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| << | < | > | >> |Pagina 9Quando casco dentro a un mar d'impicci / Sora Alprazolam vien da me / sussurrandomi parole di quiete / lascia che sia oh sì lascia che sia. Ché a quanto pare sono qui, nel reparto ortopedia di un grande ospedale, c'ho 'sta gamba tutta ingessata, appesa tramite una benda doppia a una gruccia che usano anche per le flebo. Un finimondo. Ho scaraventato la Cinquecento rossa di mio padre contro una Fiesta beige guidata dal maresciallo in pensione della Marina, quello con la casetta tutta archi e dipinta di verde che abita nella stessa contrada della mia casa di campagna. Ho incuneato il piccolo cofano dentro una ruota anteriore del ciccione e, prima di finire contro il muretto rosa della masseria, ho visto la Fiesta perdere le staffe e svanire in una piccola cava di tufo in disuso. Una di quelle cave che un tempo venivano solcate a forza di picconate, con le pareti ineguali forgiate dalle mani degli antichi scavatori. La Fiesta beige vecchio tipo. Quella tutta spigoli degli inizi degli anni '80. Io la sperono e quella cambia la sua traiettoria puntando dritta la cava. E poi sparisce alla mia vista e io stesso non ci vedo più niente, con questo volante sottilissimo che non risponde ai miei comandi, la vetturetta rossa che fila con l'acceleratore schiacciato e il motore su di giri sebbene io non stia effettivamente schiacciando alcunché, solo mi porto le braccia alla testa prima di sentire le gambe appallottolarsi nel piccolo catino dei comandi a pedale. E la botta tremenda contro il vetro. Gambe e piedi si aggrovigliano in un fantasioso misto carne e tela di jeans e lamiera arrugginita di Fiat Cinquecento del '72. E il culo che fa un sobbalzo, porta il mio petto contro il volante sottile e la fronte addosso al parabrezza a disegnare la casa dell'Uomo Ragno, indi ricadere all'indietro e lì rimanerci, sì che la voce piagnucolosa eppure acuta che chiede soccorso si rivolge verso il tettuccio della Cinquecento, e mica verso, chessò, l'esterno, verso la campagna, la strada, qualcuno. No. Io là con le gambe imbrogliate in una matassa di freno acceleratore frizione pietre del muretto che si sono raccolte nell'incavo dei pedali. Il maresciallo sparito, rovinato dentro alla cava. La mia testa all'indietro che invoca «aiutatemi» al tettuccio, e si lamenta e frigna ché non sente più gli arti inferiori che un tempo erano stati i propulsori del corpo intero e adesso son ridotti in asparagi. Frigna per aver ucciso il maresciallo. Perché quando uccidi un sottufficiale, sia pure in pensione, si sa, tutta la Polizia ti si scaglia poi addosso. E perché – forse soprattutto per questo –, pur fissandosi in questa mania di non guardare altro che il top di pelle finta della Cinquecento, la mia testa comprende benissimo che dell'auto del '72 sarà rimasto ben poco, un paio di fanali da rivendere allo sfasciacarrozze, i sedili da regalare ai bambini per farne salottini per le loro capanne. Fracassata, come le mie gambe, come il povero maresciallo Colopi finito nel precipizio per via del mio tamponamento. E a quel punto uno s'aspetta che lo soccorrano e lo portino all'ospedale del paese. Tu ti ritrovi per la prima volta nella tua vita in un'ambulanza e pensi che quel tragitto a sirene spiegate debba durare due, tre chilometri al massimo. Che presto vedrai le facce familiari dei portantini e dei medici del pronto soccorso. Soprattutto, pensi che prima o poi incontrerai un medico, piuttosto che quest'energumeno con la vestaglia nera che t'ha piazzato i cartoni lungo le gambe e ti tiene ferme le mani neanche fossi un matto sotto ricovero coatto.
E poi pensi che sarà questo lo Stato Di Shock di cui parlano i giornali.
