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| << | < | > | >> |IndiceV Introduzione «Slow Learner» 1 Capitolo primo Il Problema della Stupidità Perché Rimaniamo in Provincia 38 Capitolo secondo La Politica della Stupidità Musil, «Dasein», l'Offesa alla Donna e le Mie Fatiche 88 Capitolo terzo Retorica del Test 185 Satellite Kierkegaardiano 193 Capitolo quarto Scomparsa e Ricomparsa dell'Idiota 309 Satellite Wordsworthiano Il Ragazzo Idiota 359 Satellite Kantiano Il Filosofo Ridicolo; o, del Perché Io Sia Così Popolare 411 Postfazione del curatore 415 Note 453 Indice analitico |
| << | < | > | >> |Pagina VSi ha la tentazione di far guerra alla stupidità, considerandola alla stregua di un oggetto passibile di conquista, come se ancora fossimo in grado di far guerra ad alcunché, o di circoscrivere un oggetto in modo tale che l'azione per se stessa possa produrre significato o dar luogo a futuri sviluppi. Sarebbe difficile immaginare in quali circostanze un organo di stato o di governo si pensi anche al governo degli Stati Uniti potrebbe dichiarare guerra alla stupidità approntando mezzi analoghi alle risorse mobilitate per la guerra su vasta scala al mondo della droga. Per quanto possa essere inserito tra le voci di un programma politicamente sospetto, l'oggetto presuntivo delle guerre alla droga offre almeno un appiglio alla domanda di concretezza. Ma la stupidità eccede e mina ogni genere di concretezza, non soffre alcun freno, in poche mosse ha ragione dell'avversario, non si può afferrare, si nega con pervicacia ostinata e ricorre continuamente. Contigua, in sostanza, all'abisso senza fondo, la stupidità è anche ciò che affatica la conoscenza, ciò che inesorabilmente logora la storia. Da Schiller, il quale è costretto ad ammettere, esasperato, che neanche gli dèi sono capaci di contrastare in alcun modo la stupidità, ad Hannah Arendt, che non si perita di confessare in una lettera a Karl Jaspers l'inutilità di ogni sforzo compiuto allo scopo di determinare l'esatta entità, la vertiginosa magnitudine della Dummheit dimostrata da Adolf Eichmann, ai tentativi della moderna psicoanalisi di tradurre in termini clinici comprensibili l'intima stolidità dell'ego tirannico (erede del lacaniano re idiota), la stupidità ha manifestato una sorta di muta opposizione a ogni urgenza politica, una sorta d'istanza significativa di un incomprensibile iato etico. Di fatto la stupidità, che provvede a se stessa la garanzia del proprio essere autonomamente assertiva, soffoca del tutto ciò che attenti alla serenità delle sue impervie gerarchie. | << | < | > | >> |Pagina 1Θ indubitabilmente responsabilità di qualcuno l'atto di nominare ciò che è stupido. Nel recente passato, l'obbligo di denunciare la stupidità, assunto quasi in risposta a un imperativo di ordine morale, è ricaduto sull'«intellettuale», ovvero su chi adopera professionalmente il linguaggio al di là delle contingenze private. O, almeno, è questa in parte l'idea che ce ne siamo fatti: si pensi al tono spesso assunto dagli hommes de lettres francesi, tedeschi e inglesi, per non parlare di certi professori universitari, i quali non cessano di sentenziare a proposito di ciò che deve essere qualificato di stupido o di quanto ci si dimostri manchevoli nel capire correttamente una determinata questione. Il compito di individuare l'esatto spazio della stupidità è divenuto parte di un repertorio comprensivo di qualunque tipo di pratica intelligente o, al limite, stupida intesa a rinvenire per se stessa presupposti fondanti e a territorializzare le sue scoperte. La correlazione tra intelligenza e stupidità, oltre alla variabile implicante, se possibile, conseguenze d'importanza ancora maggiore delle modulazioni, degli usi possibili, dei crimini e delle valutazioni della stupidità stessa continua a rimanere un tema in larga misura eluso nei programmi della ricerca contemporanea. Non c'è morale né politica che sia stata articolata in maniera tale da poter contrastare l'impulso pervasivo alla stupidità. Eppure essa è dappertutto. Nella prefazione alla sua Fenomenologia, Hegel censura Schelling per aver posto la stupidità alle origini dell'essere. Per una volta, Hegel era spiazzato. Com'è chiaro, imputare la stupidità originaria al Dasein umano rappresentava per Hegel un «problema» che lo coglieva in stato di flagrante debolezza argomentativa, causando