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| << | < | > | >> |Indice9 Premessa Museo, fagotti, terapie, molliche 10 Museo 12 Fagotti 13 Terapie 16 Molliche 17 Capitolo primo Una comunità 17 La comunità di* 18 Giovanni racconta 21 Brefotrofi 23 Un caso particolare 25 Case a "mezza strada" 26 Gesù dagli occhi blu 29 La principessa dagli occhi a mandorla 33 Meno che la carne 34 Vedere coll'anima 36 Prende il via la nave 38 Me la creo io l'università 39 Farmaci 41 Elettroshockterapia 43 Denti 44 Lamerica 46 Coltelli e coltellacci, forni, acciaio 47 Un amore non è caso molto facile 50 Soldi 53 Pazzi per la pizza 55 Titanic 55 Verrà un giorno... 57 Come fosse la luna 59 Vedo l'aria pulita, i fiori che profumano 61 Entrare nella vita 63 Una prospettiva 64 Difficoltà 65 Ecco passa Kim Novak 69 Merende 69 La stagione del malessere 70 Giocare con se stesso 72 Una storia in quattro e quattro otto 74 Sulla luna 75 God God 76 Una vita stordita 78 Un disegno 80 Una preghiera 80 Una poesia 82 La terra sotto ai piedi 85 Freddo glaciale 86 Un maglione rosso 88 Signore fa qualcosa, esci nel mondo! 89 Con chi parlo? 90 Un peso oltre misura 93 Buongiorno papà 94 Daccapo 95 A due passi dalla luna 96 Un volo 99 Capitolo secondo Altri percorsi 99 Adalgisa e Luciana: casa di donne, bambole e folletti 114 Anna: la Madonna parla agli animali 130 Alberto e Nicola: la stella dei ricordi 144 Mario e Giuseppe: il giardino di Peter Pan 160 Quasi un epilogo 161 Bibliografia |
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Museo, fagotti, terapie, molliche
C'è ancora del caos dentro di voi? C'è ancora una stella danzante? Friedrich Nietzsche Poiché nella follia l'uomo scopre la sua verità, la guarigione è possibile a partire dalla sua verità e dal fondo stesso della sua follia. Michel Foucault Dinanzi alla "rovina" della Rabata Tricaricense, dinanzi a tanta storia sconosciuta che si consuma in muto racconto, mentre su di voi si leva lo sguardo dei bambini rabatani (...), dinanzi a questi esseri mantenuti a livello delle bestie, malgrado la loro aspirazione a diventare uomini, io personalmente io, intellettuale piccolo borghese del mezzogiorno mi sento in colpa. Ernesto de Martino
Nel cuore di Roma, appena fuori dalle mura, c'è la Garbatella, la città
giardino, frutto di un progetto speciale che ha
costruito un quartiere nuovo per dare una casa a tutte quelle
persone costrette a sloggiare dalle loro case dagli sventramenti
urbani che hanno stravolto ai primi del Novecento la città. Un
piccolo gioiello fatto di villette bifamiliari, torrette, giardini,
cortili interni, archi e scalinate, nascosto e delimitato dagli alti
e fitti palazzi che negli anni Cinquanta hanno di nuovo sconvolto il paesaggio
urbano. Sulle grandi vie di scorrimento la
Cristoforo Colombo, la Circonvallazione Ostiense e l'Ostiense
passa ininterrotto un grande flusso di macchine, ma appena se
ne esce si arriva nelle piccole e verdi vie del quartiere, nella
pace dei grandi cortili interni. Un senso di estraniamento coglie chi vi entra
la prima volta. A vista d'occhio alberi e case e
piccoli giardini fioriti, colombi, uccelli e il rassicurante campanile della
chiesa. Le ansie e la fretta si depongono ai cancelli e si ritrova la vita
domestica di un piccolo paese. In questo
spazio protetto dal caos cittadino ho sperimentato per la prima volta
l'incontro con persone diverse, figure che ancora numerose si ritrovano nelle
vie di piccoli centri dove resiste la
socialità che caratterizza le culture di tradizione orale, "lo scemo del
villaggio". Con diffidenza ho guardato passare sotto le
mie finestre che si affacciavano sul cortile "l'aviatore" un uomo grosso e
robusto, vestito stranamente, inveire a testa china
contro non so chi o che cosa, seguendo un suo discorso interiore. A volte si
siede sul muretto, beve birra e fuma una sigaretta, a volte si avvicina e chiede
una sigaretta o mille lire. È innocuo mi viene detto, ha avuto un incidente
sotto le armi e da allora è strano. Prima c'era la madre che badava a lui, ma
ora è morta e si arrangia come può, dalla parrocchia, da vicini
di casa. Gira e vaga per il quartiere, nei bar e nei giardini della
Garbatella. Nessuna delle persone che abitavano lì da una vita
sembrava preoccuparsi di questa presenza per me inquieta.