Questo dilatarsi sferzante del tempo e dello spazio. Sirene sulla tua testa. Un
orco pelato che ti tiene le mani.
Un lasso interminabile prima che l'autolettiga si arresti ed esegua una manovra
a marcia indietro e apra al fine i suoi sportelli anteriori e la barella scivoli
giù, ti scorra a fianco un inedito colore verdino. E facce sconosciute, un lungo
tunnel coibentato e illuminato al neon alla cui estremità t'appare 'sta rossa
procace col camice sbottonato fino al reggiseno la quale
comincia a tastarti le cosce-asparagi e a farti strepitare e pronunziare «mamma
mia» come non facevi da quando avevi due anni.
Lo Stato Di Shock si manifesta così. Con te che ti ritrovi in
questo sogno a occhi aperti e il colore giallino di cui sapevi
rilucere il
tuo
ospedale che diventa verdino, e il vecchio ortopedico noto per incollare rotule
e gomiti all'incontrario sì da far loro svolgere movimenti mai visti in natura,
'sto vecchio ortopedico che diventa una rossa sui trentacinque con le tette
in vista e i capelli lisci a caschetto. E la corsia dove ti ricoverano che si
trasforma in una stanzetta high-tech popolata solamente da un altro ragazzino
dal cranio fasciato piuttosto che da quattro più quattro degenti che
sfumacchiano e scatarrano e si grattano il pacco con la mano dentro al pigiama
aderente di acrilico.
Ci ho messo tutto il tempo che gli antidolorifici sparatimi nelle chiappe dall'infermiera macilenta facessero effetto per prendere il coraggio di guardare fuori dalla finestra. L'ospedale, shock o non shock, è esattamente di fronte a casa mia in città. Da qualsiasi finestra ci si affacci non puoi non vedere il palazzo a cinque piani che s'erge di fronte al nosocomio cittadino. Così io guardo fuori. Al limite, se pure ti sbattono in una stanzetta high-tech nella parte posteriore dell'ospedale, puoi vedere la distesa di macchia che porta verso il mare, tutta attraversata dalle stradine di campagna dove ha trovato la morte la mia Cinquecento rossa, oltre che la Fiesta del maresciallo e il marinaio stesso. E invece il fatto è questo qua, che di là dai vetri vedo soltanto palazzoni residenziali e un po' più in là un assembramento di roulotte, non so, zingari, o giostrai, o parcheggio mattutino per carrozze da fast food. | << | < | > | >> |Pagina 70Nel pomeriggio le bambine hanno trasformato i panini al prosciutto che ho preparato in una poltiglia schiacciata dentro a un secchiello da mare che la Porca, il cane, sta puntando voluttuosamente. Non mi devo incazzare. Ancora due ore. Insieme a Nicola che ha avuto l'idea, proviamo a costruire il naturale gioco alto fino all'armadio che avevo promesso a una delle tigri la scorsa notte: un aquilone. Due ore soltanto. Prendono il diavolo di gioco insieme ai bagagli e si sciacquano dalle palle per sempre.Suona il citofono. È già arrivato il padre, penso io con un certo sollievo. Rosina risponde. Dice: «Si accomodi», e poi mi chiama: «È qualcuno per te», e sparisce in camera sua insieme con Nicola. Alle due e mezza del pomeriggio è riapparso Quintino con un mazzo di fogli in mano. M'ero quasi dimenticato di quest'incubo notturno. Gli occhi celesti del professore che mi guardano serafici dal ciglio della porta me lo fanno rivivere. «Mi fai un caffè intanto che sistemo la roba che devi firmare?» «Ok, professo', accomodati, stavo per mettermi a costruire un aquilone, non far caso al disordine. Cosa devo firmare?» «La tua candidatura, è ovvio. Domani notte si chiudono le liste e, non so se già lo hai percepito, in città la notizia ha già creato scalpore in tutti gli ambienti. Vedrai, saranno fiamme e fuoco.» «Di quali ambienti stai parlando? C'è la popolazione in agitazione per questa notizia catastrofica?» «Non scherzare affatto. Ne parlano in tutti i bar. Non è roba da poco che in questa cazzo di cittadina scenda in campo un candidato verde.»
