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| << | < | > | >> |Indice11 GRANELLI DI SABBIA. Bernard E. Rollin e la sua battaglia per gli animali di Barbara de Mori 32 Prefazione di Jane Goodall 36 Introduzione originale di Bernard E. Rollin 40 Introduzione all'edizione italiana di Bernard E. Rollin 47 1. SCIENZA, SENSO COMUNE E SENSO COMUNE SCIENTIFICO 47 La scienza e la «compartimentazione» del senso comune 56 Il senso comune scientifico 63 Può il senso comune correggere la scienza? 71 Conclusione 75 2. LA COSCIENZA ANIMALE COME OGGETTO DI STUDIO 75 La compartimentazione e la coscienza animale nell'ideologia scientifica 77 L'antropomorfismo è una fallacia? 83 Senso comune e coscienza animale 86 Coscienza animale e darwinismo 88 L'opera di George Romanes 91 Il metodo aneddotico 95 Aneddoti e sperimentazione di laboratorio 100 I principi di Romanes 105 L'applicazione del metodo di Romanes 111 3. ASPETTI DEL CAMBIAMENTO NELL'AMBITO DELLA SCIENZA E DELLA FILOSOFIA 111 Come cambia la scienza? La visione ortodossa 113 Un approccio alternativo al cambiamento scientifico 118 Le basi filosofiche e valutative del cambiamento scientifico 126 L'importanza di questa prospettiva per lo studio della coscienza animale: alcune osservazioni preliminari 128 L'ascesa del positivismo 132 Positivismo, comportamentismo e coscienza 140 4. IL TORTUOSO SENTIERO DA ROMANES A WATSON 140 Lloyd Morgan e il suo Canone 147 Il meccanicismo di Loeb 152 H. S. Jennings 161 La psicologia introspettiva di Titchener 164 Thorndike 170 Watson e il comportamentismo 175 Per quale motivo trionfò il comportamentismo? 184 5. IL DOLORE ANIMALE: L'IDEOLOGIA LIQUIDATA, 1 184 Il senso comune scientifico e il rifiuto delle questioni di valore 192 Ideologia e incoerenza 193 Il caso del dolore 198 Conseguenze morali 205 Evitare l'incoerenza: la fisicalizzazione del dolore e dello stress 212 Ritornello: filosofia, valori e negazione della coscienza 214 Ideologia e dolore umano 220 6. IL DOLORE ANIMALE: L'IDEOLOGIA LIQUIDATA, 2 220 Argomenti a sostegno dell'insignificanza del dolore animale 221 La convinzione che gli animali siano privi di concetti 227 La versione di Wittgenstein 231 Il dolore e le limitazioni mentali degli animali 234 Antropomorfismo e dolore animale 235 Perché questi argomenti si diffondono? 237 Il comportamentismo logico e l'attribuzione agli animali della capacità di provare dolore 240 Variabilità dell'esperienza del dolore negli esseri umani e negli animali 244 L'incoerenza scientifica di negare agli animali la capacità di provare dolore 247 La presunta non osservabilità degli stati mentali 252 Gli stati mentali come categoria percettiva 255 La moralità e la percezione degli stati mentali 257 L'applicazione di questa teoria agli animali 262 7. MORALITÀ E DOLORE ANIMALE: L'EMERGERE DEL SENSO COMUNE 262 L'alba dell'interesse sociale per la moralità dell'impiego degli animali 267 L'interesse morale e il suo impatto sulla ricerca scientifica 276 Legislazione e comitati locali di controllo come elementi del cambiamento morale negli Stati Uniti 282 La legislazione britannica 287 La legislazione e la linea politica del Canada e dell'Australia 290 Il nuovo atteggiamento morale e lo studio del dolore 296 L'ideologia che si sgretola: il riconoscimento della soggettività 303 Il valore esplicativo degli stati mentali soggettivi: il caso dello stress 309 Ignorare gli stati mentali può compromettere la ricerca 316 8. L'OBLIO DELLA COSCIENZA 316 La coscienza nel comportamentismo 320 Gli approcci europei alla psicologia animale: l'etologia 330 Tracce della coscienza: Stati Uniti e Gran Bretagna 337 Tracce della coscienza: Europa 350 9. LA RIAPPROPRIAZIONE DELLA COSCIENZA: LA PSICOLOGIA 350 Critiche interne al comportamentismo 355 Attacchi alla teoria dell'apprendimento 357 La critica di Chomsky al comportamentismo 359 La difesa della coscienza da parte di Cyril Burt 363 L'opera di R. B. Joynson 365 Ernest Hilgard e il ritorno della coscienza 368 La svolta cognitiva 371 La riappropriazione della coscienza animale: lo studio della comunicazione nei primati 373 La coscienza animale nella letteratura psicologica 378 10. LA RIAPPROPRIAZIONE DELLA COSCIENZA: L'ETOLOGIA E NON SOLO 378 Il lavoro di Donald Griffin 383 L'interesse sociale nei confronti degli animali da reddito come fattore di recupero della coscienza 385 Il lavoro di Marian Dawkins e di altri etologi sugli animali da reddito 389 Altri progressi etologici nel campo degli animali da reddito 392 Nuovi metodi per studiare la coscienza animale: Herrnstein e Gallup 396 Un nuovo approccio allo studio della coscienza animale 398 Lo studio della coscienza animale nella ricerca scientifica convenzionale 401 Per convincere gli scettici: un esperimento ipotetico 402 Conclusione 408 Bibliografia 422 L'autore |
| << | < | > | >> |Pagina 11Si può supporre che l'alto numero di animali con cui la scienza contemporanea ha a che fare - animali identificati per numeri e non per nome - abbia contribuito al consolidamento dell'ideologia scientifica. Gli animali diventano indistinguibili come granelli di sabbia, il che a sua volta indebolisce sia la nostra sensibilità verso i segni di dolore, sia il nostro coinvolgimento morale. Questo è quanto è accaduto nei campi di concentramento: prigionieri rasati, denutriti, vestiti in modo identico, privati della loro individualità agli occhi dei loro sequestratori e, pertanto, percepiti come parte di un interminabile flusso di doni verso i quali non era necessario avere alcun coinvolgimento morale. B. E. Rollin, Il lamento inascoltato Nel panorama dei pensatori che hanno dedicato la propria attività intellettuale alla «causa animale», Bernard E. Rollin è figura originale e peculiare. La sua attitudine, al contempo rivolta verso la riflessione teorica e verso l'impegno pratico, rende il suo approccio unico nel suo genere. Rollin si rivolge infatti alle persone comuni, con un'analisi puntuale e precisa dei cambiamenti che sostanziano la nuova etica degli animali, ma con altrettanta incisività si rivolge agli «addetti ai lavori», alle figure coinvolte «dall'interno» nella gestione della vita animale, a partire dai medici veterinari, i biologi, gli scienziati coinvolti nella ricerca biomedica, sino agli allevatori, al personale accudente, alla «rodeo people». Come sottolinea la stessa Jane Goodall, nella sua Prefazione a questo libro, «Rollin non è assolutamente un filosofo in poltrona che pontifica barricato in un inaccessibile studio accademico tappezzato di libri». Per riuscire a «non pontificare», Rollin ha affinato nel tempo in maniera del tutto peculiare il proprio approccio, ponendo la riflessione filosofica al servizio del dialogo tra tutte le figure coinvolte e i differenti e contrastanti interessi che le animano. Il dialogo, per poter divenire tale, quando gli interessi in gioco sono spesso così in contrasto come accade attorno alle problematiche animali, richiede grande impegno, chiarezza e incisività. La chiarezza, soprattutto, rappresenta il presupposto primo per aiutare l'interlocutore a «mettersi in gioco», a sottoporre a verifica le proprie convinzioni e a confrontarsi con le opinioni degli altri. | << | < | > | >> |Pagina 28Che Il lamento inascoltato non sia un libro «contro la scienza» viene ribadito con forza anche da J. Goodall nella sua Prefazione: «Non si tratta di un libro contro la scienza - lungi dall'esserlo». Lo scopo di Rollin, in questo libro, è davvero quello di dare vita a un dialogo tra i vari «attori» coinvolti, in modo da permettere di migliorare la situazione tutelando tutti gli interessi. L'autore è genuinamente convinto che tramite il confronto «socratico» sia possibile provocare un cambiamento nelle opinioni riguardo alle questioni etiche coinvolte nell'impiego degli animali. E la ricerca non può che trarre vantaggio da questo confronto, dato che può solo essere migliorata «se poniamo in primo piano la necessità di considerare tutte quelle variabili prima ignorate che risultano dal dolore e dallo stress incontrollati e che sono in grado di alterare i risultati». Per questo, come scrive nella sua Introduzione all'edizione originale, «la questione della coscienza degli animali, in particolare per quanto riguarda quegli stati soggettivi che sono così importanti per l'approccio morale come il dolore, è l'oggetto centrale di questo libro». Ciò che Rollin ritiene sia indispensabile, prima di tutto, è mettere a nudo quel meccanismo che ha permesso di ignorare, per gran parte del Novecento, l'importanza del riconoscimento della coscienza animale come un legittimo oggetto di studio per la ricerca scientifica. E questo meccanismo viene individuato, più di tutto, nell'affermazione del positivismo e del comportamentismo come correnti di pensiero in grado di dare vita a una vera e propria ideologia scientifica, volta a negare la plausibilità di qualsiasi evidenza in merito alla consapevolezza animale e quindi in merito alla possibilità di riconoscere segni di dolore e sofferenza negli animali sottoposti a sperimentazione. Per questo, nel libro l'autore parla di «oblio della coscienza» e, successivamente, di «riappropriazione della coscienza». L'ideologia scientifica, di cui spiega con competenza la genesi e gli sviluppi ricorrendo alla filosofia e alla storia della scienza, si è contrapposta al «senso comune ordinario», al senso comune diffuso tra le persone nella loro vita ordinaria, sostituendo quest'ultimo con un proprio specifico senso comune, quello che l'autore chiama il «senso comune scientifico». Gli scienziati sono stati costretti, per poter lavorare, ad aderire all'ideologia scientifica, svestendosi dei panni ordinari per assumere quelli indicati dal senso comune della scienza. Nei loro panni «ideologici» gli scienziati hanno negato evidenza scientifica alle manifestazioni di dolore e sofferenza negli animali, al riconoscimento di una capacità di essere consapevoli su cui, in ultima istanza, si regge il presupposto dell'intera ricerca effettuata sugli animali: se essi, infatti, non sono dei buoni modelli - essendo così diversi da noi da non essere in grado di provare alcunché - perché utilizzarli per la ricerca biomedica finalizzata alla salute umana? La riappropriazione del senso comune ordinario rappresenta un passaggio cruciale, a partire dalla metà degli anni Settanta, per cambiare questa situazione. La ricerca scientifica inizia a occuparsi in maniera legittima di quelle capacità che il senso comune ordinario da sempre attribuisce agli animali utilizzati abitualmente nella ricerca, a partire dalla capacità di essere consapevoli di ciò che accade loro. E questo ha dato vita a un percorso, di cui stiamo ancora assistendo agli sviluppi, che non può che portare, come visto, a un miglioramento della scienza stessa, oltre che del trattamento degli animali coinvolti. Tra aneddoti, citazioni storiografiche, argomentazioni filosofiche e resoconti scientifici, Rollin accompagna il lettore in un percorso vasto e articolato, in cui ciò che emerge, prima di tutto, è l'importanza di incorporare la riflessione e le competenze etiche nella ricerca scientifica, in modo da comprendere correttamente le problematiche implicate dall'impiego degli animali e agire al meglio per migliorare sia la qualità della ricerca, che la qualità di vita degli animali. | << | < | > | >> |Pagina 