Presto scopro un'altra figura particolare, un uomo che trascorre seduto sul
muretto del cortile gran parte delle giornate.
Da piccolo si è ammalato di meningite e ora è come un bambino, chiede spesso
caffè o sigarette, innocuo mi viene di nuovo detto. Dalla finestra lo vedo
spesso e presto scopro un'abitudine consolidata, ogni tanto si alza, gira
intorno al palazzo e orina proprio sotto la finestra di casa mia. Sento
imbarazzo, paura, impotenza e un profondo senso di estraneità. Mi era
impossibile rivolgergli la parola, trattarlo come una persona,
diversa forse, ma umana, con la quale poter comunicare; meglio ignorarlo. Sono
stata settimane e forse mesi prima di riuscire un giorno ad affacciarmi alla
finestra e dirgli: non lo fare, puzza. Finalmente mi sono sentita a mio agio
nella mia casa, nel mio cortile, nel mio villaggio dove si muovono libere e
tollerate persone "diverse".
Museo La tranquilla e sonnecchiosa località S. Onofrio in Campagna a Monte Mario non si aspettava ai primi del nuovo secolo, il novecento, di essere invasa da ruspe ed operai. Pensava di essere abbastanza lontana dalla città, per non essere raggiunta dal vagabondaggio dell'ospedale psichiatrico S. Maria della Pietà con il suo carico di umane softerenze. Da piazza Colonna (1548-1728) a via della Lungara (1725-28-1924) a Monte Mario nel 1913. La città invece si vuole liberare da questa scomoda presenza di poveri, vagabondi, libertini, visionari ricoverati in questi "ospizi". Li affida nelle mani della psichiatria, che li cura come malati non più come peccatori, e di leggi severe restrittive punitive. È pronto un progetto grandioso, un manicomio-villaggio, un modello per tutta l'Europa! 150 ettari di terreno, 34 edifici per 1059 pazienti (destinati a triplicarsi), un ampio parco con piante ad alto fusto. Un meraviglioso paradiso dove non potranno mai passeggiare. Reti delimitano gli spazi angusti delle "sorveglianze" dove nei mesi estivi stanno ammassate centinaia di persone. Le finestre si coprono di una doppia grata di ferro. Persino l'apertura dei vetri è misurata e controllata: l'aria deve essere un fluido misterioso e potente, invisibile legame con gli altri esseri umani, quelli che stanno fuori. Le porte sono sempre chiuse a chiave – le chiavi del paradiso – custodite da infermieri secondini. E queste non sono persone degne d'andarci. Un'immagine di paradiso sinistra e inquietante. Delle mura chiudono lo spazio della follia separandolo prima dalla campagna e ora dalla città che piano piano ha finito di nuovo per inglobarlo. Il villaggio e le logiche che lo sorreggevano è stato raggiunto e sia pure a fatica si è disgregato lasciando posto a nuove strutture previste dalla legge 180 del 1978, la famosa "legge Basaglia". È iniziato così quel lento e faticoso percorso di cambiamento che dopo 20 anni e solo grazie ad una sollecitazione legislativa sta portando alla chiusura dei manicomi. Che sia definitiva lo posso solo sperare. Per ora sono rimaste solo poche decine di persone da sistemare e un museo. Il Museo-Laboratorio della Mente del S. Maria della Pietà, nato da una mostra (1995), seguito con passione e competenza, anche ora che è in pensione, da Adriano Pallotta. La sua storia personale si intreccia per 40 anni con le storie del manicomio e con le storie dei ricoverati. La racconta in Scene da un manicomio (1998). Da infermiere secondino a infermiere rivoluzionario. Un ruolo certo più gratificante e coerente con il suo impegno civile e politico. Per combattere il fascismo il padre è stato confinato e lui è stato tra i primi ad accorrere e lavorare per abbattere le reti di alcuni padiglioni negli anni Settanta.
