: «Dovresti preoccuparti: cominci a ragionare come me».

«Guy sa di non potere affrontare, in campo aperto, il fiore della cavalleria francese, rabbiosa per l'affronto della rivolta, con i suoi lavoratori armati di picche, pena la fuga e il massacro. Nelle battaglie dell'antichità si muore durante la rotta. Incrinato il fronte, comincia la carneficina. Da qui l'importanza della ritirata ordinata, alla Socrate che, alla battaglia di Delo, arretra con un gruppo di compagni armati, scappando, ma decisi a difendersi se attaccati».

«Non scantoniamo», lo corresse Terzo le cui lezioni erano un continuo divagare da un soggetto all'altro e che ora riconosceva il suo stile nell'allievo.

«Mi scusi. Guy dispone i suoi volontari lungo i canali della zona. Il conte di Artois è convinto che il solo apparire degli illustri cavalieri, tra il castello di Courtrai, il monastero, il torrente Groningen, il fiume Lys e il reticolo di canali che li collega, basterà a far fuggire i borghigiani. Nella sua albagia non si accorge che i fiamminghi ribelli si schierano ad angolo tra la roccaforte e il fiume: protetti sì dal Groningen sul davanti, ma con alle spalle le acque turbolente del Lys...».

«Che cosa dovrebbe dedurre l'Artois da questa posizione?», chiese Terzo.

«Uomini che si dispongono in battaglia accettando di non avere una linea di ritirata sono disposti a vincere o morire. Quando si combatte con un fiume alle spalle, vedi i sovietici a Stalingrado, sul Volga, nell'autunno e inverno 1942-43, ci sarà resistenza accanita. I ribelli sanno che per ottenere la libertà, devono vincere una battaglia campale. Davanti a una ritirata, i monarchici avrebbero prima devastato le campagne, poi espugnato le città: Bruges, ricorda il Delbriick, era scarsamente fortificata ... ».

«La politica dopo: adesso guardiamo alla battaglia». Ma Terzo era impressionato "Ha compreso con facilità che la storia militare è indispensabile allo studio della politica. Magari riesco a fargli intravedere anche il legame con la nostra vita e a illustrargli il mio metodo", si disse.

«I fiamminghi si dispongono su un fronte molto fitto di armati ... ».

«"Acies longa valete et spissa..."», citò Terzo dagli antichi Annales Gandenses, «Traduci Fiore, questo tocca a te»: almeno un po' di esercizi di latino riusciva così a contrabbandarli.

«Una linea di battaglia molto lunga e spessa», recitò la duchessina, tenendo Emma sottobraccio.

«"Pariter adunati et densati lanceis adiunctis..."».

«Tutti gli uomini vicini, gli uni con gli altri, le picche alzate insieme ... ».

«"Brugenses unam solam fecerunt armatorum aciem praemittendo balistarios deinde bomines cum lanceis et baculis ferratis alternatím postea reliquos..."».

«Gli uomini di Bruges si raccolsero in un solo schieramento, mettendo davanti i... come si dice "balistarios"?».

«Balestrieri».

«Sì, grazie: dunque gli uomini di Bruges si raccolsero in uno schieramento, mettendo davanti i balestrieri e, a scacchiera, sul retro i fanti armati di lancia e di picca...».

«Cosa volevano ottenere con questa formazione?». Un filobus passò davanti a Terzo, e lui non vide le scintille blu che cascavano dalle antenne incatenate ai cavi elettrici. Era a Courtrai, in quella mattina di battaglia, la nebbia calda che sale dai canali, gli aironi circospetti su una zampa, messi in allarme, a volo breve, dal muoversi degli armati. I cavalieri fiduciosi pestano il fango sotto gli zoccoli dei cavalli. I nobili comandanti caracollano in testa. Il conte di Artois, veterano di sei battaglie, vuole umiliare i cafoni ribelli e dar lustro al re. Per la prima volta i borghigiani dicono a un monarca assoluto "Vogliamo fare a modo nostro". Un pugno di vasai armati di picca, si accinge ad affrontare la carica di nobili paladini, il fiore della cavalleria, erede delle "Canzoni di Gesta", rampolli di Orlando e Rinaldo. "Cosa c'è nel loro cuore?", si chiese Terzo, attraversando la strada, "Cosa pensano mentre stringono in pugno le "goedendags"? Come hanno intrisa di paura l'anima, davanti alla cavalleria, e come di umile coraggio, nel restarsene in attesa, tra le rane e le gru, alle spalle l'acqua del fiume?".

Dragonara riprese: «Guy assegna la retroguardia a un nobile che s'era unito ai ribelli, Johann von Renesse ... ».