36Durante la mia attività di insegnante, conferenziere e scrittore, ho concentrato la mia attenzione nel sollevare domande riguardo all'eticità dell'impiego degli animali nella ricerca scientifica, cercando di suscitare dei cambiamenti concreti in questo campo. A differenza di molti filosofi, ho goduto dell'opportunità di lavorare giorno dopo giorno direttamente con scienziati di svariate discipline e ho potuto coinvolgerli in lunghe discussioni su una vasta gamma di tematiche morali e concettuali. Durante gran parte di questo tempo, la mia attività si è basata sull'idea che quello di cui c'è più bisogno è una teoria ideale riguardo allo statuto morale degli animali, teoria che potrebbe essere adoperata come criterio per valutare le pratiche morali correnti e come guida per i cambiamenti. Dopotutto, come Aristotele aveva sottolineato parecchio tempo fa, un arciere può affinare la propria mira soltanto con un bersaglio a cui mirare e, allo stesso modo, anche noi necessitiamo di un criterio che indirizzi le nostre attività di ordine morale in una data area. Fino a poco tempo fa, la società occidentale in generale e i filosofi in particolare non si erano preoccupati di sviluppare un ideale etico di questo tipo riguardo al trattamento degli animali; sulla questione è stato scritto di più negli ultimi trent'anni che nei precedenti trecento. Nell'affrontare una tale problematica, il mio approccio è stato quello di costruire la mia teoria seguendo le implicazioni logiche dell'approccio etico riguardo agli esseri umani che è implicito nelle nostre pratiche sociali e nelle nostre leggi, estendendolo in modo razionale agli animali. Sulla base della mia esperienza, mi sono convinto che sia possibile ottenere l'adesione degli scienziati a una teoria del genere attraverso il dialogo, dato che questo li aiuta a esplicitare i loro principi morali e quello che ne consegue, qualcosa che spesso non è chiaro alla maggior parte di noi, filosofi inclusi. Il mio lavoro è di stampo socratico; il che può significare, secondo la metafora così piena di saggezza di Platone, sia un modo per aiutare le persone a ricordare e riappropriarsi in maniera consapevole di qualcosa che hanno già dentro di sé. E nella mia, più grossolana, metafora, sia una battaglia che può essere vinta solo grazie a una forma di judo dell'intelletto - usando cioè la forza delle idee dell'avversario a suo discapito - e non con un sumo dell'intelletto - ovvero cercando di adoperare i muscoli per eliminare dall'arena della discussione le idee dell'avversario e sopraffarle con le proprie. Credo che una simile strategia socratica sia la più adatta per un filosofo. Platone era nel giusto quando affermava che non si insegna veramente, ma piuttosto si permette di ricordare. Se da una parte la mia strategia ha avuto un discreto successo, dall'altra in un primo tempo non sono riuscito a cogliere in che misura ciò che in questo libro chiamo l'ideologia, o il senso comune, della scienza sia capace di scalzare il senso comune di chi scienziato non è. Ho imparato ben presto che vi sono alcune risposte standard da parte di tutti gli scienziati del mondo, qualsiasi sia il loro campo di attività e di ricerca, che vengono pronunciate quando sollevo le mie domande di natura morale: «La scienza è esente da valori», «Le questioni etiche sono poste fuori dal campo della scienza». E, ancora più sbalorditivo, è il fatto di sentirsi rispondere che non si può sapere «scientificamente» se quello che facciamo agli animali abbia un'importanza per loro. Radicata nel senso comune scientifico si ritrova l'idea che non possiamo essere certi che gli animali provano dolore, paura, sofferenza, disagio, ansia e tutti gli altri stati soggettivi di coscienza che sono così essenziali per le nostre preoccupazioni morali riguardo alle altre persone e alle deliberazioni sugli obblighi che abbiamo nei loro confronti. Innumerevoli volte mi sono trovato nella posizione di dover fornire «prove» che gli animali sono coscienti e a dover argomentare in modo «scientificamente accettabile» che gli animali provano dolore. Così mi è divenuto chiaro che una parte integrante del processo attraverso cui uno scienziato viene formato è costituito dall'abbandono del senso comune ordinario riguardo a un gran numero di questioni, inclusa quella sugli stati mentali e soggettivi degli animali. Ancor più sorprendentemente, ho scoperto che molto spesso un atteggiamento di questo genere viene assunto solamente «assieme» al camice da laboratorio e che, smessi questi panni, uno scienziato adopera le stesse locuzioni mentalistiche riguardo agli animali che vengono adoperate da ognuno di noi. È stato così che il mio obiettivo, gradualmente, è diventato quello di confutare questo scetticismo, moralmente pernicioso e fondato su un'ideologia, riguardo all'esperienza soggettiva degli animali. La questione della loro coscienza, in particolare per quanto concerne quegli stati soggettivi che sono così importanti per l'approccio morale come il dolore, è l'oggetto centrale di questo libro. Spero di dimostrare che la negazione degli stati soggettivi negli animali non è una componente essenziale del punto di vista scientifico, piuttosto una sua aberrazione storicamente contingente che può essere cambiata - e che deve essere cambiata - per fare sì che la scienza sia più coerente e moralmente responsabile. La mia speranza è che questo libro aiuti gli scienziati a «rompere» i vincoli ideologici che impediscono di attribuire stati mentali soggettivi agli animali. Inoltre, spero che possa aiutare coloro che scienziati non sono, ma che hanno interesse per lo statuto morale degli animali, a perseverare nei loro tentativi di penetrare la «fortezza» dell'ideologia e della pratica scientifica e provocare in essa dei cambiamenti. Questi cambiamenti si stanno già realizzando, ed è socialmente, moralmente e scientificamente necessario che essi avvengano razionalmente e non in maniera azzardata. Così come ho fatto nei miei libri precedenti, anche in questo farò un abbondante uso di aneddoti a mano a mano che svilupperò la mia argomentazione, in parte per rendere più scorrevole il testo e in parte perché, come Hegel, ho fede nell'esistenza e nel valore dell'universale concreto - ovvero di quei casi particolari che incarnano e comunicano in maniera vivida una verità generale. Come uno dei lettori del manoscritto mi ha fatto notare, non è per nulla strano che sia così bendisposto verso il metodo aneddotico di George Romanes! Sono grato a centinaia di scienziati di un'ampia gamma di discipline, che mi hanno trattato come un collega e aiutato a capire quale fosse la loro posizione su molte delle questioni affrontate in questo libro. Nonostante occasionalmente abbia incontrato, come reazione alle mie idee e al mio lavoro, delle manifestazioni di ostilità e, a volte, anche quella che può essere definita solo come «demenza», la maggioranza degli scienziati è stata incredibilmente disponibile nell'ascoltarmi e nel mettere a disposizione la propria competenza, ed è stata anche assai aperta nei confronti delle nuove idee. Confido nel fatto che prenderanno questo lavoro con lo spirito con cui è stato scritto - non come un libro contro la scienza, ma come una critica costruttiva di alcuni principi filosofici assai discutibili che si trovano alla base di gran parte della pratica scientifica, il cui abbandono può soltanto migliorare la validità morale e intellettuale degli sforzi scientifici di comprendere il mondo. | << | < | > | >> |Pagina 40Quando trentacinque anni fa cominciai a lavorare all'etica degli animali, realizzai che c'era bisogno di una teoria sistematica in grado di guidare i progressi nella condizione degli animali. Decisi così che l'etica che avrei elaborato sarebbe stata tale da produrre un cambiamento nella società e non semplicemente un'elegante costruzione filosofica estranea al mondo reale. Platone ci ha insegnato che quando si ha a che fare con l'etica e con gli adulti non si può insegnare, bisogna ricordare. Ho dato a questo insegnamento un significato preciso: al fine di modificare il comportamento delle persone riguardo agli animali, bisogna far sì che la teoria etica che si vuole porre loro di fronte sia implicitamente, sebbene non immediatamente, riconoscibile nelle credenze morali che già sostengono. Il mio ragionamento pertanto fu che, piuttosto che creare un'etica ex novo, avrei potuto prendere i principi etici che la società faceva valere per le persone, ed estenderli, mutatis mutandis (e appropriatamente modificati), anche agli animali. L'unico principio etico riconosciuto dalla società riguardo al trattamento degli animali era la proibizione degli atti di deliberata, sadica e futile crudeltà verso di loro. E basta una piccola riflessione per accorgersi che, tra tutta la sofferenza di cui gli animali fanno esperienza a causa degli esseri umani, solo una frazione infinitesimale è il risultato di questo tipo di crudeltà. La maggior parte della sofferenza animale deriva da motivi socialmente accettabili, come il progresso delle conoscenze e della ricerca scientifica, la produzione di un'abbondante scorta di cibo a buon mercato, o la misurazione della sicurezza o tossicità dei prodotti che adoperiamo quotidianamente. Se le cose stanno davvero in questa maniera, l'etica contro la crudeltà non tocca assolutamente le principali fonti di sofferenza per gli animali. La maniera più efficace per dare seguito alle preoccupazioni riguardo al trattamento degli animali che non risulta dalla crudeltà è quindi l'estensione anche a loro della nostra etica per gli esseri umani. Quale aspetto della nostra etica sociale pensai che potesse essere esteso? L'etica sociale degli Stati Uniti e delle altre democrazie occidentali è costituita da un amalgama di considerazioni utilitaristiche e deontologiche. Mentre la gran parte delle nostre decisioni sociali viene presa su basi utilitaristiche, ovvero la promozione del maggior benessere per il maggior numero di persone, la società pone anche dei freni agli eccessi dell'utilitarismo erigendo delle «palizzate» protettive, cui dà il nome di diritti, attorno ad aspetti fondamentali della natura umana. Questi diritti, come la libertà di parola, la libertà di religione, la protezione contro la tortura, negli Stati Uniti sono codificati nel Bill of Rights e sono basati su ipotesi plausibili riguardo a ciò che è essenziale alla natura umana. Ragionai che un qualsiasi sforzo per proteggere gli animali che avesse voluto porsi al di là della proibizione della crudeltà avrebbe potuto basarsi sulla protezione degli interessi che scaturiscono dalle varie nature fondamenti degli animali, che, seguendo Aristotele, ho chiamato telos - la «mucchitudine» della mucca, la «maialità» del maiale; quegli interessi che, insomma, costituiscono la natura della mucca o del maiale, ovvero quei modi in cui un dato genere di animale soddisfa i propri fondamentali bisogni di essere vivente: mangiare, riprodursi, muoversi, percepire e così via. Così come la natura umana potrebbe finire sommersa sotto le pressioni utilitaristiche se non fosse protetta dalle palizzate giuridiche - e morali -, anche la natura animale ha bisogno di un equivalente funzionale ai diritti, garantito dal sistema giuridico, per proteggere i propri, differenti teloi.
