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| << | < | > | >> |IndiceRingraziamenti 3 Prefazione 5 Come le proteste degli studenti hanno spedito un'insegnante di economia in giro per il mondo 5 Prologo 13 Alla ricerca del probabile luogo di nascita della mia T-shirt 13 Parte prima: Il Re Cotone 19 Come l'America ha dominato il settore mondiale del cotone per 200 anni 19 Capitolo 1 — Reinsch Cotton Farm, Smyer, Texas 21 Capitolo 2 — La storia del cotone americano 27 Come vincere evitando il mercato del lavoro 27 Il fattore trainante della domanda: il gusto delle classi più umili per "la gaiezza dei vestiti" 27 Fornisco sempre al violinista corde di budella 31 Eli incontra uno speculatore 34 Dov'era la competizione? 36 L'uomo bianco non è il solo pericolo mandato da Dio 38 Le fabbriche di cotone arrivano in Texas 41 Capitolo 3 — Ritorno alla Reinsch Farm 45 I sussidi non sono l'unico pericolo mandato da Dio 45 C.F. e Hattie si trasferiscono a ovest (con un trattore) 46 I lavoratori bianchi sono un peso 50 I burocrati cacciano i mezzadri 53 Macchine che non si scoraggiano 55 I figli dei Reinsch lasciano l'azienda 59 Da soli nella fattoria ma insieme in città 61 Dai semi al denim: i guadagni dei coltivatori passo dopo passo 62 Al mercato, al mercato! 68 Tutto questo più i sussidi 70 Dov'è la concorrenza? 74 Le larve vincono 77 Parte seconda: Made in China 81 Capitolo 4 — Il cotone arriva in Cina 83 Fabbrica di filati n.36 a Shanghai 86 La fabbrica di vestiti n.3, o Fabbrica Splendore, a Shanghai 90 Capitolo 5 — La lunga corsa verso il fondo 95 L'inventiva dei britannici contro la parsimonia dei cinesi 95 Cercasi manodopera, preferibilmente docile e disperata 98 Capitolo 6 — Sorelle nel tempo 109 Dalla fattoria alla fabbrica. E oltre 109 Docilità al guinzaglio 109 È comunque meglio della fattoria 113 Amazon.com e Dell arrivano in fabbrica 120 Scrivere le regole della corsa 124 Parte terza: Problemi al confine 133 La mia T-shirt ritorna in America 133 Capitolo 7 — Cani che ringhiano insieme 135 Come la politica è arrivata a dominare il commercio mondiale dell'abbigliamento 135 Magliette cinesi contro posti di lavoro americani 135 Un assaggio delle (pazze) regole del 2003 142 La voce del branco 146 Auggie va a Washington 149 Come fare gli accordi e come fare le eccezioni 151 Lavoro da burocrati 155 Unità dal 1985 al 1990 156 Altri iniziano a ringhiare 160 Le quote sono durate abbastanza 161 Il lento scioglimento 162 Capitolo 8 – Effetti perversi e conseguenze involontarie della politica che regola il commercio di T-shirt 165 Non si rimuovono più le bobine piene 165 Le peggiori nemiche di se stesse 168 La corsa alle quote 170 Auggie e Aristotele contro Wal-Mart 174 Vincitori (involontari) 177 Che i morti siano costretti a indossare la lana 178 Capitolo 9 – La fine di 40 anni di protezionismo "temporaneo" nel 2005. E la Cina si prende tutto 185 Più le cose cambiano... 185 Wal-Mart sostiene Musharraf 186 Dove sono i dinosauri? 189 L'ultima battaglia 192 Parte quarta: Alla fine la mia T-shirt incontra un libero mercato 201 Il commercio mondiale delle T-shirt usate 201 Capitolo 10 — Dove finiscono le T-shirt quando escono dalla cesta dell'Esercito della Salvezza 203 Giappone, Tanzania e la fabbrica di stracci 203 Incontriamoci nel parcheggio 203 La corsa all'oro nell'East River 206 Le T-shirt nell'Aldilà 211 Capitolo 11 – Come i piccoli imprenditori vestono l'Africa orientale con le vecchie T-shirt americane 217 La nazione dei mitumba 217 Due per un penny 219 Troppo grande per vendere calzoni usati 225 Amico o nemico dell'Africa? 228 Non guardare adesso, la Cina è dietro di te 237 Conclusioni 241 Note 247 Bibliografia 263 |