«No, no, no», lo interruppe Terzo, riscuotendosi e tornando ad ascoltarlo, «non hai risposto alla mia domanda. Cosa vuole ottenere Guy con questa formazione?».

«Una falange», riprese il ragazzo sicuro di sé, «una sorta di rozza falange. Sedici secoli dopo Alessandro Magno, la falange torna in campo ... ».

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Pagina 97

Scuotendosi Terzo riprese meccanico «... "Genealogia dei conti di Fiandra, Cronaca di Saint-Denis". Lo studio principale resta la tesi di laurea berlinese di Felix Wodsak, scritta nel 1905, scusami non ricordo l'editore. Ma basta cosi. Bravissimo Salvatore».

«No aspetti, colonnello, non ho concluso», lo sorprese il ragazzo, «non ho tirato la morale. Morale tattica: per la prima volta dopo il mondo antico, la fanteria batte la cavalleria e un'armata di artigiani umilia l'aristocrazia. Morale strategica: forze inferiori, se organizzate intelettualmente, possono umiliare avversari più forti. Morale politica: contro gli eserciti di mercenari e aristocratici è possibile prevalere con milizie popolari».

«Come poeta non ti so giudicare, mio caro Salvatore. Ma come stratega prometti bene», ammise Terzo.

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Pagina 110

Con un grugnito, Terzo si rimise in piedi e confessò all'amico disperso: «Io parlo e non ho mai visto un morto Amedeo. Tu ne hai visti a cataste, i tuoi compagni congelati. Adesso sono nei guai e non so che cosa fare. Studio, ragiono e non riesco neppure a governare il mio cervello, altro che dominare il nemico. Mi imbottisco di strategie perché non ne so realizzare alcuna. Il dottore Pantera dà la morfina a Emma, io mi drogo di teorie, altrettanto inutili a guarirmi, altrettanto indispensabili a tirare avanti. Conosco la manovra giusta per ogni situazione disperata in guerra, ma non so vivere. Questo volevi insegnarmi facendo il pazzo sulla scogliera». Da sotto la visiera del berretto militare, Campari lo fissava ironico.

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Pagina 126

«Gli altri combattenti sacrificano alla Paura perché non li accechi nella mischia. Alessandro la invoca invece per conoscerla. Vuole che gli rivolti le viscere con il terror panico, liberandolo dal tuono divino che aveva ímpregnato la madre, emancipandolo dal sigillo eroico del padre. Invasato dalla dea Paura, Alessandro non sarebbe più rampollo di Achille ed Eracle, figlio di Zeus e Ammone. Tornerebbe uomo. Era sposato Alessandro?» chiese Emma, il tono tranquillo, senza dubbi.

«Sì, ma non sappiamo se fu mai innamorato, di un uomo o di una donna». Terzo infervorato, si dimenticò del pudore, parlando di omosessualità davanti a Fiore Mastema.

«Alessandro prega la Paura, perché vuole esseme posseduto, piegato, rammollito, illanguidito, reso fragile come una fanciulla, timido come una vergine», continuò Emma, «Non s'era forse travestito da fanciulla anche Achille, per sfuggire alla guerra di Troia? Alessandro prega di essere uno di noi. Non più grande condottiero, ma persona viva e tremante, capace di commuoversi, quando il sangue dei bambini arrossa le fogne di Tebe».

Il colonnello Carlo Terzo capi per la prima volta quel dettaglio decisivo. La lezione sulla strategia mistica di Alessandro Magno era il suo pezzo di bravura, ma gli mancava quel tassello. Ecco perché Napoleone e Hitler, tutti coloro che s'erano voluti a immagine di Alessandro, avevano coperto i continenti di cadaveri. Perché, ignari della paura, dimentichi della Dea terribile e moderatrice, non ascoltavano il pianto delle vittime, l'orrore delle proprie azioni. Non provando più paura, la disseminavano. «Quindi?», chiese incerto a Emma, come fosse lui lo studente.

«Quando Dario fugge a Gaugamela, terrorizzato, Alessandro intuisce che il suo fato è sigillato. Non avrà mai paura, dovrà sempre andare avanti, verso nuovi nemici e nuove frontiere. Ma quando la Paura visita i suoi soldati e li fa ritirare al di là del fiume Ifasi, per Alessandro è finita. A Multan non cerca la morte, non son d'accordo con lei dottore. Cerca la Paura, nel parossismo di una guerra combattuta da solo contro un esercito. Non la trova e deve rassegnarsi. Morirà sterile, senza avere conosciuto i mondi dell'amore e del terrore. Non era un dio, non fu neppure un uomo», concluse la principessa.