un evidente equivoco fenomenologico. Schelling pone alla base dell'essere un eterno caos primordiale, un'assenza d'intelligenza come scaturigine prima dell'intelligenza stessa. Presuntuosamente, l'uomo ha rifiutato di ammettere la mera plausibilità di tale origine abissale dell'essere, accampando a propria difesa una serie di ragioni morali. Con la possibile eccezione di Nietzsche, d'altra parte, la filosofia ha generalmente cercato di proteggere se stessa, evitando di dilungarsi troppo in direzione della stupidità. Nelle due smilze paginette di Dialettica dell'Illuminismo dedicate all'argomento, Horkheimer e Adorno vedono la stupidità come uno sfregio, «una minima superficie cicatriziale, priva di sensibilità». Si è altresì pensato, tuttavia, che essa sia anche evocativa, in una certa misura, della «disperazione del leone che misura girando senza posa l'ampiezza della sua gabbia, o quella del nevrotico che rinnova una reazione difensiva la cui futilità ha già sperimentato in passato». Cozzando contro uno spigolo resistente ai suoi sforzi, la stupidità in sé non ha mai sollecitato un'ermeneutica in grado di garantirne i confini, se non di restringerli addirittura. Per Horkheimer e Adorno, essa si definisce simultaneamente come una forza paralizzante e un inarrestabile moto regolare, analogo alla coazione meccanica e ripetitiva che caratterizza le fasi nevrotiche acute. La filosofia, intesa in senso proprio, ha ben poco da dire sulla stupidità, se si eccettua íl caso di Nietzsche nel momento in cui, giunto anche per lui il momento di misurare la gabbia a lenti passi regolari, ci offre due tipi di stupidità di opposto valore stupidità buona e cattiva, raddoppiando i registri sui quali si rende necessario documentare la dissonante ampiezza d'oscillazione tra gli stati mentali del soggetto recalcitrante. La stupidità occorre in letteratura come tema, genere, storia ma non è in alcun modo identificabile in base a indicazioni prestabilite, o comunque degne di credito. Piazza Washington di Henry James lascia irrisolta la questione relativa all'interpretazione da attribuire all'incondizionata fedeltà stupida o sublime? serbata da Catherine, l'eroina del romanzo, nei confronti del suo amante. Ritornato alla sua scrivania dopo il viaggio nel Levante, Flaubert pone a contrasto dell'ebetudine senza speranza di Charles Bovary la distruttiva jouissance di sua moglie; le aspettative di chi stupido non è, quantunque frustrate e ristrette vengono in larga misura disattese, mentre l'imbecille all'ennesima potenza, compreso il piccolo farmacista di paese, gretto e calcolatore, riesce a sopravvivere. Charles Bovary viene, per così dire, «bocciato» appena entra in aula, senza tuttavia essere in ultima analisi «respinto», a differenza di Emma, cui indubbie doti attitudinali hanno consentito di raggiungere risultati elevati, seppure differenti da quanto ella stessa avrebbe auspicato per sé: tardo e stupido, egli riuscirà infine a dimostrare maggiore resistenza alla vita. Tuttavia la stupidità non è riservata unicamente a chi è poco brillante: Bouvard e Pécuchet sono persuasi di riuscire a trasformarsi rapidamente in dottori o ingegneri. Sia che ci si aggiri in ambito letterario o per le contrade della psicologia vera e propria, la stupidità offre allo sguardo dell'osservatore una imponderabile girandola di aspetti: in quanto irriducibile ostinazione, tenacia, compattezza tetragona, impenetrabilità, essa è densa e al contempo vuota, incrinata, fessa un interminabile «huh!» di stupore. Cifra del fallimento assoluto, la stupidità è però anche ciò che detta legge, riproducendosi in continui cliché, in innocenza e in abbondanza del mondo. Essa è insieme inespugnabile e oggetto di violenza terrifica. Da un canto, l'esistenza stessa della stupidità può e deve essere messa in discussione non abbiamo forse a che fare in tutti questi casi con garbugli fatti di repressione, azioni incompiute, errori, cecità? e, d'altra parte, la stupidità può e deve essere descritta. Pure, ci si potrebbe anche chiedere, in un certo senso, se non sia appunto la propria affidabilità a essere in pericolo nel momento in cui ci si occupa di stupidità. E non è forse vero, infatti, che in ciascuno di noi potrebbe nascere il sospetto, l'ansia che proprio chi fugge la stupidità corre il rischio di venire infine a sua volta colpito da