Copertina
Autore Pier Carlo Rizzi
Titolo L'eredità dello zio Guido
EdizioneGarzanti, Milano, 2005, Narratori moderni , pag. 238, cop.ril.sov., dim. 140x215x25 mm , Isbn 978-88-11-59757-5
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe narrativa italiana
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Pagina 7

Ero un sacco di sabbia.

Nubi immobili e immacolate si scambiavano con l'oceano nello spazio del finestrino; non sembrava neppure di volare, solo sospesi. Non partivo, non giungevo, non precipitavo; indifferente al sole di sopra, alle nuvole cangianti, che si vedevano di sotto, alla tecnologia, che ci trasvolava da un continente all'altro.

«C'è un posto finestrino?»

«Sì!» rispose compiacente l'hostess di terra.

«E uno di corridoio?»

Nella babele dello spazio aeroportuale gli avevo intimato di sorvegliare i bagagli mentre mi recavo alla registrazione dei posti. Non avevo retto all'idea di sentirlo «ablare» ancora per quattordici ore. Solo! avevo pensato; almeno al ritorno.

«Problemi?» mi chiese sospettoso.

«No... ma due posti vicini non c'erano. Mi dispiace... dobbiamo viaggiare separati.»

Per venti giorni, nei quali avevo ricollocato almeno tre esistenze, non si era dato il minimo pensiero di travolgermi con le sue confidenze; ne avevo abbastanza. Sistemai così la sua, qualche posto più avanti.

Di tanto in tanto mi scostavo dalla fusoliera imbottita scrutando tra le nuche che sporgevano dai sedili per individuare la testolina di Leonìno; pronto però a ritrarmi, quasi a nascondermi, nell'eventualità di incrociargli lo sguardo. Era inquieto, nervoso; tuttavia attento al passaggio delle inservienti di bordo.

Il vicino a fianco mi sbirciava, per capire cosa stessi cercando. Lo guardai; ci scambiammo un sorriso di convenienza, e voltai la testa dall'altra parte.

Tolta la carognata dei posti annodata allo stomaco, tutto mi appariva più in ordine, anche se un ordine un po' sbilenco privo di logica privato di massa, e provavo una pace e una quiete sconosciute.

Stremato, non feci nulla per impedire alla sonnolenza di prendermi, e il ronzio monotono dei motori non poteva essere viatico migliore. A casa e amen!

Mi lasciai andare, appisolandomi sull'Atlantico.

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Pagina 33

«Mario?»

«Dimmi.»

«Mi avevi promesso che mi avresti aiutato a farla finita. È arrivato il momento. Sono stufo di patire.» La richiesta era precisa.

Mario, ammutolito, lo guardò con apprensione.

«Non sopprimi niente e lo sai, tra quindici giorni sarò comunque morto. È inutile continuare a soffrire. La sofferenza non porta a niente. Serve solo agli intellettuali per scrivere libri. Se sei un amico, dammi una mano. Ne hanno appena portato via uno stamattina, non c'è nessuno e le infermiere vengono solo se suono il campanello e già pronte con la siringa di morfina.»

«Io non sono convinto che non si possa fare più niente.»

«Smettila di prendermi in giro. A Valerio non posso chiederlo, a Leonìno tanto meno; solo tu puoi farlo.»

Le parole erano deboli, impastate, ma senza timori. Mario, allibito, lo guardava con la morte nel cuore. Non avrebbe mai immaginato che gli fosse ricordata una promessa fatta un anno prima, per tagliar corto a discorsi tediosi.

«Prendi quel cuscino, me lo metti sul muso e lo tieni così finché non mi muovo più.»

«E di te cosa mi lasci?»

«La soddisfazione di non avermi fatto soffrire inutilmente, e quella di farmi un favore che non posso chiedere ad altri.»

L'onnipotenza che Cècco gli offriva lo sconvolse. Sarebbe bastato dirgli che non aveva il coraggio, o la forza, di fare quello che gli stava chiedendo. Il Cècco avrebbe capito.

Invece mentì.

«Lo vuoi davvero?»

«Sì!»

«Allora lo facciamo scientificamente. Lasciami solo un paio di giorni.»

