Autore Alessandro Robecchi
Titolo Di rabbia e di vento
EdizioneSellerio, Palermo, 2016, La memoria 1025 , pag. 412, cop.fle., dim. 12x16,8x2 cm , Isbn 978-88-389-3496-4
LettoreAngela Razzini, 2016
Classe gialli , citta': Milano












 

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Il giro delle luci.

Quattro interruttori, prima quelli in fondo al salone, poi i due in ufficio, un cubo trasparente che dà su quello spettacolo di carrozzerie lucenti, di curve fluide, di cromature costose.

Poi il computer, arresta il sistema, sì. Poi l'impianto antifurto. Poi l'ultimo pulsante, quello che accende le luci delle vetrine, piccoli led al livello del pavimento puntati verso l'alto, che illuminano le macchine come opere d'arte, come statue preziose. Come quello che sono, insomma.

È solo il rito della chiusura serale. Una procedura. Una routine meccanica, rassicurante, consueta, che niente può rompere.


Invece la rompono dei passi sul marmo del salone.

Andrea Serini non alza nemmeno lo sguardo:

«Siamo chiusi».

«Ma no, che siete aperti», dice una voce.

Non può essere.

L'uomo guarda quello che ha parlato, ma il salone è buio, i led fanno una luce che serve a rendere ancora più sexy le curve delle Porsche in esposizione. Non è un visitatore fuori orario.

E in più, i lineamenti dell'uomo che ora sta in piedi in mezzo al salone non si distinguono. Il cabrio bianco interni rossi appena arrivato brilla come un diamante della corona, ma la faccia del tizio no, non si vede.

Però quella voce...

«Ciao, Andrea».

Un attimo di sospensione. Un attimo lungo.

«Tu?».

«Io».

«Ma...».

«Lo so».

«Ma tu...».

Se in quel buio appena sezionato da piccole lame di luce bianca si potesse vederne il volto, l'uomo che balbetta avrebbe la maschera dello stupore assoluto. Lo stupore, la sorpresa, la paura, non sono cose che fanno rumore, si avvicinano piano. Il problema è quando non se ne vanno.

Ora quindi c'è silenzio, qualcuno dovrà riempirlo.

«Tranquillo, Andrea, sono solo di passaggio. Lo sai, io sono sempre di passaggio».

Sì, un uccello di passo. E di rapina.

Ora l'uomo cammina piano nel salone. Accarezza con le dita la linea del cabrio bianco, la pelle del sedile con le cuciture a mano. Sembra un cliente, anche se la faccia ancora non si vede. È un'ombra.

Apre la portiera di guida, la richiude. Fa un rumore solido e morbido. Un clac preciso che significa: guardami, sono bella, potente, sono la perfezione, dai, prendimi, andiamo.

«Bella bestia», dice l'uomo.

«Bella bestia se la vendo», dice Andrea Serini, che si è un po' ripreso, «quelle bestie lì non le comprano più neanche i calciatori».

E poi, ora che ha preso coraggio:

«E dunque che devo dire? Bentornato? Perché sei qui? Che vuoi?».

Ha sparato le sue domande in fretta. Ma non è alle risposte che sta pensando. Quel che sta pensando è: non erano questi i patti. Si era detto nessun contatto, mai più.

«I miei soldi, Andrea. Nient'altro», dice la voce.

«I tuoi soldi? Non ne so niente... andiamo in ufficio», fa per voltarsi, forse pensa che seduti, con la luce accesa, sarà più facile.

«No, restiamo qui».

Così si volta ancora verso quell'ombra tra le lame di luce che guardano in alto.

«Ma... i tuoi soldi... non li aveva Angela?».

«Angela, sì».

«E allora?». Ha cercato di tenere ferma la voce, non saprebbe dire se ci è riuscito.

«E allora Angela non si trova. Sparita. Niente tracce, niente di niente. È una settimana che sono tornato, che chiedo in giro... E ora chiedo a te».

«Non ho idea, davvero... saranno anni che...».

«Andrea, lei ti portava i fessi che compravano...», fa un gesto circolare con un braccio, «quelli che comprano 'sta roba... Eravate in affari, può essere che te la scopavi pure...».

«Ma che dici!».

L'ombra fa una piccola risata fredda:

«Credi sia questo il problema? Il problema non è Angela, sono i miei soldi. Un milione, Andrea. Tu mi dici dov'è, io vado a trovarla, le porto un mazzo di fiori, prendo la mia roba e me ne vado... veloce, indolore».