«Io, signore e signori», Terzo si alzò in piedi scandendo le parole, «io credo che la strategia classica, così come la si insegna nelle Accademie militari, nulla significhi, né spieghi. Oggi lo possiamo ben dire perché, con le bombe nucleari a Hiroshima e Nagasaki, parlare di astuzia e cultura nella guerra, diventa follia», Pilgrim Gawain aveva preso una sigaretta dal pacchetto del dottore e l'aveva accesa, aspirando forte, «ma anche perché, come dimostra il caso di Alessandro, troppo ci sfugge nel simbolismo che spinge un uomo alla conquista e persuade un altro alla fuga. Alessandro Magno, cui la dea Paura mai concesse udienza, non conosce esitazioni, ha sempre idee chiare, audacia illimitata, vittorie fulminanti. Morto che fu a Babilonia, per una febbre il 13 giugno del 323 a.C., il suo impero si dissolse però all'istante. Aveva disintegrato il regno di Persia, senza nulla costruire. La sua conquista era vuota, il suo potere fatuo. Non combatte per cambiare la vita, sua o degli altri. E' sospinto dalla smania di provarsi diverso, migliore, più potente, meno fragile, meno ridicolo. Cosa ha mosso i tedeschi, e noi loro alleati, a distruggere la pace d'Europa? La stessa smania di comando. Ecco quale dovrebbe essere la nuova arte: vincere assorbendo le ragioni del nemico, senza dimenticare la paura. La nuova strategia di vita non puo cominciare da Alessandro. Da dove cominci non lo so più, ma certo non dalla strategia su cui ho speso i miei anni. Forse ha ragione Fiore, dalle battaglie del mio Manuale non si deduce infine come vivere e come combattere. Amedeo Campari avrebbe una risposta alternativa. Io no, e me ne scuso. Grazie».

Il colonnello Terzo s'era rimesso a sedere, coprendosi il volto con le mani, affaticato. Fiore scivolò in cucina e gli mise qualcosa davanti. «Sorpresa». Terzo apri gli occhi e vide un paladino medievale, lancia in resta, pennacchi borchiati d'argento, corazza lustra e scudo con aquila reale, intento a domare il suo cavallo imbizzarrito. «E' per lei. Oggi è il giorno dei Morti, colonnello, e ai bambini si fanno trovare, nascosti per casa, questi cavalieri di zucchero e la frutta di marzapane»: Fiore gli mise davanti un vassoio variopinto, banane, fragole, ciliegie con le foglie verdi, fichi d'India spinosi, lucidi mandarini. Un dono dall'oltretomba, come i chicchi di melagrana di Plutone a Proserpina.

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Pagina 148

«Io non ho saputo vivere secondo l'ordine obliquo», pensava, continuando a parlare, «ho paura della spontaneità, della naturalezza, di vivere come si deve, affrontando rischi e speranze, senza ingabbiarmi in una strategia, senza schermarmi con l'ossessione di Annibale e Clausewitz. L'orrore della battaglia avrebbe travolto le mie teorie, avrei dovuto fare i conti con me stesso, con la paura e il coraggio. Alessandro pregò perché la dea Paura lo visitasse almeno una volta, rendendolo umano? Io dovrei sacrificare alla dea Vita perché mi possieda finalmente, mi obblighi a scegliere, pensare, contare, decidere, senza lasciarmi trasportare dal caso. Anche Emma, che è stata la mia felicità, mi è accaduta, senza merito. Avessi dovuto dire una parola per conquistarla, non l'avrei saputa pronunziare. Conosco le regole di vittoria e sconfitta, non le ragioni per combattere. Salvatore non ha idea di come battersi, non distingue la battaglia difensiva-offensiva come Maratona dalla battaglia di annientamento come Canne, eppure si impegna per il mondo futuro. Le poesie, Fiore, i contadini. E' stratega migliore di me, perché ha capito che la strategia non esiste fuori dalla battaglia».

«Non è così, colonnello, anche lei si batte, cercando di spiegarci la vita, a partire dalle sue teorie», gli rispose Fiore. Terzo si riscosse, s'era distratto, forse l'altitudine nella cabina mal pressurizzata aveva confuso pensieri e parole. Aveva pronunciato ad alta voce le sue riflessioni. E c'era un'altra sorpresa. Fiore sorrideva dal compartimento di coda, là dove nei raid sedeva il mitragliere. La novità non piacque al colonnello. Già lo indisponeva aver perso il filo parlando a tutti. Vedere poi Fiore in quella gita, che lo preoccupava e a cui aveva detto sì solo per assecondare la moglie, era troppo per un uomo ordinato come lui. «Che ci fai qui?».