un momento all'altro, e proprio fra le mura di casa, da un missile intelligente? | << | < | > | >> |Pagina 10«Non c'è Altro Peccato all'Infuori della Stupidità» (Oscar Wilde)In Bonheur bκte, Henri Michaux esclama: «Il n'a pas de limites, pas de..., il est tellement sϋr qu'il me désespère... Il n'a pas de limites, il n'a pas de..., pas de» («Non ha alcun limite, non... è talmente sicuro da farmi disperare... Non ha affatto limiti, non ha..., no»). La voce narrante esprime disperazione per la sconfinata certezza che la persona in questione sia, in effetti, un autentico cretino. Nel frammento citato sono rilevabili almeno due momenti cui è opportuno riservare una certa attenzione. Primo, la questione del limite: la stupidità non conosce limiti, e offre perciò una delle rare «esperienze» d'infinito. Fu Brecht a notare una volta che, se l'intelligenza è una grandezza finita, la stupidità è infinita. E il fatto che non conosca limiti significa che non conosce legge né alterità di sorta; essa è indifferente alla differenza, cieca alla gerarchia. Tuttavia, ciò che più pare indurre alla disperazione l' Ich-Erzδhler di Michaux è la sicurezza su cui si fonda la stupidità senza remissione, le certezze che beatamente esprime. Se in uno dei suoi avatara essa si limita a porre delle domande «stupide», la forma dominante della stupidità recalcitra risolutamente e integralmente dinanzi alla domanda in sé: essa non consente si formulino interrogativi intorno all'universo, per non parlare di quesiti concernenti il suo ruolo nell'universo stesso, nel linguaggio; e, naturalmente, non si domanda neppure come tali rapporti si siano formati. Eternamente impervia all'interrogativo, la stupidità dominante agisce in senso uguale e contrario, abolendolo con la rapidità della sua risposta. Forse è per questo motivo che, tentando di rievocare alla memoria tutte le numerose occorrenze della stupidità, l'io narrante balbetta e incespica iteratamente nella negatività, incapace com'è di spiegare la tetragona ostinazione del cretino («pas de... pas de»). Non c'è spazio per domandare, nessun ambito è adatto a supportare la figura del dubbio. Le asserzioni conoscitive della stupidità, la sua pretesa di conoscenza positiva sono più risolute di quelle che la più rigorosa intelligenza potrebbe permettersi di esprimere. Questa è la ragione per cui, in un certo senso, i test d'intelligenza come quelli ai quali vengono ordinariamente sottoposti i bambini, in età scolare o meno, appartengono invariabilmente al dominio della stupidità. Infatti, nella misura in cui tali test richiedono una risposta e strumentalizzano il momento della domanda, sfuggono tanto all'ansia dell'indecisione e della complicazione quanto alla stessa congetturale intensificazione dell'interrogativo che caratterizzano l'intelligenza. In tali situazioni, allo scopo di produrre una risposta, l'individuo intelligente è costretto a fare la parte dello stupido. | << | < | > | >> |Pagina 29La Fortuna arride agli imbecilli, offrendo un supplemento di protezione a chi, come il sonnambulo, è invulnerabile. Sotto questo rispetto, la stupidità può essere paragonabile a un dispositivo di sicurezza: è qualche cosa che si adopera per proteggersi da ogni possibile evenienza, come un giubbotto antiproiettile che si indossa inconsciamente. Un punto di vista del genere appare essere in perfetto accordo con il luogo comune secondo cui «ciò che non si conosce non può danneggiare», in cui l'evocazione della capacità di conoscenza si riconnette, come nella vicenda di Edipo, alla minaccia di castrazione e alla morte. Il tipo umano che comunemente viene associato all'idea di stupidità nell'immaginario popolare contemporaneo, l'ennesimo picaresco nipotino di Forrest Gump può continuare a procedere speditamente per la sua strada (recidendo ogni cintura di sicurezza) solo nella misura in cui non sa dove si trova o che cosa sta realmente facendo. La purezza morale American style può essere garantita soltanto da una ignoranza radicale. E il marchio di tale purezza interiore non viene cancellato, bensì impresso più profondamente sul soggetto, dalla qualità citazionale della sua relazione con la figura materna («Mammà dice che...») metamorfosi della Fortuna la quale, facendo rifulgere il suo sorriso su coloro che ha deciso di tutelare, guida il periglioso itinerario del sonnambulo attraverso