«Io... Io non so...».

Ha balbettato. L'ha capito pure lui. Ha capito di aver mostrato paura, e quindi ora ha paura davvero. È una cosa che si autoalimenta, cresce, si moltiplica. Prima un piccolo tremore, poi paura vera. Ci vuole poco perché arrivi il terrore. Da zero a cento all'ora in cinque secondi e quattro, come il cabrio bianco.

Ora quello ha in mano una pistola.

Andrea Serini non vede bene, non c'è nulla che luccichi o che appaia minaccioso. Nessun buco nero da fissare inebetiti, nessun braccio teso, nei film si vedono un sacco di cazzate. Potrebbe essere un telefono, ma sa che raccontarsela non serve. Non con quello lì.

«Non la vedo più da anni, dico sul serio».

«Un nome, un posto, quello che sai, ma subito, ora», dice l'ombra.

Non ha un telefono in mano.

«Anna. Anna Galinda. So solo questo... due... no, tre... tre anni fa venne qui a dirmi che se ne andava, che aveva cambiato nome... mi diede un biglietto, ma chissà dov'è... Voleva che lo sapessi nel caso mi mandasse qualche cliente... per le macchine, sai... mi ricordo perché sul biglietto c'era quel nome... solo il nome... Anna... Galinda... Galindi... No, c'era stampato anche il disegno di due labbra, rosse, sai... e scritto a penna qualcosa...».

«Un indirizzo? Un numero?».

«No... solo il nome e quelle labbra... rosse... e una frase tipo... solito regalo, Andrea... Io le davo tre-quattromila per ogni affare, lei lo chiamava così... regalo... Ma dopo quella volta non è mai più successo».

«E se fosse successo dove le avresti mandato i soldi?».

«Non lo so... appunto... ma credo che si sarebbe fatta viva lei, nel caso...».

«Anna Galinda».

«O Galindi... credo Galinda, ma... posso cercare il biglietto, forse a casa, da qualche parte...».

«Ma no, Andrea, va bene così. Grazie, anzi», e fa per girarsi.

Andrea Serini si sente come uno che ha posato un sacco da due quintali. Espira come se avesse trattenuto il fiato fino a quel momento, e chissà, forse lo ha fatto davvero.

«E allora... come si dice... addio».

«Sì, ecco, addio», sussurra quell'altro.

Poi alza un poco il braccio e fa fuoco. Una piccola fiammata gialla, un rumore attutito.

La testa di Andrea Serini scatta indietro, il corpo la segue dopo una frazione di secondo. La fiancata del cabrio bianco si stria di rosso. Il corpo è a terra, la testa appoggiata tra la ruota anteriore e il parafango. L'ombra si china e spara un altro colpo, la canna a pochi centimetri dalla fronte. Pensa che la striatura rossa sulla portiera ha lo stesso colore degli interni in pelle cuciti a mano.

Poi mette la pistola nella tasca del cappotto, si gira e raggiunge la porta del salone, la apre con la mano che tiene in tasca, usando la fodera come un guanto, ed esce nel buio.

Non corre, non accelera, non respira affannato.

Tira un vento freddo, chissà, forse se piovesse sarebbe neve. Invece il cielo è sereno.

Nero, gelido e sereno.

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Il ristorante è quello di un albergo che ha più stelle della Via Lattea.

Un uomo gli va incontro. Carlo lo distingue da un ammiraglio soltanto perché lì non c'è il mare, così viene accompagnato a un tavolo anziché sul ponte di comando di uno yacht da sceicchi.

«Dottor Monterossi, buonasera, molto felici di averla con noi... il dottor Calleri la prega di accomodarsi al suo tavolo, sarà qui a minuti, posso portarle un drink?».

Il suo tavolo. Come fosse una trattoria di quartiere.

L'ammiraglio sparisce e torna con una bottiglia di champagne, che apre con la naturalezza di chi non fa altro nella vita, gli mostra l'etichetta senza fargliela leggere veramente, convinto com'è che chi arriva fino a quel tavolo sa riconoscere le annate dalla nuance dello stemma del produttore.

Così Carlo sorseggia le bollicine mentre si guarda intorno: pochi tavoli occupati, perlopiù uomini d'affari che stanno decidendo di privarsi con una stretta al cuore di qualche migliaio di dipendenti, o di acquisire qualche concorrente belga che si è reso stupidamente scalabile, o anche solo di attaccare la Kamchatka.

