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| << | < | > | >> |IndicePremessa 7 1. Ai tempi di Pio IX 11 2. Tentativi di conciliazione 25 3. Reciproche convenienze e vecchie diffidenze 41 4. La Chiesa in guerra e il cattolicesimo nazionale 51 5. Conciliazione 67 6. L'Europa in guerra e l'Italia sconfitta 83 7. Dalla repubblica di Mussolini a quella di De Gasperi 93 8. La Chiesa del Concilio e l'Italia a sinistra 107 9. Una Chiesa più debole, un'Italia più laica 121 10. Un'Italia più debole, una Chiesa più forte 133 Nota bibliografica 147 Indice dei nomi 149 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Quando divenni funzionario del ministero degli Esteri, nel 1954, giurai fedeltà alla Repubblica in uno dei saloni al piano nobile di Palazzo Chigi. Credetti di trovare sul tavolo, accanto alla formula di rito, la Costituzione della Repubblica, ma il testo su cui dovetti posare la mano era quello del Vangelo. Due o tre anni dopo, mentre lavoravo nella Direzione generale del personale, fui incaricato di organizzare la cerimonia del giuramento per un gruppo di giovani entrati in carriera nei mesi precedenti. Vidi che uno di essi aveva un tradizionale nome ebraico e gli dissi che sarei stato lieto di sostituire il Vangelo con una edizione completa della Bibbia. Mi ringraziò e mi disse di non preoccuparmi: avrebbe giurato anche lui sul Vangelo. Oggi, dopo la soppressione del giuramento per i funzionari dello Stato, decisa all'epoca della presidenza Pertini, il problema è scomparso. Ma negli anni Cinquanta il Vangelo, per le liturgie della Repubblica, era l'equivalente della Costituzione nei paesi di democrazia laica. La presenza della Chiesa nella vita civile era molto più forte di quanto non fosse stata negli anni del fascismo. Me ne accorsi quando scoprii che il ministero degli Esteri riceveva spesso comunicazioni di parlamentari democristiani, preoccupati e addolorati dai visti d'ingresso che i consolati italiani rilasciavano ai pastori protestanti, soprattutto americani. Erano generalmente battisti, metodisti, avventisti del Settimo giorno e testimoni di Geova che cercavano di fare proseliti in Calabria e in Basilicata con il metodo dei missionari europei in Cina: la Bibbia in una mano e un «pacco doni» nell'altra. Ma nei grandi corpi dello Stato circolavano ancora alcuni efficaci anticorpi. Nella diplomazia e nelle forze armate i quarantenni erano in buona parte monarchici e conservavano qualche traccia dello stile con cui la destra storica e i Savoia avevano amministrato i rapporti fra lo Stato e la Chiesa. Al ministero degli Interni i prefetti più anziani avevano conosciuto, all'inizio della loro carriera, la generazione dei funzionari giolittiani e sapevano ancora difendere, se necessario, l'autorità dello Stato. Grazie ai tribunali speciali, istituiti dal regime per il «lavoro sporco», i magistrati erano riusciti ad attraversare il fascismo senza troppi compromessi. Erano spesso antiquati e provinciali, ma indipendenti e orgogliosi della loro appartenenza a un grande corpo dello Stato. Mi è difficile immaginare la presenza di un magistrato, negli anni del dopoguerra, a un convegno politico o a un incontro culturale e religioso, come accadde negli anni Novanta quando alcuni procuratori della Repubblica frequentavano i raduni di don Giuseppe Dossetti, l'uomo politico democristiano divenuto sacerdote negli anni Cinquanta. Non basta. Al vertice dello Stato vi erano ancora parecchi massoni, fra cui persone stimabili e competenti. Quando divenne presidente della Repubblica nel 1968, Giuseppe Saragat chiamò al Quirinale, come segretario generale, un massone, Nicola Pivella, che aveva già avuto lo stesso incarico con Luigi Einaudi. Cattolici o massoni erano tutti, come usava dire con un pizzico di retoriva, «servitori della cosa pubblica», convinti che in un paese ben ordinato vi sia un posto per la Chiesa e un posto per lo Stato. Dopo quanto è accaduto negli ultimi anni, dal dibattito sulle radici cristiane al referendum sulla fecondazione assistita, ho l'impressione che gli anticorpi si siano dissolti e che il confine tra lo Stato e la Chiesa venga sbadatamente attraversato con sempre maggiore frequenza. Mi sono chiesto, fra l'altro, perché tanti uomini politici facciano a gara per partecipare agli incontri annuali di Comunione e Liberazione, perché Massimo D'Alema, presidente dei Democratici di sinistra, abbia partecipato alle