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Pagina 221

Il dottore Pantera gli aveva prescritto le solite pasticche gialle che lui comprava dal farmacista Manetti, in corso Olívuzza. Ne ingoiava una con un sorso d'acqua e dormiva un sonno nero e senza incubi. Il rito della pillola l'aiutava a dimenticare che dormiva da solo. Durante il giorno invece mai, neppure sprofondato nella stesura infinita del "Manuale di vita strategica", riusciva a non percepire, con qualche fibra del corpo, che Emma era morta e lui era solo, per sempre.

La principessa s'era spenta pochi giorni dopo la guerra dei contadini. La breve felicità nelle ore dell'azione, quando aveva visto il marito mettere in pratica anni di studio e il desiderio dell'aquilone esaudito, era svanita nell'attimo in cui la duchessa Mastema aveva rapito Fiore. Terzo era riuscito a tenerle nascosta la morte di Salvatore Dragonara. Le disse che era ferito, in ospedale. Tornati a Palermo, Emma fu allo stremo. Pantera la lasciò scivolare nella morte con dolcezza e morfina.

Pilgrim Gawain finì i soldi, senza che il giornale gli pubblicasse un solo articolo. Rimpatriò in America, ad insegnare all'Università di Bloomington, dove aveva pensato di ortare Salvatore come studente. Il ragazzo gli chiedeva «Un americano può sposare chi vuole, senza chiedere permesso alla famiglia?» e Pilgrim rispondeva «Sì, se è un bianco». Dagli Stati Uniti, scriveva al colonnello, incitandolo a trasferirsi là come docente di storia militare. Lui non aveva però desideri, né di viaggiare, né di restare. Era tornato quello dell'Archivio storico dello Stato Maggiore, con Campari e il maresciallo Puntoni, senza speranze, senza interessi, se non la strategia. Ma che si potesse dedurre dalle manovre vittoriose di Raimondo Montecuccoli contro i turchi, 1664, una strategia di comportamento davanti ai guai della vita, non riusciva più a credere. Avrebbe completato il Manuale, perché l'aveva promesso alla moglie.

La guerra dei morti e dei feriti, la guerra del cervello del suo unico allievo, Salvatore Dragonara, spruzzato sulla cenere del vulcano e del suo colpo alle spalle di Diotru, non gli sembrava compatibile con un esercizio razionale. "La strategia è inutile', scrisse a Pilgrim, ringraziandolo, "Alessandro Magno vinto un nemico, ne vede sorgere uno nuovo e insegue quella chimera al di là del mondo, morendo a Babilonia, solo. Io, nel mio niente, ho inseguito la chimera di un Manuale perfetto di vita e di guerra, un modo per vincere sempre, senza mai commettere errori, un criterio razionale per tirarsi fuori dalle situazioni più drammatiche. E mentre mi preparavo ad ogni battaglia, con una strategia invincibile, la vita mi è passata accanto, ignorandomi. Sono come i russi presi nelle sacche dall'avanzata tedesca del 1941, ho tutte le armi con me, ma non mi servono più. Quando ho dovuto combattere ho vinto applicando i miei studi, ma ho perduto, in un attimo, le persone amate. Non sarei utile agli studenti, caro Gawain, soldati di un mondo con la bomba nucleare. Cosa vuoi che insegni loro? Che i mamelucchi, un secolo prima di sconfiggere i mongoli a Ain Jalut, con pazienza e disciplina, avevano massacrato anche i Cavalieri Templari, in Cisgiordania, nel maggio del 1187?

"Troppo tardi. La strategia non paga. Napoleone ammise infine 'Dopo tanto studio, non ho nessun piano in mente'. E Federico il Grande? 'Non c'è nulla da sapere sulla guerra, se non marciare per dieci leghe al giorno, combattere e riposarsi'. Devi preparare il tuo piano, certo, ma alla prima fucilata dove finisce? Ti ricordi del feldmaresciallo prussiano von Moltke? 'Nessun piano strategico dura oltre la prima scaramuccia con il nemico. Solo gli ignoranti credono di riconoscere in una campagna militare l'esecuzione minuziosa di un'idea di partenza, sviluppata nei dettagli e conclusa con la vittoria'. Un bravo stratega conta dunque quanto un somaro, come sembra credere Tolstoj in "Guerra e pace"? Al contrario, e la guerra perduta da noi italiani lo dimostra. Un bravo stratega traccia il piano generale, consapevole che la vita e la guerra lo manderanno in pezzi. La sua abilità consiste nell'agire su quei frammenti, nel mescolarli, farli brillare. Forza e debolezza, vittoria e sconfitta, potenza e inanità sono per lui gli elementi della vita. Agisce sempre, come può e quando può. A ogni imprevisto sa reagire, per istinto e cultura, raccogliendo nell'aria i mille segnali che gli altri non percepiscono. Dal volto dei nemici, calcola la loro resistenza. Dal silenzio di una spia, coglie informazioni. Prepara la battaglia con il cervello e la combatte con l'intuito. Io, invece, ho saputo tenere a bada la milizia di Mastema, solo per vedere Fiore rapita e Salvatore ucciso. Ho rivissuto le principali battaglie della storia nello spazio di un giorno. Ma è andata così Gawain? O me lo sono immaginato nella mia fantasia frustrata, ed è stata una zuffa di campagna, cui solo io ho riconosciuto importanza di guerra e che nessuno ha visto?'.