«A dirti il vero a me dei Verdi non mi potrebbe frega' di
meno, lo sai. E se devo essere sincero, tutte quelle riviste ecologiste che mi
arrivano neppure le apro, le smaltisco direttamente nel cassonetto. L'ecologia
mi annoia mortalmente.»
Io ci provo, a fargli cambiare idea. Non mi sarei mai permesso di parlare in
questi termini a Quintino. Di solito le nostre chiacchierate vertono sulla
filosofia giuridica passando per Gabriele D'Annunzio e toccando invariabilmente
Durkheim e Derrida. Ma stavolta il suo impeto politico è totale. Glielo si legge
in faccia, sulle fossette che gli escono ai lati
della bocca quando alza la testa dalle carte, mi guarda e dice:
«Che figura graziosa.» Non c'è niente che lo faccia desistere.
Non la mia totale ignoranza sulle questioni ambientali, non la
mia vita incasinatissima e senza tempo a disposizione, non il
mio sarcasmo nei confronti del popolo di incatenati addosso
alle brutture edilizie o alle navi petroliere. Quintino sorseggia
il caffè e mi guarda, e sorride. E io affondo sempre più le bordate, e quello
non fa che sorridere e dire: «Che figura graziosa che ho trovato, faremo fiamme
e fuoco, vedrai.»
«Ok, ok. Fammi firmare. In quale lista ci mettiamo? E la smetti con questa sciocchezza della mia figura graziosa?» «Nella lista civica che mutua il nome dal candidato sindaco, ovviamente.» «E questa scelta, immagino, è frutto di un dibattito che avete già avuto fra di voi, non so, di una valutazione dei pro e dei contro. Ché, lo sai Quintino, te l'ho detto: io non ho tempo di fare né dibattiti né comizi né polemiche.» «Questa scelta l'ho ragionata io stesso dopo essermi consultato coi vertici regionali del partito. Vabbè, vabbè, all'interno del gruppo non tutti sono d'accordo, ma la determinazione che abbiamo preso stamattina è di lasciare a te l'ultima scelta. In fondo sei tu che ti candidi.» «Cosa vuoi dire? Cazzo, professo', non penserete di eleggermi sul serio. Mi ci vedi? Ché una cosa è questa mia candidatura di testimonianza, ma non venitemi a dire che c'è il rischio anche di essere eletto!»
«Una figura... grazios... no, scusa, una figura
garbata
come te non può restare nell'ombra. Vedrai quanto consenso ti si coagulerà
intorno, vedrai.»
È partito già col gergo politichese. Irrimediabilmente rincoglionito, e del resto c'era da aspettarselo visto che i settant'anni si avvicinano veloci.
Do uno sguardo alla lista. Mi va di traverso il fumo della
sigaretta che ho acceso. Quasi mi butto a terra per la tosse che
mi viene. Un filino di muco che s'impossessa del mio gargarozzo e che non se ne
va mentre le tigri di là hanno preso a picchiare le scatole di latta a mo' di
tamburi e il professore manco mi considera, impegnato com'è a guardare i suoi
documenti con gli occhialini da presbite sul naso. Poi mi ripiglio.
Bevo un po' d'acqua, ma ho ancora la voce rauca.
«Dico, ma hai visto chi si spaccia per progressista? Qui ci sono ex fascistoni, imprenditori voltagabbana intrallazzati di brutto, analfabeti che prosperano sulle spalle delle vecchiette sottraendo loro percentuali di pensione sempre maggiori in cambio di servizi stupidissimi quali l'andare a sbrigare commissioni burocratiche al Comune. Possiamo mischiarci a 'sta gente?»
«Ed è qua che entri in gioco tu. In questa lista la tua presenza è una
ventata di freschezza, una nota di colore in tutto quel grigiore. E poi,
giovane, parliamoci chiaro: se vuoi trattare coi preti e con l'elettorato
moderato non puoi metterti in una lista troppo sbilanciata a sinistra...»