le potenzialmente traumatiche vicende della storia (della storia d'America, nella fattispecie).Figure di questo tipo, poste sotto la diretta protezione della Fortuna o di Dio, secondo chi si ritiene governi la ruota del destino, denotano un certo stravolgimento dei valori tradizionali ereditati dalla cultura greca, o quanto meno una enfatízzazíone della nozione di tutela compensativa. E tuttavia, chi dovrà essere protetto dal pericolo rappresentato dalla stupidità stessa? Non sembra che Dio se ne sia mai preoccupato. In maniera non dissimile dalle droghe o dalla malattia, la stupidità viene spesso avvertita nell'immaginario collettivo come contagiosa. Memori dell'opinione di Nietzsche secondo la quale è in realtà il forte, non il debole ad avere bisogno di protezione nei suoi rovesci di Fortuna, il sano viene visto come l'individuo più immunovulnerabile , esiste il timore, documentato da una casistica quantomai varia, di diventare stupidi. Schopenhauer riteneva che bastasse costringere i propri studenti, perfino i più brillanti, a leggere Hegel per farne altrettanti stupidi. La Volksverdummung, il rischio di un istupidimento nazionale, rendeva ansiosa e preoccupata Rosa Luxemburg. Rousseau ravvisava invece il pericolo di divenire stupido nella paura di vivere soli, confinati tra le quattro mura di casa, vale a dire all'interno di una domesticità mimetica dominata dall'«esprit d'imitation». Coloro che non amano vivere da soli sarebbero a rischio di stupidità nella misura in cui si rivelerebbero inclini a riprodurre un movimento a spirale in cui l'uomo copia incessantemente le azioni dell'uomo. Quantunque inizialmente bene accolta - in principio, leggere Hegel può anche parere un'esperienza gratificante, così come l'assumere stupefacenti o vivere in società con altre persone , la stupidità non tarda a rivelarsi come trauma intrusivo, capace di trasformarci in replicanti dei suoi protocolli. Le aree seduttive della cultura popolare lo sport, la musica i media necessitano di essere considerate attentamente quando si compiono ricognizioni in zone potenzialmente contaminate in termini di ansietà nei confronti dei rischi eventuali di essere contagiati, stupefatti o ridotti a tecno-estatici dall'altrui stupidità.
Θ stato detto che la televisione istupidisce: ogni sorta di ripetizione
meccanica può di fatto infettarci, inoculandoci una certa
tendenza alla stupidità. (Ma è mia personale opinione, in quanto
semplice testimone della storia sociale contemporanea, che sia in
realtà il lavoro a rendere stupida la gente, privandola dí tutta una
serie di prassi improduttive essenziali, dall'ozio alla meditazione al
gioco. Diventa eticamente necessario trovare un modo di affermare
categoricamente il bisogno di non lavorare, favorendo il riposo,
la pigrizia, il girovagare senza per forza dover soccombere alla
comune criminalizzazione di questo tipo di
modus vivendi
o alla metodica svalutazione della diversa logica su cui tali «attività»
fondano la loro giustificazione il rousseauiano
far niente.
Però l'etica è anche lavoro, e mi sia dunque concesso di rimarcarlo
all'interno di quest'oasi parentetica, senza far menzione di tutto
ciò che costituisce un penoso sovrappiù al lavoro stesso né la
terribilità della fatica punitiva, né la fatica negativa consistente nel
cercare di evitarla. La riduzione della persona umana al lavoro
deve essere intesa per ciò che è: una equazione che rende l'essere
umano una creatura strettamente consimile all'animale da soma.
Servile per sua stessa natura e ostensivamente docile, il lavoro, che
alligna al centro di ogni moderna esperienza di alienazione, è inumano e
antisociale. Viceversa, quando sia stato sottoposto a dovere a tutte le
obbligatorie procedure di legittimazione, il gioco viene salutato come lavoro,
come «allenamento», sport. Nel gergo degli sportivi, in una partita di tennis o
in un incontro di pugilato ci si «lavora» l'avversario. Lavorando fino allo
sfinimento, superficializzando i nostri rapporti, etichettando gli altri in
termini di «risorse umane», la nostra cultura rappresenta un modello di
civiltà nel quale troppe persone si stanno logorando la vita in
nome di un ingiustificabile ethos della produzione a tutti i costi.
Werner Hamacher ipotizza addirittura che perfino il concetto di
«elaborazione» debba appartenere in realtà all'ignorata forzalavoro).