| << | < | > | >> |Pagina 5PrefazioneCome le proteste degli studenti hanno spedito un'insegnante di economia in giro per il mondo In un freddo giorno di febbraio del 1999 ho visto una folla di circa 100 studenti riunirsi sui gradini della Healy Hall, l'edificio gotico al centro della Georgetown University. Gli studenti erano rumorosi e appassionati, mentre la polizia del campus si radunava vicino alla folla, nell'eventualità di disordini. A mano a mano che si succedevano gli speaker al microfono, la folla salutava con entusiasmo quasi tutti i discorsi. Quella folla aveva una certezza morale, un'unità di intenti, e benché guardasse a un labirinto straordinariamente complesso, riusciva a distinguere chiaramente solo il bianco e il nero, il bene e il male. Le multinazionali, la globalizzazione, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) erano i cattivi che schiacciavano senza pietà la dignità e il sostentamento dei lavoratori di tutto il mondo. Poco tempo dopo, oltre 50.000 attivisti con le stesse idee si unirono agli studenti al meeting annuale del WTO a Seattle e, nel 2002, prima della riunione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, la folla era salita a 100.000 persone. I contestatori no global cercarono di ostacolare i meeting dei cattivi anche in Quebec, Canada, e a Genova, in Italia. Nel 2003, durante la riunione del WTO a Cancun, agli attivisti si unirono i rappresentanti di un gruppo recentemente rinvigorito di Paesi in via di sviluppo: i negoziati sul commercio mondiale fallirono a causa dell'amara divisione tra ricchi e poveri. Gli attivisti no global provenivano dai campus universitari e dai sindacati, dalle organizzazioni religiose e dagli opifici chiusi, dalle organizzazioni per i diritti umani e dalle piantagioni di cotone africane. Giudicati in blocco, i contestatori furono definiti "la reazione violenta" alla globalizzazione. All'inizio, questa reazione colse l'establishment di sorpresa: persino il Washington Post, quotidiano di idee progressiste, esaminando i gravi disordini di Seattle, sembrò sconcertato. "Che cosa sta succedendo?", si chiese l'editorialista sulle pagine del giornale il giorno dopo. Vista dagli uffici ai piani alti dell'edificio dell'FMI, la folla sottostante sembrava un gruppo disordinato di ostruzionisti benintenzionati, ma male informati, che stavano bloccando l'unica strada verso la prosperità. Secondo il comune buonsenso in campo economico, la globalizzazione e il libero mercato offrivano la salvezza, non la distruzione, ai poveri e agli oppressi di tutto il mondo. Come poteva la reazione essere così confusa? Non ci furono progressi significativi nei negoziati sul commercio mondiale per cinque anni, dal 1999 al 2004. Circa nello stesso periodo, tuttavia, la pazzia generata dai contestatori male informati ed economicamente impreparati iniziò a placarsi. "Uff", l'establishment sembrò sospirare, "siamo contenti che sia finita." Uno sguardo più attento rivela che non era per niente finita e che, anzi, stava accadendo il contrario. Mentre alcuni degli slogan più folli ("Il capitalismo è morte") erano scomparsi, la reazione non se n'era andata, ma aveva conquistato settori più ampi della popolazione. La maggior parte delle questioni presenti sui manifesti e nei cori di protesta veniva ora discussa nelle Camere del Congresso, nei negoziati sul commercio mondiale e nei dibattiti per le elezioni del 2004: il libero commercio contro il commercio equo, l'outsourcing, gli standard delle condizioni di lavoro e quelli ambientali, gli accordi commerciali e, più in generale, i Paesi ricchi contro quelli poveri e gli americani abbienti contro gli americani non abbienti. Benché per gran parte della storia degli Stati Uniti i problemi relativi al commercio fossero stati relativamente snobbati dai cittadini, oggi questi problemi erano al centro delle discussioni politiche, economiche e morali. Ritornando alla Georgetown University nel 1999, ho visto una ragazza prendere il microfono. "Chi ha fabbricato le vostre T-shirt?", chiese alla folla. "Un bambino in Vietnam, incatenato a una macchina da cucire senza cibo né acqua? O una bambina indiana che guadagna 18 centesimi all'ora e ha il permesso di andare in bagno solo due volte al giorno? Sapevate che