Copertina
Autore Maria Roccasalva
Titolo È notte anche per me
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2011, , pag. 364, cop.fle., dim. 14,5x21x2,3 cm , Isbn 978-88-7937-555-9
LettoreGiorgia Pezzali, 2011
Classe narrativa italiana , storia antica , paesi: Italia: -500
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CAPITOLO I



Le voci tacevano. Nella pianura avvolta in una bruma densa e opaca si udiva solo lo scroscio insistente della pioggia. Al di là di quella cortina nebbiosa, il paesaggio era tutto un fluttuare di forme alla ricerca di equilibrio nella pericolosa ambiguità di quel galleggiamento. Il giorno e la notte si erano confusi dentro uno spessore inerte che impigliava la vita soffocandola e rendendo ogni movimento smorzato e attenuato.

Non era stata una decisione avventata lasciare i monti grifagni e inospitali dell'Epiro per le valli aperte e promettenti dell'Italia. Ma questa valle non aveva nulla di promettente. Eppure, nelle loro terre, stretti nella morsa del gelo e della fame, i Barbari pensavano all'Italia come un eterno festino, con tavole imbandite di ogni bendiddio, un sole caldo e giardini fioriti.

Nulla di tutto questo, in quel novembre piovoso; nessuno di loro aveva immaginato quale pantano diventasse la valle percorsa dal Po. Il fango arrivava ai polpacci dei soldati, e le ruote dei carri, con donne e bambini a bordo, affondavano nella melma. Era una terra infida, l'Italia: infida e traditrice come i suoi abitanti. Bisognava aspettare che quella maledetta pioggia cessasse, per poterla vedere.

L'esercito, in preda all'ozio forzato, languiva su una piccola altura. Un cielo gonfio e nero gravava con tutto il suo peso sulla terra inzuppata e l'acqua, che cadeva a precipizio, accresceva il senso di soffocamento della nebbia, rendendo pressoché nulla la visibilità, limitata alla lunghezza di un braccio teso.

Più che l'occhio di un'aquila, solo l'istinto di una belva feroce avrebbe avvertito che una preda stava avvicinandosi. Il guerriero alla testa della schiera l'avvertì, e ordinò a uno squadrone di cavalieri di seguirlo. Arrancando, coi cavalli inzaccherati e timorosi, i soldati si precipitarono giù dall'altura.

Ora si poteva intravedere un corteo che si snodava lentamente come un fiume nero. Gli uomini a cavallo che lo componevano, inzuppati fradici, avanzavano a fatica, in fila per due, seguiti da una carrozza. Da lontano, sembravano militari. Ma la presenza della carrozza era un fatto insolito. Il guerriero si chiese chi stessero scortando e si avvicinò temerariamente intenzionato a sbarrare loro la strada.

«Siamo uomini di Dio, lasciaci passare, soldato», esordì il più anziano di loro, il cappello rosso da prelato, le falde grondanti acqua, come il bulbo di una fontana.

«Dove siete diretti?». Il tono del guerriero era duro e non lasciava prevedere niente di buono.

«Al monastero di Laus Pompeia».

«Teodosio non aveva impedito ai monaci di risiedere nelle città? Dice che si cibano di disordini», insisté il militare con aria di scherno.

«Questa iniqua legge fu abrogata dallo stesso imperatore due anni dopo averla promulgata. E comunque si tratta di un monastero per pie donne», chiari con fierezza il vescovo.

«E da quando esiste un monastero a Laus Pompeia?».

«Da quando, ventotto anni fa, il santo vescovo Ambrogio – che Dio l'abbia in gloria – elesse la città a diocesi, e da quando il vescovo Bassiano lo ha edificato or sono quattro anni», rispose paziente il prelato.

«Da dove venite, con questo tempo?».

«Da Cremona».

«Chi c'è nella carrozza?».

«Due monache e una giovanetta che ha chiesto di entrare in monastero».

«Dev'essere di nobile lignaggio se è scortata da una truppa di preti e da un vescovo».

«È un'orfana di contadini. Si è unita a noi approfittando del nostro viaggio».

«Se menti, vescovo, non arriverai a destinazione».

«Guarda pure nella carrozza. Ti accerterai che dico la verità, come si conviene a un uomo di Dio, il cui principio è di essere alieno dalla menzogna».

L'uomo tirò la redine destra del cavallo e si avviò verso la carrozza. Sollevò le tendine e si sporse col busto nel vano. Effettivamente c'erano due donne anziane vestite di una semplice tunica bruna, la testa velata all'uso delle monache. Alla vista dell'intruso, istintivamente si accostarono l'un l'altra parandosi davanti alla ragazza come per proteggerla. Con la punta della spada l'uomo le separò e la visione che gli si presentò davanti quasi lo accecò.

Le tenebre si erano squarciate e una luce sfolgorante era apparsa all'improvviso. Due grandi soli neri, splendenti nel chiarore lunare del viso, lo guardavano spavaldi, per nulla intimiditi dalla sua minacciosa presenza. Una forza misteriosa inchiodava l'uomo a quegli occhi cupi e tuttavia scintillanti. Allucinati e tirannici i suoi pensieri si annidavano sulla porta della coscienza, impedendone ogni fuga, bloccando ogni uscita che non fosse quella visione; erano una freccia che vola diritta al suo bersaglio, senza vedere nient'altro che la sua traiettoria, ossessionati da un'unica mira, spinti da un unico irresistibile impulso.

Il suo pensiero usciva dall'ombra puro e perfetto, in un sol getto, e non c'era nulla che gli si impigliasse addosso, nulla che lo trattenesse o ne rallentasse l'offensiva. Se avesse pronunciato una sola parola sarebbe uscito fuori un balbettio. Sentì il cuore accelerare i battiti e le tempie pulsare. Era invaso da una sensazione mai provata, che lo invadeva tutto e lo riempiva fino a straripare. Da quel momento non avrebbe potuto fare a meno di quegli occhi che avevano scompigliato la tristezza del grigio in una gamma brillante di arcobaleno. Senza quegli occhi la vita non gli avrebbe più sorriso.

Doveva prendersela, portarla con sé, solo così avrebbe potuto domare il demone che gli ruggiva dentro. Da allora non avrebbe avuto più altro pensiero che non fosse lei, non avrebbe pensato più che a una cosa, alla bellezza sovrumana di quella fanciulla. Scese dalla sella e aprì lo sportello della carrozza.

«Per amore di nostro Signore Gesù Cristo, non ti avvicinare!», gli intimò una delle due monache. «È una vergine votata a Dio, compirai un sacrilegio se la toccherai, e la maledizione del Cielo si abbatterà su di te».

Le parole della monaca produssero un doloroso risveglio nell'uomo. Quando aveva fatto abbeverare il suo cavallo, amato compagno di tante avventure, alla sacra fonte Castalia, aveva udito la stessa parola: "sacrilegio". Lo avevano maledetto, i Greci; ma gli dei avevano abbandonato le fonti, e quell'acqua non era più di nessuno. Sentì come una scossa percorrergli la schiena e vide il cielo richiudersi e diventare fosco. L'avrebbe tolta al più feroce dei nemici, l'avrebbe contesa a suon di spada a qualsiasi rivale, fosse pure l'imperatore in persona, ma a Dio non poteva. Tristemente risalì in sella.

A malincuore dette ordine allo squadrone di lasciar proseguire il convoglio. Lo avrebbero scortato cavalcando al fianco della carrozza finché non fosse giunto in città. Sperava in un prodigio: che un fulmine si abbattesse su quei preti, che la carrozza sprofondasse nella mota e che la fanciulla, ravvedutasi della negazione che stava per infliggere alla sua vita, corresse verso di lui. Ma non accadde nulla fino a sera, quando giunsero alla meta.

Non aveva mentito, il prelato Bassiano: il convoglio attendeva sulla soglia del palazzo vescovile. La fanciulla, fra le due donne che le si serravano al fianco, appariva minuta, ma saliva le scale a testa alta e con grazia tale che sembrava dispensare la luce al suo passaggio. Il guerriero pensò che una coltre di tristezza e di noia stava per scendere su quel sole, imprigionando una vita in boccio dentro le tetre mura di un monastero, e rivolse alla fanciulla uno sguardo pieno di disperazione, forse l'ultimo di un uomo a posarsi su di lei.

Quando si volse verso di lui come per dirgli addio, e quei due laghi di calma che erano i suoi occhi si levarono su di lui consapevoli della tortura che gli stavano infliggendo, egli provò una struggente gelosia. Davanti a lui vide danzare gesti immaginari: baci appassionati e pensieri ardenti rivolti a Dio, estasi dalle quali egli era escluso, e desiderò che il suo rivale fosse un uomo da uccidere, non uno spirito immortale. Senza scendere da cavallo, tornò indietro insieme ai suoi compagni.

«Sono esterrefatto, vescovo Prudenzio», disse con voce rotta Bassiano. «Ti sei lasciato guidare dall'uomo più temibile per l'Impero, il più spietato nemico dell'Italia. Non conosci dunque Alarico, il sanguinario re dei Goti?».

Prudenzio impallidì.