Il museo è un luogo di costruzione di memorie ufficiali.
C'è fretta di chiudere con un passato scomodo che si vuole
collocare lontano. Come vedere l'eclisse in televisione invece
di alzare gli occhi al cielo. Lo schermo protegge in senso metaforico e reale. I
raggi ustionano le pupille, la follia brucia le anime che vi si accostano. Il
museo ha il vantaggio di presentare una realtà orribile rassicurandoci che tutto
è passato, che non accadrà più.
Fagotti Quando entravano in manicomio i pazienti oltre alla speranza lasciavano in fagotteria i vestiti e gli oggetti personali. Raccolti in pacchi di carta, chiusi dallo spago e accatastati insieme a ogni forma di individualità, senso critico, cura di sé. Sono considerati potenzialmente pericolosi: gli occhiali, i libri, boccette di profumo, uno specchio, collane e perfino i propri abiti. Si depone tutto ciò che offre orizzonte di senso alla propria presenza nel mondo. Spogliati delle propria immagine e identità ci si riveste di informi divise, dai ruvidi tessuti, uguali per tutti. Favoriscono l'annientamento. Lunghi camicioni per le donne e camicia e pantaloni per gli uomini. Una distinzione utile a dividere e isolare, per controllare meglio, in questo reparto i maschi, in questo le femmine, che non comunichino tra loro. Le une lavano per terra e ricamano e cuciono, gli altri rilegano, caricano le macchine in lavanderia, puliscono i cortili: ognuno secondo il suo genere. A me che ormai leggo con fatica senza l'aiuto delle lenti, gli occhiali sembrano uno strumento indispensabile come l'aria che respiro, vederli là, in vetrina come strumento pericoloso mi fa mancare l'aria, mi fa riflettere: si è vero, la conoscenza è stata nella storia considerata pericolosa, per le donne, per i poveri, per i fedeli. I libri sono stati bruciati e messi all'indice. Un libro di preghiere è pericoloso – viene precisato da Adriano Pallotta – come oggetto contundente. Colpisce come un sasso. E le lenti degli occhiali possono anche tagliare, certo. La conoscenza è pericolosa, la memoria è pericolosa. Il Grande Fratello di Orwell è già tra noi. Ha tagliato questi ultimi fili che legano individui devianti alla società, li disabitua a pensare a se stessi in termini di identità. Questi oggetti di memoria come piccoli mattoni sottratti a un edificio ne possono determinare il crollo più efficacemente di colpi violenti inferti con forza. I corpi disciplinati sono questi manichini informi privi di identità distintive, omologati, dove la resistenza deve crearsi spazi insospettati.
Ci riesce?