cerimonie per la beatificazione del fondatore dell'Opus Dei, perché Giovanni Paolo Il abbia potuto indirizzarsi ai parlamentari italiani dalla tribuna di Montecitorio, perché il presidente del Senato abbia cercato di stringere un rapporto privilegiato con un cardinale che presiedeva allora la versione moderna del Sant'Uffizio. Più recentemente mi sono chiesto perché un governatore della Banca d'Italia debba esibire la propria fede come una divisa, e perché i suoi critici debbano essere considerati gli strumenti di un complotto giudaico-massonico. Ma quando ho cercato di dare una risposta a queste domande mi sono accorto che ero continuamente costretto ad allargare lo spazio della mia ricerca e a risalire sempre più indietro nel tempo. Contrariamente alle mie intenzioni iniziali, ho finito così per scrivere un breve saggio storico (più saggio che storia) sui rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa dalla fine del potere temporale a oggi. Ho le mie convinzioni e preferenze. Ma spero che anche i lettori di diverso avviso vi troveranno materia di riflessione. | << | < | > | >> |Pagina 133La mattina del 10 giugno 1982 la polizia londinese trovò il corpo di un banchiere italiano impiccato a un'arcata del ponte di Black Friars, sul Tamigi. La magistratura inglese decise frettolosamente che Guido Calvi si era suicidato (cambiò parere qualche anno dopo), ma in Italia molti sospettarono subito l'omicidio. Calvi era amministratore delegato del Banco Ambrosiano, un istituto finanziario cattolico che versava da tempo in pessime condizioni. Un tribunale lo aveva condannato un anno prima per esportazione illegale di valuta a quattro anni di carcere e a 16 miliardi e 500 milioni di multa. Ma era in attesa dell'appello e, quindi, in libertà provvisoria. Sette giorni dopo la sua morte il Banco fu colpito da un provvedimento di liquidazione e affidato alle cure di un commissario. Il ministro del Tesoro era Beniamino Andreatta, professore dell'Università di Bologna, esponente rispettato del mondo cattolico e persona di forte carattere. Quando prese la parola alla Camera, il 2 luglio, disse che «il rischio complessivo del gruppo estero verso terzi si quantificava in un ammontare superiore, al 31 dicembre 1981, a 1400 milioni di dollari e che l'esposizione medesima faceva capo quasi interamente a tre Società del gruppo (Banco Ambrosiano Group, Banco Comercial di Managua e Banco Ambrosiano Andino)». Aggiunse che i commissari straordinari non avevano ancora un quadro preciso dei debiti, dei crediti «nonché delle garanzie e contro garanzie che li assistono». Ma in quelle stesse ore avrebbero incontrato i responsabili dell'Istituto per le Opere di Religione; «il Governo si attende che vi sia una chiara assunzione di responsabilità da parte dello IOR, che in alcune operazioni con il Banco Ambrosiano appare assumere la veste di socio di fatto». L'Istituto per le Opere di Religione è la banca vaticana, fondata da Pio XII nel 1942 sulle fondamenta di una più vecchia Amministrazione delle Opere di Religione, creata all'epoca di Leone XIII. Non pubblica un bilancio annuale e non ha l'abitudine di dare informazioni al mercato sui propri investimenti. Ma sappiamo che è una sorta di merchant bank con un portafoglio in cui sono depositate le sue partecipazioni in aziende italiane e straniere, fondi d'investimento, hedge funds. All'epoca dello scandalo del Banco Ambrosiano, il suo presidente, da più di dieci anni, era monsignor Paul Marcinkus, un prelato americano di origine lituana. Marcinkus aveva avuto eccellenti rapporti con Calvi (a cui aveva venduto nel 1971 la Banca Cattolica del Veneto) e si era servito del Banco, tra l'altro, per aiutare finanziariamente Solidarnosc, il sindacato dissidente polacco di Lech Walesa. Andreatta dette prova di grande fermezza, ma si scontrò con i dinieghi dello IOR. La banca vaticana ammise che Marcinkus aveva firmato a favore di Calvi alcune lettere di patronage, ma disse che «erano state effettuate a titolo di favore» e ricordò che una banca di Stato non era soggetta alla giurisdizione italiana. Di fatto, tuttavia, la Santa Sede finì per ammettere una certa responsabilità. Lo IOR versò a titolo di ammenda e indennizzo la somma di 250 milioni di dollari e, sia pure con ecclesiastica lentezza, venne ripulito e riorganizzato. Monsignor Marcinkus fu relegato nella parrocchia di una ricca cittadina dell'Arizona dove i residenti passano