«Ma nostro Signore è stato benigno», proseguì Bassiano. «Nella Sua infinita misericordia ha voluto salvare la fanciulla. Ora dovete prendere un'altra via. Qui non potete restare. Se quel demonio si accorge di essersi lasciato sfuggire un ostaggio prezioso, tornerà qui e allora per voi non ci sarà scampo. Farò apprestare delle imbarcazioni che vi trasporteranno sull'Adda. Sul fiume, i Goti non potranno inseguirvi. Scenderete in prossimità del Lambro, e di là proseguirete per Milano. Invierò un corriere al galoppo per approntare una carrozza nel punto di confluenza dei due fiumi. Se non troverà sufficienti cavalli, il resto del corteo dovrà andare a piedi. Il tragitto non è lungo. Non c'è un attimo da perdere, dovete far presto, subito. Solo così eviterete il peggio».

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La fanciulla lo aveva guardato con un misto di ammirazione e di sfida. Anche il suo rivale lo ammirava e nello stesso tempo lo sfidava, era questa la verità. Stilicone aveva paura di dividere il suo potere con lui; e allora, anziché affidargli un esercito, lo combatteva. Ma aveva bisogno di lui, di Alarico, e lo sapeva. In tutto il suo esercito non c'era nessuno che potesse stargli alla pari.

Ma lei, la piccola contadina, non aveva alcun potere da dividere con lui, non aveva bisogno di lui. Eppure quegli occhi lo avevano sfidato. A che fare? Era forse contro la sua volontà che la facevano monacare?

Era immerso cupamente in questi pensieri, quando udì il passo felpato di un cavallo avvicinarsi.

«A quest'ora ti presenti? Ti avevo mandato in ricognizione, non a raccogliere le more sull'Adda. Che hai visto? Dimmi!».

«Solo il corteo che scortava la principessa, mio signore...».

«Quale principessa? Che vai farneticando, Erifrido! Di quale corteo parli, e di quale principessa?», ansimò Alarico, come temesse di ricevere una risposta affermativa ai sospetti che lentamente, subdolamente gli si insinuavano dentro.

«L'avrai vista anche tu, mio signore. È passata proprio sotto questa collina...».

«Io ho visto solo un manipolo di preti capeggiati da un vescovo, che dovevano accompagnare una contadinella orfana e due monache in un monastero a Laus Pompeia».

«La contadina era la sorella dell'imperatore Onorio. Era Galla Placidia».

Il cuore sembrò fermarsi nel petto di Alarico. Non era possibile, era la menzogna di un guerriero che voleva prendersi gioco di lui, per vendicarsi di essere costretto a segnare il passo nelle condizioni avverse del tempo. Se era così, lo avrebbe decapitato con la sua stessa spada. No, non poteva essere vero ciò che riferiva Erifrido. Era una contadina quella che lo aveva guardato nel buio della carrozza, non una principessa imperiale. Ma a ripensarci, quegli occhi lo avevano fissato impavidi e spavaldi anche quando era stata consegnata a Bassiano.

«Chi ti ha detto che si trattava proprio della sorella di Onorio?».

«Lo sanno tutti, qui nella valle. Alla posta aspettavano il convoglio proveniente da Roma per il cambio dei cavalli».

«Da Roma?», ripeté incredulo Alarico. «E perché non mi hai avvertito subito? Ma lo sai che la figlia di Teodosio poteva essere il più prezioso degli ostaggi? E tu te la sei fatta sfuggire!».

«Non io, tu, mio signore, l'hai lasciata sfuggire. Io ero troppo lontano per avvertirti».

L'esploratore avrebbe meritato di essere frustato per quell'impudenza. Ma erano i Romani che frustavano gli schiavi, non i Goti e comunque Erifrido era un guerriero, non uno schiavo.

Era stato giocato per l'ennesima volta. Una luce ferina gli lampeggiò negli occhi. Stavolta più nessuno lo avrebbe fermato. Come un forsennato montò a cavallo e, senza l'aiuto della scorta, si diresse verso Laus Pompeia, intenzionato a irrompere con la spada sguainata nel monastero che aveva dato rifugio alla ragazza.

[...]


Lasciato alle sue spalle un campo di cadaveri e quel mucchio di macerie fumanti che era stata Laus Pompeia, coi carri pieni di bottino puntò verso Milano.

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CAPITOLO II



Dopo la fortunosa traversata dell'Adda e del breve tratto sul Lambro, il corteo era giunto a Milano alle prime luci dell'alba. Alle porte della città, la carrozza nella quale sedeva la principessa nei suoi abiti dimessi da contadina fu costretta a una breve sosta. Per il controllo dei documenti, la informò una delle dame che l'accompagnavano. Che significava il controllo dei documenti? Alla ragazza fu subito chiaro, quando dal grosso carro che li precedeva scese un uomo.

Frugandosi nelle tasche, l'uomo estrasse un logoro papiro e lo porse al milite preposto perché lo leggesse. Il milite rigirò il foglio tra le mani parecchie volte senza tuttavia venirne a capo. E allora, paziente, l'uomo spiegò:

«Vedi? Qui c'è scritto che io trasporto duecento anfore di grano provenienti dall'Africa».

«Ma dove è scritto che hai pagato il dazio per importarlo in Italia?».

«Qui. C'è scritto che è stato prelevato il tre per cento del valore del grano. Questa è la ricevuta fiscale. Nemmeno io so leggere, ma il bollo in argilla con le teste dei due imperatori regnanti fa fede, no?».

Il milite lo guardò con diffidenza e con gli occhi cercò il suo superiore. Ma poiché nemmeno questi sapeva leggere, l'uomo, spazientito sbottò:

«Che colpa ne ho io se in Africa i doganieri sanno leggere e scrivere e voi a Milano no? Io, con questo documento ho viaggiato per tutta la Sicilia e per l'Italia intera, e a tutti quelli che mi hanno fermato l'ho mostrato senza che mi facessero obiezioni. Ma dite, siete o no Romani?».

Per tutta risposta i due militi presero in consegna lui e tutto il suo carico.

«Il nord dell'Italia è pieno di Barbari», commentò una delle due donne vestite da monaca.

La sua aria di sufficienza incontrò il biasimo della principessa: i Barbari erano comunque sudditi di suo fratello. Tuttavia, ai suoi occhi, abituati ai sontuosi e candidi monumenti di Roma, la città di Milano, da quasi un secolo nuova capitale d'Italia, appariva un gigantesco agglomerato di mattoni grigi che la presenza immemorabile della nebbia aveva reso fumosi e tetri. C'erano, sì, molte chiese ornate di colonne ed edifici pubblici quasi eleganti, ma le case di mattoni rossi erano rigidamente squadrate e basse. Il suo sguardo fu attratto da una donna che al primo piano sciorinava dalla finestra un lenzuolo ad asciugare.

«Come faranno ad asciugare i panni se piove sempre? Forse non se li cambiano abbastanza», disse.

«Bambina mia», sorrise l'altra monaca, la nutrice Elpidia, «anche qui ci sono le terme. Certo, i Milanesi non si laveranno spesso come i Romani, ma credo che una volta al mese se li cambieranno, gli indumenti».

«Devono essere bravi i muratori, a Milano», osservò la ragazza alla vista di un portale decorato di fregi. «Si curano molto della sostanza, a giudicare dallo spessore dei muri».

«Molti di questi muratori sono Barbari romanizzati», dichiarò con la stessa aria di superiorità l'altra donna travestita da monaca. Era Giulia Ottavia, appartenente alla nobile gens Julia e moglie del prefetto del Pretorio di Roma. «I Barbari tengono conto solo della sostanza, mai della forma. Per loro tutto ciò che non è immediatamente utile è superfluo. Non sanno concepire la bellezza».

«Però quel barbaro che ci ha scortati fino a Laus Pompeia era bello...».

Elpidia la fulminò con gli occhi.

«Non dovrebbe parlare così di un barbaro una principessa romana!».

«La bellezza è fatta per essere contemplata», incalzò Placidia. «Me lo ha insegnato il mio maestro Filemone parlandomi di Platone, e quel barbaro era bello come il dio Apollo».

«E il tuo maestro non ti ha insegnato che è disdicevole per un cristiano paragonare un uomo a un dio pagano?», intervenne acida Giulia Ottavia. «Filemone dovrebbe parlarti un po' più di religione e meno di filosofia».

«Taci Ottavia!», la ammonì severa la ragazza. «E non permetterti mai più di interferire nella mia educazione. Non è questo il tuo compito, ricordalo».

Un silenzio gelido cadde per un momento nella carrozza, poi Placidia proruppe in una risata che riportò il sereno fra le donne del seguito.

«Ma come sono solerti i cittadini di Milano! Guarda Ottavia, sono già tutti all'opera, non come quei pigri dormiglioni dei Romani che si levano dal letto quando il sole è già alto».

A quell'ora mattutina Milano era già in fermento. Una moltitudine di operai e contadini affollava le strade e si accalcava intorno alla carrozza. Le voci dei venditori ambulanti si sovrapponevano in un chiasso colorito e in un frastuono di dialetti mai uditi prima dalla ragazza, accrescendo così la sua curiosità per quel mondo mezzo barbarico e mezzo romano.

A un crocevia ordinò all'auriga di fermarsi: voleva scendere dalla carrozza per vedere da vicino la vita di quella febbrile città che sembrava sorgere dall'acqua. Ma non appariva un pantano: i corsi d'acqua erano ordinati come le strade di Roma; solo che al posto dei carri, su quelle strade fluviali scorrevano barche stracolme di mercanzia.