Dal momento che, legalmente, gli animali sono una proprietà e non possono
pertanto avere diritti, l'equivalente funzionale dei diritti potrebbe essere
determinato da limitazioni legali
sull'uso della proprietà animale. Precisamente quello cui si è
iniziato ad assistere a partire dagli anni Settanta del Novecento.
Per esempio, assieme ad alcuni dei miei colleghi veterinari, ho constatato
che per quanto riguarda gli animali impiegati nella ricerca e sprovvisti di
protezione giuridica non si
era neanche lontanamente vicini a quello che poteva essere il
trattamento migliore in relazione all'uso che ne veniva fatto e
così conclusi che un tale impiego doveva essere soggetto a legislazione. Quando
gli animali venivano impiegati per studiare la
ricomposizione delle fratture, o altre questioni che implicavano
un trattamento invasivo, non ricevevano alcuna analgesia, neppure un'aspirina.
Da una ricerca riguardo alla letteratura sulla
«analgesia degli animali da laboratorio» che condussi nel 1982
per provare le mie tesi di fronte al Congresso si concluse che
sull'argomento non c'erano articoli. Ampliando la ricerca a tutte le forme di
«analgesia animale» scoprii che vi erano in totale
due articoli, di cui uno che sosteneva che mancavano ricerche!
Le leggi che proponemmo passarono nel 1985 e oggi una ricerca sulla letteratura
a riguardo, compiuta alla fine del 2010, ha rivelato oltre 11 mila articoli,
assieme a un incremento nell'uso degli analgesici.
Negli anni successivi al 1985, l'aumento dell'interesse da parte della società verso il trattamento degli animali ha determinato numerosi cambiamenti nel loro impiego. Per esempio, nel 2003, in un'eloquente testimonianza del fallimento nel promuovere il benessere animale semplicemente attraverso le leggi contro la crudeltà, non meno di 2.100 leggi - federali, statali e locali - specificamente concernenti il benessere animale sono state promulgate negli Stati Uniti. Non vi è ambito in cui gli animali vengono impiegati che non abbia visto cambiamenti in virtù del cambiamento sociale delle preoccupazioni riguardo al benessere animale. L'ultimo, e forse più sorprendente, esempio è stata l'eliminazione negli Stati Uniti di quelle che erano le pratiche alla base dell'allevamento industrializzato e intensivo: le gabbie di gestazione (per le scrofe), le gabbie in batteria per le galline ovaiole e il confinamento singolo dei vitelli.
La domanda che nasce spontanea è perché, se le leggi
e l'etica contro la crudeltà sono state sufficienti per un lungo
periodo della storia umana, negli ultimi trent'anni vi sia stato
bisogno di una nuova etica e di nuove leggi. In una ricerca che
ho svolto per conto del governo degli Stati Uniti, ho identificato
cinque fattori:
1. I cambiamenti demografici e i conseguenti cambiamenti nell'utilizzo degli animali. Laddove agli inizi del secolo scorso più della metà della popolazione era impiegata nel settore della produzione di alimenti, oggi soltanto l'1,5 per cento della forza lavoro statunitense trova occupazione in questo settore. Cento anni fa, se a una qualsiasi persona, di città o di campagna, fosse stato chiesto quali fossero le parole che gli venivano in mente dicendo «animale», avrebbe sicuramente risposto «cavallo», «mucca», «cibo», «lavoro» ecc. Oggi, per la maggior parte della popolazione la risposta è «cane», «gatto», «animale da compagnia». Studi ripetuti hanno dimostrato che il cento per cento della popolazione proprietaria di un animale da compagnia vede i propri animali come «membri della famiglia». Nessuno li concepisce come fonti di reddito. E gli avvocati divorzisti sanno bene che oramai il problema della custodia del cane può essere spinoso quanto quello della custodia dei figli! 2. Usciamo da un periodo assai lungo di ricerca e approfondimento della nostra morale. Per circa cinquant'anni, la società ha puntato il faro di questa ricerca su quegli esseri umani tradizionalmente ignorati o addirittura oppressi dall'etica maggioritaria: persone di colore, donne, portatori di handicap e minoranze. Gli stessi imperativi etici che hanno reso possibile questo hanno portato all'attenzione verso la realtà non umana, l'ambiente e gli animali. Molti leader dei movimenti animalisti provengono da movimenti nati in precedenza, come i movimenti dei lavoratori, i movimenti femministi, a favore dei diritti civili, dei diritti degli omosessuali, dei diritti dei bambini. 3. I media hanno scoperto che «gli animali vendono». Non è possibile fare zapping col telecomando senza essere bombardati da storie, vere o di fiction, che hanno per protagonisti gli animali (un giornalista del New York Times mi ha detto recentemente che il tempo dedicato agli animali sulla Tv via cavo di New York è superiore a quello dedicato a qualsiasi altro tema). Al proposito basti ricordare la straordinaria attenzione mediatica dedicata, una decina di anni fa, a un gruppo di balene intrappolate nella banchisa e liberate da una rompighiaccio russa. Qualcuno al Cremlino probabilmente aveva capito che liberare le balene era un modo semplice per acquisire credito presso l'opinione pubblica statunitense. 4. Argomenti forti e autorevoli a favore degli animali sono stati avanzati da filosofi, scienziati e celebrità.
5. In ogni caso, la ragione principale è stato il precipitoso
cambiamento nell'uso degli animali che si è verificato
intorno alla metà del ventesimo secolo. Tradizionalmente, l'impiego principale
degli animali era nell'agricoltura - come cibo, come fonte di indumenti, come
mezzo di locomozione e di energia. La chiave del successo in questo
campo era data da una buona capacità di prendersi cura
delle proprie bestie, il che significava darsi un gran da fare
per creare l'ambiente migliore possibile per venire incontro alle loro esigenze
fisiche e psichiche (ciò che chiamo, seguendo Aristoele,
telos),
e poi aumentare le loro probabilità di sopravvivere e prosperare, fornendo cibo
durante le carestie, protezione dai predatori, acqua durante
la siccità, cure veterinarie, assistenza durante le nascite
e così via. In questo modo, l'agricoltura tradizionale costituiva un contratto
«onesto» tra uomini e animali, con
entrambe le parti che traevano vantaggio dalla relazione.
L'allevamento tradizionale aveva a che fare con l'infilare tasselli quadrati in
buchi quadrati e tasselli rotondi in
buchi rotondi, creando così il minimo attrito possibile
nell'operazione. Il benessere era garantito dalla più forte
delle motivazioni, l'interesse personale, e contro i sadici
e gli psicopatici, sordi a questo, erano in funzione le leggi
contro la crudeltà.
La nascita dell'allevamento intensivo, basato sull'applicazione dei metodi industriali alla produzione animale, ha rotto questo «patto secolare». Adoperando «smerigliatrici» tecnologiche - ormoni, vaccini, antibiotici, sistemi di ventilazione, meccanizzazione - siamo stati in grado di spingere a forza tasselli quadrati in buchi rotondi e porre gli animali in ambienti in cui la loro sofferenza non influisce sulla produzione. Se un allevatore del diciannovesimo secolo avesse provato a stipare 100 mila galline ovaiole nelle gabbie di un singolo edificio, sarebbero morte tutte quante di malattia nel giro di un mese. Oggi questi sistemi sono invece imperanti. Nello stesso momento storico, si è iniziato ad adoperare su larga scala gli animali nella ricerca e nella sperimentazione, provocando un'altra ondata di sofferenze senza precedenti.
La quantità di sofferenze generata da questi tipi di impiego oltrepassa di
gran lunga quella prodotta dalla crudeltà
deliberata. E le leggi contro la crudeltà non regolano questi
nuovi impieghi; non possono essere impiegate per nascondere
cose come le trappole a tagliola, le gabbie di gestazione, i test
di tossicità, dal momento che questi «provvedono alle necessità
umane», come ha affermato un giudice descrivendo ciò che riteneva escluso dalle
leggi contro la crudeltà. Una nuova etica era
necessaria. E, come ho indicato, essa ha dato i suoi frutti sotto
forma di grandi cambiamenti positivi nel modo di impiegare gli
animali. E forse, tema rilevante di questo libro, la nuova etica
ha contribuito a erodere l'ideologia scientifica, dando vita a una
«riappropriazione del senso comune».