Terapie L'ambiente della sorveglianza: alcuni tavoli, le panche e stoviglie di latta, escluse naturalmente forchette e coltelli. Per il loro bene devono ora mangiare solo con il cucchiaio, come dei bambini. Ormai dipendono dall'istituzione (medici, infermieri, suore) ed è bene che concludano al più presto il processo di redifinizione del proprio sé iniziato con la privazione degli oggetti personali. Facciano subito i conti con un restringimento degli spazi fisici non solo metaforici. Di colpo manca l'aria in questa sorveglianza quando veniamo informati che vi stavano tutto il giorno 50 persone, forse più. E che anche aprire un poco i vetri della finestra per far entrare l'aria (dev'essere un elemento molto prezioso visto che si concede con tanta difficoltà) è un beneficio che può elargire solo l'infermiere di turno. Esistenze di reclusione, tra sorveglianze interne ed esterne, reti, camere di isolamento, camicie di forza, fasce di contenzione, ghette di sicurezza. Le riproduzioni di pannelli didattici dell'ospedale del 1878 o di testi dell'epoca non lasciano dubbi sulle cure. Metodi e tecniche "terapeutiche" sempre per immobilizzare, per contenere, fermare, limitare, intimidire corpi la cui rivolta esplode con devastante violenza. Mi vengono in mente altre "cure terapeutiche" ricordate da Szasz. Il "tranquillizzatore" (una sedia alla quale il paziente veniva legato con la testa immobilizzata ad un sostegno), il "girotore" (una tavola rotante sulla quale i pazienti venivano assicurati con cinghie e fatti girare a velocità terrificanti per far fluire il sangue alla testa): invenzioni terapeutiche di Rusch (1746-1813) padre della psichiatria americana. Questi erano gli usi non gli abusi dell'istituzione medica psichiatrica, sottolinea più volte Szasz, così come erano nel giusto gli Inquisitori che sottoponevano a torture streghe ed eretici, sovversivi dell'ordine costituito. Dunque secondo l'etimologia eretici sono donne e uomini che scelgono, prendono, progettano si fondano come persone coscienti e consapevoli. Usi (non abusi) inquietanti che insinuano dubbi sull'onnipotenza e infallibilità della Scienza, ne sottolineano la storicità e la dipendenza da fattori culturali e sociali. Cose note? Forse. Credo però ci sia ancora da riflettere sui processi di costruzione di questo sapere, sulla nozione di sé e persona che implica. Le immagini evocate da questa visita guidata si affollano, si moltiplicano, si intrecciano. Le camicie di forza mi sembrano terribili, eppure furono considerate umanitarie quando furono introdotte al S. Maria della Pietà nel 1810, frutto delle profonde trasformazioni prodotte dall'Illuminismo. Sostituivano collari e catene di ferro o i più "morbidi" collari di cuoio. Era in corso il passaggio dall'approccio "caritatevole" del passato alla medicalizzazione che caratterizza l'epoca moderna. Resoconti di visitatori apostolici dell'epoca evocano immagini a noi assolutamente estranee: uomini e donne nudi, ammassati gli uni sugli altri per terra su della paglia infestata da insetti e topi, lurida di escrementi. La nostra moderna sensibilità ha voluto invece che i pazienti venissero ricoperti da casacche informi e legati a un letto, magari con delle traverse per i bisogni. L'essere umano viene distinto dalle bestie, con la nascita della borghesia si afferma il concetto di persona. Ma le immagini disperate di uomini e donne che hanno passato anche 10, 15 anni legati ad un letto di contenzione, isolate, invece che sulla paglia, ammassate, sono realmente più rassicuranti? Alcune di queste persone – mi dicono – sono ancora vive, abitano in case famiglia nei quartieri romani. Sono vive, ma è possibile per loro esserlo? Associo a queste immagini di persone umiliate che urinano e defecano legate al proprio letto, la decisione di un prigioniero politico Giorgio Panizzari punito per una settimana, legato ad un letto, di non mangiare per non subire l'umiliazione di sporcarsi e di essere pulito dalle guardie. Una scelta di grande dignità che lui ha avuto il privilegio di poter attuare e che ha trasmesso, insieme ad altre sue esperienze attraverso le pagine asciutte delle sue memorie dal titolo significatico: Libero per interposto ergastolo. Si può essere liberi in una prigione, ma in un manicomio? Il concetto stesso di dignità è qui decostruito con attenzione spasmodica, le persone ne vengono spogliate. I meccanismi di istituzionalizzazione manicomiale sono stati analizzati e fatti conoscere a tutti soprattutto negli anni Sessanta-Settanta. Goffman, Basaglia, Szasz concordano nel considerare la condizione del malato di mente come la più terribile per un essere umano, disumanizzato progressivamente per renderlo adatto alla nuova situazione di alienazione, creando nuove categorie diagnostiche. Fasce e camicie di forza rimangono comunque strumenti "primitivi" e ingenui se paragonati alle raffinate "scoperte" scientifiche del XX secolo. Un prospero allevamento di zanzare anofeli permetteva di infettare i malati psichiatrici con le febbri malariche e i loro "salutari" spasmi: la malarioterapia. L'insulinoshockterapia induceva un coma diabetico dal quale si veniva (non sempre) risvegliati. Ma la cura tecnologica per eccellenza è quella elettrica, sperimentata addirittura sui maiali del mattatoio romano di Testaccio nel 1938. Gli apparecchi che servono a praticare l'elettroshock – ce ne sono nel museo vari tipi dai più arcaici ai più moderni – servono tutti a calmare, tranquillizzare con il passaggio violento di corrente elettrica questi corpi incontrollabili, evidentemente non ancora abbastanza contenuti da fasce e camicie. Mi sento in colpa a provare pena per quei poveri maiali in preda alle convulsioni dal momento che so che questi apparecchi li hanno sperimentati anche su esseri umani. Voglio però conservare questo sentimento che mi fa sentire un essere umano non solo con gli umani, ma anche con gli altri esseri, animali e piante, con i quali condivido l'esistenza su questa terra.