Poi arriva Luca Calleri. In corteo. Lui, un ragazzo sui trenta che lo segue a un metro e una biondina da copertina che regge in mano un iPad con la custodia in coccodrillo, aperta come fosse la lista dei vini. Sta dicendo qualcosa, ma lui la interrompe con un gesto gentile della mano.

«Va bene, va bene, Cristina, venga a chiamarmi quando arrivano... Ora ho da fare».

Il tono è quello per-favore-non-mi-costringa a-guardare-l'orologio, anche se naturalmente ne ha al polso uno che vale come un Cézanne.


Poi la cena scorre via senza sussulti. Allo champagne segue uno Chàteau d'Yqueme del 2010 e Carlo pesca a caso da un menù dove i cibi hanno nomi inventati da uno chef del genere creativo-impazzito, uno che forse ha già preso ostaggi in cucina e minaccia di servirli con fico caramellato e finocchietto selvatico.

Gli antipasti si chiamano «piccoli morsi». Carlo si tasta la giacca, ma no, dannazione, purtroppo non ha portato il kalashnikov.

Per farla breve: Luca Calleri non dice una parola su programmi, audience, palinsesti, che di quelle cose si occupa l'intendenza, e un generale ha i colonnelli apposta, no? Lui, il Principe, parla di massimi sistemi, del peso immenso — tutto sulle sue spalle — della grande Azienda Culturale che contribuisce a determinare l'immaginario del Paese. Di strategie mediatiche. Della necessità di dare sogni e abitudini serali a gente che rimanda a febbraio l'acquisto delle scarpe dei figli, facciamo marzo se si può, Marisa, che 'sto mese c'è il bollo auto.

Non lo dice così, ovviamente, ma per Carlo è come se.

Dice di essere un semplice uomo d'affari e di invidiare molto chi fa un lavoro creativo, come Carlo, e poi mi parli di lei, mi dica come nasce un'idea, mi illumini lei che sa creare, mentre io sono l'umile amministratore della fabbrica.

Alla fine dell'antipasto Carlo lo strangolerebbe, a metà del secondo rimpiange di non aver indossato, sotto la giacca, una cintura esplosiva da jihadista.

Certo, il format vincente è ora quello dello storytelling satellitare, dell' on-demand, la somma di piccoli segmenti che fanno un grande pubblico, ma lui, lui il boss, alla tivù generalista crede ancora: perché l'italiano medio dovrebbe pagare per avere quel che noi gli diamo gratis?

Poi, siccome la vanità è una brutta bestia, non resiste alla tentazione di sentirsi anche un magnate, un Medici, uno Steve Jobs, un innovatore illuminato. E così si dilunga sul fascino della creazione che stupisce e spiazza. Riconosce agli altri un talento, un genio, a patto che lui ne sia in qualche modo il coltivatore, il finanziatore, il nobile ispiratore, il mecenate. Lo stuolo di servi di cui si circonda, gli autisti, i piloti di elicottero, i manager, la bella Cristina da concorso di bellezza, non sono che ovvi tributi alla sua potenza. È dall'alto di quella montagna che può permettersi di fingersi alla pari di «artisti» come lui, come Carlo. Che intanto pensa: che razza di cretino. Quest'uomo, si dice ora Monterossi, è il concentrato di tutto ciò che bisogna odiare: il cinismo, il potere, l'elegante, momentaneo understatement di chi è potente davvero. E al tempo stesso prova una strana attrazione, un fascino, come quando si vede lo squalo bianco che mostra i denti. Solo che Luca Calleri i denti li mostra per sorridere charmant.

«Faccia lei, Monterossi, è lei il genio, Flora De Pisis parla di lei come di un portento».

Ecco, ci mancava la diva Flora, a tessere le sue lodi, il peggio del nazional-popolare che la storia ricordi, e dire che Carlo mette nel conto anche la fiera della polenta taragna di Zogno e miss maglietta bagnata.

Quanto a lui, al portento, si limita a mezze frasi e piccoli contrappunti, il minimo sindacale, si comporta da artista: se quello è tanto scemo da crederci, si dice, agevoliamo l'arrivo dell'ambulanza.