Ottusità Storico-Materialistica Nessuno ha compreso l'idea di alienazione della forza-lavoro meglio di Marx. Θ stato lui, fra l'altro, a riconoscere in essa la causa di un effetto particolare: la produzione di stupidità. Di fatto, così come si legge nello Historisch-Kritisches Wφrterbuch des Marxismus, la stupidità (Dummheit) rappresenta un lemma di importanza primaria. Facendo a meno di scusanti o di appianamenti, essa è considerata alla stregua di una poderosa forza storica, la terza, addirittura, dopo la violenza e l'economia. La stupidità, rappresentata in tutta la vastità e varietà delle sue forme, viene al tempo stesso scomposta in una quantità di elementi costitutivi. D'altra parte, la stupidità è prima di ogni altra cosa interpretata per ciò che viene forzatamente escluso dalla filosofia e dalla sua assiomatica. Un «superpotere» (Groίmacht) se intesa sotto il profilo delle forze che determinano il processo del divenire storico, la stupidità è assenza di concetto, un clandestino a bordo del gran traghetto del senso del divenire storico. C'è inoltre qualcosa di illecito, per quanto imponenti siano le sue dimensioni, nel traffico della stupidità. Lo stato è uno spacciatore di stupidità, provvedendone forti dosi al lavoratore: in generale, essa si presenta come un oppiaceo, un'arma brandita contro la classe lavoratrice atta a demolirne le difese, rendendola incapace di reazione. | << | < | > | >> |Pagina 51[...] Risolvendosi a scrivere a proposito della stupidità, una persona deve prima di tutto dimostrare a se stessa che non sia possibile insinuare nulla di simile a suo danno; tuttavia, già l'atto stesso di esibirsi in dimostrazioni di sagacia è in sé una cosa stupida. In effetti, ogni dimostrazione come l'ostentazione d'intelligenza, o l'esibizione di tratti autoreferenziali intesi a mettere in luce acume, spirito e quant'altro polarizza la stupidità. Di più: ogni tratto significativo di un ingegno particolare comporta una certa tipologia di stupidità. Dunque non esisterebbe neppure l'intelligenza come tale: tutto, in realtà, conterrebbe una serie intera di stupidità sussidiarie di vario tenore e grado, così come pure gli estremi della loro storicità (ciò che un tempo veniva definito stupido potrebbe oggi essere valutato in modo più lusinghiero, e viceversa). E, a questo punto, è evidente come venga molto opportunamente messa a profitto da Musil la figura professorale in quanto caratterizzata a un tempo dai tratti complementari dell'intelligenza vigile e della scrupolosa pedanteria, avvalorata mediante l'inevitabile estensione nella terra-di-nessuno rappresentata dalla maschera del professore matto o «svanito».Il laboratorio creativo della stupidità nelle sue forme più varie si cela al di là dello schermo di qualsiasi forma di realizzazione o intelligenza. Si potrebbe addirittura ravvisare nella profetica intuizione musiliana i lineamenti del tecno-sfigato contemporaneo, che ricoprirebbe a meraviglia il ruolo dello stupido-intelligente. Il confine impossibile tra ciò che viene comunemente classificato come stupido e quel che di solito si giudica intelligente corre lungo tutto il saggio dello scrittore austriaco fino per imprimervi il suo suggello proprio alla fine, allorché Musil si trattiene dal fare «un passo ancora», benché abbia ormai «[posto] un piede sulla linea di confine»: «Perché se facessimo un passo ancora al di là della soglia invisibile sulla quale ci siamo arrestati e lasceremmo il regno della stupidità, paese dai panorami di straordinaria varietà, anche dal punto di vista teoretico, per addentrarci nel regno della saggezza, una regione desolata e generalmente evitata». Ebbene, soffermandomi un poco di più su questa citazione, devo ammettere che, a tutti gli effetti, parrebbe contraddire ciò che mi ero proposta di avvalorare attraverso di essa. Così, fino all'ultima parola, in cui individua la frontiera tra stupidità e saggezza tracciando non più di una linea sulla sabbia, Musil danza sul mobile, incerto confine tra le due, senza cessare d'ironizzare sulle loro differenze. Tuttavia, lo sforzo messo in atto nel corso dell'intero saggio allo scopo di localizzare il dominio proprio della stupidità è evidente: e, a questo proposito, Musil non può non riconoscere che il problema della stupidità, quantunque senza tempo, possiede una storicità sua propria. Le sostanziali caratteristiche di atemporalità e aspazialità dell'interrogativo formulabile attraverso la domanda «che cos'è la stupidità?» sono soltanto ribadite dal fatto che esso non ammette repliche precise, né letterarie né scientifiche. A