Osservare questi oggetti in un museo induce erroneamente a pensare che non
se ne faccia più uso. Certo non questi
proprio, sono vecchi e superati, ma altri più moderni e sofisticati con l'uso
addirittura dell'anestesia, continuano a curare elettricamente in istituti e
cliniche private. Il progresso
nella storia della psichiatria sembra inarrestabile: l'inventore
della lobotomia (distruzione chirurgica selettiva di vie nervose con l'intento
di modificare il comportamento) il dottor Moniz è stato insignito nel 1951 del
premio Nobel. Rabbrividisco. Mi aspetto di vedere comparire da un momento
all'altro la Grande Infermiera di
Qualcuno volò sul nido del cuculo.
Forse anche il mio comportamento ha bisogno di essere controllato. Chissà se un
giorno faranno parte del museo anche i terribili e devastanti narcolettici, che
oggi paralizzano i centri nervosi degli attuali "malati di mente".
Molliche Per fortuna nel museo è contenuto un messaggio di speranza e una risposta alle domande che mi sono posta. L'angolo artistico. Alcuni disegni incorniciati, riflessioni, poesie e molliche di pane, carta, gesso impastate, manipolate, modellate in alcune sculture. Fragili, inquietanti e meravigliose come i sogni le speranze e i desideri che hanno scovato forme di resistenza impensate. Sfuggite finora a divieti e traslochi, senza nome e senza storia, lasciano intravedere alcune date 1889, 1893, e spiragli d'azione per qualcuno. Un artista in affanno! Dopo aver onorato una città... Per suo compenso, lunga prigionia! Nella capitale d'Italia. È stato scritto l'elogio della follia, del disordine e dell'immaturità. Queste persone ne hanno percorso i sentieri. I paesaggi della follia non mi sono familiari, ma come nella fiaba provo a seguire queste molliche. | << | < | > | >> |Pagina 99Capitolo secondo
Altri percorsi
Adalgisa e Luciana: casa di donne, bambole e folletti
Un giorno successe una cosa meravigliosa in manicomio: ci apersero i cancelli, ci dissero che finalmente potevamo uscire... da quel giorno cominciammo a vestirci, a pettinarci, a curare il nostro aspetto, perché fuori c'erano gli uomini. Ma, soprattutto, c'era il sole, questo grande investigatore che vede oltre, oltre anche i nostri corpi. E le nostre anime dovevano per forza diventare belle. Alda Marini Luciana, Elsa, Filomena, Adalgisa, Maria hanno dato con le loro iniziali il nome a Casa LEFAM. Da qui inizia un altro percorso guidato dall'esperienza di Adriano Pallotta che mi porterà a conoscere altre case e comunità dove hanno trovato riparo alcune delle persone dimesse dal manicomio. Altre vite ed altre storie, altre disavventure dell'anima ed altri miracolosi risvegli. Un bellissimo casale a Prima Porta riflette l'entusiasmo di chi ha mosso i primi passi per realizzare concretamente le strutture che permettono il superamento del manicomio. Il Direttore del manicomio Losavio riesce nel 1993 a conquistarne la chiave e la affida a un gruppo fidato di infermieri, tra i quali Adriano Pallotta. "Era una casa distrutta, molto bella ma distrutta. L'abbiamo tutta ristrutturata, abbiamo cominciato dal tetto fino al lampadario, i mobili. C'abbiamo lavorato 7 mesi, con le macchine nostre che non ci rimborsava nessuno la benzina... però si vive anche di queste piccole gratificazioni che sono grandi poi. A Losavio rimase impressa una cosa. Avevamo tappezzato i muri tutti con i colori che avevano scelto queste donne e io andai a cercare, che allora non si trovavano tanto facilmente, tutti i cordoncini del colore della stanza, per