In occasione dell'edizione italiana di questo mio volume, ho la speranza che anche in Italia questa riappropriazione del senso comune, unitamente alla nuova etica, possa portare a un reale miglioramento delle condizioni di vita degli animali. | << | < | > | >> |Pagina 71Gli esempi che abbiamo riportato, in cui la scienza ignora il senso comune e si espone per questo a dei rischi, ci conducono a una conclusione importante. Senza dubbio, il senso comune, in linea di principio, può sempre dialogare con la scienza, così come la scienza può sempre dialogare con il senso comune. In pratica, però, alcune aree della scienza sono diventate così esoteriche, così lontane dalla vita quotidiana e così sostenute dal successo, riconosciuto sia al loro interno dal senso comune, che non sussistono possibilità di dialogo. Le frontiere della fisica teorica delle particelle, per esempio, violano senza ombra di dubbio il senso comune, che però non è impegnato direttamente in questo campo, tranne che attraverso fisici come Einstein e Bohm, coinvolti a livello valutativo in alcuni dei precetti del senso comune. In aree come la biologia, la medicina, la psicologia, la gestione delle risorse naturale e altre, comunque, il bisogno fondamentale di un dialogo tra la scienza e il senso comune è sempre presente. Quando la medicina proclama di essere esente da valori, sta semplicemente ignorando i valori ordinari immergendosi nei propri, che tuttavia possono coerentemente essere criticati, come abbiamo visto in precedenza. Ogni volta che una scienza ha un impatto diretto, o prevedibile almeno nel breve periodo, sulla vita quotidiana o sui problemi morali, è compito indispensabile del senso comune riaprire il dialogo, piuttosto che accettare la scienza in maniera acritica. Questo perché, come si è visto, la scienza possiede i propri valori, le proprie assunzioni e la propria metafisica, tutte cose che generalmente non vengono né esaminate né criticate dagli scienziati. (Quando i medici criticano le strategie di difesa basate sulle armi nucleari, lo fanno in qualità di cittadini preoccupati, non come esperti, e stanno contrapponendo al senso comune scientifico il senso comune ordinario). La scienza che va a interagire direttamente con la vita umana o animale o con la natura, o come noi guardiamo o trattiamo uno di questi ambiti devono essere testati nell'arena del senso comune. L'ideologia della scienza, infatti, che valuta soprattutto la conoscenza, che rivendica la propria superiorità sul piano cognitivo e afferma di essere esente da altri valori, specialmente da quelli morali, è naturalmente predisposta a ignorare le considerazioni di carattere etico, calpestando così ciò che è oggetto di preoccupazione morale. In questo modo, gli scienziati ammettono che l'uso invasivo degli animali è essenziale alla biologia e che gli animali possono essere feriti o uccisi nel corso del loro impiego, ma sono riluttanti a trarre la conclusione che questo stesso uso è carico di questioni morali problematiche, poiché insistono sul fatto che la scienza è esente da valori e che solo la conoscenza è importante. Così facendo, però, la scienza non criticherà mai se stessa: a questo scopo, il senso comune, l'esperienza quotidiana e i valori ordinari strutturati in una dialettica filosofica socratica devono essere chiamati in causa. Nei prossimi capitoli proverò a indagare un'area piuttosto trascurata della ricerca scientifica riprendendo concetti elaborati nelle pagine precedenti; in particolare, cercherò di esaminare i suoi principi e i suoi valori alla luce di un senso comune strutturato filosoficamente. Quest'area è quella definita congiuntamente dalla psicologia, dalla zoologia e dall'etologia; ha a che fare con il pensiero, la coscienza, gli stati mentali e l'esperienza soggettiva degli animali. Daremo un'occhiata a quel modo di pensare che ha dominato incontrastato per un lungo periodo e pare essere dominante tutt'oggi, ovvero che gli stati mentali degli animali sono inconoscibili e che preoccupazioni del genere sulla ricerca non solo non sono scientifiche, ma scientificamente impossibili - ovvero, non sono compatibili con il senso comune scientifico. Tale modo di pensare pervade tutta la scienza che ha a che fare con gli animali, inclusa la ricerca biomedica. Avremo quindi bisogno di ripercorrere la storia di questa questione e di esaminare i presupposti filosofici e valutativi che soggiacciono al senso comune scientifico nelle sue applicazioni a questo problema, e non solo. Ciò che spero di dimostrare è che il senso comune e l'esperienza ordinaria, strutturati filosoficamente, hanno ancora qualcosa da dire alla scienza e che quest'ultima necessita di un meccanismo che le permetta di riconoscere le premesse valutative e le implicazioni delle proprie posizioni teoretiche, in modo da poterle modificare alle luce di critiche filosofiche razionali, cosa che non fa parte della routine quotidiana del lavoro scientifico. Ho iniziato la mia discussione riferendomi al detto di Hume secondo cui un filosofo deve fare sì che la propria identità di uomo abbia la precedenza sulla propria identità di filosofo. In altri scritti, Hume ci ricorda che, mentre gli errori della religione possono essere pericolosi, quelli della filosofia sono solo ridicoli; in altre parole, la filosofia non può essere pericolosa quanto la religione. Ho cercato di applicare il detto di Hume alla scienza, per discutere la relazione che sussiste tra il vivere a partire dal senso comune scientifico e il vivere a partire dal senso comune umano. Hume, in tutta la sua «pre-scienza», chiaramente non poteva prevedere il cammino che avrebbe compiuto l'ideologia della scienza nei confronti della coscienza animale, dal momento che nel Trattato sulla natura umana scrisse quanto segue: «È ridicolo negare una verità evidente, così come affaticarsi troppo a difenderla. Nessuna verità sembra a me più evidente di quella che gli animali sono dotati di pensiero e di ragione al pari degli uomini: gli argomenti sono a questo proposito così chiari che non sfuggono neppure agli stupidi e agli ignoranti». Tuttavia, per la scienza del ventesimo secolo questa negazione è stata fondamentale ed è infine diventata pericolosa, alla stregua degli errori della religione - da qui l'esigenza per la difesa di una verità evidente. È essenziale comprendere che gli errori della scienza - almeno per quanto concerne quelli filosofici - sono molto più simili a quelli della religione che agli errori compiuti dalla filosofia speculativa che ha in mente Hume; essi possono, infatti, essere pericolosi in maniera incalcolabile e in un attimo rendere vani quei principi morali alla base del senso comune. Tanto basta per legittimare la richiesta che la scienza faccia una pausa e si confronti con il senso comune, almeno in quelle aree dove evitare di farlo può avere conseguenze morali pericolose. La questione della coscienza animale è una di queste, dato che le presupposizioni scientifiche per cui l'esperienza animale è inconoscibile hanno importanti conseguenze morali, come vedremo. Anzitutto, esse implicano che non sia indispensabile avere a cuore la sofferenza degli animali: perché ci dovremmo preoccupare di qualcosa che non conosciamo? Tali presupposizioni insinuano, poi, che quanti di noi credono di avere degli obblighi morali nei confronti degli animali sono di fronte a un compito impossibile, poiché non è possibile nemmeno cominciare a elencare questi obblighi, se ciò che è importante per un animale è destinato a rimanere per sempre un libro chiuso per noi. | << | < | > | >> |Pagina 184Il senso comune scientifico, che affonda le proprie radici nel positivismo e nel comportamentismo, ha esercitato un'enorme influenza nella pratica scientifica del ventesimo secolo. Nella misura in cui uno scienziato nel corso della propria educazione può ritrovarsi ad avere a che fare con la filosofia, ciò avviene sempre tramite una versione di quella ideologia di cui abbiamo discusso, di solito in una versione distillata e semplificata capace di adattarsi perfettamente a prefazioni o introduzioni pensate appositamente per agevolare il passaggio degli studenti da una candida ignoranza della materia a una totale immersione in una disciplina difficile e per nulla familiare. Questa ideologia ha prosperato e continua a esistere per tutta una serie di ragioni pratiche. In primo luogo, essa fornisce - almeno in apparenza - un chiaro criterio di demarcazione tra ciò che è scienza e ciò che ricade sotto un altro genere di attività, in particolar modo il pensiero speculativo di ogni sorta, religioso o filosofico. (Per questo motivo l'ideologia della scienza si è sempre mostrata critica verso le teorie psicanalitiche come quella freudiana e junghiana, percepite come inverificabili, non empiriche, una sorta di mistico nonsense). In secondo luogo, essa fornisce l'appiglio tanto agognato a cui ancorare la nozione di «metodo scientifico», adoperata dagli scienziati di ogni campo della ricerca. In terzo luogo, essa solleva gli scienziati da qualsiasi responsabilità professionale legata a questioni morali o altre problematiche valutative, dato che queste sono considerate non empiriche, connesse alle emozioni e non cognitive. La scienza è svincolata dai valori, ci dice il senso comune scientifico, e le questioni normative, se mai hanno un significato, sorgono a partire dalla considerazione sociale sugli usi possibili della scienza e delle sue scoperte piuttosto che dalla scienza stessa. Per questo motivo i manuali scientifici non sollevano quasi mai questioni di valore. In oltre trent'anni di insegnamento e lavoro quotidiano con gli scienziati, una delle mie maggiori difficoltà è stata quella di riuscire anche solo a indurli ad ammettere l'esistenza di questioni di valore che siano legittime, o perlomeno supposizioni di questo genere all'interno del tessuto scientifico. Una tale ammissione, così almeno si ritiene, sminuirebbe la scienza come via d'accesso alla conoscenza, a causa dell'introduzione al suo interno di nozioni non scientifiche e di questioni non empiriche. Di conseguenza, le implicazioni, le conseguenze e gli effetti delle supposizioni valutative, che necessariamente e inconsciamente devono essere formulate nella pratica scientifica, passano quasi interamente inosservate e certamente non sono mai valutate in modo critico. È un'impresa erculea riuscire persino a evidenziarle in qualche modo, poiché i paraocchi del senso comune scientifico le rendono invisibili. In breve, l'ideologia della