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CAPITOLO III



All'approssimarsi del pericolo, l'imperatore Onorio aveva ordinato che i forzieri fossero caricati sui carri e tutta la corte si tenesse pronta per la partenza. Ma non si decideva ancora. Aveva aspettato l'arrivo di Galla Placidia con ansia febbrile e ora desiderava ardentemente di condurla con sé in Gallia. Serena si era opposta. Bisognava rimandarla a Roma, aveva detto. Ma una strada sicura non c'era, con quei Barbari in agguato sulle vie per il sud. D'altronde, lasciarla a Milano era impensabile.

In realtà Serena temporeggiava nella certezza che di lì a poco Stilicone sarebbe arrivato con tutto il suo esercito. Intanto, bisognava convincere i ministri e i funzionari ad aspettare. Era andata da un gabinetto all'altro, senza risultati. I ministri erano più terrorizzati dell'imperatore, soprattutto il preposto al sacro cubicolo, l'eunuco Euforbio.

Serena aveva accolto l'arrivo di Placidia con malcelata contrarietà. Le attenzioni dell'imperatore verso sua sorella, i suoi trasalimenti, il pallore improvviso e la fugace gioia che gli guizzava negli occhi al solo vederla, non erano rassicuranti. Ascoltava distratto i suoi consigli, si mordeva le unghie, con gli anelli come un cilicio si strizzava le mani: era tormentato, Onorio, e nella sua anima doveva combattersi una lotta senza speranza. Questo pensava Euforbio; una lotta con se stesso che si placava solo quando Placidia compariva. Bisognava partire in fretta e porre fine a quella minaccia più temibile delle orde barbariche. Era insano il contegno dell'imperatore, peccaminoso e perverso.

Ciò che non riusciva a spiegarsi era il comportamento di Serena. Come poteva non aver intuito ciò che stava accadendo? Eppure era una donna sagace e sensibile, molto religiosa. Anche senza temere alcun pericolo imminente per sua figlia, la sua virtù non poteva non consentirle di vedere l'eloquenza di quegli sguardi furtivi. Aveva forse in mente qualche oscuro progetto? Avrebbe provveduto lui a mettere ordine in quella anomala situazione.

Si presentò la mattina presto nelle stanze dell'imperatore ed energicamente gli suggerì di partire entro un'ora al massimo. I Goti stavano dando la scalata alle mura, e i soldati nemmeno con l'aiuto di cittadini volenterosi riuscivano a fermarli con lanci di pietre e colate di olio bollente. Quei barbari non avvertivano nessuna paura della morte: precipitavano dalle scale schiantandosi a terra con grida inumane, ma uno cadeva e dieci erano pronti a rimpiazzarlo con più spietata ferocia. Onorio ascoltò col terrore negli occhi il resoconto dell'eunuco e finalmente dette ordine di attaccare i cavalli alle carrozze. Fuggiva!

Placidia dormiva quando si precipitò nelle sue stanze. Non l'aveva mai vista così. Un moto di commozione gli strinse la gola e quasi lo paralizzò. La contemplava con occhi avidi. Le folte sopracciglia di lei erano distese in un atteggiamento di beatitudine, la bocca piccola e carnosa pareva sorridere a un sogno dolcissimo. Un desiderio semicosciente di gettarsi su quella bocca che non aveva mai conosciuto l'estasi dei baci vinse tutte le evidenze di quel presente tumultuoso. Non c'erano più i Barbari che premevano contro le mura, l'Impero non era più in pericolo: c'era solo lei che dormiva, e forse lo stava sognando.

Si inginocchiò accanto a lei e con la levità di una foglia che cade posò le sue labbra su quelle di lei appena dischiuse. Erano sottili, avare, esangui le sue labbra, ma ora avrebbero ricevuto la vita da quelle promettenti e rosee della fanciulla. Sentì un brivido attraversargli la schiena, una forza mai conosciuta prima, e adagio, per non svegliarla, sollevò la pesante coperta di pelliccia. L'emozione di quel corpo nudo, solido e invitante, lo precipitò in una vertigine dolcissima. Voleva toccarla, ma la mano si fermò a mezz'aria, come timorosa di bruciarsi al contatto di quel fuoco. Con sgomento, non vedeva che quei seni rosei appena accennati, quel bosco nascente sul pube che prometteva di infoltirsi al calore dell'estate: una corona su quell'opera d'arte che erano le sue cosce candide, tornite dal più esperto dei vasai. Al ritmo regolare del respiro, quei seni di alabastro si sollevavano e si abbassavano come le onde che giocano con la sabbia e l'accarezzano. Si sentì intriso da un desiderio pungente di tuffarsi dentro quell'acqua fresca e diventare egli stesso pura liquidità per potervisi più intimamente mescolare. Doveva toccarla, palparla, manipolarla per sentirsi fuso con lei e perduto nella voluttà mai finora conosciuta. Non gli importava più che al contatto delle sue mani sudate lei si potesse svegliare.

Ma lei era già sveglia da un pezzo. A occhi chiusi sentiva su di sé lo sguardo eccitato di suo fratello, e a sua volta si sentiva eccitata. Oscuramente sapeva che doveva rimanere ferma per prolungare l'ebbrezza che stava rivelando a lui la sua ignota virilità.

Davanti al terrore dell'abisso in cui stava per precipitare, Onorio esitò. Cominciò a pregare. Invocò con tutto il suo ardore l'Onnipotente perché venisse a liberarlo da quell'incantesimo. Ma più pregava e più il desiderio di quella carne virginale lo ossessionava. Satana e Gesù avevano scelto a teatro della loro eterna lotta la sua anima e se la stavano disputando. Nello stesso modo in cui Stilicone e Alarico si stavano disputando il suo Impero. Questo subitaneo pensiero lo atterrì e lacrime sgorgarono da quegli occhi impotenti.

Stava così, accucciato, disperato e piangente, quando la porta si aprì e Stilicone, grande e terribile come l'arcangelo Michele, gli comparve davanti. Il Redentore aveva ascoltato la sua supplica e mandava il suo messaggero a liberarlo da quei lacci, a redimerlo.


Il generale, avvezzo all'impersonalità della carne, non conosceva l'orrore. Vedere teste che rotolano, arti staccati dal busto, sangue che zampilla, bocche contorte nello spasimo della morte, era per lui spettacolo di ordinaria gestione del potere. Ma questo, incruento, gli mostrava una crudeltà misteriosa, come solo le turpi favole della Grecia raccontavano.

Ora ne percepiva il brivido. Finalmente scorgeva le cose come sono, dall'interno, nella loro vita, nei particolari a lui ignoti. E il raccapriccio fu grande. Quanto infinitamente più semplice era stato sconfiggere orde di Barbari, massacrarle e trionfare su di loro! Quei corpi gagliardi, quei muscoli robusti, quei gesti tracotanti era stato un piacere dei sensi mortificarli. Ora davanti a lui, prostrato, c'era un profilo sgraziato, muscoli gracili, un corpo rattrappito, senza vigore e senza disinvoltura, e tuttavia assai più indomabile. Non perché appartenesse all'imperatore, ma perché era fatto di ombra e di mistero.

Doveva intervenire.

Uscì dalla stanza senza batter ciglio e aspettò che Onorio lo raggiungesse.

«Non posso credere ai miei occhi», disse l'imperatore sollevando lo sguardo verso di lui. «Ma come hai fatto a raggiungere Milano col nemico appostato sotto le mura?».

«A nuoto. Ho attraversato l'Adda a nuoto con tutto l'esercito e i cavalli. Ho approfittato della notte!».

«E dove sono i soldati, adesso?».

«Fuori le mura, a combattere coi Goti».

«Da soli?».

«No, ho affidato il comando a Saulo».

«A Saulo?», ripeté Onorio incredulo. «Ma è un pagano, Saulo!».

«E chi altri sa combattere, se non i pagani? Che forse i cattolici sanno fare altro che recitare giaculatorie?».

Onorio si mostrò risentito: era irriverente per l'imperatore cattolico una simile affermazione.

«Ho visto i carri preparati per la partenza», proseguì con fermezza Stilicone. «Ma tu, sacra maestà, non partirai».

Dall'alto della sua mole il vandalo era il maestro che ammonisce lo scolaretto: lo superava in altezza di un paio di palmi, ma moralmente la distanza tra i due era siderale.

«Per i Goti, non devi più temere», riprese Stilicone. «Il mio esercito li ha accerchiati e, tempo un paio di ore, saranno ricacciati indietro insieme ai loro capibanda».

«Davvero? Ma non eri in Pannonia? E i Vandali e gli Svevi?».

«Li ho assoldati. Ora combattono al mio fianco. Ti prego di ordinare la riunione plenaria del Concistoro: ho un progetto da discutere con i nostri ministri. Non potranno fare a meno di approvarlo, perché da questo dipende la sicurezza tua e dello Stato. Ora ti lascio. Devo dare gli ordini per la battaglia».

E senza attendere risposta, uscì dal palazzo imperiale e a spada sguainata si gettò nella mischia.