Fu la prima volta, da che si conoscevano, che si guardarono per più di dieci secondi negli occhi. Cècco allungò la mano verso quella di Mario, gliela strinse con la forza che gli era rimasta, e gli mandò un sorriso riconoscente.

«Per mangiare la merda non basta il cucchiaio, ci vuole il coraggio!»

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Pagina 90

In partenza da Milano, puntato davanti al tabellone dei voli in arrivo come un cane in ferma, Leonìno cercava l'indicazione del nostro aereo.

Non aveva neppure appoggiato a terra la valigia e con il borsetto a tracolla, una sacca nell'altra mano, e il naso all'insù, pareva il bronzo di un moderno pioniere.

Lo sfarfallio delle tessere elettriche, che componevano nuove destinazioni e ne aggiornavano altre, gli muovevano la testa come stesse inseguendo un moscerino su una caraffa di birra. Braccava l'alfabeto che continuava a comporsi, sparire, per poi riapparire composto su un'altra riga, tentando di fermare il vocabolario che subito ricominciava a tremolare per scomporsi nuovamente appena stava per picchiargli addosso. Trepidava.

«Non c'è il nostro!»

«Leonìno, questo è il tabellone degli arrivi. Noi dobbiamo andare al ceck-in delle partenze.»

«Come? Sanno che dobbiamo andare dal Cèchino?» disse guardandosi in giro.

«Vieni, seguimi.» Lo precedetti rapidamente affinché non si accorgesse che stavo ridendo.

Le operazioni d'imbarco furono rapide e senza intoppi. L'aereo rollava ormai verso la pista di decollo.

«Ma non fanno l'appello?»

«Che appello?»

«Come fanno a sapere se ci sono tutti?»

«Non è che a loro interessi se qualcuno manca.»

«Ehh, si vede che questi non aspettano.»

Appoggiai la nuca alla testiera aspettando la spinta d'accelerazione. Mi imitò, ma con più rigida postura impugnando i braccioli con energia. Sembrava un astronauta.

Sulle Alpi si slacciò la cintura di sicurezza vedendo che altri passeggiavano tranquillamente per il corridoio. Passarono con i giornali e dopo averli spiluccati non ne prese alcuno.

Ogni cosa era pretesto di commenti e domande, e dopo le prime spiegazioni, per metterlo a proprio agio, decisi di sorvolare su molte altre.

Ero un po' frastornato.

La sera avanti avevo dormito poco e piuttosto male, ma non volevo rilassarmi fino allo scalo di Madrid, che era ormai prossimo; dopo ci sarebbe toccata una trasvolata di quattordici ore, avrei avuto tutto il tempo di recuperare energie con una buona dormita e pensare ai dettagli di quella che ormai mi sembrava una missione.

Lo scalo madrileno fu agevole, e presto fummo sull'aereo transatlantico due volte più grande del primo.

Mi prese una leggera emicrania.

Leonìno si adagiò nella nuova poltrona. Pareva un cardinale.

«Ma come mai non paga nessuno?»

«Fa parte del servizio», gli dissi.

«In che senso? Che è tutto nel prezzo?»

«Sì, del biglietto.»

«E quello l'abbiamo già pagato, no?»

Ebbi un'esitazione: fui troppo prudente per la sua prontezza. Aveva già dato tre colpi di tosse farfugliando «ehi», «scus...», per richiamare l'attenzione della hostess alla quale, poco prima, aveva detto di non volere nulla pensando di dover pagare. Questa si voltò sorridente prestando attenzione all'indice proteso che la puntava.

«Please?»

«Eeeh... allora...»

Il dito alzato tenne in attesa l'inserviente finché con un colpo di fioretto trasformò la mano con il pollice verso la bocca come un collo di bottiglia. Compiacente la hostess si girò sul carrello per prendere una bibita e gliela porse.

Trasformò la manesca fiaschetta in un tergicristallo, con l'indice alzato che scodinzolava da destra a sinistra per dirle di no. Lei sorrise nuovamente prendendo una bottiglia di spumante, e mostrandogliela, attese il consenso sulla giustezza della scelta.

«Proprio quello!»

Gli riempì un bicchiere e glielo servì.

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Pagina 150

Il treno aggrediva la cordigliera a passo di trotto.