stento definibile come filosofica, satellite errante di discussioni ben altrimenti significative, la questione orbita seguendo i percorsi di epicicli eccentrici. L'acuzie dimostrata dalla stupidità come istanza le conferisce un'intensità politica, una diversa articolazione d'ingiustizia irredimibile. | << | < | > | >> |Pagina 80E dunque, quando si può gioiosamente indulgere alla stupidità sotto la specie di una delle sue forme non represse? Il piacere che si prova nello scandagliare gli abissi dell'idiozia è innegabile: è un calmo godimento di ogni atto o comportamento stupido. Θ appena il caso di rammentare i santuari del diletto idiota, all'interno dei quali vengono spacciati divertimenti artificiali. Il cτté narcotico della stupidità inerte fa parte integrante delle possibilità stesse della tarda psicopatologia tecnologica, in cui i piaceri vengono riflessi e inventati attraverso forme industriali di svago serialízzato. Θ proprio necessario rievocare certe deplorevoli consuetudini, dall'assistere a show televisivi penosamente cretini al vegetare senza scopo su studi di assoluta sterilità, all'indulgere a eccessive libertà di linguaggio in qualsiasi situazione, all'agire stupidamente e perpetrare continue e, al limite, assolutamente insensate stupidaggini, per non parlare della stessa ideologia americana del divertimento-a-tutti-i-costi? Sul lato in luce delle sue manifestazioni effusive la stupidità attrae bellezza, eccitazione, il calore cameratesco della volgarità e il senso del piacere illecito. Tutte qualità soggette a sdoppiamento, come nel caso del piacere di cui si è appena detto. Perché, dove c'è piacere, si finisce inevitabilmente per discendere lungo la china freudiana di una pulsione di morte a bassa intensità. La stupidità spinge il vuoto che talvolta riesce ad attingere al di là del principio del piacere, procurando diletti che, più si avvicinano alla meta mortifera alla quale fatalmente tendono, più tediano e disgustano. Sotto il profilo dell'inerzia e della morte, forme di stupidità di questo genere recano il marchio del lento ma inevitabile dileguamento, di una irreversibile perdita di energia. C'è forse un momento nel quale è permesso alla stupidità di rifulgere della brillantezza della vita? In altri termini: quando si può abbassare la guardia e concedersi finalmente di essere stupidi? Quando ci si innamora, ad esempio. Quando ci si rivolge alla persona amata attribuendole nomignoli stupidi, vezzeggiativi d'ogni sorta, declinando in tono blanditorio nel discorso amoroso il proprio personale idioletto. L'amore contrassegna uno dei pochi ambiti pubblici di stupidità consentita. Secondo la Θmilie Teste di Valéry, la vera definizione dell'amore è appunto questa: «L'amore consiste nel poter essere bestie in coppia la completa licenza concessa all'insensatezza e alla bestialità». Θ l'amore a indicare e garantire una «condizione di legittimità» alla stupidità partecipata, catabasi e cedimento al ferino abbandonarsi a un linguaggio di tipo estatico. Come perfetta manifestazione di resa incondizionata, l'amore dà la stura a tutta la serie di sciocche effusioni che caratterizzano questo genere di affezione. Le norme che ordinariamente regolano l'intelligenza sociale e ogni operazione produttrice di senso vengono sospese per l'intera durata delle scene d'amore intese come momenti produttori di linguaggio. Ciò potrebbe naturalmente anche significare che, per innamorarsi, la conditio sine qua non consista nell'essere davvero e prodigiosamente stupidi, ovvero che la stupidità rappresenti di fatto uno dei fondamenti repressi dell'affettività umana che solo l'amore è in grado di riscattare e legittimare.Cometipare! In quanto esposizione alla dimensione della negatività, la stupidità, quando non sia provocata dall'amore o da una mera letargia della mente se, insomma, considerata per sé sola preme il pulsante del panico. L'apprezzamento della stupidità quotidiana, che ha generato tutta la serie di espressioni che la denotano «come ti pare...», «'mbe'» e simili , espressive della svolta dialettica operata dalla poesia di strada, per la quale «stupido» designa ormai una grandezza incommensurabile, ha ormai levato gli scudi contro íl crescente senso di panico provocato dalla mera percezione della stupidità. (Una riflessione sul mutamento che in America ha trasformato la rigorosa coscienza della stupidità nel più duttile ethos del «come ti pare» rivelerebbe di fatto un'altrettanto insensibile controreazione alla stupidità pervasiva propria della cultura americana, per quanto lo «'mbe'» rappresenti