scienza tende a infettare i suoi adepti con la cecità nei confronti di questioni di valore di qualsiasi natura; e quando il bisogno di supposizioni valutative inevitabilmente viene a galla, le decisioni prese riflettono spesso la pressione e le esigenze del momento e raramente vengono riconosciute come valutative. È sempre un grosso shock per gli scienziati quando la società mette in dubbio le loro prese di posizioni valutative, dato che di solito sono assolutamente convinti di non averne affatto. All'interno dei problemi valutativi, specialmente quelli morali, il senso comune ordinario è, in genere, molto più sofisticato del senso comune scientifico, poiché situazioni moralmente problematiche si presentano di continuo nella vita di tutti i giorni, e non c'è possibilità di negarne la realtà (anche se ci si può rifiutare di interessarsene). Nella scienza, invece, questi problemi sono esclusi dalle stesse regole di base riconosciute e gli scienziati, durante la loro formazione, vengono istruiti affinché non ne tengano conto, più o meno così come vengono indotti a sopprimere qualsiasi tendenza religiosa. La differenza, ovviamente, sta nel fatto che la scienza non coinvolge, in modo inevitabile, presupposizioni teologiche, mentre non può prescindere dalle supposizioni valutative. L'etica della ricerca medica su soggetti umani ci propone al riguardo un caso interessante e significativo. Lungo le fasi di sviluppo della scienza biomedica in questo secolo, l'uso di soggetti umani è stato uno strumento inestimabile per la ricerca. Non occorre essere degli esperti di storia della medicina per avere una certa familiarità con le forme discutibili che ha talvolta assunto: l'uso di prigionieri per studiare malattie e varie terapie, con o senza consenso, o in cambio di favori; l'impiego di indigenti o derelitti negli ospedali delle grandi città per sviluppare nuove forme di trattamento; l'uso di popolazioni straniere inconsapevoli, l'utilizzo di persone malate di mente, ritardate, studenti, personale militare, altri individui privati dei propri diritti e così via. Il punto fondamentale qui non riguarda la correttezza o la scorrettezza di queste pratiche, ma il modo in cui vennero condotte, il fatto che non fossero considerate come attività che implicassero tesi morali attorno a cui discutere, ma piuttosto come scientificamente necessarie e, perciò, valide, almeno finché dei non scienziati (e alcuni scienziati) non costrinsero i ricercatori a riflettere su ciò che facevano. Con questo non voglio suggerire che in quel periodo non vi fossero scienziati moralmente consapevoli, ma solo evidenziare che tale consapevolezza non era insita nel senso comune scientifico. Se ciò avvenne, fu contrariamente e a dispetto del senso comune scientifico. Infatti, solo le atrocità su larga scala che emersero dalle rivelazioni naziste dopo la Seconda guerra mondiale diedero il via alla piena consapevolezza sociale circa le dimensioni morali della ricerca sugli esseri umani. Questa consapevolezza stimolò finalmente lo sviluppo di meccanismi ideati allo scopo di prevedere un coinvolgimento morale per quei soggetti inseriti nei processi di ricerca, soprattutto attraverso la revisione delle ricerche da parte di comitati che includevano persone non addette ai lavori scelte come garanti dei progetti. | << | < | > | >> |Pagina 188Qualsiasi lettore che volesse mettere in dubbio quanto sto affermando farebbe bene a passare un pomeriggio parlando di questo argomento con gli scienziati. Otterrebbe delle risposte molto istruttive e cioè che problemi di natura etica si presentano sì in certi frangenti, ma vengono affrontati internamente e si presentano come casi eccezionali, e che non si può permettere a poche mele marce di compromettere l'intero lavoro di un consistente numero di persone rispettabili. In altre parole, l'etica è associata al compiere qualcosa di sbagliato; perciò, dal momento che gli scienziati non fanno cose cattive, essi sono «etici». Questioni etiche sorgono solo in un contesto di erroneità, ovvero come aberrazioni, e non fanno parte integrante dell'attività scientifica.In alternativa, basta solo concentrarsi su quelli che qualche tempo fa erano chiamati «codici» dell'etica medica e medico-veterinaria per rendersi conto della naïveté medica in questo campo. Questi documenti erano, infatti, dei codici di etichetta, ideati allo scopo di regolamentare inezie intra professionali come la pubblicità, il regolamento dei pagamenti, la dimensione delle proprie targhe. Niente di sostanziale veniva affrontato all'interno di questi codici, tuttavia ci si appellava a essi come a un esempio evidente del coinvolgimento e dei comportamenti etici da parte della professione in questione. Tra gli anni Sessanta e Settanta la situazione cominciò a cambiare: la medicina umana, e più tardi quella animale iniziarono timidamente a occuparsi delle vere questioni morali inerenti al loro settore. Anche in quel momento, tuttavia, buona parte del coinvolgimento era di natura reattiva, ispirato dall'ampia diffusione da parte dei media e dal conseguente interessamento dell'opinione pubblica alle questioni medico-etiche. Molti fisici, medici veterinari e ricercatori in questo e quel campo consideravano, e continuano a considerare, questa attività essenzialmente una questione di public relations, ritenendola priva di un vero valore nell'ambito di ciò che significa veramente essere uno scienziato. | << | < | > | >> |Pagina 190Dopo aver pubblicato uno dei miei articoli sullo statuto morale degli animali, la rivista American Psychologist ricevette prontamente una segnalazione che accusava il mio lavoro di «promuovere l'immoralità», poiché forniva una base morale per le irruzioni nei laboratori.Riporto questi esempi per mostrare quanto degli scienziati brillanti, e per altri aspetti ragionevoli, trovino difficile anche solo prendere in considerazione la possibilità di pensare agli animali in termini morali. Una splendida esemplificazione di questo aspetto può essere rintracciata in un libro di testo di psicologia clinica pubblicato da due scienziati molto rispettabili, Martin Seligman e David Rosenhan. Fra le illustrazioni vi è una fotografia di un topo da laboratorio, con una didascalia: «Per ragioni etiche, gli animali sono spesso impiegati negli esperimenti di laboratorio». Cos'altro, meglio e in modo più eloquente, può evidenziare quanto il campo dell'etica, almeno per questi scienziati e, presumibilmente, per una larga percentuale dei loro lettori, non includa il modo in cui trattiamo gli animali? Tutto ciò è reso ancor più difficile dal fatto che la maggior parte dei ricercatori in campo animale, persino i più convinti, è sempre pronta ad affermare che la biologia, la medicina e la psicologia contemporanee sono concettualmente inscindibili dall'uso invasivo degli animali, e che questi ultimi godono dei diritti a un «trattamento umanitario» e a non essere soggetti ad abuso. Tuttavia, allo stesso tempo, affermeranno che l'uso degli animali non riflette alcuna assunzione morale, non è soggetto ad analisi morale, è una questione di scienza, non di etica, e che di animali non si deve discutere in «tono etico». A una cena a cui presi parte qualche anno fa, mi sedetti accanto a un ricercatore medico di spicco che continuò a criticarmi per i miei tentativi di inserire l'etica nel campo della scienza. Gli feci notare come i giudizi etici fossero inscindibili dalla scienza. «Dopotutto», dissi, «se è vero che sono le sole considerazioni scientifiche a governare le pratiche scientifiche, come mai non svolgiamo tutta la ricerca sui nostri bambini, che sono sicuramente modelli migliori, sia per gli stessi bambini che per gli adulti, di quanto non lo siano gli animali?». Speravo di ottenere un consenso netto, da parte sua, sul fatto che sia sbagliato in generale svolgere sperimentazione sui bambini, qualunque sia il valore scientifico della ricerca, e che perciò era vero che l'etica limita la scienza. Ma rimasi deluso. Senza esitazione, rispose: «Perché non ce lo lascerebbero fare!». | << | < | > | >> |Pagina 192Nella nostra discussione è veramente degno di nota il modo in cui l'ideologia riesce a offuscare la coerenza logica persino all'interno della scienza, quella forma di sapere che fa della sua consacrazione alla ragione il proprio motivo di orgoglio. (Nonostante pochi scienziati o filosofi siano anche solo in grado di iniziare a formulare un adeguato resoconto della ragione, tutti converrebbero che la coerenza e la fondatezza logiche rientrino in quanto richiesto). Che tale offuscamento possa avere luogo all'interno dell'ideologia politica e di quella religiosa è risaputo. Basta leggere Orwell, Hitler o Stalin per averne riscontro nella sfera politica. E nessuno, dotato anche solo di una minima conoscenza della religione, può fare a meno di riconoscerlo - come testimonia il famoso credo quia absurdum di Tertulliano. Ma il fatto di trovare scienziati che ignorano le incoerenze logiche in modo sistematico è notevole. L'unica spiegazione sono quei paraocchi che abbiamo menzionato prima. Poiché gli scienziati vengono istruiti a essere ciechi di fronte alle nozioni di valore, a maggior ragione lo sono di fronte alle incongruenze interne a queste nozioni, anche quando esse si riversano nella pratica della scienza.
Per quanto io sia coinvolto nelle questioni animali da
quarant'anni, ho realizzato solo qualche anno fa in che misura
l'ideologia scientifica possa offuscare la ragione. Naturalmente
ero consapevole del fatto che gli scienziati potessero essere estremamente
emotivi e irrazionali nei confronti di questioni puramente etiche riguardanti
gli animali, ma spiegai ciò - e in certa
misura lo spiego ancora - attraverso la loro convinzione che le
questioni etiche siano puramente legate alle emozioni, a causa
delle minacce al loro lavoro provocate dalla critica alle attuali
pratiche di ricerca, e al fatto che chiunque, da entrambe le parti,
tende a essere irrazionale sulle questioni legate al benessere animale, dal
momento che gli animali non hanno voce in capitolo
per poter sollecitare una risoluzione ragionevole dei problemi
inerenti la loro condizione. Solo ora ho iniziato a comprendere
appieno come l'ottusità ideologica su queste problematiche non
solo influenza il pensiero etico e ha infelici conseguenze morali,
ma infanga anche il pensiero scientifico. Io stesso ho compiuto l'errore di
separare la scienza dai valori, poiché anch'io sono
cresciuto nel clima generato dal positivismo e dal senso comune scientifico.