Lo salva la bella Cristina che raggiunge alle spalle il suo capo con la leggerezza di un sospiro. Sorride come per scusarsi, mostrando più denti dei master che le ha pagato papà e sussurra:

«Il sottosegretario è arrivato, dottore... la aspetta nella sala riservata».

Così Luca Calleri si alza, morbido come un maestro di tennis che fa strage di allieve, e stringe la mano a Carlo, ora in piedi anche lui.

«Mi ha fatto un immenso piacere, dottor Monterossi. Come si dice... sa dove trovarmi... e niente prudenze commerciali, niente autocensure... inventi, crei, vada controcorrente! Mi stupisca! Di più... Mi scandalizzi!».

Ovvio che mente. Il sottotesto dice chiaro e tondo: se non è una cosa che fa far soldi ci penseranno i miei a darle un calcio nel culo.

Poi guarda per la prima volta l'orologio, senza guardarlo davvero.

«Devo andare. Immagino avrà impegni anche lei... i miei sono la mia croce, vede... un sottosegretario!».

Lo dice col tono paziente di un latifondista che allarga le braccia e si duole di dover incontrare i mezzadri, ogni tanto.

Carlo non abbocca:

«Pensavo di fermarmi al bar, e poi subito a casa... sa, devo creare...».

Quello non coglie il sarcasmo, o forse lo coglie e non gliene frega niente.

«Le consiglio uno speciale rum della Guadalupa, allora... ho insistito perché se lo procurassero anche qui... lo assaggi... mio ospite, naturalmente... ci tengo».

Poi sorride ancora - deve avere Michelangelo, come dentista - e se ne va preceduto dalla bella Cristina e dall'altro giovanotto servile. Forse è così che il Re Sole lasciava il salone delle feste, chi lo sa.

Carlo non perde nemmeno un secondo a sperare che scivoli sul parquet tirato a lucido, perché sa che la giustizia non è mai così semplice.

E a quelli lì, comunque, gli fa un baffo.

Così si sposta al bancone del bar, dalle finestre si vede il Duomo, la carta dei whisky ha più pagine dell' Ulisse di Joyce e un altro ammiraglio, in giacca bianca questo, lo guarda con un punto di domanda negli occhi.

Ci sono bottiglie, lì, che costano come un bilocale a Lambrate. Ma Carlo intende tenere la schiena dritta, non tradirà il suo amico Oban, anche se per sedare i tafferugli del cattivo umore gliene servirebbe una cantina piena.

«Oban 14», dice.

Chiude gli occhi per un attimo, il tempo di ricordarsi dov'è, li riapre subito e non è più solo.

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Oscar Falcone si stira i muscoli delle braccia e tende il collo per sciogliere nervi e legamenti. È seduto lì, in macchina, da più di due ore, fa un freddo cane e di accendere il riscaldamento non se ne parla: dovrebbe avviare il motore e si farebbe notare. Aspetta.

Aspetta che quello esca: è entrato dopo le undici e adesso è quasi l'una e mezza. Il tipo che fa la guardia ha freddo anche lui, e non è nemmeno seduto. Passeggia distrattamente su e giù per via Venini senza allontanarsi mai dalla saracinesca dell'elettrauto, tenendola d'occhio, salutando con un cenno chi esce sollevandola piano e non del tutto, scrutando bene chi entra, e a quelli apre lui.

Perché l'officina nasconde una bisca dove si gioca forte.

E perché là dentro è entrato - Oscar Falcone ha scoperto che ci va spesso - il Grande Moralizzatore. Giampiero Devoluti, mancato - di poco - assessore alla Regione, caparbio e volitivo. Implacabile censore della morale, aspirante sceriffo, law, order e retorica populista. Uno di quelli che consigliano ai cittadini di armarsi, che cavalcano l'onda xenofoba, che chiedono pene esemplari. Lo fa parlando dritto, ostentando disprezzo, indicando il nemico ai poveri ignoranti. Il solito nemico, i più poveri tra loro: un consenso facile seminato con l'egoismo e concimato con l'odio. I giornali della destra stravedono per lui, ne parlano come del prossimo candidato a tutto, sindaco, governatore, capo di questo e di quello, il prossimo uomo della provvidenza, manganello compreso, ah, se ci fosse lui, caro lei!

E ora è lì dentro, nella bisca del Cane, un posto non proprio commendevole.

Oscar l'ha seguito per un po'. Così, senza missioni specifiche, senza un disegno, chiedendosi se per caso quel kapò della tolleranza zero non avesse almeno un vizietto.