A combattere sul suolo romano sotto insegne diverse erano Barbari contro Barbari. Era accaduto spesso. Ancora una volta Alarico e Stilicone si fronteggiavano, e ancora una volta il razionale vandalo avrebbe avuto ragione del goto impulsivo. Bisognava progettare, non gettarsi a capofitto nel caos per velleità di conquista. I Vandali, gli Svevi e gli Alani erano mercenari, ma, pagati, sapevano far onore ai loro impegni. Non combattevano per la grandezza di Roma o per la sua salvezza, ma perché quello era il loro dovere, e lo assolvevano freddamente. I Goti, accecati d'ira, non vedevano davanti a sé che vendetta. E naturalmente, furono battuti e costretti a trovare una via di scampo fra le montagne dell'Appennino Ligure. Milano era salva. Gli abitanti uscirono dalle chiese e ripresero le loro attività e i loro commerci.

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Pagina 84

Quel giorno di fine agosto era intenta, con le sue ancelle, a ricamare un paliotto d'altare per la vicina chiesa di Santa Maria in Domnica. Geronzio le intratteneva leggendo brani tratti da un'omelia del santo vescovo Ilario di Poitiers. Per il caldo ancora torrido, le donne avevano cercato refrigerio presso la fontana che rallegrava il ninfeo, sotto un fresco pergolato da cui piovevano grappoli d'uva matura. Nel silenzio appena incrinato dal leggero scroscio dell'acqua, si udirono dei passi pesanti. Geronzio interruppe la lettura e Placidia levò gli occhi verso il punto da cui proveniva il rumore. Dopo qualche istante, ecco comparire degli uomini. Erano due senatori e due ufficiali, che recavano un messaggio dell'imperatore.

Il messaggio era in realtà un atto di accusa. Vi si diceva che Serena e suo figlio Eucherio, per vendicarsi della morte del loro congiunto, un traditore della patria, avevano in animo non solo di ripristinare il paganesimo, ma addirittura di facilitare ad Alarico la via dell'Italia. Si trattava di alto tradimento e lesa maestà, e per questo dovevano essere entrambi condannati a morte. Per l'altra figlia di Stilicone, l'imperatrice Termanzia, che sarebbe stata in seguito ripudiata, era previsto il carcere a vita in un monastero di clausura. Dopo aver letto il messaggio, Placidia lo riconsegnò nelle mani dell'ufficiale che glielo aveva sottoposto.

«Sacra principessa, il nostro imperatore desidera che tu lo firmi», disse questi. Placidia restò alquanto perplessa.

«Perché l'imperatore vuole che lo firmi? Che autorità ho io?».

«Il nome che porti. L'imperatore non vuole scontentare il partito filogermanico della corte per timore che insorga contro di lui. Poiché tu sei estranea alla vicenda, desidera che l'iniziativa parta da te».

Placidia chiese a Geronzio di accompagnarla nelle sue stanze.

«Perché mio fratello mi chiede di firmare questa condanna?», disse quando fu sola col precettore.

«Per scaricarsi la coscienza, è evidente», le rispose Geronzio.

«Li accusa di voler ripristinare il paganesimo, e sebbene io non ami Serena e detesti con tutta me stessa Eucherio, in coscienza non posso affermare questo. Ho visto con i miei occhi Serena togliere una collana d'oro dal collo della statua di Giunone e indossarla. Gesto che per i pagani è sacrilegio».

«Chi può leggere nel cuore degli uomini?», sospirò il precettore. «Ho sempre pensato che l'imperatore nutrisse troppa fiducia in quel vandalo, anziché confidare nella Santa Chiesa di Roma. I Barbari sono intemperanti e non si sa mai ciò che pensano perché per loro la religione non è che un tornaconto. Sono rimasti tutti pagani nel cuore, anche quelli civilizzati».

«Ma Serena è una principessa romana, è la nipote di Teodosio, mio padre. Lei è cattolica».

«Ne sei proprio sicura? I suoi genitori erano ariani sotto Valente, predecessore di tuo padre».

E poiché Placidia continuava a rimanere perplessa, Geronzio aggiunse: «Anche il Santo Padre, il nostro pontefice Innocenzo, la ritiene colpevole. Dice che insieme a suo marito si è macchiata di corruzione. E, infatti, a Costantinopoli possiede un palazzo che gareggia in lusso con quello imperiale. Se venisse fatta giustizia, il palazzo e tutti i suoi beni potrebbero essere incamerati nella Chiesa cattolica, anziché essere dispersi per fronteggiare guerre. Stilicone, per giovare all'agricoltura italica, diceva lui, da più di dieci anni aveva autorizzato i proprietari di terre a fornire al posto dei coloni, per l'arruolamento nell'esercito, determinate somme di denaro. Cosi, il denaro dei cittadini non è servito per seminare sulle terre grano, ma morte.

Che c'è di male se questo denaro viene distribuito tra i fratelli più bisognosi attraverso la Chiesa? Figlia mia, non c'è salvezza fuori della Chiesa cattolica. Puoi vedere con i tuoi occhi come il secolare Impero romano sia ormai sul punto di crollare. E proprio perché è secolare — e cioè appartiene alle cose del mondo — è transitorio ed effimero. La nostra santa Chiesa Romana, invece, durerà finché il mondo durerà, perché non appartiene alle cose del mondo, ma a quelle dello spirito».

«Ma il papa Innocenzo desidera incamerare i beni di Serena, e questi sono beni materiali», ribatté Placidia in un ultimo, stanco tentativo di resistenza.

«Vedi, figliola», cercò di spiegarle Geronzio con la pazienza del baco sulla noce. «Per poter portare la pace nel cuore degli uomini, e indurli così alla fratellanza, la Chiesa ha bisogno di nutrirli anche materialmente, oltre che con la parola del Cristo nostro Signore. Abbiamo visto come l'armatura di ferro, di cui è stato rivestito tutto l'organismo dello Stato, si sia fatta intollerabile e come esso abbia perso ogni elasticità. Perché lo Stato ha bisogno di tributi per armare gli eserciti e portare quindi fame, desolazione, odio e morte fra le popolazioni. La Chiesa non impone tributi al suo gregge, e tuttavia offre pascoli verdeggianti. I pagani la accusano di aver corroso le fondamenta dell'Impero e di averlo sgretolato. Ma che cosa ha fatto l'Impero militaristico di Roma, per la salvezza degli uomini? Li ha spinti l'uno contro l'altro, li ha divisi, inculcando nella mente dei suoi sudditi il disprezzo per quei disperati che chiamano Barbari. Ma agli occhi del Signore sono tutti suoi figli, anche i selvaggi barbari. Il giorno in cui essi saranno nutriti nel corpo e nello spirito non saranno più Barbari, ma soltanto uomini. E allora ci sarà l'amore, la pace e l'armonia fra tutti i fratelli cristiani uniti sotto la protezione della Chiesa».

Mentre Geronzio parlava, Placidia pensava a Filemone.

Cosa avrebbe opposto il suo caro maestro a queste fantastiche affermazioni? Avrebbe detto che erano utopie. Perché il cuore degli uomini è teatro di scontri furibondi fra le più violente passioni, non di carità e di pace e di amore. Questo avrebbe detto lo scettico greco. Ma le parole di Geronzio sapevano infondere serenità in mezzo a quella tempesta che si stava profilando all'orizzonte. Perché continuare a lottare se il Regno dei Cieli stava per adempiere la sua promessa? E se Stilicone avesse pagato con la vita non il tradimento, a cui non credeva, ma l'aver intralciato con la sua caparbietà di soldato l'avvento della pace universale? Se ora anche suo figlio intendeva seguire insieme alla madre Serena le orme del padre, allora doveva essere fermato.

E anche Onorio doveva finalmente far valere la sua volontà di imperatore, disponendosi a riconoscere nella Chiesa un potere che derivava direttamente da Dio per il bene supremo degli uomini. Solo così si sarebbe emancipato dalla soggezione ai suoi ministri e generali, cessando definitivamente di essere un fantoccio nelle loro mani. Se fosse nata uomo le cose avrebbero preso una diversa svolta. Ma era nata donna. E tuttavia, se Onorio le chiedeva la sua firma per mettere a morte Serena, sorellastra e cugina di entrambi, insieme a suo figlio Eucherio, non era per scaricarsi la coscienza, come sosteneva Geronzio, ma per associarla in qualche modo alle sue decisioni. Con quel gesto, suo fratello riconosceva in lei quell'autorevolezza che gli mancava.

Onorio non aveva figli, era lei la sua più prossima parente ed erede. Uno strumento nelle mani del Signore.

«Sia fatta di me secondo la Sua volontà», si disse, e non le parve blasfema questa interpretazione mentre firmava la condanna a morte.


La furia omicida si abbatté con spietata viltà non solo sui congiunti di Stilicone, ma anche sui suoi amici; le teste di Eucherio e dei suoi fidati soldati, issate sulle aste e sbandierate come macabri trofei e monito. Ma poiché era impossibile uccidere i fedeli di Stilicone, che stavano combattendo ai confini per difendere l'Impero, vennero massacrati i loro parenti inermi: le donne, le madri, i padri, i bambini. Più di tremila furono le vittime di questa strage degli innocenti.

Onorio sembrava trafitto da un'ebbrezza lancinante mentre sguazzava nel sangue. Con gli occhi gialli, opachi e ottusi della iena squartava, sgozzava, decapitava; non pensava a nulla, non vedeva nulla, come in preda alla potenza di un sogno che rende tutto possibile.