rifinire il soffitto. A lui rimase impresso: lì c'è il cuore. In quel piccolo particolare c'è la passione, c'è il cuore". Passione, impegno e il coraggio di sperimentare e rischiare nel difficile percorso che porta all'autonomia. Dopo tanti anni di segregazione queste donne sarebbero state in grado di badare a se stesse, di collaborare all'andamento di una casa? Prima di tutto una capofamiglia: Luciana. Una donna energica in grado di cucinare e di prendersi cura come una madre di Filomena sordomuta ed epilettica. Proviene dall'istituto don Guanella, ricoverata al S. Maria della Pietà perché nervosa, confusa e aggressiva. Sono però solo brevi momenti, che esprimono il disagio e la difficoltà di non essere capita. La cultura del gesto trova poco spazio di comprensione nel mondo della parola. Ancora più difficile per chi deve vivere reclusa come Filomena con poche opportunità di confronto. Unico spiraglio l'amicizia solidale di un altro sordomuto, che dimesso in un ricovero va a trovarla quasi tutti i giorni. Giocano a carte e "parlano". Adriano ricorda ancora il loro affiatamento e questo misterioso linguaggio di gesti che li accomuna. Attiva vivace laboriosa già da molti anni è in grado di vivere fuori. Sta nella zona ospiti quando Luciana accetta di prendersi cura di lei. L'unica in grado sempre di capirla e di volerle bene. Escono insieme a braccetto a fare la spesa. Per integrarla meglio nel gruppo si affida ad Adalgisa la responsabilità dei farmaci, da somministrare con regolarità. Persone in difficoltà di vivere trovano così sostegno l'una nell'altra in una rete di comunicazione e scambio che dà significato alla loro vita. Sottili fili di solidarietà già le legano, ma spesso sono resi invisibili dallo sguardo biomedico. Nessuno meglio di chi sta soffrendo le stesse difficoltà sviluppa una sensibilità che lo rende capace di attenzione e comprensione. Questo aiuto non è mai elemosina ma reciproco scambio di esperienze. A King esiste una comunità creata da Laing (1980) dove persone in difficoltà possono essere aiutate da ex-pazienti a "diventare matte", seguire fino in fondo il percorso di conoscenza interiore intrapreso per poi fare ritorno. Mi piacerebbe però come persona ordinaria non essere esclusa da questo processo di conoscenza straordinaria. Confrontarmi con altri mondi e accettare i rischi di cambiare il mio, come accade in ogni rapporto umano. Questa casa di donne funziona, l'inserimento nel quartiere è buono. Le paure sono gradualmente superate. Vengono lasciate sole anche durante la notte, uno degli scogli più grandi da superare. Il risultato è soddisfacente. Anche se da poco Luciana è morta ed Elsa se ne è andata, la famiglia continua a funzionare. Queste donne hanno circa 60 anni ma si affacciano alla vita come adolescenti, dopo un lungo sonno durato 30, 40 anni. Maria esce poco da casa, ancora mantiene gli orari del manicomio. Alle sei e mezzo di sera è già a letto. Una delle poche occasioni è però proprio il parrucchiere. La cura di sé parte per molte donne recluse ed espropriate di ogni segno di identità di genere proprio dall'attenzione ai capelli e ai vestiti. Cominciano a guardarsi allo specchio, tingersi i capelli e truccarsi. Chiudono per sempre con quell'immagine di pazza scarmigliata che è stata per tanti anni la dimora della follia. In questo percorso ritrovano legami, stimoli e solidarietà con altre donne, infermiere e operatrici che le accolgono in un mondo di donne. Si presentano a noi come perfette padrone di casa, sorridenti