Finché l'ha visto entrare lì. Brutto posto.

E ora Oscar Falcone ha ciò che gli piace di più: un segreto nascosto che lui sa. Una cosa che può tornare utile. Non è il caso di chiedersi come userà quella notizia, o quando, o perché. Intanto lui ce l'ha, gli altri no.

E ora si stira i muscoli indolenziti e pensa che fa freddo, che questo vento è strano davvero, per Milano, ma almeno tiene il cielo tirato a lucido. E anche che tutto sommato star lì a cronometrare quanto Giampiero Devoluti sta seduto a un tavolo a farsi spennare non è così importante. Ha fatto qualche foto, ha quel che gli basta.

E poi gli suona il telefono. Non suona, anzi, lampeggia solo il display: Carlo.

Oscar Falcone schiaccia il tasto di risposta e dice: «A quest'ora?».

«Sì, a quest'ora», dice l'altro. Ha una voce stanca.

«Cosa offri?».

«Da bere, riscaldamento e una storia».

Oscar sta zitto. Carlo Monterossi aggiunge:

«Brutta».

«Arrivo».


Carlo Monterossi non sa perché ha fatto quella telefonata. Tornato a casa, già gli era sembrata una buona cosa essere sfuggito allo sguardo di Katrina — annaffiava le piante del cortile del palazzo, e gli ha lanciato solo un saluto veloce.

Stare da solo. Non pensarci. Placare la nausea.

Ma poi, in quella casa grande, un pendolare nervoso tra i divani bianchi del salotto, lo studio, la cucina, ancora i divani, senza riuscire a mangiare, senza riuscire a dormire, la musica nervosamente cambiata a metà delle canzoni. Niente che lo soddisfi, niente che scacci il furore. Con un rumore solo in testa, il clac della serratura di via Borgonuovo, il pensiero che invece avrebbe dovuto dirle: su, svegliati, io me ne vado, alzati e chiudi bene la porta. Vai a dormire.

Cose che si pensano dopo, sì, è vero. Ma è vero anche che si pensano lo stesso.

Allora ha chiamato Oscar. L'unico a cui può dire certe cose sicuro che le capisca. Perché quello è un navigatore strano e imprendibile, un Corto Maltese urbano che scava, e trova, e sa, uno che a furia di cavarlo dai guai, a questo povero Monterossi che ora fa avanti e indietro nella sua reggia, gli è diventato amico. Buon amico.

Uno che puoi chiamare all'una di notte e magari svegliarlo per dirgli: ho una storia.

Brutta.


Ora pensa che Oscar avrà qualche sua idea, oppure non ne avrà affatto e farà solo il punching-ball della sua rabbia. Sa che entrerà dalla porta come se emergesse da misteriose missioni segrete, e forse è così, e certo Oscar non farà nulla per confermare o per smentire.

Indecifrabile.

Di lui Carlo sa confusamente, poco e tutto. Sa delle sue occupazioni al confine tra informazione e informazioni, cronaca, indagine e militanza, ma di quale milizia, se non quella privata di Oscar Falcone, non lo ha mai capito. Sa che è un tipo solitario, solo anzi, che vive in una casa ereditata, una ragazza ogni tanto, purché non si perda tempo coi fiori. Ma tutto questo Carlo lo sa di rimbalzo, per piccole frasi captate o sfuggite all'amico, come sa dei genitori, morti in un incidente chissà come... macchina? aereo? altro? Non ha mai chiesto. Come sa che Oscar Falcone ha lavorato a contatto con la cronaca nera, che sa muoversi su quella linea ombrosa, volatile, che passa all'incrocio tra la legge e la giustizia, e i trucchi, le procedure, che conosce il peso di una notizia e ne sa valutare l'uso, la potenza, il valore di scambio. Perché è un tipo che fiuta i guai a chilometri di distanza, e ha un suo spiccato senso della giustizia per cui poi vuole sistemarle, le cose, come la volta che arrivò con un esercito di zingari buoni a salvarlo dai cattivi, madonna che storia.

Così Oscar era diventato senza che nessuno lo dicesse, o nemmeno lo pensasse, il miglior amico di Carlo, una specie di confidente, e al tempo stesso un complice.