Era talmente perfetto il suo sogno che poteva anche volare e contemplare la sua carneficina dall'alto, come se l'autore fosse un altro. La responsabilità era del sogno, lui era innocente. La realtà del giorno non gli aveva mai permesso niente, né di amare, né di odiare: ora la notte si vendicava e gli offriva tutto, bordelli asiatici pieni di corpi lussuriosi, boccali di sangue, animali e uomini da seviziare. Era una gioia dei sensi, quel massacro. La stessa gioia che aveva provato davanti alla disperazione impotente di sua sorella. Ora nessuna forza al mondo l'avrebbe strappata a lui: erano congiunti dal vincolo del sangue, lo sarebbero stati per sempre col sangue versato dagli altri. Quella strage portava la firma di Placidia!

Al partito nazionalistico lo sterminio doveva apparire più razionale, sebbene con identici sentimenti di vendetta. In tal modo era stata lanciata la sfida non solo ai Barbari dentro l'Italia, che a decine e decine di migliaia militavano sotto le bandiere dell'Impero, ma anche a quelli di fuori, compromettendo così una politica di accordi, che da circa un secolo andava avanti.

Intanto, le più importanti province erano perse, mentre l'esercito diventava un otre bucato da cui a fiotti fuoriuscivano i Barbari, che andavano a rifugiarsi in Dalmazia, presso Alarico. Il conflitto che Stilicone aveva voluto evitare, si era paradossalmente riacceso in seno agli stessi Barbari: i filogermani contro i filoromani di Alarico.

Nei suoi confronti la corte di Ravenna assunse un atteggiamento a cui il re dei Goti non era abituato: il disprezzo. Stilicone, anche se lo aveva ripetutamente sconfitto, lo aveva stimato, mai disprezzato. Ora, a tutte le sue richieste di indennizzo, i Romani opponevano uno sdegnoso rifiuto.

Un simile atteggiamento di nobile fierezza si poteva giustificare solo se alle loro spalle ci fosse stata una preparazione militare forte; ma in tutto l'Impero non c'era un solo uomo che possedesse il suo genio militare. Come speravano di potersi liberare del pericolo dell'anti-imperatore Costantino, che aspettava come un avvoltoio il momento propizio per calare in Italia?

In Italia sarebbe sceso lui, invece, Alarico, pronto a vendicare le umiliazioni sue e la morte del suo leale antagonista. Senza neppure aspettare che Ataulfo lo raggiungesse dalla Pannonia, si mise in marcia. Da Aquileia risalì il Po, e puntò al meridione. Strada facendo non incontrò nessuna resistenza. Avrebbe potuto, volendo, occupare Ravenna, ma il pensiero della malaria lo atterrì. Erano abituati a tutto, i suoi Goti, alla fame e alla carestia, ma alla malattia no. Proseguì la sua marcia e alla fine dell'anno era a due passi da Roma.

A Roma la notizia seminò il panico.

Il Senato era in subbuglio, la villa di Placidia in pieno trambusto. Funzionari, senatori, ecclesiastici e militari andavano e venivano. I mercanti erano terrorizzati per i magazzini ormai privi perfino dei generi di prima necessità. È vero che le mura aureliane, fortificate con la perizia che solo i Romani conoscevano, erano pressoché inespugnabili; è vero che tutti i varchi erano stati muniti di doppia porta, e per scardinarle non sarebbero bastati tutti gli arieti del mondo, ma Alarico non aveva fretta.

Claudiano, il poeta personale di Stilicone, che si era salvato per un pelo dalla carneficina riparando con la sua ricca moglie a Roma, continuava a comporre poemi visionari. A Placidia, che lo ascoltava distrattamente accanto a un tripode ardente, in quel momento terribile andava declamando:

O degna madre e grande, sorgi,
libera te dalla paura dell'età,
tu che antica sei, città, come il polo.
Allor soltanto Lachesi farà a te giustizia,
quando il Don d'Egitto, il Nilo,
bagnerà la Palude Meotide.

«Hai un bel cantare, vecchio ruffiano», inveì contro di lui il senatore Flavio Marozio, un uomo pingue e asmatico. «Non è con le tue visioni che potrai salvare Roma».

Roma attendeva aiuti; aiuti che non arrivarono mai.

Si erano dati alla pazza gioia, i Romani, a decapitare le statue di Stilicone; ora, morto lui, non avevano ancora capito che nessuno più sarebbe corso a salvarli. Quando se ne resero conto, non poterono fare altro che dimezzare le razioni di grano per sostenersi. Quando anche queste finirono, non rimase loro che dare la caccia ai gatti. Ma anche i gatti, i cani, e tutti gli animali commestibili finirono, e così si dettero a cacciare i topi. Naturalmente, sopraggiunse la peste, e furono moltissimi a morire.

Solo quando si temettero episodi di cannibalismo, si decisero a inviare ambasciatori ad Alaricus, come pomposamente lo chiamavano adesso per ingraziarselo. In quel momento cruciale, il Senato scelse come ambasciatori da inviare al barbaro, lo spagnolo Basilio, un funzionario civile, e il tribuno dei notai imperiali, Giovanni, che frequentava assiduamente la casa di Placidia.

Con le insegne della loro carica, i due si presentarono nella tenda del nemico con l'alterigia di chi si crede ancora potente.

«I Romani sono disponibili a concludere la pace», esordì col petto in fuori e il sussiego dello spagnolo, Basilio. «Purché le condizioni siano ragionevoli. Non dimenticare, Alarico, che il popolo romano molte volte ha preso le armi contro i nemici, è da secoli abituato ad aver ragione di loro, non esiterà a muovere guerra contro di te».

A queste parole minacciose Alarico scoppiò a ridere.

«Ebbene, che mi muovano guerra, i Romani! L'erba folta si falcia meglio».

Erano stati imprudenti, gli ambasciatori, a parlare di guerra in quelle condizioni, e allora vennero a più miti consigli.

«La città non vuole gravare i suoi uomini, già oppressi dalla peste, con una guerra», disse a bella posta Giovanni, che conosceva il terrore di Alarico per le malattie. E tacque aspettando l'esito delle sue parole. Aveva colpito nel segno. Alarico, alla fatidica parola "peste" impallidì.

«Che cosa siete disposti a offrirmi se tolgo l'assedio?».

Era fatta, pensarono gli ambasciatori, il nemico aveva capitolato. Ma era troppo presto per cantare vittoria, E infatti il goto si stava accingendo a superare l'arroganza del gallico Brenno, che quasi mille anni prima aveva gettato la sua spada di pesante bronzo sulla bilancia che doveva pesare l'oro del riscatto.

«Non toglierò l'assedio, finché non avrò in mano tutto l'oro e l'argento che la città contiene, finché tutti i beni mobili e gli schiavi barbari non saranno miei: ma attenzione, quando dico schiavi barbari, mi riferisco solo ai Germani. Non so che farmene dei Greci o dei Siri. Non tollererò un solo giorno che i Goti siano servi dei Romani nelle loro case, né nelle armate, né nelle città. D'ora in poi essi dovranno godere degli stessi diritti di tutti gli uomini, diventare un popolo sovrano come quello di Roma».

«E che cosa rimarrà allora ai Romani?», proruppe indignato Giovanni.

«La vita!».

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Alarico rimase a terra a guardare mentre lei lo seguiva, i bei capelli neri al vento come la criniera bianca di Kuuntar, finché non disparvero nella macchia.

La docilità di quella donna, che cavalcava accanto a lui felice, sembrò ad Ataulfo una rappresaglia, crudele ma giusta, nei confronti della tirannia.

«Ieri, dopo averti lasciata, ho perlustrato la zona», disse, mentre al passo i loro cavalli costeggiavano il ruscello. «Non ci sono foreste fino ai monti Appennini. In verità non sono nemmeno foreste, ma boschi di noci e castagni. L'Italia è un paese troppo civilizzato».

Placidia scoppiò a ridere e le sembrò di vederlo per la prima volta. Aveva gli occhi di un azzurro cupo, i capelli castani, il volto abbronzato e senza barba che faceva risaltare i lineamenti delicati, insoliti per un barbaro. Agli angoli della bocca finemente disegnata, una piega amara tradiva una sofferenza che invano lui cercava di mascherare con la fierezza del guerriero.

«Come hai imparato così bene la mia lingua?», gli chiese.

«Nel nostro esercito ci sono molti Romani. Ho imparato a leggere e a scrivere in latino dall'ostaggio Ezio, il praefectus Urbis».

«C'è anche Ezio tra i prigionieri? Non l'ho ancora visto. Dov'è?».

«Comanda un drappello della cavalleria. Siamo diventati amici».

«Suo padre era generale sotto Stilicone, perciò il figlio non mi è molto simpatico, ma sono certa che Ezio lo supererà, è intelligente e ambizioso. Non sapevo che fosse anche un ottimo maestro. Che ti ha fatto leggere?».

«Giulio Cesare, Tacito, Plutarco...».

«E malgrado questo avete saccheggiato Roma!».