vive in una stanza con altre 11 persone? Che condivide il suo letto e mangia solo farinata d'avena? Che è costretta a lavorare 90 ore alla settimana senza paga per gli straordinari? Sapevate che non ha il diritto di parola né il diritto di aderire a un sindacato? Che vive non solo in povertà, ma anche nel sudiciume e nella malattia, e tutto questo nel nome dei profitti della Nike?" Non sapevo tutto questo. E mi meravigliavo della ragazza al microfono: come faceva a saperlo? Negli anni successivi viaggiai per il mondo per compiere indagini. Non solo trovai chi aveva fabbricato la mia maglietta, ma seguii anche il percorso della T-shirt per migliaia di chilometri e in tre continenti. Questo libro racconta la storia delle persone, delle forze politiche e dei mercati che hanno prodotto la mia maglietta di cotone. È una storia sulla globalizzazione. È giusto chiedersi se la biografia di un semplice prodotto possa contribuire ai dibattiti attuali sul commercio globale. Di solito, le storie oggi sono fuori moda nel campo delle ricerche economiche. Poche conseguenze possono essere dedotte dalle storie, si dice, perché esse ci offrono soltanto dati "aneddotici". Secondo la metodologia correntemente applicata, ciò che è davvero accaduto in un posto e in un'epoca determinati, cioè la storia e l'aneddoto, può essere divertente ma è intellettualmente sterile: le storie non ci consentono di formulare una teoria, di testarla o di fare generalizzazioni. Di conseguenza, oggi i ricercatori hanno più dati, computer più veloci e metodi statistici migliori, ma producono sempre meno osservazioni personali. La storia, naturalmente, gode di stima maggiore in altre discipline. Richard Rhodes, nel suo libro premiato con il Pulitzer The Making of the Atomic Bomb, risale, passo dopo passo, all'invenzione della bomba atomica. Durante questo processo, egli illumina il progresso intellettuale di una comunità di geni al lavoro. Laurel Ulrich, nel suo A Midwife's Tale, utilizza il diario di una donna apparentemente insignificante per costruire una storia di vita nelle foreste del Maine di 200 anni fa, rivelando l'economia, la struttura sociale e la vita fisica di un posto in un modo non altrimenti possibile. E nel volume Enterprising Elites lo storico Robert Dalzell ci racconta le vicende dei primi industriali americani e del mondo che essi costruirono nel New England del XIX secolo, rivelandoci così il processo dell'industrializzazione. Pertanto una storia, di una persona come di una cosa, non solo può rivelare una vita, ma può fare luce sul mondo più ampio che ha modellato quella vita stessa. Questo è il mio obiettivo per quanto riguarda la storia della mia T-shirt. "Il mondo ha davvero bisogno di un altro libro sulla globalizzazione?", chiede Jagdish Bhagwati nell'introduzione del suo recente libro sull'argomento. Beh, certamente il mondo non ha bisogno di un altro tomo che difenda o critichi la globalizzazione e il commercio come concetti astratti, poiché esempi su entrambi i fronti sono stati fatti bene e in modo eloquente. Ho scritto questo libro non per difendere una posizione ma, prima di tutto, per raccontare una storia. E benché dalla storia della mia maglietta emergano lezioni politiche ed economiche, tali lezioni non sono il punto di partenza. In altre parole, racconto la storia della T-shirt non per trasmettere insegnamenti morali ma per scoprirli, e per vedere, semplicemente, dove essa porta. Naturalmente ho messo in questa storia le mie inclinazioni personali, e di sicuro non le nascondo più. Essendo un'economista finanziaria internazionale educata in modo classico, divido con i miei colleghi la tendenza un po' a credere che se tutti capissero ciò che noi abbiamo capito, se "ricevessero il messaggio", non sarebbero così litigiosi. Più di 200 anni dopo che Adam Smith difese il libero mercato nel suo Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, proviamo ancora ad assicurarci che i nostri studenti, i nostri concittadini