Fui risvegliato per la prima volta da questo sonno dogmatico nel marzo del 1983, quando ricevetti una telefonata da un illustre primatologo che mi chiese se volevo tenere la relazione principale a un seminario scientifico sul dolore animale. La mia reazione iniziale fu di esprimere sorpresa per il fatto che stesse invitando un filosofo. Rivelando una raffinatezza concettuale rara tra gli scienziati di professione, mi rispose che le questioni realmente interessanti e importanti circa il dolore animale non sono semplicemente quelle empiriche, bensì quelle morali, filosofiche e concettuali, e che il fallimento da parte della scienza nell'accogliere, o anche solo ammettere, l'esistenza di queste problematiche ha finito con lo screditare la scienza biomedica e con l'indebolirne le basi concettuali. Proseguì raccontandomi ciò di cui ero già a conoscenza dalle mie interazioni con gli scienziati, e cioè che il dolore animale veniva praticamente ignorato nella discussione scientifica, e che se mai era stato considerato, lo era stato in termini puramente meccanicistici, mai sperimentali o per le sue implicazioni morali. In poche parole, l'ideologia della scienza era riuscita a far espungere la maggior parte delle questioni interessanti sul dolore e aveva lasciato al suo posto una ristretta, incoerente e inconsistente quantità di credenze e atteggiamenti mai sottoposti a una vera indagine logica. La questione principale da affrontare in questo campo è l'ambivalenza, sostanzialmente incoerente, esibita dalla comunità scientifica nei confronti della realtà e della conoscibilità del dolore animale. Come ci si potrebbe aspettare, questa è la prima di tutte quelle conseguenze causate dalla negazione della coscienza animale. Ma, spostandosi all'altro capo del problema, è anche conseguenza della credenza implicita che gli animali godano di funzioni mentali simili a quelle umane. Perciò, da un lato, gli scienziati sono poco inclini a parlare di animali che provano dolore o piacere (o qualsiasi stato mentale), poiché tali affermazioni sono ritenute, nel peggiore dei casi, inverificabili (e perciò non scientifiche) e, nel migliore, antropomorfiche. D'altro canto, si ritrovano spesso nell'impossibilità di svolgere e descrivere il proprio lavoro se non presupponendo l'esistenza del dolore animale (e di altri stati mentali), poiché usano gli animali come modelli per gli stati umani (come il dolore) che contemplano un'essenziale dimensione legata all'esperienza. Questo problema, che pone gli scienziati in una posizione logicamente incoerente, viene raramente risolto; il più delle volte, è semplicemente ignorato, generando, quindi, la palese infondatezza di cui sopra. [...] Una rapida riflessione ci rivelerà come, per certi aspetti, la scienza sia assolutamente devota al credo per cui gli animali proverebbero dolore e godrebbero di altri stati mentali che, in misura significativa, sarebbero analoghi a ciò che provano gli esseri umani. Altrimenti sarebbe assurdo fare ricerca su di essi per ottenere informazioni sul dolore umano e studiare le risposte di dosaggio agli anestetici e agli analgesici. Non solo questa ricerca presuppone logicamente che gli animali provino dolore, ma tenta addirittura di fornire delle misurazioni quantitative del dolore e del suo controllo tramite analgesici attraverso test come i test con la piastra, o i test di contorsione, di scodinzolio, di spasmo muscolare a livello cutaneo, di abbassamento della testa, i test di pressione che coinvolgono la coda e le dita e di elettrostimolazione. Questi test presuppongono anche alcune significative analogie tra il dolore animale e quello umano, essendo impiegati in parte per lo screening delle sostanze a potenziale effetto analgesico negli esseri umani. Per chi non ha familiarità con questi test «scientifici» - e in questo caso le virgolette hanno senso, eccome - vale la pena spendere alcune parole per fare un po' di chiarezza. Tutti questi test sono studiati per fornire delle risposte misurabili a stimoli di dolore controllati e per misurare la capacità di alleviare il dolore procurato dagli analgesici. Nel test di contorsione, per esempio, un roditore è posizionato su una piastra e l'intensità del dolore è misurato a partire dall'ampiezza delle sue contorsioni e dal loro numero per minuto. L'analgesico da testare viene poi somministrato, ed è registrata la misura in cui il farmaco provoca la diminuzione della frequenza delle contorsioni. Una tensione simile esiste in psicologia. Da un lato, dopo Watson, la maggior parte degli psicologi americani, anche coloro che non erano dei comportamentisti totalmente convinti, respinsero le attribuzioni agli animali, considerate antropomorfiche e inverificabili, di stati mentali, come la paura, l'ansia, la depressione, la disperazione, in quanto venivano a trovarsi al di fuori dello spettro delle istanze scientifiche legittimate. Dall'altro, il presupposto inespresso di un gran numero di ricerche psicologiche su tali nozioni era quello per cui questi stati fossero analoghi negli animali e negli esseri umani e che il loro studio sui primi offrisse dei validi spunti per determinare la loro natura negli esseri umani. (Di certo un comportamentista convinto, come è già accaduto spesso, potrebbe negare che questi stati mentali esistano negli esseri umani come qualcosa di diverso rispetto al comportamento, aggirando quindi il problema). Il lavoro sulla disperazione e sull'impotenza indotta, introdotto dal summenzionato dottor Seligman (il quale ha rifiutato l'esistenza di qualsiasi attributo mentale negli animali) fornisce un esempio lampante di come gli psicologi che lavorano con gli animali debbano presuppone stati soggettivi analoghi negli esseri umani e nelle bestie. Infatti, il lavoro sull'impotenza indotta è stato profondamente criticato da alcuni psicologi proprio per il suo antropomorfismo. Allo stesso tempo, presupporre tali analogie conduce all'inevitabile e ampiamente discusso «dilemma degli psicologi» (che è anche il «il dilemma degli psicologi riguardo al dolore»), cioè: se questi stati mentali nocivi negli animali sono sufficientemente analoghi a quelli presenti negli esseri umani così da fornire dei modelli adeguati per l'esperienza umana, che diritto abbiamo noi di indurli negli animali? E se sono totalmente diversi, che senso ha studiarli? Il che induce a una forma di impotenza indotta tra gli psicologi in quanto, incapaci di risolvere il conflitto tra lo scetticismo da loro professato a proposito della coscienza animale e la loro implicita dipendenza da essa, evitano il problema in toto e fanno finta che non esista. | << | < | > | >> |Pagina 201Riassumendo, il problema filosofico insito nell'ambiguità sul dolore animale di cui abbiamo discusso può essere riformulato come segue: o gli animali provano dolore o non lo provano. La scienza, nelle sue attività, e nella misura in cui i suoi professionisti sono persone dotate di un ordinario senso comune, ha presupposto che lo provano, e la teoria biologica ed evoluzionista corrente lo conferma. D'altro canto, l'ideologia positivistico-comportamentista della scienza è servita allo scopo di legittimare la teoria secondo cui gli animali non provano dolore, o che perlomeno non siamo in grado di dirlo, dato che qualsiasi stato mentale animale risulta per noi inaccessibile (l'ultima ipotesi tende, ovviamente, a confluire nella prima). Allo stesso tempo, ovviamente, gli scienziati sono spinti dal proprio orientamento ideologico a ignorare le questioni etiche o a sopprimerle in quanto scienziati. Tutto ciò è stato a sua volta alimentato dalla lunga e sistematica mancanza di interesse per le questioni morali relative agli animali - un atteggiamento che si confà più al comportamentismo che al punto di vista del senso comune ordinario per cui gli animali proverebbero, eccome, sofferenza. Per di più, quando ci si ritrova all'interno di una ricerca scientifica, è forte la tentazione di subordinare tutto di fronte alla possibilità di trovare delle risposte. Facendo ricerca, è facile dimenticarsi dello status morale delle persone e degli animali e considerarli dei semplici strumenti per la soluzione di problemi, proprio come in una situazione di competizione si tende a vedere gli avversari non come persone, ma come pedine di un gioco o come sfide da superare. Perciò, per quanto l'inclinazione naturale possa essere quella di considerare i propri soggetti di ricerca come oggetti di coinvolgimento morale, è facile dimenticarsi di quell'atteggiamento o subordinarlo alla logica della ricerca.| << | < | > | >> |Pagina 205In ogni caso, rimane il paradosso, ovvero la contraddizione degli scienziati di presuppone il dolore animale come base di ricerca da un lato e la negazione ideologica della sua esistenza dall'altro. La comunità scientifica ha provato talvolta a evitare questo paradosso, trattando il dolore genericamente come un evento meccanico-fisiologico o neurofisiologico piuttosto che come uno stato mentale o cosciente. In questo modo, si è cercato di evitare «rivendicazioni non scientifiche» e, inoltre, si sono placati il senso comune e la sua concomitante riluttanza morale verso la somministrazione incontrollata ed effettiva di dolore agli animali. Secondo questa prospettiva essenzialmente cartesiana, le risposte al dolore sono state fisiche, meccaniche che possono essere studiate oggettivamente, e non stati coscienti. Un tale approccio ammette l'esistenza di meccanismi fisiologici legati al dolore evitando il problema di ciò che l'animale prova. L'idea dell'anestesia come di un contenimento chimico ne è un ottimo esempio. Un altro esempio si può trovare nel simposio sul dolore animale dell'American Physiological Society del 1983 i cui atti sono stati pubblicati col titolo Dolore animale: percezione e alleviamento. Nonostante il titolo, il contenuto tratta in modo molto dettagliato la neurofisiologia, la neurochimica, i meccanismi e (in misura minore) il comportamento coinvolti nel dolore animale, ma non affronta mai la componente fisica, rilevante a livello morale - cioè il fatto che l'animale provi dolore (i fisiologi si riferiscono al processo o all'analisi del dolore in termini di «nocicezione»). Un approccio simile, espressione tipica del comportamentismo, definisce il dolore umano e animale in termini puramente comportamentali e sostiene l'inutilità di fare riferimento a stati soggettivi. In questo caso l'autore è perlomeno coerente, in quanto applica la propria teoria sia agli animali che agli esseri umani. Un altro tentativo concettualmente problematico di evitare di avere a che fare con gli stati di coscienza, specialmente quelli