«Sono stati gli schiavi che abbiamo liberato a saccheggiarla. Alarico ed io eravamo inorriditi, ma non abbiamo potuto fermarli. Noi non intendiamo distruggere una città che è diventata simbolo di civiltà, vorremmo poterci integrare, ma l'imperatore tuo fratello non ce lo permette. E soprattutto non ce lo permette la Chiesa cattolica, che vede in noi ariani, ma pur sempre cristiani, una minaccia. Ho sentito dire da Ezio che gli scrittori romano-cattolici si lamentano a gran voce per gli orrori subiti dai Romani a causa dei loro peccati, senza chiedersi se potremmo essere proprio noi lo strumento della storia. Un vescovo cartaginese approfitta addirittura della caduta di Roma per imbastire una sua teoria teologica, affermando che i regni terreni sono destinati a crollare e che la Città di Dio vivrà in eterno. Se si diffonde questa funesta dottrina, la Chiesa di Roma dominerà il mondo civile e tutti i regni terreni dovranno esserle soggetti. E quel che è peggio è che non tollererà altre fedi che la cattolica».

Placidia aveva ascoltato in silenzio le conclusioni di Ataulfo. Sebbene fosse un barbaro affascinato dalla grandezza di Roma, non riusciva a capire che proprio quel vescovo cartaginese, quell'Agostino – che lei aveva fugacemente conosciuto a Roma, prima che si imbarcasse per la sua terra natia – aveva plasmato una teoria secondo cui la caduta di Roma avrebbe assunto il rango di un evento nella storia della redenzione. Era un riscatto, secondo la visione cattolica. Solo da questo punto di vista la desolazione portata dai Goti perdeva molto dei suoi orrori, quindi anche della sua realtà. Lei sapeva invece che in quei tre giorni di furibondo saccheggio i Goti non si erano affatto comportati con umanità.

«Se è vero che volete integrarvi, se è vero che riconoscete l'importanza di Roma, come dici, perché ambite a comandare voi?», chiese Placidia. «Quando Roma decise di estendere il suo dominio sull'Italia, nessuna città della Lega Italica, sorta per contrastarne il dominio, prese il potere, ma ciascuna di esse, dopo essere stata sconfitta, contribuì alla sua grandezza. Voi invece vi volete sostituire».

«No, non è come dici», ribatté Ataulfo risentito. «Alarico poteva cingere la corona di imperatore, a Roma, ma ha preferito nominare a questa grande carica un romano, un uomo inetto. Lui non chiedeva che condurre un esercito sotto le insegne di Roma, ma gli è stato negato».

«Alarico ha chiesto all'imperatore di riconoscere uno stato gotico in Italia», puntualizzò Placidia, «quindi vuole essere separato, non integrato. Lui ha capito che non è possibile fondere due mentalità agli antipodi. Se Roma vi affascina tanto è perché ha una visione del mondo che è solo sua, e questo modo di essere è inconciliabile con quello dei Germani».

«Siamo ancora un popolo giovane, fra noi ci sono Unni romanizzati come Ezio, Vandali come lo era Stilicone, Goti Greutungi e Goti Balti, tutti sotto il nome di Visigoti. Non abbiamo esperienza di regno, ma guardiamo a Roma come a un punto di riferimento. Certo, non abbiamo le sue tradizioni, ma se riuscissimo a fonderci, potrebbe ritornare a essere il più grande Impero del mondo, un Impero romano-germanico sarebbe imbattibile», e terminò le sue congetture con un sospiro.

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Poiché era da scartare l'idea di una guerra in Gallia – e poi, quale guerra, se non aveva più un esercito degno di questo nome? – decise di ingaggiarne un'altra incruenta: mettere a posto l'economia italiana, un affare molto più impegnativo di qualunque guerra, per il quale i posteri l'avrebbero ricordato come il salvatore della Patria.

Convocò nel suo studio il comes sacrarum largitionum, affinché si adoperasse, insieme a lui, per studiare un piano di bonifica economica. Il conte Demetrio, un eunuco bizantino imposto a Onorio dal governo di Costantinopoli, faceva onore alla sua mansione: era un ometto scheletrico, il viso infossato e gli occhi avidi.

«Sacra maestà», esordì aggiustandosi la toga sulle ginocchia ossute mentre si sedeva, «la situazione non è rosea, soprattutto in Italia, e non solo a causa della corruzione dei pubblici uffici...».

«Demetrio!», lo interruppe Onorio bruscamente. «Non ti ho convocato per ascoltare i tuoi lamenti. Sappiamo tutti qual è la situazione in Italia, ma dobbiamo fronteggiarla. Negli ultimi anni ho emesso molti decreti dettati dal mio sincero interesse per il bene pubblico. Ho ridotto le tasse in quasi tutte le regioni italiane, con la conseguenza che ora le casse dello Stato sono vuote».

«È colpa dell'importazione, sacra maestà. I Paesi stranieri producono per il basso costo della manodopera. Hanno a disposizione gli schiavi, ma da noi questa fondamentale fonte di lavoro quasi non esiste più, a causa delle drastiche leggi emanate dalla Chiesa».

«Lo sapevo!», scattò Onorio puntandogli addosso gli occhietti irati. «Sei il solito bizantino disfattista. Cos'hai contro la Chiesa? Se in decenni e decenni di spese folli per i prodotti di lusso il gravoso debito pubblico si è accumulato, non è colpa della Chiesa che, al contrario, predica la morigeratezza. Dovresti saperlo meglio di me, tu che ti occupi di finanza. Dovresti sapere che a causa delle importazioni la produzione locale di alcuni prodotti di prima necessità è cessata. Chi fabbrica più il vasellame? I commercianti hanno più convenienza a scegliere i prodotti d'oltremare, che costano di meno, e quindi possono arricchirsi di più. Sono diventati tutti speculatori, gli Italiani».

«Per mettere a posto la bilancia dei pagamenti», suggerì timidamente il conte delle sacre elargizioni, «bisognerebbe chiudere i mercati di importazione, che arricchiscono solo alcuni grandi importatori a danno della comunità, e costringere gli Italiani a lavorare come in passato. Ma per far questo, occorrerebbe che il lavoro diventasse più flessibile, che i lavoratori potessero cambiare con più facilità tipo di attività e non essere legati per ereditarietà a quello che facevano i padri, i nonni, e faranno i loro figli e nipoti. In questo modo essi si sentono schiavi del loro lavoro, se non lo sono di fatto verso il padrone. È questo, che li ha disaffezionati alle loro attività».

«Tu parli come un anarchico, Demetrio!», lo apostrofò Onorio.

«Questa legge che lega il lavoratore al suo lavoro fu promulgata da Diocleziano e proseguita da Costantino e da mio padre Teodosio proprio per dare maggiore sicurezza a chi lavora. Ora tutti vogliono vivere nel lusso? Bene. E allora lavorino! Saggiamente, la Chiesa ha abolito la schiavitù, perché nessuno sfrutti il lavoro di un altro uomo per il proprio godimento. Se i cittadini vogliono vivere nel benessere e negli agi cui sono abituati, devono lavorare nei servizi, nell'artigianato, nell'industria e nell'agricoltura. Insieme agli schiavi è finita pure l'importazione del grano, ne arriva sempre di meno. Non c'è altra soluzione che ritornare a coltivare la terra».

«Sacra maestà», riprese Demetrio con la circospezione del cortigiano, «la tua lungimiranza è lodevole, ma io, umilmente, vorrei farti notare che in questo modo chi lavora nei campi, proprio perché gli è vietato cambiare mestiere, si sentirà legato alla terra, diventerà un servo della gleba, e poiché solo un quinto del prodotto gli resterà per sfamare se stesso e la sua famiglia, imboscherà la sua parte e lascerà la campagna languire. In questo modo la terra si immiserirà. Come è accaduto in Gallia».

«Ho pensato a tutto, caro Demetrio», sorrise furbo Onorio fregandosi le mani. «Mi servono cento scribi che lavorino giorno e notte».

«A far che, sacra maestà?».

«A copiare le Bucoliche di Virgilio».

«Le Bucoliche? Un poema?», fece sgranando tanto d'occhi il ministro. «E tu vuoi sanare le finanze con le Bucoliche?». Era trasecolato.

«Esatto, ma anche con le Georgiche», confermò Onorio con fierezza.

«Le farò distribuire gratis a tutti i cittadini. In queste grandi opere si parla dell'amore per la terra: dovranno amarla come una madre. Ma non è finita. Insieme alle Bucoliche e alle Georgiche, intendo distribuire gratis molte terre incolte. Adotterò anche un sistema fiscale non esoso per i contadini, in modo che le agevolazioni fiscali producano, prima dei frutti, un ritorno alla terra e una maggiore redditività. Queste due componenti, la terra e il reddito, incentiveranno la produzione, senza causare né l'inflazione dei prezzi, né il loro crollo, che allontanerebbe i grandi proprietari terrieri dalla campagna. Solo così potrò dare una solenne lezione a Costantinopoli, che dirotta tutto il grano dell'Egitto verso l'Oriente, e, insieme, verso i grandi proprietari terrieri, che hanno trasformato le fertili terre italiane in latifondi incolti e improduttivi. La terra deve appartenere ai contadini. Comincerò io stesso a dare l'esempio abolendo il demanio. Non ci saranno più terre di proprietà dello Stato».

Era una follia: la terra ai contadini e l'abolizione del demanio!