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..., chiese ancora «Lei conosce il generale Monroy?».

«Si».

«Era il nostro comandante in Russia, un generale buono e bravo».

«E' vero».

«E' vivo? Lo vede mai?».

«L'ho visto l'ultima volta nel giugno del '42. Venne a Roma dalla Russia per convincere Mussolíni a non mandare un altro corpo di spedizione nella steppa. L'avesse ascoltato, migliaia di ragazzi sarebbero vivi, compreso il mio amico Campari», rispose Terzo e pensò "E io non sarei solo al mondo".

«Posso affidarle un messaggio, signor colonnello?».

«Senz'altro».

«Porti al generale Monroy i miei saluti. Gli dica "il bersagliere palermitano di Ivanovskij" e lui si ricorderà. La mattina di Santo Stefano, dopo la battaglia di Natale, mi diede una bottiglia di grappa da regalare al tenente medico che era rimasto con i feriti intrasportabili. I russi li avevano accerchiati e andammo noi bersaglieri a liberarli. Arrivammo il 27 dicembre, ma erano morti, l'ufficiale medico e i feriti. Lo dica al generale, se lo vede».

Il colonnello Carlo Terzo salutò il caporale e per la prima, e sola, volta nella sua vita da civile gli dispiacque di non essere in divisa, voleva essere in alta uniforme e salutare quel povero soldato con la sciabola e la fascia azzurra, facendo sibilare l'aria buia con l'acciaio lucente. Aveva studiato sulle carte, metro per metro, il calvario di quella gente. Monroy, un ex sottufficiale, cercò di evitare il massacro degli alpini dell'Armir, ma Mussolini gli rispose «L'Italia non può avere in Russia meno soldati della Slovacchia». Si ricordava le carte che gli aveva mostrato, dopo la rotta sul Don: la calligrafia dei segretari sostituiva i nomi orgogliosi delle divisioni, Pasubio, Celere, Torino, con le díciture macabre "Resti della Pasubio...', "Resti della Celere...'. "Resti di un esercito, resti di un paese, resti dello Spasimo, resti di questa città. Non siamo che resti", pensò commosso, "come i congelati, azzoppati, ustionati, feriti, mutilati e morti ammazzati della guerra, dal povero medico rimasto con i suoi feriti intrasportabili, a Salvatore, mio unico allievo".

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Pagina 248

Terzo ripeté l'antica lezione: «Il re del Wu discute di strategia con il maestro Sun-tzu, "Come deve combattere l'esercito in situazioni tragiche, accerchiato, nella rotta?" Sun-tzu ha sempre la soluzione giusta, e il sovrano immagina allora una missione disperata: "Con l'esercito abbiamo oltrepassato la frontiera e invaso la nazione nemica. Ma truppe avversarie ci circondano in massa. Dalla tenda vediamo reggimenti e trincee che si stendono, impenetrabili, fino all'orizzonte. Cerchiamo una breccia per fuggire, ma le vie di salvezza sono bloccate con fortificazioni. Come salvarsi, maestro, perduta ogni speranza?". Sun-tzu, detto il Maestro del Sole, risponde: "La strada è semplice, Maestà, al pari della morte, ma complicata, al pari della vita. Se speri di uscire dalla trappola identico all'uomo che eri quando ci sei caduto, morirai. Se riesci invece a considerarti morto, se ti rassegni che la vita è perduta, sentendoti un cadavere freddo come i compagni colpiti dalle frecce, eccoti trasformato. Una parte di te finisce tra le cataste di morti, ma un'altra uscirà dalla sacca e rivedrà la casa. Chi non accetta di perdere la vecchia vita, deve rassegnarsi alla morte. Ti senti capace di questa condotta? Comanda dunque ai tuoi uomini di scavare trincee profonde e alzare parapetti di tronchi e fascine. Il nemico capirà che difenderai l'accampamento fino alla morte. Potranno conquistarlo solo sacrificando il fiore dei guerrieri. Tu stesso, sovrano, parlerai alla truppa e agli ufficiali: 'Siamo all'ultima battaglia. Sgozzate i buoi, distribuite le vettovaglie. Combatteremo sazi. Chi ha debiti da pagare li paghi e se il debitore non ha soldi, il creditore li rimetta. Nulla resti in sospeso'. Finito di parlare, rasati la testa in segno di lutto, brucia la divisa regale, rinuncia alla speranza di vivere. Da comandante non hai più strategia. Soldati e ufficiali sono armati del voto di morire. L'esercito accerchiato e sconfitto non esiste più. Sul nemico punta un'armata micidiale, disposta a morire combattendo. Fai lustrare le armature, comanda di affilare spade e pugnali, unisci i soldati in spirito e forza e attacca sui due opposti fianchi. I tamburi rullino con ferocia, i soldati gridino a pieni polmoni, fosse l'ultimo urlo di vita. Il nemico sarà sorpreso. Ci aspettava dietro le trincee scavate con cura e ostentazione, terrorizzati per la nostra vita e appariamo in due direzioni, risoluti. In quel momento di incertezza, comanda alle truppe di assalto di raggiungere le retrovie avversarie, colpendo alle spalle e aprendo la sacca. Avrai strappato vita e vittoria dalla disfatta". Così disse il Maestro del Sole, Sun-tzu».