spiacevoli, riducendoli a processi meccanici invece di ammettere la loro esistenza, si può ritrovare nell'uso notoriamente approssimativo del concetto di «stress» come termine generico per definire paura, ansia e altri tipi di sofferenza. Dal punto di vista degli scienziati di orientamento positivistico-comportamentista o riduzionista, questo concetto consente di ammettere che situazioni nocive hanno effetti deleteri sugli animali, garantendo così la possibilità di studiare questo tipo di meccanismi senza bisogno di invocare la consapevolezza o la coscienza. D'altro canto, l'uso di questo termine da parte di una letteratura così vasta e in rapido aumento è sconcertante e ambiguo, ed è difficile ottenere un quadro chiaro di cosa si stia esattamente discutendo. Mentre la maggior parte delle opere pubblicate in questo campo riguarda la fisiologia e solo in secondo luogo il comportamento, appare evidente come sia impossibile dare un senso a tale nozione senza fare implicito o tacito riferimento agli stati mentali o alla consapevolezza dell'animale - vale a dire a ciò che l'animale sta provando. Il termine «stress», infatti, in letteratura è usato almeno in tre modi diversi. A volte è applicato alle situazioni ambientali: in questo senso, gli scienziati parlano di stress da freddo, da caldo, da rumore ecc. A volte è applicato agli stati psicologici dell'animale o della persona soggetti a stimoli nocivi, come quando si parla di stress emotivo o di stress da separazione o isolamento. E altre volte si riferisce agli effetti delle situazioni nocive sulla psicologia della persona o dell'animale. [...] Non esiste praticamente alcun aspetto di un organismo che non possa essere affetto in modo deleterio, direttamente o indirettamente, da stress prolungato. Salute cardiovascolare, pressione sanguigna, risposta agli shock, sensibilità alle infezioni, al cancro, abilità riproduttiva, attività gastrointestinale, ulcera, guarigione da ferite post chirurgiche o di altra natura, mal di testa, emicranie, coliti, sindrome da intestino irritabile, tollerabilità verso sostanze tossiche, malattie cutanee, capacità intellettive, stati emotivi, malattie nervose e mentali, patologie comportamentali, malattie renali, artrite, allergie, asma, malattie autoimmunitarie, abuso di alcool e di droghe negli esseri umani (e negli animali da laboratorio) possono essere tutte situazioni coinvolte, indotte o esacerbate da stress a lungo termine. E una grande quantità di studi è stata svolta allo scopo di rivelare alcuni dei meccanismi fisiologici che ne stanno alla base. Ironicamente, ci sono prove definitive che il fallimento del tentativo di controllo delle variabili di stress e dei loro effetti può compromettere i risultati della ricerca sugli animali. Isaac ha dimostrato come praticamente ogni stimolo possa essere una fonte di stress per un topo da laboratorio. Notorie cause di stress che possono alterare profondamente qualsiasi sorta di variabile metabolica e fisiologica e mettere quindi a repentaglio i risultati di una ricerca sono il calore, il freddo, il rumore, l'affollamento, l'isolamento, la luce, il buio, il cambiamento di temperatura o di qualità dell'aria, le infezioni, le restrizioni, i traumi, la paura, la sorpresa, le malattie e il comportamento del ricercatore o del tecnico di laboratorio nei confronti degli animali. Relativamente pochi ricercatori sono consapevoli di questi fattori, e ancora meno svolgono controlli. I ricercatori, infatti, soprattutto quelli medici, sono notoriamente ignoranti sulle molteplici caratteristiche degli animali che impiegano, e ricevono una preparazione scarsa o addirittura nulla in merito alle modalità di relazione con loro. Molti sanno solo che un particolare animale è un buon «modello» per una particolare malattia o sindrome che hanno interesse a studiare. [...] È stato inoltre dimostrato che gli stress di natura puramente psicologica, come l'esposizione a un nuovo ambiente, possono generare reazioni fisiologiche di stress maggiori rispetto a qualcosa di chiaramente fisico come il calore. Perciò è evidente che la discussione sullo stress, per essere coerente e plausibile, implica un riferimento sottinteso all'esperienza, alla coscienza o allo stato mentale di un animale e non può venire addotta come scusa per evitare le locuzioni mentalistiche. Tuttavia, ciò che buona parte della letteratura riguardante lo stress fa nello sforzo di evitare ogni riferimento al pensiero animale, in accordo con l'ideologia scientifica, è di confondere i segni fisiologici e gli effetti di situazioni stressanti per l'organismo animale - cioè, l'effetto di quelle situazioni vissute come nocive o sgradevoli - con lo stesso stress (o esperienza). È come far coincidere il fatto di mangiare fagioli con quello di emettere aria dovuto al gonfiore. Come vedremo più avanti nel capitolo 7, in cui ritornerò in maniera dettagliata sulla discussione riguardo allo stress, sembra che, almeno, alcuni scienziati abbiano iniziato a comprendere i limiti connessi alla considerazione dello stress come una reazione fisica puramente meccanica e a tenere in considerazione l'irriducibile componente psicologica e mentalistica; ma, per la maggioranza di loro, lo stress altro non è che una via di fuga meccanicistica che permette di evitare il confronto con le questioni legate alla coscienza, alla soggettività e a ciò che l'animale prova. Ho sostenuto come il senso comune scientifico, specialmente in riferimento al pensiero animale, affonda le radici in ciò che è, in ultima analisi, una posizione metafisica - ovvero un modo di vedere la realtà - che affonda a sua volta le radici in motivazioni di tipo valutativo, incluse quelle morali. Questa posizione metafisica è tale da prevedere l'adesione epistemologica al riduzionismo fisicalistico e al comportamentismo. Sembra che, ogni qualvolta si tenti di unire questi due aspetti, il ragionamento sia il seguente: idealmente, la spiegazione dei fenomeni comportamentali deve essere di tipo neurofisiologico o fisico-chimico. Ma poiché la scienza non ha ancora raggiunto un livello tale da poter spiegare ogni cosa in questi termini, concentrarsi sul comportamento e le abitudini che ne derivano ne prende legittimamente il posto. Idealmente, i fattori comportamentali devono essere ridotti a fattori neurofisiologici. Tali riduzioni rimangono comunque largamente speculative, sebbene sia stato svolto un certo lavoro per tentare di collegare le reazioni allo stress fisiologico con le reazioni allo stress comportamentale. Nel complesso, tuttavia, il comportamento è analizzato in modo a sé stante. Perciò, un altro metodo accettabile per studiare il concetto di stress è quello di rivolgersi alle patologie comportamentali. Anche in questo caso non si fa alcun riferimento alla coscienza; ciò che si esamina sono le variazioni rispetto a quelli che vengono ritenuti gli standard comportamentali di una data specie animale. Questo approccio è predominante specialmente nella ricerca in merito agli effetti dei sistemi di confinamento sugli animali d'allevamento. Comportamenti indotti o in relazione allo stress includono il cannibalismo e l'atto di beccarsi il piumaggio (feather-pecking) a vicenda nel caso dei polli; il cannibalismo e il morso della coda (tail-biting) in quello dei maiali; comportamenti omosessuali nei bovini, il ticchio di appoggio (cribbing) e l'ondeggiamento (weaving) nei cavalli, e l'andatura stereotipata (stereotypical pacing) negli animali da zoo come le tigri in gabbia. Ancora una volta, questi sono indubbiamente indicatori della sofferenza animale piuttosto che una sua definizione. | << | < | > | >> |Pagina 212Vale la pena fermarsi e ricordare a noi stessi quanto siano importanti le componenti filosofiche e valutative dell'ideologia scientifica all'interno degli approcci analizzati - la misura, cioè, in cui modellano ciò che conta come dato legittimo, ciò che conta come reale o come spiegazione ecc. Ci siamo già stupiti di fronte all'abilità del senso comune scientifico di bandire i fatti relativi alla coscienza. Abbiamo anche analizzato cosa permette che ciò avvenga in modo così arrogante nel caso degli animali - ovvero, la mancanza di una riflessione etica, sia all'interno della società che nella ricerca scientifica in merito alle implicazioni morali coinvolte nel trattamento degli animali. Ma dobbiamo anche ricordare che vi è un elemento metafisico forte e molto discutibile coinvolto nella devozione a quei metodi esplicativi secondo cui le uniche cose che sono tutto sommato reali, o che vale la pena studiare, sono di natura fisico-chimica e meccanicistica. Per ironia della sorte questo punto di vista, che abbiamo analizzato brevemente nella misura in cui compare in personaggi come Descartes, Helmholtz e Loeb, e che è antico quanto il pensiero stesso (vedi gli antichi atomisti), è meno forte oggi nella fisica di quanto non lo sia nelle scienze biologiche. La rivoluzione quantistica ha reso a tutti gli effetti impossibile per i fisici ragionare in semplici termini meccanicistici. Un'occhiata al teorema di Bell, secondo cui il comportamento di particelle largamente separate sembra essere reciprocamente e simultaneamente interdipendente anche laddove non vi sia alcuna possibilità di causalità locale, è un segno evidente di questa posizione. Il meccanicismo è più vivo e fiorente tra i biologi molecolari. Rispetto a questi ultimi, i biologi degli organismi di ogni sorta, inclusi studiosi non riduzionisti e quanti in genere non hanno una formazione in biologia molecolare, godono all'incirca dello stesso status, nella comunità scientifica, che gode nella comunità podistica chi corre la campestre rispetto alla maratona. Il senso comune scientifico nei confronti della coscienza animale è perpetuato non solo dalla psicologia, ma anche dal filone principale della scienza biologica. In questo contesto, in cui ogni spiegazione di carattere non sufficientemente fisico-chimico viene vista come semplice storia naturale, la coscienza non ha spazio. Se la discussione sugli organismi è guardata con sospetto, quella relativa alle capacità mentali è sicuramente condannata a morte!
Infatti, zelanti nella loro convinzione di essere dei «veri
scienziati», i biologi a volte hanno spinto a livelli incredibili
quelle convinzioni ideologiche di cui abbiamo discusso finora.
Uno zoologo mi rimproverò per aver detto che i cavalli preferiscono i fiocchi
d'avena con la melassa a quelli senza. «Non puoi
affermarlo scientificamente», mi disse. «Al massimo puoi dire
che c'è un processo meccanico che li porta a essere attratti dalla
melassa più o meno come il termostato è affetto dalla temperatura».