Mai nella storia di Roma era stata concepita una simile assurdità. Il ministro prevedeva la catastrofe. I grandi proprietari terrieri non avrebbero mai consentito a farsi espropriare le terre; sarebbero insorti o, nella migliore delle ipotesi, Bucoliche e Georgiche alla mano, si sarebbero accaparrati tutte le terre ancora disponibili dello Stato. E, forti della famosa legge sull'ereditarietà del lavoro, avrebbero vessato i contadini divenuti servi della gleba e indirettamente loro schiavi. Non solo si sarebbero arricchiti alle loro spalle e col loro sudore, acquisendo un pericoloso potere; ma, cosa infinitamente più allarmante, sarebbero stati anche in grado di armarsi da soli. Le previsioni del ministro erano funeste.

«Temi che l'esempio della Gallia possa diventare contagioso per l'Italia?», gli chiese, tentando una probabile giustificazione a quell'idea che gli appariva insensata.

«È proprio così. Per grazia di Dio, nelle terre incolte italiane non ci sono nuclei preesistenti che le reclamano. Ragion per cui, se si ricorre ai ripari preventivamente, i problemi che stanno devastando la Gallia non insorgeranno in Italia. Non solo, ma i Visigoti, diventati gallici, ricorreranno ai Romani per dirimere le loro questioni interne; e così, senza l'orrore delle guerre, Roma potrà ancora una volta dominarli con la legge».

Non volendo affliggere con le sue pessimistiche previsioni il suo imperatore, che sembrava entusiasta come un bambino di fronte a un giocattolo nuovo, Demetrio plaudì a quella strana iniziativa che apriva le porte a un futuro nero come la notte. L'idea delle Bucoliche di Virgilio o era degna di un pazzo o di un genio, che è la stessa cosa.

Se l'imperatore Giuliano, con la sua mania di ripristinare il paganesimo era rimasto indietro di tre secoli, Onorio schizzava in avanti di mille anni, e solo i pazzi geniali prevedono realizzabile un così lungo futuro. Questo pensò il conte Demetrio, mentre compiva i tre inchini di prammatica al congedo del sovrano.

Ma era sicuro, Onorio, che tutti i cittadini sapessero leggere?

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Presso una finestra, un altro gruppetto di ecclesiastici stava manifestando le proprie idee circa il processo. Placidia riuscì a captare queste poche, ma significative parole:

«Il falso giuramento fatto per ottenere il successo è una forma normale di comportamento. Io raccomando sempre ai dignitari dello Stato di non farsi guidare dalla fedeltà e dall'onestà, ma dalla prudenza e dalla volontà dei propri superiori. Anche se il superiore è un inetto, bisogna obbedire ai suoi voleri, perché egli è il capo e non bisogna in alcun caso dimostrare di essere più intelligenti e sensati di lui».

Non aveva mai udito ragionamenti così bugiardi e addomesticati. La libertà e l'indipendenza non erano valori umani e sociali, per i Bizantini. Al di sopra della libertà c'era la schiavitù, che non significava sottomissione al volere di Dio, ma a quello dell'imperatore o semplicemente al proprio superiore. Gesù aveva detto: «La verità vi farà liberi». Ed era con la verità che lei voleva affrancare i Barbari dalla schiavitù dei Romani. Ma qui si teorizzava la menzogna!

Era questo l'aspetto più inquietante di quelle sofistiche disquisizioni. Nemmeno la vita umana era un valore sociale, a Costantinopoli. In ogni caso, non aveva valore quella degli altri. Tanto è vero che per il benessere politico dello Stato e per la salvezza della propria anima, i tribunali ecclesiastici comminavano in abbondanza condanne al rogo per gli eretici.

C'era tutto da imparare, in quest'accademia dell'ipocrisia e dell'egoismo. Rimaneva il problema dell'amicizia: le espressioni di quel vescovo non erano rassicuranti, ma lei lo avrebbe risolto con la seduzione delle sue argomentazioni.

Era assorta in queste riflessioni quando si accorse che un uomo sulla quarantina, di bell'aspetto e ricercatamente abbigliato, la stava osservando. Aveva occhi scuri così penetranti che resistere al quel magnetismo era impossibile.

Sfidando le regole del cerimoniale, gli si avvicinò.

L'uomo si piegò in un profondo inchino.

«Sei un postulante?», gli chiese.

«Vivo a corte, sacra maestà. Mi chiamo Demetrio. Sono archivista».

«Sei archivista? Allora conosci tutti i segreti...».

«I segreti che conosco non si trovano nelle carte ufficiali».

Placidia arretrò di qualche passo per guardarlo tutto intero, poi gli si avvicinò di nuovo, e guardinga chiese:

«E dove abitano i tuoi segreti?».

«I miei segreti riposano nel buio del mistero».

Una risposta simile, pronunciata nella corte più bigotta del mondo, avrebbe consegnato quell'uomo al boia, e tuttavia Demetrio l'aveva proferita senza timore. Che aveva visto in lei, da ritenerla degna di condividere i suoi segreti? Lei sapeva che Costantinopoli, se da una parte era sede di una Chiesa la più ortodossa e farisea e retriva, dall'altra pullulava di sette eterodosse che venivano sbrigativamente definite ereticali. L'eresia era l'unico modo concesso alle menti illuminate di contrastare quel dogmatismo sclerotico nel quale si impantanava l'intelligenza e la naturale inclinazione dell'uomo alla speculazione. Pensare, a Costantinopoli, era il più esecrabile dei reati.

E Demetrio pensava!

Bastò questo a porre lo sconosciuto in una luce diversa: doveva diventare suo amico. A qualunque costo.

«I segreti sono un fardello molto pesante», disse lei con un sorriso affabile. «Io potrei aiutarti a condividerlo, se mi mostri la via».

«È una via nella quale è facile perdersi... Ma se vuoi correre il rischio dell'avventura, io ti guiderò, ma non bisogna aver paura».

La paura era un'emozione che lei non aveva mai sperimentato. Nemmeno ora, in quella corte ostile, ebbe paura quando, quella stessa notte, senza alcuna scorta di ancelle o di servi, entrò nella grande biblioteca dove l'aspettava Demetrio.

Le pareti erano interamente ricoperte di scaffali contenenti migliaia di rotoli e libri legati. Nella grande biblioteca del sacro palazzo erano conservate prevalentemente opere religiose e trattati teologici dei Padri della Chiesa.

Demetrio era preposto all'ordine di questi testi, e grande fu lo stupore di Placidia quando, azionando un dispositivo posto dietro uno scaffale, l'uomo fece scorrere la parete in modo da lasciare libero un piccolo varco. Nessuno, all'infuori di lui, conosceva quel varco che lui stesso aveva predisposto. La biblioteca, infatti, era più che altro un deposito di manoscritti, e nessuno mai vi metteva piede, tanto che lui era il signore assoluto di quel regno...

Reggendo una candela, Demetrio la introdusse in un minuscolo corridoio, mentre l'apertura si richiudeva alle loro spalle. La fiammella faceva convergere intorno a sé il buio, accrescendo l'oscurità. Placidia era emozionata, ma con passo deciso seguiva l'uomo. Anche ora non aveva paura, mentre si inoltrava nel labirinto di cunicoli che procedevano per breve tratto diritti, per poi tornare indietro, riavvolgendosi nell'oscurità. Quando finalmente giunsero in un stanza alquanto ampia da contenere una seggiola e un paio di cassapanche, Demetrio, solennemente, le mostrò il suo tesoro.

«C'è più potere qui che in tutta la reggia», esordì. E poiché la donna lo guardava trasecolata, aggiunse: «La Chiesa lo sa, perciò tiene gli uomini addormentati nel terrore dei castighi eterni. Senza di noi, che custodiamo il vero sapere, la Chiesa perderebbe di stile; la decadenza verso cui l'Impero fatalmente si avvia, non avrebbe più interesse».

«Chi siete voi?». Era una domanda ingenua. Placidia se ne pentì nello stesso momento in cui la pronunciava.

«Siamo coloro che attraverso la disperazione vogliono giungere alla verità».

«Il mio maestro, uno scettico, diceva che una saggezza eccessiva accresce la nostra amarezza e che troppo sapere aumenta la nostra sofferenza. Ma mi insegnava a contemplare l'ordine del cielo stellato e la bellezza della poesia che consola l'anima. Forse è questa la verità. Tu sei pervenuto alla verità?».

Demetrio sorrise: «Chi vi perviene non può più raccontarla: è un tuffo nel vuoto, un tuffo dall'alto di una rupe in un lago». Tacque per un lunghissimo istante, come volesse raccogliere pensieri dispersi, e aggiunse: «Hai mai sentito parlare delle Acque della Morte?».

I lineamenti di Demetrio, illuminati dal basso dalla flebile luce, apparivano alterati, quasi spettrali. Placidia provò un leggero turbamento.

«So che per i Padri della Chiesa l'immersione nel fonte battesimale è una sepoltura dell'uomo vecchio e la rigenerazione di un nuovo essere...».

«Se tu fossi immersa nelle acque della sapienza, non potresti più riemergere nel mondo delle cose che accadono, ma in un mondo sacro, assoluto e immutabile come Dio. E Dio non può rivelarsi ai mortali. Ma per giungere alla conoscenza sacra, cioè alla sapienza, bisogna farsi iniziare».