Mi correggo subito. Quintino non s'è rincoglionito. Quintino ha dato il
cervello in pasto ai tacchini che alleva in campagna, questo è il punto.
«Sai cosa me ne fotte a me dei preti e dell'elettorato moderato...»
«Ok ok, di questi dettagli parleremo dopo con calma. Adesso si avvicina la
notte dei lunghi coltelli. Tenteranno di tirarti dentro da tutte le parti. Tu
per ventiquattr'ore non rispondere a nessuno. Spegni i telefoni e pensa a dove
cazzo ti vuoi collocare. Facciamo che per ora non firmi niente. Domani, giusto
poche ore prima della scadenza, andiamo io e te e presentiamo le carte.»
E si alza e si dirige verso la porta con una certa aria concitata. Si starà ricredendo sulla bontà della sua trovata, penso. Ma manco per un cazzo. Prima di congedarsi mi stringe una guancia fra pollice e indice e mi fa: «Assolutamente una figura graziosa», e poi: «Con quell'armatura di gesso, poi, sei quasi perfetto. Un candidato che costruisce gli aquiloni. Ecco la foto che metteremo sui manifesti elettorali.» E scavalca le mie figlie e poi sparisce nell'ascensore. E dopo dieci minuti, puntuale, mi chiama di nuovo, e mi scongiura di non avere rapporti con nessuno dice proprio così: «Non avere rapporti.» Per. ventiquattro ore, secondo la strategia-Quintino, io debbo rinchiudermi in casa e non dar confidenza ad altri che non sia il mio casato. Come se normalmente andassi in giro per club e salotti a esprimere le mie opinioni intorno alla politica paesana. Come se nella mia vita, in questo momento, mi importasse minimamente con chi si schiera Rifondazione comunista, e se i democristiani optano tatticamente per il Progresso ovvero per la Reazione. Come se credessi ancora in queste faccende del progresso e della reazione. Come se non sapessi che chiunque vincerà saprà ben farsi gli affari propri prima ancora che quelli della civitas. E non so se me lo sono bevuto io il cervello a pensare le cose che penso oppure è Quintino che a settant'anni non ha ancora capito un cazzo di come gira il mondo. | << | < | > | >> |Pagina 101E arriva il lunedì e ritorno a scuola e trovo i bambini cotti bolliti che a fine anno non c'hanno più voglia di starmi a sentire. Constato che con Wendy, la mia supplente, non hanno fatto granché tranne che filastrocche, disegni, idiozie varie secondo i dettami della pedagogia del Multi Sensorial Approach. Si dà il caso che il M.S.A. lo utilizzi pure io, eccome, durante le lezioni. Faccio loro toccare i piedi nudi a vicenda, li bendo, li faccio salire su colline di cattedre, yes, moderno sono moderno pure io. Ma il fine di sittanto trambusto in classe è che imparino tutti, dico: tutti, pure l'impedito dell'ultimo banco, pure la zingarella che parla all'infinito come gli indiani, che imparino a coniugare i verbi in inglese in maniera decente, e a comunicare bisogni, descrivere situazioni e le menate tutte. Wendy invece, constato, distribuisce pacchi di fotocopie, un'ora per colorarle, poi fa partire il registratore, manco il fastidio di sgolarsi un po' lei, via tutti a ripetere a pappardella la litania. E il lunedì io zoppico ancora e gli alunni son tutti presi da questa mia menomazione, e io non c'ho voglia di parlare di ossa e di