e i nostri colleghi del Dipartimento di Inglese "ricevano il messaggio", perché siamo certi che quando capiranno, essi saranno d'accordo con noi. Quando mi sono imbattuta nelle proteste alla Georgetown University e ho ascoltato la diatriba sulla T-shirt, il mio primo pensiero è stato che quella ragazza, per quanto benintenzionata e appassionata, non avesse colto il messaggio. Aveva bisogno di un libro, forse di questo, per spiegarsi le cose. Ma dopo avere seguito la mia T-shirt intorno al mondo, le mie convinzioni appassionate non sono più così incrollabili. I dibattiti sul commercio e sulla globalizzazione sono stati a lungo polarizzati sulle virtù contrapposte ai mali del libero mercato mondiale. Gli economisti in generale affermano che la competizione del mercato internazionale crea un'ondata di ricchezza capace di sollevare, perlomeno alla fine del processo, tutte le barche, mentre i critici sono preoccupati dagli effetti delle implacabili forze di mercato, soprattutto sui lavoratori. In particolare, il libero commercio degli abiti – temono i critici – porta soltanto a una spirale di peggioramento dei salari e delle condizioni di lavoro che terminerà, da qualche parte, nelle profondità di un romanzo di Charles Dickens. La vita della mia maglietta, però, suggerisce che l'importanza dei mercati può essere sopravvalutata sia dai sostenitori della globalizzazione sia dai suoi avversari. Benché la storia della mia T-shirt sia certamente influenzata da mercati competitivi, gli eventi chiave della narrazione non riguardano tanto questi mercati quanto la politica, la storia e le manovre fantasiose adottate per evitare i mercati. Persino coloro che lodano gli effetti di un mercato fortemente competitivo sono restii a sperimentarlo di persona, per cui i vincitori nelle varie fasi della vita della maglietta sono impegnati non tanto a competere sul mercato ma a evitarlo. Gli effetti di queste manovre possono risultare più dannosi che la competizione stessa per i poveri e per le persone senza alcun potere. In breve, la storia della mia T-shirt è risultata meno collegata al mercato di quanto avessi immaginato: è più collegata agli intrecci storici e politici in cui i mercati si trovano invischiati. Sfogliando quella cipolla che è la vita stessa della maglietta, soprattutto quando si ricollegava ai dibattiti attuali, continuavo a essere rimandata dall'economia alla storia e alla politica. Molti Paesi un tempo poveri (per esempio, Taiwan o il Giappone) sono diventati ricchi grazie alla globalizzazione, e molti Stati ancora in via di sviluppo (per esempio, la Cina o l'India) non sono più così poveri come un tempo. I Paesi più poveri del mondo, soprattutto quelli africani, devono ancora trarre benefici dalla globalizzazione, e persino nelle nazioni che stanno crescendo rapidamente, come la Cina, molti rimangono indietro. La vita della mia T-shirt è la storia delle possibilità di aumentare la ricchezza fornite dalla globalizzazione in alcuni posti, e della trappola che impedisce la vittoria in altri: una trappola dove gli squilibri di potere, oltre alla politica e al mercato inefficienti, sembrano condannare il futuro economico. La storia della maglietta rivela, inoltre, che le opposte fazioni del dibattito sulla globalizzazione cooperano, per quanto involontariamente, a migliorare le condizioni umane. L'economista Karl Polanyi osservò, in una delle prime versioni del dibattito odierno, il suo celebre "movimento doppio", dove le forze di mercato da una parte venivano soddisfatte dalla richiesta di protezione sociale dall'altra. Polanyi era pessimista circa le possibilità di potere conciliare le due parti. Scrittori più recenti (il più abile dei quali è, forse, Peter Dougherty) hanno invece affermato che "l'economia è parte di un progetto di civilizzazione più ampio", in cui i mercati dipendono per la loro stessa sopravvivenza da varie forme della reazione. La storia della mia maglietta sembra confermare l'opinione di