Le aveva detto quanto bastava per essere arso sul rogo, se la zia dell'imperatore Teodosio lo avesse tradito. Ma Placidia voleva udire, non dire. Da quel mondo chiuso nel quale si entrava attraverso una porta stretta – l'entrata difficile – Placidia si sentiva irresistibilmente attratta; era un mondo separato, sacro, un mondo costruito in privato, nel cuore misterioso di una reggia, senza finestre, per consentire la meditazione, una sorta di rifugio segreto, come le grotte dove dimorano gli immortali.

Finché fosse durato il suo esilio a Costantinopoli, Placidia ogni notte avrebbe trovato ristoro in quel rifugio.


I giorni passavano con soffocante monotonia.

Senza la certezza di ritrovarsi di notte nel sancta sanctorum dei segreti di Demetrio, Placidia non avrebbe resistito. Le aveva detto che tutti quei trattati teologici che affollavano la grande biblioteca non erano che la visione atea di Dio. In quei sofismi Dio languiva in una disperante agonia: solo la mistica riusciva a rianimarlo.

Placidia seguiva con curiosità e interesse quelle argomentazioni che condivideva; le sembrava quasi che fossero espressione di ciò che confusamente avvertiva, e che non aveva mai osato formulare.

Quando però Demetrio dichiarò che per raggiungere un tale stato di grazia bisognava sacrificare la vita nel mondo e separare il corpo dall'anima, non riuscì più a comprenderlo, specie quando, per confermare le sue tesi, le aveva confidato di essersi evirato volontariamente per non soggiacere alle seduzioni della carne. Senza più alcun vincolo con la natura, era libero di aderire intimamente a Dio: l'ossessione divina è totalizzante, respinge qualunque amore terrestre.

Il suo pensiero corse immediatamente a Onorio; Onorio che non si era evirato, ma aveva osservato la castità imponendola a entrambe le mogli; Onorio che bruciava sulla graticola del suo desiderio per lei, un desiderio dal quale Dio era escluso.

«L'amore per una donna è incompatibile con l'amore per Dio?», gli chiese.

«Il conflitto di questi due amori è irriducibile», sentenziò Demetrio; «solo Dio dà calore all'anima e la disseta».

«Ma prima di compiere l'estremo sacrificio», incalzò Placidia, «hai mai amato qualche donna?».

«Vuoi dire, se le ho possedute? Molte. Ma c'era squilibrio nel rapporto, perché loro erano appagate, non io. Dare senza ricevere è immorale».

«La carità è amore, la carità dà senza ricevere nulla in cambio», esclamò Placidia risentita.

Quell'uomo negava i fondamenti stessi del cristianesimo. In fondo, ripeteva in modo più raffinato gli stessi concetti dei prelati che circondavano Teodosio, anch'essi ritenuti dei mistici. Il male abitava dunque nella mistica, che separava l'uomo dall'uomo nell'aberrante aspirazione della fusione con Dio. La religiosità di Costantinopoli odorava di morte.

«La carità è una forma di dominio, la più ipocrita», disse Demetrio. «Dai elemosina a un povero e ne farai il tuo schiavo».

«Il mio maestro Filemone mi insegnava invece che le Karithes, sotto qualunque forma, erano la grazia, quella che reca pace all'anima e la eleva a Dio».

«Per il tuo maestro scettico la grazia era l'unico antidoto alla sua conoscenza priva di speranza; fuori della filosofia, per lo scettico non c'è che il caos. Ma la grazia per lui non è che un'emozione estetica, non estatica. Non potendo dimostrare Dio, si accontenta di trasformare questa emozione estetica, che è fondamentalmente religiosa, in emozione umana».

Placidia aveva capito abbastanza: Demetrio non le interessava più. Lei era viva e reale; non si sarebbe mai annullata mortificando i suoi sensi per contemplare un'idea astratta di Dio. Perché il Dio dei cristiani era vivo e reale come lei, come tutta quella gran massa di infelici che erano gli uomini. Malgrado le sventure e le sofferenze patite, lei non aveva raggiunto quel grado di disperazione di cui parlava il mistico intellettuale bizantino. Lei credeva negli uomini, soprattutto nei Barbari, derelitti a causa di un Impero decaduto che succhiava loro il sangue per mantenere ancora una parvenza di vita. E se Dio dispensava la grazia secondo il suo arbitrio, lei l'avrebbe dispensata a tutti, indistintamente. Con la bellezza, la grazia suprema. Questo si ripromise, quella notte, se gli eventi le fossero stati favorevoli. E non le parve sacrilego un tale intendimento.

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Nell'antica domus di Placidia sul Palatino, quella in cui la principessa aveva sognato il fiero guerriero barbaro, quella da cui era stata presa a viva forza da lui, Eudossia rimuginava sul discorso di papa Celestino e sull'atteggiamento di Placidia. Solo un'altra donna poteva capirla.

«Le parole di Celestino mi sono sembrate un epicedio», esordì mentre erano sedute in giardino, all'ombra di un pino gigantesco. Il cielo rosso del tramonto, filtrato dal verde cupo degli alberi, si riverberava sui capelli dell'imperatrice madre con una luce ramata. «Mi sembra preoccupante che la catastrofe universale forzi i Romani a trovare conforto nella catastrofe stessa, nella distruzione dei beni effimeri che, secondo loro, nulla hanno a che vedere con i beni celesti. Ieri sono stata nella chiesa di San Clemente. Un monaco dall'alto del pulpito predicava che i cristiani tutti condividono le posizioni che Agostino ha espresso in forma solenne nella sua opera. E che questo sentimento della fine è lo stato d'animo naturale, permanente di un altro religioso, un corrispondente di Agostino, il vescovo Paolino da Nola».

«Era mio amico e confidente!», la interruppe Placidia. «Un sant'uomo che risparmiò la sua città dalla devastazione di Alarico. Io ho appreso la dottrina di Agostino per suo tramite».

«Dunque, questo frate», proseguì Eudossia sollevando il suo grande seno barbarico, «riferiva le sue testuali parole: "Che importa che tutto il mondo sia ingombro di guerre e di saccheggi? Anche in mezzo ai disordini si possono cantare le lodi al Signore. Anche tra l'orrore delle guerre, la pace assiste l'animo del cristiano. Questa pace egli la vive lietamente anche in mezzo ai feroci Alani, il collo gravato da pesanti catene". Ma io mi chiedo, è questo veramente ciò che i Romani vogliono? La schiavitù? I Barbari hanno smantellato le fortificazioni della città terrena, e a grandi fiotti fanno irruzione nel sacro recinto. I Franchi Salii si sono estesi in tutta la Gallia nord-orientale, le terre sulla sinistra del Reno, da Magonza a Worms, sono in mano ai Burgundi, metà della Gallia meridionale è terra di Visigoti; in Spagna si sono insediati gli Svevi, in Africa i Vandali. L'impero romano è diventato terra di Barbari», concluse Eudossia con una sospiro.

«Cara cognata», osservò Placidia cercando di osservare la temperanza, «non è un fatto nuovo, questo. Da due secoli e mezzo colonie di Barbari sono accolte nell'Impero perché coltivino la terra con l'aratro e la difendano con la spada. Come quelle di oggi, nemmeno quelle masse dei Barbari avevano perduto la loro autonomia, i loro costumi, le loro consuetudini, ma gradualmente hanno imparato a governarsi col Diritto e a darsi una vera religione, quella di Cristo».

«Una differenza c'è», puntualizzò Eudossia, che non voleva darsi per vinta. «Un tempo l'Impero dominava i Barbari al suo servizio; ora sono i Barbari a imporre con la forza delle armi il loro servizio all'Impero. Anche a Costantinopoli, prima i Goti e adesso gli Unni tentano questi colpi di mano, ma noi li teniamo lontani».

«Pagando agli Unni forti tributi?», sottolineò Placidia, dimenticando la temperanza. «Il che significa riconoscersi implicitamente loro vassalli. Roma non ha denaro. E poi si sa, i Barbari sono nomadi, non rimangono permanentemente nei territori loro assegnati. Dopo un po' riprendono il loro vagabondaggio per il mondo. Quelli che restano, come i Goti, hanno convertito le spade in aratri, hanno insegnato ai Romani nuove tecniche per la coltivazione della terra, li trattano come camerati e amici.

Molti di loro preferiscono vivere da umili coloni, anziché da guerrieri e rapinatori. Un poeta alla corte di Onorio ha detto che il vomere teutonico feconda le terre dell'Impero, così come un tempo lo aveva fecondato il vomere gallico o italico di virgiliana memoria. E i Romani hanno imparato che è possibile realizzare con loro quell'ideale di fraternità che è proprio del Cristianesimo.

Tra i Romani e i Barbari sta iniziando un processo di compenetrazione etnica e civile, e io sono certa che tra due o tre secoli non vi saranno più Stati barbarici, tutto l'Impero formerà una sola grande civiltà all'insegna della romanità».

Le rosee previsioni di Placidia erano l'esatto contrario della politica perseguita da Costantinopoli. E se quest'ultima era destinata a sopravvivere per altri mille anni, il destino si stava incaricando di lacerare la trama della storia e di comporre per Roma un altro ordito ben più doloroso, a cui solo la Chiesa avrebbe resistito.

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