in realtà un marcatore attribuito a ciò che non può essere altrimenti indicato e palesi, fra varie altre qualità esistenziali, una serie di remissive e liberatorie modulazioni di laissez faire). Il testo musiliano mette a fuoco una fantasmagoria collettiva di quei fenomeni di stupidità dissennata che si connettono solitamente a una situazione di panico generale. Nello spazio esterno prepoliticizzato (per quanto rapidamente politicizzabile, vale a dire colmabile di significati politici), lo spettacolo di ogni pubblico rovescio si apre sotto l'impulso di un diffuso attacco di panico. Ora, l'attacco di panico collettivo svela la sostanza dell'insensatezza sotto una luce particolare. Dominato da un istinto fobico di fuga, il linguaggio perde di acume, parole confuse emergono precipitosamente alla bocca che le formula senza alcun controllo. Sotto questo rispetto, nota Musil, espressioni abusate, motteggi, parole d'amore o prive di senso apparente mostrano una evidente connessione nel momento in cui, ponendosi al servizio dell'emozione immediata, partecipano tutte della medesima mancanza di precisione, della stessa assenza di riferimenti «per cui sono in grado di sopprimere, quando vengano adoperate, intere classi di parole assai più accurate e significanti». | << | < | > | >> |Pagina 360A. Gara di Popolarità tra le FacoltàSono un satellite lanciato in orbita allo scopo di elaborare un rapporto concernente i paradossi e le aporie della popolarità a livello mondiale. Attivato il dispositivo alla ricerca di informazioni che ancora non possiedo, posso per ora solamente passare in rassegna i dati attualmente raccolti nel dossier relativo al problema. Semplice macchina copiatrice e database invisibilmente accoppiato a un dispositivo di maggiori proporzioni, sono programmato per studiare la collocazione del problema e per rispondere ai quesiti che pone la sua realtà. Scansionando gli elementi di informazione raccolti dai miei strumenti e ricodificandoli, sarò in grado di regolare il flusso delle informazioni e di generare segnali ulteriori. Si sta tentando di aggiornare i miei dati intorno a una vecchia complicità tra Kant, Kierkegaard e Kafka, e questa consorteria a quanto m'informano è connessa alle coordinate di ciò che è stato chiamato teoria francese. Questione della massima importanza a livello planetario, e di alto profilo: alto quanto è alto il monte Moria. L'ansia di repertoriare ha spostato le lancette dell'orologio all'epoca remota di ciò che non ha mai terminato di comunicare.
Ritornando allo scenario di un tipo di inscrizione fondamentale, esiste una
intuizione del ridicolo rappresentato da Abramo che
è stata condivisa da Kafka e da Kierkegaard. Ed è attraverso tale
intuizione che la sua figura assurge a modello esemplare della fede
stolida, tema che il pensatore danese tratterà diffusamente in
Timore e tremore:
«Abramo credette e non nutrì dubbi; credette nell'assurdo». E la parabola
kafkiana intitolata
Abramo,
a sua volta, in cui l'autore medita sulla destrutturazione dell'immagine
del primo patriarca, evoca Kierkegaard (e Don Chisciotte). Moltiplicati e
serializzati, i suoi vari Abrami sono creature ridicole il mondo intero, come
è stato detto, si sbellicherebbe dalle risa al
solo vederne al completo la schiera, che annovera tra gli altri
anche il sacrificatore in ansiosa attesa di ricevere un ordine fatale.
La loro esibizione di insuperabile stoltezza li riconnette tutti a una
saga indimenticabile, isolando la prima lettera di «Padre» nel
momento stesso in cui la si imprime.
Devo ammettere che i dati mi stanno giungendo fuori ordine.
Certo non secondo il genere di sequenza cronologica che gli studiosi hanno da
sempre cercato di stabilire e mantenere come criterio
primo di ordinamento dei dati. Effetto delle nuove tecnologie, la
linea del flusso di informazioni ha prima di tutto bisogno di essere
sbrogliata e decodificata. Mi accingo a scansionare l'argomento nella sua
interezza, vagliandolo e catalogandone debitamente tutti gli
elementi per inserire finalmente l'informazione all'interno di una
nuova classificazione. La questione va oltre il fallimento cognitivo di
cui parla Paul de Man, oltre la sua segreta ossessione nei riguardi
della stupidità, dell'ignoranza, dell'imbecillità, dell'ottusità, così
come si pone a un livello ulteriore anche rispetto a come il situazionismo
linguistico surclassa il soggetto, posto o supposto che sia. Essa
continua a tessere il filo spezzato della domanda inespressa riferita
alla stupidità le paure, le fobie, le strategie apotropaiche utilizzate
per affrontare [...]