Fiore spense la sigaretta nel posacenere e ne accese un'altra: «Per ricominciare a vivere dovevo riconoscere che la Fiore gentile, dei gelsomini, di Salvatore, dell'aquilone, era morta. Considerarla perduta, marcita dalla crudeltà di mia madre. Così feci. Non credevo di averne la forza, ma chiusi gli occhi pensandomi morta, giorno dopo giorno. Stringevo le dita attorno al tronco più grosso, nel chiostro dei limoni, e dicevo "La mia mano ti circonderà". Un pomeriggio elusi la sorveglianza e andai da un barbiere per uomo, lo pagai con un paio di orecchini e mi feci tagliare i capelli a spazzola, in segno di lutto. Poi nacque la bambina e mi presi cura di lei. La notte studiavo e scrivevo. Il giorno in cui compii ventuno anni, mandai una lettera all'avvocato Ripellino, che curava gli interessi di mio padre. Dapprima silenzio, mia madre intercettava le lettere, poi Ripellino venne a trovarmi di persona, l'aveva minacciata di rivolgersi alla magistratura per sequestro di persona se gli avesse impedito di parlarmi. Mi assicurò che, maggiorenne, entravo in possesso di una cifra più che sufficiente a mantenermi con la bambina, beni che papà aveva intestato a mio nome. Ripellino, un vero e abile signore, trattò con mio suocero: se avessero cercato di trattenermi, si sarebbe rivolto alla Sacra Rota, matrimonio forzato, mancanza di consenso, annulamento garantito. Troppe chiacchiere in società. Non era meglio cancellare le nozze con discrezione? Si impegnò a lasciare ai Majnoni il feudo di Primosole, del resto neanche l'oro mi avrebbe fatto tornare dov'era morto Salvatore. I Majnoni ebbero la terra, il mio ex marito fu più che contento di trovarsi ricco e celibe, al tavolo dello "chemin". Giulio Dragonara, fratello minore di Salvatore, ha riconosciuto legalmente la bambina, che porta così il cognome del padre. Mi sono iscritta all'università, ho viaggiato. Il mese venturo mi trasferirò a Londra».

«E tua madre?».

«Una strana malattia, i medici non capiscono. Vive, ma senza memoria. Ha cominciato dimenticandosi di me, "Chi è? Che vuole?", diceva. Poi ha perduto il ricordo di mio padre. Infine dell'amministrazione delle terre. Insiste a tenere le carte in mano, in quel bugigattolo che conosci, in silenzio, guardando il lucernario. Non sa mangiare, né vestirsi. Vado a trovarla il giorno del compleanno di mio padre, per lui, e per pietà di quella povera cosa che non ricorda dove sta il gabinetto. "Non so chi sei", dice dura, "spiegami chi sei"».

«Perchè non mi hai chiamato?».

«Non ne avevo la forza. Dovevo diventare un'altra persona per sopravvivere. Di Emma avevo saputo a Napoli, dal primo biglietto della madrina. L'adoravo. E Villa?».

«Si fa vivo nell'anníversario della morte di Salvatore, quando i comunisti fanno una riunione. Mi spiega delle novità politiche in Sicilia, mi manda fotografie di comizi. Della nostra battaglia non parla mai. Si batté con coraggio, per amore della povera gente del Malpasso, ma sapendo che il partito non consentiva. Grazie al sacrificio di Donna Marena si sono salvati tutti. Preferisce tacere».