ortopedia, io c'ho voglia di leggere insieme il discorso di Martin Luther King, di usare l'ultimo mese di scuola per discutere di diritti umani, di razzismo, di tolleranza, di guerra e di pace. C'ho voglia di tramortirli con la musica di quell'epoca. Con Janis Joplin e i vari maledetti, una fregola micidiale, non importa se zoppico e c'ho un piede che pesa trenta chili. Però quelli son svogliati. Mi guardano come fosse atterrato un ufo. Imitano la mia andatura, vogliono uscire in giardino a giocare a pallone, si scambiano biglietti amorosi. Durante la mia ora libera, mi convoca il direttore. «Cos'è 'sta storia del risarcimento danni per "causa di servizio"? Archivio direttamente? È una roba partita per prassi dall'assicurazione, non so, qualcosa che si fa tanto perché si deve fare? Ché, lo sai, il venerdì in questa scuola non c'è alcun servizio. Potessi dichiarare che c'è, lo sai, lo farei anche. Ma tu stesso ti sei tirato fuori da tutti i laboratori extra, e poi gli atelier stessi li facciamo di lunedì e di giovedì. Niente venerdì, Gregorio. Devo archiviare. Piuttosto parliamo di cose serie. È un fatto davvero magnifico che ti sia candidato per sostenere il nostro comune amico onorevole Turchetti. Ti faccio tutti i miei più sentiti "in bocca al lupo" e, come si dice, disponi di me se hai bisogno...» Sudo freddo davanti al mio capo. Uno se ne sta due mesi in malattia. Decide di lavorare in un paese vicino alla sua cittadina appunto per restare quanto più anonimo possibile. E quando torna trova bell'e schierati tutti i cazzi di casa. Da Quintino che mi candida alle elezioni a Teresa che fa causa contro i mulini a vento. Mi devo appoggiare alla colonna per non cadere, visto che inizio a barcollare. Quando esco dal gabinetto del direttore ho soltanto quindici minuti prima di tornare in classe per 1) correre in bagno e buttare giù una pasticca di Alprazolam, 2) costringere Gelsomina a mostrarmi quella lettera spedita dallo studio legale di Teresa, fare un passo indietro, strapparla in sedici pezzi, buttarla nel cestino, sentirmi dire «tanto facciamo sempre una fotocopia dei documenti protocollati, non ti riscaldare così, archiviamo tutto, sta' tranquillo, ti fidi di Gelsomina?», 3) aiutare l'emivita del farmaco a spiegarsi attraverso un paio di sigarette che mi fanno la bocca amarissima prima di tornare a concionare ai miei scolari intorno ai Mitici Sixties. Oltre al siparietto davanti al preside, tornato a casa Delia mi notifica che suo fratello Angelo e Rosina sono in camera a «esercitare un'arte che tu hai scordato completamente». Io non capisco se la polemica è appuntata sul fatto che anche Angelo abbia messo le tende in casa oppure sul fatto che l'uomo abbia ripreso a scopare con la nostra amica o semplicemente sul fatto che dovremmo chiamare i Carabinieri, far sgombrare la nostra abitazione civile trasformata in ostello e prendere noi a scopare. Poi se ne va di bell'e buono. E non mi risponde al cellulare che per dirmi: «Le bambine sono con me, andiamo al mare, tu fa' quello che ti pare, non hai da giocare alla politica, oggi?»
In effetti, ce l'avrei. Ieri sera, prima d'andare a dormire, ho
letto un'e-mail allarmata di Quintino.