sul campo da golf una buona parte delle loro giornate, e il suo posto fu preso da un laico, Angelo Caloia, che veniva dalla grande famiglia della Banca Commerciale, l'istituto che aveva dato al Vaticano, dopo il 1929, il suo primo Gran tesoriere, Bernardino Nogara. Ma furono necessari alcuni anni prima che i conti della Santa Sede tornassero in nero. [...] Non sembra che la scomparsa della DC abbia allarmato la Chiesa. Il papa era assorbito da altre questioni: il rapporto con la Chiesa ortodossa, la riconquista dell'Europa, la diffusione della religione cattolica in Africa e in Asia, la riduzione all'obbedienza dei teologi della liberazione in America latina. Nel clero italiano vi fu qualche rimpianto, ma prevalse alla fine l'opinione di coloro che avevano sempre diffidato dell'esistenza di un partito cattolico. La Democrazia cristiana era stata utile, soprattutto negli anni della guerra fredda, per meglio controllare la società italiana. Ma aveva costretto la Chiesa, in molte occasioni, a sacrificare i suoi principi e a chiudere un occhio pazientemente di fronte a decisioni che non condivideva. Dopo la morte della DC, il Vaticano, paradossalmente, sarebbe stato più libero e forte, soprattutto in una società dove era aumentata l'influenza, durante il papato di Giovanni Paolo II, di alcuni movimenti laici di obbedienza cattolica: Comunione e Liberazione, i Focolarini, l'Opus Dei. Negli anni seguenti l'ottimismo della Chiesa fu rafforzato da una constatazione. Anziché essere raggruppati in un solo partito, i cattolici italiani erano ovunque e potevano far sentire la loro voce in quasi tutte le forze politiche del paese. Quando i lombardi, nel 2000, dovettero eleggere il presidente della Regione, la scelta fu tra Mino Martinazzoli, già segretario del Partito popolare, e Roberto Formigoni, esponente di Comunione e Liberazione. Quando il centrosinistra, nelle elezioni del 2001, dovette scegliere il proprio leader, non scelse un ex socialista come Giuliano Amato, ma un ex radicale, Francesco Rutelli, che some sindaco di Roma aveva tenuto conto di alcune esigenze della Chiesa, soprattutto all'epoca del Giubileo. Quando la sinistra si prepara ad affrontare nuove elezioni, non sceglie un esponente del suo maggiore partito, i Democratici di sinistra, ma un professore cattolico, Romano Prodi, che ha fatto i suoi primi passi in politica all'ombra della Democrazia cristiana. Questa maggiore libertà e autorità della Chiesa ha avuto l'effetto di rendere alcuni prelati e molti esponenti del mondo cattolico più aggressivi e invadenti di quanto fossero in passato. Quando divenne presidente della Repubblica nel 1992, Oscar Luigi Scalfaro ostentò subito, al bavero della giacca, il distintivo di Azione cattolica. Quando era arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi pubblicò un libro (Risorgimento, Stato laico e identità nazionale) in cui trattò la formazione dell'Italia unita alla stregua di un epifenomeno, privo di qualsiasi reale influenza sulla storia e sulla cultura del paese. Questi concetti, insieme alla rievocazione delle insorgenze antigiacobine e dei movimenti vandeani, divennero più tardi il tema di uno dei meeting annuali di Comunione e Liberazione a Rimini. Esiste oggi una parte dell'intellighenzia nazionale per cui i sanfedisti del cardinale Ruffo, partigiani dei Borbone e degli inglesi contro la Repubblica partenopea del 1799, sono più italiani, spiritualmente e culturalmente, dei Mille di Garibaldi.
Dopo avere rivendicato l'identità cattolica della penisola, Biffi la difese
contro l'invasione musulmana e i matrimoni misti. Nel 2000 promulgò una
pastorale in cui affermò che l'Islam rappresentava una minaccia e sostenne
l'opportunità di una immigrazione selettiva, fondata sull'adozione di criteri
culturali e religiosi compatibili con l'identita cristiana del popolo italiano.
Mentre l'arcivescovo di Bologna negava l'importanza del Risorgimento nella
storia nazionale e si atteggiava a
defensor populi,
il presidente della Conferenza episcopale cardinale Ruini riapriva un vecchio
capitolo di storia nazionale deplorando la confisca dei beni ecclesiastici al
momento della formazione del Regno. Altri sacerdoti, come il cardinale Tonini,
divennero personaggi televisivi, la «voce di Dio» di innumerevoli talk show, il
pizzico di spiritualità con cui condire qualsiasi dibattito politico e sociale.
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