«A lei e alla tua strategia. Senza di te sarebbe finita in un massacro, come con Giuliano a Portella della Ginestra. Salutami Villa. Solo lui ricorda l'aquilone dei desideri. Lui e noi, che ci siamo incontrati al cimitero. Strano, quella di oggi sarà la mia ultima visita prima dell'Inghilterra. Con Salvatore volevo andare in America. E invece, mio amato colonnello, partirò da sola. Ora scusami, devo dare la buonanotte alla bambina. Sono stata felice di rivederti. A Napoli mi sono salvata con le tue memorie sai?». Prima che Terzo potesse protestare, chiederle di rimanere ancora, gli diede un bacio, odoroso di fumo e cognac, gli passò le mani sugli occhi ed uscì senza voltarsi, come scappando.

Il colonnello Carlo Terzo alzò gli occhi al soffitto: "Dunque Salvatore Dragonara ha ascoltato la mia lezione. Dunque ordinando a Fiore di studiare Sun-tzu, l'ha salvata. Dunque possiamo trasformare in arma la sofferenza. Quei due ragazzi, schiacciati da una guerra di odio, non sono andati al macello come agnelli. Hanno combattuto. Salvatore è morto, ma ha consegnato la sua precoce saggezza a Fiore, e lei s'è liberata, a prezzo di sangue, dalla sacca in cui l'avevano stretta. La strategia che pretende di vincere sempre, rendendoci invulnerabili, non esiste. Il caos può sconfiggerci in ogni istante, ma in ogni istante noi possiamo salvarci. Dunque il mio "Manuale di vita strategica" non è perduto".

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Pagina 256

Massolo, un carabiniere della LXVI Sezione, mio concittadino milanese con cui ho stretto amicizia, mi chiede un giorno «Tenente, chi vince la guerra?». Io non lo conosco ancora bene e gli faccio, «Massolo, tu che pensi?». E lui, in dialetto, «I tedeschi no signor tenente. Troppo cattivi quelli».

Lo racconto a Nicolas Walter, che vuol portarmi via sulla Cicogna, prima che il Don diventi la più grande sacca di accerchiati della storia umana. Ride, come si ride qui, a smorfie: «Vallo a spiegare al Führer che il terrore non è una strategia. Mi piange il cuore, non dite così voi italiani? Ho combattuto in Francia, in Africa e in Russia. Ad armi pari, abbiamo sempre bastonato i fottuti Alleati. Ma perderemo la guerra. Davanti alla morte siamo i migliori, ma in battaglia, come insegna il maestro Carlo Terzo nel suo studio su Zama-Naraggara, vince chi pensa alla vita, non alla morte. La strategia migliore guarda alla pace, non al conflitto».

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Pagina 260

Potrei dirti «Ho ragione io: perché mai, se non per follia, il buon Massolo fa l'eroe e noi lo seguiamo come paladini medievali?». Eppure, in questa mia ultima meditazione russa nella paciosa Cicogna, sento invece che tu hai un punto. Nel bombardamento russo di Arbusov, in ginocchio, non intravedevo alcuna strategia. Ma il taciturno Massolo carica con la bandiera e incarna "l'audacia illuminata" del Clausewitz, capace di superare il semplice coraggio. Un carabiniere decide la battaglia, perché a noi non resta che seguirlo. Aver coraggio in tanti è abbastanza facile. A scappare per primi, invece, ci vuol fegato. Lo seguiamo, perché, galoppando, ci spiega "Fermi moriamo. Tanto vale attaccare". Con buon senso milanese, "Non si può mica starsene qui tutto il giorno, signor tenente", ci offre la strategia per tornare a casa, ragione sufficiente a farci ammazzare. Quel che Mussolini non ha saputo fare, portando la bella Italia alla rovina.