E ok, le bambine son con lei, Nicola è a basket. Delle tigri, in cameretta, non c'è più traccia. Niente bagagli, niente ceste issate sulla cima dello scaffale con carrucola improvvisata e lasciate ribaltare sì da creare l'effetto Cascata Di Giocattoli. Sarà venuta la cugina in persona a prenderle. La tigre media sarà andata via con la mia promessa mancata di un gioco altissimo. Ma mi conforta il pensiero che posso andare a riparare a questo impegno disatteso a casa loro. Magari un regalo altissimo lo prendo per tutt'e tre le bimbe, penso. Magari uno anche per la madre e uno per il padre, progetto mentre mi sfrego le mani per la contentezza. Magari non subito. Dopodomani. La settimana prossima. Mi presento da loro, e: «Sorpresa! Gregorio con una carriola di doni per tutti.» Ché alle persone care devi fare dei regali. Devi fare delle sorprese. Vai da loro e gli fai queste sorprese, giubilo mentre appuro che anche nelle altre stanze non vi siano più segni della presenza felina. Poi busso alla stanza di Rosina, cioè al mio studio. Chiedo se mi passano il mio pc. Viene fuori un braccio da gorilla con il portatile in mano. Lo raccolgo senza ribattere. Mi sistemo in cucina. Mi preparo un panino, inserisco nel cellulare la scheda da free lance e comincio a lavorare alla mia réclame elettorale. | << | < | > | >> |Pagina 187Pur provando a captare un leggero zefiro che si forma ai piedi del lettone non solo non riesco a dormire ma praticamente son zuppo di sudore. Grazie all'orologio proiettato sul muro constato che il cuore batte a quasi centoventi rintocchi al minuto. Mi alzo. Mi sdraio sul dondolo in terrazza. Sfoglio una rivista di zooiatria di Delia che contiene un lungo dossier sulle malattie dei suini importati dall'Est. Chiudo quasi subito. Guardo verso il filo di fumo grigiastro che si alza dalla discarica. C'è un brutto odore di immondizia che fa il paio con quello dei sentimenti che ho dentro. Giù in strada c'è l'Audi di Rosina, sei mesi di vita e già rivestita di ammaccature. Pensare alla ragazza di là nel mio studio mi fa venire i crampi all'addome. Mi attraversa un intollerabile senso di affinità fra i suoi automatismi e i miei.Quand'è che cresceremo tutti quanti noi? Se ne salva qualcuno fra tutti i catafalchi della nostra età? Ci sono dei coetanei che vivono al riparo e non hanno mai conosciuto lo strapiombo dell'inferno? Che non erano a Bari, com'eravamo Delia e io, da due anni, più o meno felici a vivere nella casa da studenti di Angelo e di Rosina, all'epoca fidanzati. Con noi, nella grande casa, c'erano pure lo scultore algerino e il piccolo Nicola. La mamma del bambino, la bella Simone, era morta da qualche anno di aids. Col bambino, Rosina aveva un rapporto distaccato. Troppo impegnata a portare a termine la consegna del padre di laurearsi in tempo. Nessuna ansia prima degli esami. Si alzava presto, faceva una doccia, si truccava, si metteva le lenti a contatto, si vestiva da gnocca e partiva con il suo fascio di disegni. Al ritorno Angelo l'aspettava dietro alla porta. La faccenda era soltanto se avesse preso o meno la lode. Angelo era sempre stato un indipendente. Partito per Atene che aveva diciotto anni, non ritornò in patria che dopo due anni, il tempo di conoscere la francese, innamorarsene, andare a vivere insieme a Paros facendo i bagnini. Poi rientrarono e restaurarono una casupola della nonna di Delia nel centro storico. Lui prese a studiare, lei a esibirsi nelle discoteche come cubista. Nacque Nicola e in ospedale chiamarono Angelo in disparte per chiedergli se fosse a conoscenza che la moglie era sieropositiva. Angelo è un tipo cacasotto, sotto la scorza di spavaldo. Corse a farsi gli esami prima ancora di sapere se il figlio avesse ereditato il male. Miracolosamente salvi entrambi. Ma, di lì a qualche mese, la relazione del ragazzo con la bretone andò velocemente a rotoli. Partì di notte. Senza il bambino. Subito dopo che Angelo s'era messo a letto dopo aver studiato fino alle due. Aveva trovato un passaggio su un autotreno diretto a Nantes. Della morte s'è saputo grazie a una lettera scritta in un italiano