Ricapitoliamo la discussione sul dolore animale che è stata condotta finora ricordandoci che quanto sto esaminando è esattamente ciò che è accaduto con Descartes nel diciassettesimo secolo: ovvero, la filosofia veniva chiamata in causa allo scopo di travalicare il senso comune in favore di una biologia riduzionista, in un clima sociale in cui era assente un concreto coinvolgimento morale verso gli animali. Descartes definì gli animali macchine prive di anima, di mente, di sensazioni, percezioni, emozioni, conciliando quindi, con un sol colpo da maestro, quanto sostenuto dal cattolicesimo (che gli animali non hanno un'anima) con le crescenti rivendicazioni della scienza della fisiologia, la quale nella sua ricerca della conoscenza fu costretta a mettere in atto quelle che il senso comune avrebbe definito procedure atroci e dolorose sugli animali senza alcun strumento in grado di controllare il dolore. Non c'è alcuno bisogno di controllare il dolore, sostenevano i fisiologi cartesiani, poiché non si tratta di dolore percepito, bensì di risposte puramente meccaniche. Il mio collega Ron Williams ha svolto un'affascinante indagine sulla negazione della percezione del dolore nella ricerca scientifica del ventesimo secolo. Egli condivide la mia visione secondo cui il positivismo e il comportamentismo sono esempi di un pensiero semplicistico e riduzionista che si è diffuso in tutte le sfere culturali a partire dagli inizi del Novecento. Ma è andato oltre, rafforzando ulteriormente la mia argomentazione principale, affermando che vi sarebbero state delle analogie tra quanto è accaduto nella filosofia della scienza e nella filosofia dell'arte. La teoria estetica riduzionista fu tanto formalistica quanto lo fu la filosofia della scienza positivistico-comportamentista. Nell'estetica formalisti come Bell e Fry disprezzarono il riferimento ai contenuti e ai significati nell'ambito della pittura e della scultura, sostenendo che ciò che risulta esteticamente essenziale è solo la pura forma. Allo stesso modo, i positivisti erano profondamente interessati alla forma logica delle scienze - si vedano l'assiomatizzazione della fisica di Carnap e il lavoro di altri, sulla stessa onda, come Woodger in biologia. Partendo da questa prospettiva formalista, unita alla tendenza riduzionistico-compostamentista, sostiene Williams, è facile comprendere come gli scienziati potessero ignorare l'esperienza soggettiva (contenuti mentali), concentrandosi piuttosto sulle caratteristiche puramente formali del dolore, della sofferenza e di altri stati mentali - cioè, sui meccanismi che vi sottendono -, tanto quanto i teorici dell'estetica ignoravano il contenuto di un quadro. | << | < | > | >> |Pagina 214Prima di passare a una discussione più dettagliata circa alcune delle argomentazioni filosofiche utilizzate per sostenere la negazione e la mancanza di interesse verso il dolore animale nella scienza contemporanea, vale la pena ricordare che una situazione simile esisteva anche nel diciannovesimo secolo riguardo al dolore umano. Come nel caso degli animali, l'assenza di preoccupazioni morali verso alcune categorie di persone ebbe come conseguenza la mancanza di riconoscimento delle loro sofferenze, mancanza giustificata da pretese ideologiche e filosofiche, in base alle quali tali persone non provavano «davvero» dolore, o, se lo provavano, non procurava loro un vero disagio. Ciò divenne evidente nel processo di diffusione delle pratiche legate all'anestesia verso la metà del diciannovesimo secolo. In un brillante studio, uno storico ha riportato la reazione della comunità medica, nonché le sue ipotesi filosofiche e ideologiche, di fronte alla possibilità di controllare il dolore chirurgico e di altra natura attraverso l'anestesia. Nel suo resoconto, Pernick ha dimostrato in modo convincente fino a che punto l'uso (e il non uso) dell'anestesia è stato guidato da implicazioni etiche e filosofiche. Egli mostra, per esempio, come alcuni medici non considerassero il controllo del dolore come un bene, ma al contrario: esso avrebbe aiutato le cure e sarebbe stato utile allo sviluppo di tratti «macho» negli uomini, oppure sarebbe stato «naturale», o ancora una giusta punizione per aver trasgredito le leggi naturali o religiose. Nel caso del dolore ostetrico, si sosteneva che tale tipo di sofferenza fosse un prerequisito necessario all'amore di una madre. Si sostenne pure che l'anestesia non permetteva al paziente di essere partecipe del proprio trattamento e dava al medico un eccessivo controllo sul paziente stesso. Le regole per l'impiego dell'anestesia si uniformarono tendenzialmente a queste posizioni filosoficamente e moralmente discutibili. Si asserì, per esempio, che le persone in salute, educate e civilizzate avessero bisogno dell'anestesia più di quelle appartenenti ai ceti inferiori o non civilizzate; che le donne provassero più dolore rispetto agli uomini (ma necessitassero meno dell'anestesia); che i neonati non provassero dolore o che lo provassero in via temporanea; che gli immigrati, gli irlandesi, i neri, la gente di campagna, gli ignoranti provassero meno dolore dei non immigrati, di bianchi, urbanizzati ed educati. E non si trattava di semplice ideologia; l'impiego effettivo dell'anestesia sembrerebbe essersi adeguato a queste dichiarazioni ideologiche. Affermazioni filosofiche e valutative furono perciò addotte al fine di giustificare l'utilizzo differenziato dell'anestesia. Per esempio, si disse che la capacità di resistere al dolore era indice di autentica virilità, essenziale per un soldato, e perciò l'anestesia non era necessaria a un «vero uomo». Un resoconto di quel periodo dell'American Medical Association (AMA) affermava che un neonato non necessita di alcuna anestesia poiché «il fatto di non essere dotato né di previsione né di ricordo della sofferenza, per quanto profonda, sembrerebbe rendere [l'anestesia totale] non necessaria». Come vedremo, la stessa affermazione viene adottata ancora oggi per giustificare il mancato ricorso all'anestesia e all'analgesia nel caso dei neonati e degli animali. | << | < | > | >> |Pagina 402Abbiamo visto, dunque, che i fattori coinvolti nell'ascesa prima, nella discesa poi e, infine, nella nuova ascesa della «legittimità scientifica» dello studio della coscienza animale non hanno seguito un percorso razionale. Al contrario dell'ideologia della scienza, tali fattori sono stati determinati da giudizi di valore di ogni tipo, inclusi i giudizi morali; dalla creazione di slogan, dalla propaganda e da chi impugna un megafono; dall'interesse sociale o dalla sua mancanza; dalla legislazione; dalla formazione ricevuta dagli scienziati e da una serie di fattori cui il senso comune scientifico non ha mai permesso di esercitare una qualsiasi influenza sui cambiamenti della scienza. Abbiamo visto come un fattore importante coinvolto nel processo che ha facilitato (se non forzato) il ritorno a una discussione in ambito scientifico sulla presenza di capacità mentali animali, sotto molteplici forme, abbia sollevato un interesse sociale, filosofico, culturale e politico nei confronti del trattamento degli animali. Quindi, abbiamo visto che l'etica sociale ha un impatto fondamentale sullo sviluppo della scienza. Ciò che troppo spesso viene ignorato, specialmente dai più zelanti vessatori del benessere e dei diritti degli animali, è che questa relazione è reciproca - la scienza ha (o può avere) un effetto ugualmente profondo sull'etica. Una scienza che «dimostrasse» che gli animali non provano dolore, o che non siamo in grado di sapere se lo provano, potrebbe indubbiamente ritardare i progressi nel campo del benessere animale, specialmente in una società che considera i pronunciamenti della scienza infallibili. D'altro canto, una scienza che riconoscesse la presenza di funzioni mentali e studiasse le sue diverse modalità attraverso le varie specie, potrebbe rappresentare un'inestimabile risorsa per aiutare la società a impostare delle linee guida corrette e delle regole giuste per il trattamento e la protezione degli animali. Ed è praticamente ovvio che l'informazione più basilare che abbiamo bisogno di sapere nel predispone queste regole riguarda la vita o il telos dell'animale, sia fisicamente ma soprattutto mentalmente, poiché le necessità fisiche e la loro mancata soddisfazione, o la loro soddisfazione, comportano dolore e sofferenza o felicità e altre manifestazioni di consapevolezza. Finché non ne veniamo a conoscenza, non possiamo discutere in maniera accurata, precisa o realistica i dettagli fondamentali dei nostri obblighi morali nei confronti degli animali. Nel momento in cui estendiamo i confini di questo interesse morale al resto della natura, siamo obbligati a farlo in modo da riconoscere l'unicità degli interessi e dei bisogni insiti nel telos di ogni creatura. Non ci comportiamo in modo razionale e moralmente corretto trattando ogni animale come se fosse un piccolo essere umano, più di quanto gli Stati Uniti sono stati moralmente o strategicamente corretti trattando tutti i paesi sottosviluppati come delle potenziali Americhe. Avere degli obblighi morali nei confronti degli animali può essere stabilito a priori, come ho cercato di fare nel mio libro sui diritti animali. Comprendere in cosa consistano, a seconda dei casi, richiede una conoscenza dettagliata dell'animale, sia biologicamente che nei termini della nuova scienza di cui abbiamo discusso. Finché la consapevolezza riguardo a questo argomento continua a crescere all'interno dell'opinione pubblica, allo stesso modo aumenterà la necessità di legittimare il dibattito sulla consapevolezza soggettiva degli animali, come accadrà anche per la richiesta di una sua analisi scientifica, e i relativi finanziamenti, con l'inevitabile richiesta ai ricercatori di articolare e giustificare la loro posizione morale «faccia a faccia» con gli animali da loro impiegati. Ciò creerà un grave problema di difficile soluzione per quei ricercatori che rivolgono la loro attenzione allo studio della coscienza animale, poiché la natura intrinseca della loro ricerca e la pressione sociale in tal senso dovranno risvegliare in loro la consapevolezza dello status morale dei soggetti da loro impiegati. Allo stesso tempo, è insita nella ricerca stessa la potenzialità di un'importante violazione degli interessi e della natura delle creature oggetto di studio.
Gli studi sulle modalità moralmente più rilevanti circa
le capacità mentali - dolore, paura, ansia, pena, noia e aggressività - hanno
tutti potenzialmente la possibilità di mostrare una
drammatica violazione del benessere e della felicità degli animali. Perciò,
contrariamente all'ideologia della esclusione dei valori,
la ricerca sulla coscienza animale deve diventare una scienza morale,
condizionata nella propria impostazione sperimentale dallo
status morale delle creature oggetto di studio. Diverse metodologie devono
essere escogitate al fine di massimizzare il rispetto dei
singoli animali studiati nel corso delle ricerche, riconoscendo
allo stesso tempo che, senza ricerca sulla consapevolezza animale, l'interesse
morale per loro nella società sarà limitato sia nel
raggio d'azione che nei dettagli, e la politica sociale che ne potrà
derivare sarà inevitabilmente infondata.
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