e disponibili. Ci accomodiamo in soggiorno, pieno di bambole e soprammobili tutti in ordine, ci offrono il caffè. Filomena è contenta di vedere Adriano, verso il quale manifesta affetto e simpatia, e gli mostra il suo televisore nuovo. Per lei rappresenta la conquista di una vita che ogni giorno che passa diventa sempre più sua. Si chiacchiera. L'ombra del manicomio cala improvvisa sulla conversazione. Sono preoccupate per l'arrivo di una nuova ospite: Anna. Adalgisa la conosce, facevano insieme le pulizie al 17. Menava pure i medici, ma a lei no, non l'ha menata mai. Adesso non lo fa più, assicura Adriano Pallotta, è un gioiello, gira tranquilla per Monte Mario. È difficile da credere, ma sono molte le persone considerate gravi ad avere recuperato la dignità di una vita libera. Non sono stata mai legata io si affretta a precisare Adalgisa. Ogni cambiamento minaccia l'assetto attuale e viene sempre dato per scontato che debba essere accettato "volentieri". Lei è stata al 30, al laboratorio di sartoria. Lì comandava suor Angelina. Stirava, cuciva a macchina 8 ore al giorno, era brava, una che faceva più di tutte. Pure al 15 cuciva tanti bei vestitini, quelli a righe, con le martingale, a righe celesti scure, grige, la camicia con un solo bottoncino dietro. Si ricorda di una foto con quella camiciola quando l'hanno fotografata per l'archivio... Una bambinetta, avevo 22 anni, non è che li dimostravo. Non avrei voluto commenta. È facile tingersi i capelli, ma i ricordi? Dopo tanti anni di orrori manicomiali ricorda questa ferita nell'anima indifesa come quella di una bambina. Foto segnaletiche con nome e numero come quelle di una prigione, che lasciava pochi dubbi sull'assimilazione della follia ad un reato. Stiamo seduti intorno a un tavolo, ex-pazienti del S. Maria, infermieri ed infermiere, accomunati da esperienze di vita nelle quali si ritrovano ogni volta che si incontrano. Un gergo nel quale ancora stento a orientarmi. Quando parlano tra loro cominciano a "dare i numeri", nomi e numeri. Ogni numero un padiglione, una diagnosi, un ruolo ed uno status che solo chi li conosce può decifrare. Passare da uno all'altro può essere una conquista o una punizione. Oppure una colpa come per Maria che nega la sua permanenza nel padiglione dei malati di tbc. "Come stai meglio adesso o prima", chiede Giancarla una infermiera che segue con impegno e calda partecipazione il progetto Giuseppina e che è venuta a visitarle insieme a noi. Adesso qui mi bisticcio un po' con Maria hai una bella camera, i mobili tuoi comprati da sola avevo tutto al S. Maria, il cappottino, i lenzuolini... ti ricordi Siria Cipriani? Lei me li ha comprati non al 17 però, mica t'avevi i mobili, il letto dell'ospedale e basta, manco la roba, che stava in fagotteria
era accettazione. Io sono entrata con l'art.4,
ribadisce Adalgisa, il ricovero volontario che dava più libertà a chi ne
usufruiva.
Lo sa, la cosa peggiore è che la società, o i parenti o i medici
certifichino la pazzia di una persona e che questa la neghi. Ma
quella divisa era troppo grande per lei ancora bambina. La memoria positiva di
Adalgisa inizia da quando ha cominciato a vivere come una persona. Anche lei
come Alberto ha vissuto il
manicomio nell'atmosfera di libertà degli ultimi anni. Adalgisa
ha avuto un buon comportamento all'interno del manicomio,
ma non ha chiaro come mai ci sia finita e rimasta per gran parte della vita.
Non ero pazza.
Questa è l'unica certezza che ha.
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