Dietro quell'incidente, quello dei genitori, c'era qualcosa che ancora bruciava, che aveva spostato in qualche modo la vita di Oscar, un'ingiustizia mai detta e mai confidata, che l'aveva reso solitario ed efficiente. O forse era solo l'ingiustizia della vita: rimanere orfano a vent'anni era già abbastanza, certo, e quando Carlo lo aveva conosciuto, Oscar era un giovane abilissimo e veloce, che trottava per i corridoi del Palazzo di Giustizia, nei meandri della questura, cacciatore di notizie, annusatore di storie che altri, poi, avrebbero scritto e firmato. Non gli pesava. Anzi, difendeva il suo anonimato, il suo agire nell'ombra, il suo essere imprendibile. Ma non c'era caporedattore nei grandi giornali milanesi che non apprezzasse le notizie che Oscar Falcone gli faceva scivolare sottobanco, lavori ben fatti, storie scavate per bene, ma anche informazioni, indiscrezioni, voci e sussurri della città.

Che Oscar in quelle storie ci si buttava a capofitto, in qualche modo per far giustizia, Carlo lo aveva capito dopo. Gli sentiva vagamente dire di «affari» e «appostamenti» e «piste», ma lui non chiedeva, l'altro non diceva, tutto molto misterioso e indistinto. Mai una questione di soldi, mai un accenno alle cose pratiche dell'esistenza, tanto che Carlo aveva pensato che da quelle avventure sul filo del codice Oscar traesse anche di che vivere. Colpi, in qualche modo.

E comunque — Carlo arriva sempre a questo capolinea quando pensa a Oscar — nessuno direbbe che dietro quel giovane metropolitano poco più che trentenne, scattante ma fluido e silenzioso, si nasconda una specie di Batman incattivito, un lupo solitario con l'ambizione di mettere a posto le cose del mondo, metà analista dell'ecosistema milanese e metà Don Chisciotte. Niente cavallo, una Passat vecchia di anni, e la capacità di attraversare i mondi, di sapersi destreggiare tra spacciatori di periferia e affaristi incravattati del centro, marginali, manager, business, coltelli a scatto, insomma, la feccia di questa città moderna.

La capitale morale. Ah!

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Non c'è la messa, ora.

Qualcuno è seduto nel piccolo cortile, dalla scuola vicina vengono voci di ragazzini e l'odore della refezione. Meseret invece è seduto dentro, su una sedia, nella piccola cappella. Ogni angolo di muro è coperto da immagini sacre, soprattutto icone russe, madonne circondate da quell'oro, con un bambino in braccio, quel bambino che si sa, sì, proprio lui. Intorno sente parlare russo, ma ogni tanto si vede anche qualche donna vestita di bianco, il velo in testa, la piccola croce blu sulla fronte, slavata dagli anni. Vecchie che si affacciano nella chiesa buia prima di andare al lavoro, badanti, sguattere.

Meseret passa di lì ogni volta che può, perché quel posto gli dà sollievo. Se è mattina, se è digiuno, beve qualche goccia di acqua benedetta, poi si siede e guarda le madonne. Come ha detto a cena? Che la Madonna ha tante forme ma è sempre lei? Boh, vai a sapere.

Anche se fa molto freddo, non lì dentro, ma fuori, per la strada, lui ha solo una giacca e un maglione. E nella tasca della giacca dei ritagli di giornale. Il pezzo del Corriere con la sua foto, quello di quando l'hanno fermato. E anche due articoli usciti due giorni dopo, più piccoli, dove si dice che ha collaborato, che era un equivoco, che ha aiutato gli inquirenti eccetera eccetera. Niente foto, stavolta, meglio.

È stato quell'avvocato là, mandato dal Monterossi. Un mingherlino elegante e tignoso, che appena è comparso lui tutti sembravano più gentili e comprensivi. Al punto che quello ha preteso che scrivessero un comunicato su di lui, che era stato bravo, insomma, il buon cittadino Meseret Teseroni rispettoso della legge, e poi fuori. Una stretta di mano e via, dell'avvocato non sapeva nemmeno il nome.

È così che funziona, dunque. Due mondi, e anche due leggi, e anche due trattamenti diversi. Non aveva paura, là dentro, ma sapeva che poteva rimanerci impigliato. E invece si è trovato per una volta, incredibile, dalla parte di quelli che possono, ed è uscito quasi subito. Con tante scuse. A quanti capita?