elegantissimo dalla mamma di Simone. Poi, all'università, Angelo aveva conosciuto Rosina e dopo pochi mesi erano andati a vivere insieme a Bari nella casa con l'algerino. Quasi tutti i soldi che Angelo guadagnava al biliardo li spendeva in baby sitter per il figlio e io non so dire se la decisione mia e di Delia di trasferirci a Bari fosse stata dettata anche da un bisogno della ragazza di aiutare il fratello, oppure la faccenda dell'aiuto fosse stata una giustificazione della nostra incapacità di reggere una vita lontanissimi dal paese, dai punti di riferimento, dai melodrammi domestici di ciascuno di noi. Delia e Rosina diventarono subito molto amiche. Di tanto in tanto Delia riusciva a trascinare fuori dalla sua stanza la futura architetta, a portarla a ballare in atroci discoteche da quattromila persone. Io preferivo i locali alternativi. La taverna del Maltese, il teatro Kismet, i cineforum organizzati dai ragazzi della Pantera che occupavano le facoltà di Lettere. Fu proprio una sera, mentre ritornavo a casa dopo la proiezione di Blow up, che vidi sfrecciare Angelo col suo motorino in via Alcide De Gasperi, e che mi prese subito un senso di smarrimento che non riuscivo a spiegarmi. In primo luogo Angelo proveniva dalla stazione che si trova nel centro della città laddove il club del Biliardo era nell'estrema periferia sud. In secondo luogo erano appena le undici e invece il fratello di Delia, di sabato, solitamente rincasava intorno alle due. Su al quinto piano di casa nostra c'erano tutte le luci accese. Salii. Nicola piangeva in braccio a Delia. Corsi verso la cucina. Ad Angelo non importava nulla del bambino. Stava con la testa riversa sul tavolo e beveva caffè freddo. Presi Nicola, lo portai nel salone illuminato a giorno. Giocammo a fare i pesci in un mare di tartarughe e, paperelle colorate. Era partita col solito sorriso un po' svaghito sulle labbra. L'avevamo vista molto contenta di quel corso residenziale di architettura biologica cui avrebbe partecipato per due settimane. Nulla di diverso dal solito. Poteva permettersi questi master per laureandi e ogni tanto ci andava. Una volta era stata in Danimarca ed era tornata elettrizzata dall'idea di lavorare per un'organizzazione non governativa che costruiva pozzi d'acqua nel Terzo Mondo. Mancava da Bari soltanto da cinque giorni. A quanto ne sapevo in quel momento, lei e Angelo avevano continuato a sentirsi tre volte al giorno grazie a quel buffo telefono cellulare che a ripensarlo oggi mi mette allegria, grande com'era quanto un vocabolario e talmente costoso che soltanto una studentessa come lei se lo sarebbe potuto permettere. «Ha telefonato un certo Brian, un americano. Ha detto che questo numero l'ha trovato sul telefonino. Non so, dice che Rosina manca dal residence da due giorni. Che fin da quando è arrivata non ha praticamente dormito mai e che hanno sentito tutte le notti la musica dello stereo suonare nella sua stanza.» Angelo e paralizzato davanti al suo bicchiere di caffè mentre Delia mi racconta, e gli prende le gambe per gli anfibi e gliele appoggia su una sedia. Io provo a dire «Sospetti una relazione con qualcun altro? Non so, non riesco a capire perché c'abbiate questa faccia. Non s'è mica buttata sotto a un treno...» «Grego', l'americano ha detto ad Angelo che fin dal primo giorno Rosina ha minacciato di ferire con una bottiglia di birra chiunque avesse tentato di farle violenza, che ripeteva che qualcuno fra i corsisti stava complottando contro di lei...»
«Chi, Rosina?!» trasalisco io e mi si congela il sangue e
devo sedermi e appoggiare pure i miei, di anfibi, sulla sedia
dell'algerino. «Ma che cazzo state dicendo, ragazzi. Siamo
sicuri che quest'americano parlava proprio di Rosina Giarricone? Ragazzi,
ragazzi! Facciamo un caffè, ok? Oppure ci facciamo una grappa. Capite cosa
significa 'sta cosa? No, ché io lo capisco purtroppo benissimo, cosa significano
queste parole, raga'. Vediamo di non scherzarci proprio con questi concetti.
Sentite, ma quando s'è fatta sentire Rosina per l'ultima volta?»
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