Nell'immenso paesaggio che penetravamo come piccole larve, più che viaggiare per qualche destinazione sembrava di intrufolarci, e le sommità, di volta in volta superate, aprivano squarci di clivi violetti che nell'orizzonte svanivano, lasciando intuire una continuità infinita.

Ogni gruppo montuoso aveva una personalità geologica e noi turisti, avvertiti dall'interfono, ne riconoscevamo il carattere dai colori delle viscere, che la montagna, scorticata dalle mutazioni millenarie, mostrava.

La strada ferrata era stata concepita per il trasporto dei materiali minerari, emancipando involontariamente le popolazioni queco-andine sconfinanti tra Cile, Bolivia, Paraguay e Argentina; e il treno era stato ripristinato da pochi anni a scopi turistici. La trazione della macchina era ormai alimentata a nafta, e non lasciava la scia di fumo che le locomotive originali mostravano nelle vecchie foto sui pieghevoli illustrativi.

Francobolli commemorativi dell'impresa tecnologica del XX secolo, iniziata nel ventuno e conclusa nel quarantotto, ricordavano l'inaugurazione con il primo viaggio ufficiale della locomotiva.

Tutto era molto bello, nostalgico; dopo due ore di migrazione emotiva, ci si poteva ritrovare nel colmo di altri tempi, con la sensazione di essere pionieri stupratori di luoghi dimenticati vergini da Dio.

Una delle carrozze era ricostruita come un ufficio postale, dove si potevano scrivere cartoline o lettere su carta intestata del «Tren a las nubes».

Mi sembrò una bella idea.

L'atmosfera mi produsse un abbandono sentimentale. Scrissi a mia moglie parole di cui non ricordavo l'esistenza. Dovevo averle lette sul sussidiario di quinta.

Quando la lettera passò nelle mani dell'attore in costume, realizzai che la stavo spedendo sì a mia moglie, ma che la destinataria era la Tosca.

«Ormai è fatta. Speriamo che non se ne accorga», mi dissi.

Il treno rallentò.

Avevamo raggiunto la quota di duemilatrecento metri ed era prevista una sosta per visitare il museo del treno e delle miniere.

Avvertii la difficoltà di tirare un fiato profondo. La hostess mi indicò con un sorriso la più vicina bombola di ossigeno collocata alla parete del vagone. Le feci cenno che riuscivo a resistere.

Leonìno teneva banco con i viaggiatori a lui vicini, ai quali parlava in bergamasco. Lo ascoltavano divertiti senza capire un'acca di quanto diceva.

«Lui ès il mio amigos, che stoi a chi con luis», disse loro presentandomi. Mi sorrisero complimentandosi.

«Hai dormito un po'?»

«Ho cominciato a chiacchierare... e allora...»

Davanti a sé aveva una coppa di vino rosso, vuota per metà, appoggiata su due scontrini con macchie circolari color indaco. Era chiaro che non aveva ancora pagato e io, stupido, non gli avevo lasciato altro denaro. Lo avevo assolto per la «primavera» e involontariamente punito.

Non volevo. però dargli dei soldi davanti agli altri come si dà la mancia a un adolescente.

Richiamai l'attenzione dell'inserviente. Ordinai una birra per giustificare, quando me la portò, il pagamento delle altre consumazioni.

Leonìno aveva due occhietti lucidi, ma non volli pensare che fosse già brillo. Era esagitato, ma non capivo se per l'entusiasmo del viaggio o per l'effetto del vino.

«Gli stavo dicendo che io qui avevo un amico che lavorava in Argentina, e che siamo venuti a vedere i posti dove ha lavorato; adesso che è morto.»

Lo avevano ascoltato con particolare ammirazione e dovevano aver capito che eravamo in visita alle proprietà del Cècco, credendoci degli eredi che visionavano i possedimenti minerari lasciati dal defunto.

Aveva parlato come gli era congeniale, in bergamasco, e loro avevano inteso quello che volevano capire. Lo guardai con tenerezza facendogli notare che il treno stava fermandosi.

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Pagina 161

«Cosa stai mangiando?» chiesi a Leonìno che stava masticando.

«Foglie di coca.»

«Come foglie di coca!?» strabuzzai gli occhi.