Meseret non può sapere che la gentilezza, il rilascio immediato - fermo non confermato, può andare - non dipendevano dall'avvocato, ma dal caso che si chiudeva da solo con un colpo nella testa di Enrico Sanna e il suo cervello schizzato sul muro di una pensione da poco sulla Barlassina. È che anni e anni da italiano lo hanno convinto che le cose funzionano così, che se sei ricco, potente, o se hai amici ricchi e potenti, arriva un avvocato, strepita un po' e ti tira fuori, e ora ne ha la conferma, per una volta vista dalla parte di quelli che se la cavano. Dopo, il Monterossi l'ha chiamato più volte, ma lui non ha risposto. C'è tempo, non c'è fretta, risponderà quando l'alta marea che ha dentro si placherà un po', quando il livello dell'acqua scenderà scoprendogli un po' gli scogli della vita normale, che ancora non è tornata.

Sta lì e guarda le madonne. Appena uscito è andato all'istituto. Sua madre non l'ha riconosciuto, come al solito, nemmeno i piccoli sprazzi di lucidità che c'erano fino a qualche tempo fa. Lui le ha tenuto la mano ed è andato a parlare al medico, che ha scosso la testa più volte. Questione di giorni, ha detto, si faccia coraggio. Lo dicono da settimane e lui sente dentro dei rumori come di legno secco che si incrina. Così è tornato da lei, accanto al letto, le ha preso ancora la mano e le ha parlato a lungo, anche se lei non poteva sentire. Le ha detto della brutta fine della signorina Anna, che gli aveva promesso un po' del suo tesoro per tornare ad Addis Abeba, un posto che lui sente suo anche se l'ha visto solo da neonato, quindi mai. Che era brava, la signorina, che era gentile con lui come lui con lei. Che gli hanno mostrato una foto di come l'hanno conciata, e lui la vede sempre quando chiude gli occhi. Poi le ha detto che la aspetta, che aspetta che lei finisca il suo calvario, e dopo se ne andrà. Le ha detto della stanza in cui è rimasto con le manette, poi senza manette, poi fuori nel gelo, ma gli è piaciuto persino il freddo ed è tornato a casa a piedi, più di un'ora di strada, e stava bene. Le ha detto che adesso è tranquillo, che sa cosa vuole, finalmente, che quel lavoro misterioso per la tivù, per cui non deve fare niente, gli darà un po' di soldi, che se è bravo e non li spende - ma per cosa? perché? - tra qualche mese potrà permettersi il biglietto aereo, anche prima, forse, ha visto le tariffe, non sono così spaventose, se prenoti per tempo. Poi le ha lasciato la mano e se n'è andato.

Avvisiamo noi, gli ha detto il medico. E lui ha fatto sì con la testa.


Ora guarda quell'oro intorno alle madonne. Gli piace il fatto che icone preziose, antiche, realizzate con lamine di vero oro, stiano accanto a disegni più poveri, anche infantili. Che ci sia il profumo dell'incenso, e che lui possa sedersi lì senza che nessuno gli dica o gli chieda niente.

Non è il solo a farlo. Le poche sedie servono proprio a questo, a mettersi lì e fare due conti con la vita. Ora c'è una vecchia russa, seduta dietro a lui, e altre donne tra il cortile e l'altra cappella, in legno, anche quella tappezzata di madonne.

Poi Meseret si alza, lentamente, e cammina, esce nel piccolo cortile e quindi nel gelo della strada, via San Gregorio. Non ha visto la signora bionda seduta in un angolo della cappella, non ha guardato, non guarda mai chi sta lì, perché sa che c'è un'intimità che non si può violare.

Katrina l'ha visto, però.

L'ha guardato mentre lui era seduto e l'ha guardato uscire piano, come in punta di piedi per non disturbare gli altri. È rimasta seduta ancora un po' a fissare le madonne, a pensare che quando sarà tornata a casa dirà alla sua amica di Medjugorje, sai, oggi ho visto tutte le tue colleghe russe, somale, etiopi, e sa che quella le farà quel suo sorriso poderoso e disarmato.

Poi, quando Meseret è uscito da dieci minuti, si alza anche lei e si avvia verso casa, programma spese e lavatrici e sessioni di stireria e cucina. Pensa anche a quel nero così gentile, un uomo che parla di madonne, mah, mai visto. Non ci pensa tanto, lo mischia a tutto il resto. Sembrava tranquillo. Certo che signor Carlo è sempre una sorpresa.

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