Qual è dunque la guerra, Carlo? Il gerarca D'Aiello che manda al congelamento il vetraio Angeli pur di salvare le mutande ricamate o Massolo che salva una divisione? Follia o ragione? Se lo capisco, so cosa dire a Nicolas Walter quando arriva: primavera a Roma o ritirata con i ragazzi? Vorrei consigliarmi con te, come avrei sempre voluto nelle buche di merda, davanti ai compagni sgozzati. Avremmo avuto paura insieme, avremmo urlato, ma mi avresti aiutato a capire. Invece sono solo, in questo aeroplanino che tra poco se ne andrà al sicuro, con me o senza di me. Quando la guerra finirà, ti prego, spiega nel tuo "Manuale" che: 1. I tedeschi sono i soldati migliori, ma non si vince con una strategia di morte; 2. gli Alleati combattono con riluttanza, ma alla fine i loro numeri vinceranno; 3. il soldato italiano è un buon soldato, quando ha una ragione seria per combattere; 4. nessuno Stato Maggiore, di quei tanti che mi hai condannato a studiare, ha dimostrato ignavia e ignoranza quanto il nostro. Dimostra perché, Carlo, e avrai onorato i miei bravi figlioli, morti ammazzati in Russia. Nicolas ha aperto il portellone, la neve entra a fiocchi. Salutami l'anziano Puntoni e non trascurare gli esercizi ginnici che ti ho prescritto.

Con osservanza affettuosa, addio Carlo III, dal tuo discepolo et amico Amedeo

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Pagina 264

«Comincio a dubitare di voi, colonnello. Forse ha ragione il capitano Campari. Sapete essere un freddo calcolatore, ma ignorate il coraggio, il valore, il morale, doti decisive in battaglia», esclamò Ciano.

Sentirsi dare del codardo dall'uomo che gli aveva negato la chance, tanto attesa, di combattere, fece arrossire Terzo: «Ha ragione. Non ho mai visto un morto. Ma quel che ho imparato preparando il mio "Manuale", mi basta a provarle che lei ha torto, signor Ciano. Se potessi avere un foglio di carta ... ».

Furzi, attento, gli porse un blocco candido e una matita rossa e blu.

«Grazie», disse secco Terzo, e, mostrando la pagina al pallido Ciano tracciò due linee precise, «non c'è dubbio che il dibattito strategico sia, in definitiva, riconducibile alla questione del duello toscano cui allude Amedeo. "La guerra è un duello" sintetizza Clausewitz. Ma qual è la sua chiave, il metodo o la follia? Mi permetto di ricordarle il giudizio di Churchill, quando ancora ci era amico, nel 1931: "Gli affari umani sono governati dall'errore assai più che dalla strategia". Non bastano i migliori soldati e le armi più raffinate per sopperire a una strategia errata. Mi segua con attenzione ... ».

Ciano, trattato come uno studente, non fiatò.

«Delle due l'una, o ho ragione io e c'è un metodo nella guerra, o ha ragione il capitano Campari e c'è solo follia. Nel primo caso vinceranno gli Alleati, perché, come Napoleone riconobbe in esilio a Sant'Elena "Alla fine l'oro degli inglesi ha saputo trionfare sui miei piani di battaglia". L'efficiente sistema fiscale britannico vince la guerra, pagando i fucili e i cannoni di Waterloo. Questa guerra è perduta nelle trincee russe e nelle officine di Detroit. 'Per fare la guerra', diceva Montecuccoli, 'occorrono tre cose: soldi, soldi, soldi". Ma poiché lei sembra credere, con la propaganda, che vinceremo grazie all'irrazionale, le spiegherò perché, anche su questo fronte caro a Campari, l'Asse perderà. Le cito Hitler, signor ambasciatore. La voce è arrivata a me fin dalla Germania e anche lei, certo, ne sarà al corrente. Nel novembre del 1941, vedendo l'offensiva della Wehrmacht impantanarsi davanti a Mosca, ha confessato "Le guerre sono decise dall'economia, dalla produzione di cannoni, panzer e munizioni". Metodo o follia, il Führer sa di aver perduto».

«Se avevate le idee cosi chiare, perché vi trastullaste quella notte illustrando Marengo alla principessa Svjatoslava, anziché mettermi in guardia?».

«Un errore che non mi perdono. Ci provai e lei si mise a salutare i giovani del Guf dalla finestra. Parlavo, non mi ascoltava».

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Pagina 274 [ fine libro ]

Alla vigilia del mio ritorno in America, passai dalla libreria Flaccovio, dietro i Quattro Canti di Campagna, e chiesi del libro di Fiore. «Ultimo rimasto», mi disse il commesso ragazzino, avvolgendolo in una sottile carta bianca. Lo lessi in nave, riattraversando l'oceano Atlantico. In copertina, il disegno di un'onda e il titolo, Principe delle nuvole. A pagina tre la dedica: "Affettuoso ricordo di Salvatore Dragonara (1930-1946), padre di mia figlia Chiara. La battaglia di questa vita è perduta, amor mio. Ma spero che anche per noi, come per il generale Louis Charles Antoine Desaix, ci sia tempo per vincerne un'altra in un'altra vita". E' un libro che ho molto amato e mi piacerebbe che lo leggeste.

Bloomington, Indiana, 17 Ottobre 1967

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