«Coca, coca. Me l'ha regalata una ragazza. Fa bene, ma non va mangiata, va solo masticata. La masticano tutti da queste parti.»

«Come la masticano tutti?»

Guardai i viaggiatori vicini divertiti dal battibecco. Nessuno masticava niente.

«Fa bene. La masticavo anche quando ero in Colombia. Montavamo a cavallo e masticando la foglia entravamo nella foresta.»

Mi vennero in mente le miserande raccomandazioni di sua moglie. Ma cosa potevo fare? Fargli sputare la cicca dandogli una pacca sulla testa?

«È come masticare il bagolo di tabacco dei nostri vecchi.»

Il treno aveva azionato la cremagliera come aveva fatto in altri tratti del percorso per superare le asperità della montagna. Marciava forse a dieci all'ora e quella lentezza incuteva l'apprensione che non ce l'avrebbe fatta ad avanzare, rovinando all'indietro schiantandosi.

Mi prese più violenta la sensazione di mancamento.

Tutti erano tesi e preoccupati. Gli unici tranquilli: le inservienti e Leonìno.

«Non si attacca neanche alla dentiera come la cicca americana. Prendine due anche tu», disse allungandomi un sacchettino di cellophane con dentro una manciata di foglie.

«No grazie. Ho un leggero mal di testa.»

«Appunto! Con queste ti passa.»

Guardavo invece le bombole di ossigeno appese nello scompartimento.

Una giovane ragazza dai capelli biondi e dal pallore indoeuropeo si era portata la mascherina su naso e bocca aiutata dalla hostess, che le passò il nastro elastico dietro la nuca per trattenerla. Avvertivo una sensazione di sonnolenza.

Guardai in silenzio per un lungo momento Leonìno che protendeva ancora la mano con il sacchetto di foglie. Scossi il capo negativamente. Lo intascò nel giubbino che non si era ancora tolto.

Superata l'asperità con la cremagliera, il treno viaggiò lentamente su un ampio pianoro, prima di affrontare il viadotto Muñol, sospeso in aria a quarantasei metri di altezza per una lunghezza di centosettantasette. Lo percorse a passo d'uomo.

I più ammutolirono, pensando che ci fosse del pericolo; gli altri erano già zitti e tesi, e la guida invitava ad osservare il paesaggio spettacolare.

In un silenzio che mimetizzava il terrore, superammo «l'ardito ponte» per raggiungere e sostare a San Antonio de los Cobres.

Leonìno masticava foglie di coca. Mi sembrava stralunato. Mi chiedevo cosa avesse trovato di tanto romantico mio zio in questi luoghi. Le volte che me ne aveva parlato non era solo entusiasta del ricordo; era esaltato. Forse perché era con la Tosca?

Il treno si era fermato per la visita a una serie di baracche dove vivevano contadini che, sfruttando dei ruscelli spontanei emergenti dalle viscere della terra, riuscivano a coltivare cereali e gramigna per la propria sussistenza e quella di pecore e capre.

Li osservavamo intenti ai lavori, ma furono incuranti della nostra presenza.

Al centro di un piccolo orto, al margine di una baracca, un vecchio officiava una cerimonia simile a quella vista alla precedente fermata. Infuocava un mucchio di pietre simile all'altro, che esalava le stesse fiammelle violacee, sulle quali spargeva piume di gallina.

La guida disse che stavano preparando l'uccisione di una capra e spiegò che erano soliti ringraziare e ingraziarsi a quel modo la «Pácia Máma», genitrice delle loro stesse vite, ogni volta che sopprimevano un animale di allevamento.

Candele, ricavate dal grasso animale, bruciavano davanti al cumulo di sassi emanando nell'aria un odore acre di pancetta abbrustolita.

I contadini erano perlopiù sordomuti, spiegò la guida. Comunicavano tra loro a gesti e con suoni inarticolati. Disse anche che quella menomazione era il risultato di unioni secolari tra consanguinei.

Avevano tutti gli occhi chiari, ma mentre quelli degli uomini, quando ci guardavano, rimanevano attoniti e spenti, quelli delle donne e dei bambini erano sorridenti.

«Hai visto?» mi disse Leonìno. «Hanno gli stessi occhi della Tosca. Il colore, intendo.»

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