Dougherty: né il mercato né l'opposizione a esso possono da soli dare una speranza ai poveri di tutto il mondo che coltivano cotone o cuciono T-shirt; la promessa di sviluppo risiede nell'unione involontaria dei due elementi. Gli scettici hanno bisogno delle multinazionali, le multinazionali hanno bisogno degli scettici, ma, soprattutto, i lavoratori sfruttati in Asia e i coltivatori di cotone in Africa hanno bisogno degli uni e delle altre. Non potevo prevedere, quando incominciai questo libro, che la storia della mia maglietta sarebbe stata attinente ad alcuni degli avvenimenti economici più significativi del nostro tempo. Il regime che da 40 anni governava il commercio di abbigliamento e di prodotti tessili (istituito per la prima volta in seguito a una promessa elettorale di John F. Kennedy) è scaduto mentre finivo il libro, lasciando un nuovo mondo popolato da tanti perdenti, da alcuni grandi vincitori e pervaso da un futuro incerto. Più o meno nello stesso periodo, con una sorprendente manovra, modello "Davide contro Golia", i Paesi più poveri del mondo bloccarono le trattative sul commercio mondiale a causa dei sussidi agricoli elargiti dal governo americano, soprattutto in favore del cotone, l'ingrediente principale, forse l'unico, della mia maglietta. E nei giorni successivi all'11 settembre 2001, all'insaputa del grande pubblico, le vendite di T-shirt e il sostegno militare vennero uniti in un negoziato bizzarro tra l'amministrazione Bush e il Pakistan, un negoziato che rivelava il potere sorprendente ancora nelle mani dell'industria tessile americana. La Cina, dove la mia maglietta ha trascorso gran parte della sua vita, ha assunto il ruolo di protagonista, essendo la seconda economia più grande del mondo. Mentre scrivevo questo libro, la strana forma di governo cinese (in parte stato di polizia, in parte regime capitalistico) si è gonfiata come una mongolfiera e ha invaso gli Stati Uniti con merci a basso costo, costringendo virtualmente tutte le aziende americane di ogni dimensione a escogitare una "strategia cinese", a soddisfare il "prezzo cinese" o a gestire la "minaccia cinese", mentre sia i democratici sia i repubblicani si sforzavano di esprimere la propria posizione riguardo la "questione cinese". Infine, dopo che mi imbattei per la prima volta nelle proteste alla Georgetown University, gli studenti occuparono pacificamente l'ufficio del rettore e si rifiutarono di muoversi finché l'università e i fornitori delle sue divise non decisero di affrontare le presunte, dure condizioni di lavoro in cui le magliette della Georgetown e altri indumenti ufficiali dell'istituto venivano prodotti. Simili proteste scoppiarono in dozzine di università in tutti gli Stati Uniti. Negli ultimi cinque anni gli studenti americani e i loro colleghi di tutto il mondo hanno fatto progressi notevoli nel cambiamento delle regole che governano la corsa verso il fondo e nel cambiamento del modo con cui operano alcune delle aziende più grandi. Grazie alla reazione, la storia della vita di una T-shirt prodotta oggi è diversa e migliore di quella di una maglietta creata solo alcuni anni fa. Speravo, quando ho incominciato questo volume, che alla fine avrei scritto una storia che avrebbe aiutato gli studenti a vedere le cose secondo il mio punto di vista, a comprendere le virtù del mercato che migliorano le condizioni di vita dei poveri. Spero di avere scritto qualcosa del genere, anche se non identifica tutto il libro. Agli studenti voglio dire: (adesso) capisco da dove venite.
Adesso conosco anche i protagonisti della storia della mia maglietta: si
chiamano Nelson, Ruth, Gary, Yuan Zhi, Ed, Gulam, Qin, Mohammed, Yong Fang,
Auggie e Patrick. Sono grandi persone, tutti, e sono lieta di avere fatto la
loro conoscenza. Mi piacerebbe che chiunque fosse interessato alla
globalizzazione e al commercio internazionale li incontrasse. Questo libro è la
cosa migliore dopo di loro.
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