C'è un passo, nell'opera di Schlegel intitolata
Sull'inintellegibilità,
in cui una replica ai demolitori della teoresi settecentesca
difende sostanzialmente i diritti e la necessità dell'inintellegibilità
in quanto base di ogni attività creativa e interpretativa. Essi
vagheggerebbero la possibilità di connettere Schlegel a Bataille
improntata non solo alla loro rigorosa, anzi sovente ardita resistenza al senso,
continuamente attuata saltando a piè pari la produzione di significato
codificabile, ma anche per il fatto che i due
da allora sono stati associati, se non sotto il profilo storico in senso
stretto, come pornografi del
cogito.
Erano destinati a leggersi l'un l'altro, Bataille e Schlegel, in funzione degli
impulsi dettati da una nuova cronicità. Friedrich Schlegel ebbe i suoi problemi
per aver inserito il codice pornografico nel discorso filosofico (e
Bataille avrebbe seguito le sue orme, compiendo anch'egli il
medesimo atto extracanonico). E sarebbero stati proprio tali codici
incompatibili il pornografico e il filosofico, fianco a fianco
a propiziare il misconoscimento di Friedrich da parte di tutti i
tedeschi seriosi, da Hegel a Kierkegaard, a Dilthey (e di Georges
B. da parte di altri tedeschi seriosi, tra i quali Sartre). In un certo
senso, giusto per dirlo in rapida sintesi, Friedrich il filosofo-pornografo era
troppo francese. E, ancor peggio, aveva firmato senza
pseudonimi la sua opera più scabrosa,
Lucinde.
Prima di allora, nessuno scrittore sano di mente avrebbe rivendicato la
paternità di un testo pornografico. Il diagramma mnemonico di Friedrich
offre spunto a un genere di storia diverso, ancorché correlato alla
tipologia già nota: un genere che si sviluppa dalla rappresentazione del
filosofo in quanto personaggio ridicolo. Non propriamente come individuo
«stupido», bensì con una interessante diversione, o forse intensificazione (la
cosa rimane da appurare) come
ridicolo.
Ai nostri giorni, il prestigio caratteristico di questa classe
di soggetti viene attribuito a quasi tutti coloro che risultino a vario
titolo implicati nella destinalità della cosiddetta
French Theory
in se stessa, una interessante (per quanto sospetta, in termini di
rilevanza effettivamente attribuitale) deriva filosofica. Né si ha
bisogno di andare oltre: i
philosophes
testé evocati bastano a se
stessi come bersagli: si pensi soltanto a quel che la Kristeva nel suo
«romanzo a chiave» fa di Foucault, ritraendolo come un idiota
perennemente sorridente, o ancora alle numerose rappresentazioni offerte di
Derrida, Lacan, Deleuze, Irigaray e altri, tutte sfiguranti o, almeno,
ridicolizzanti in sommo grado. Questa tendenza, la tendenza, cioè, dimostrata da
un certo tipo umano di scrittore, particolarmente adatto a fornire una epitome
eloquente del ridicolo, non è affatto accidentale né si associa alla figura del
filosofo per mera contingenza: essa ha una storia, una vicenda
caratterizzata da uno svolgimento che culmina provocatoriamente in Nietzsche e
nelle sue modalità di espressione del ridicolo,
così come questo viene proiettato al di fuori del suo corpus, pur
assorbendo in sé effetti deviati prodotti da colpì che ci si infligge
deliberatamente: come faccio a scrivere libri così belli, perché
sono così in gamba o perché devo proprio assumere pose così
ridicole, si potrebbe anche aggiungere; ovvero perché mai mi deve
essere così cara la figura del buffone, di cui io stessa tengo a recare
testimonianza. Né si evitò a Heidegger l'accusa di ridicolaggine avanzata nei
suoi confronti da Adorno e da altri prima di
imputargli ben altre responsabilità, impostate su fondamenti assai
meno retorici. Chi fu il primo filosofo ridicolo della modernità:
forse colui che da sé si assoggettò al ridicolo, rendendosi deliberatamente
degno di dileggio? Θ questo il genere di scelta che ci proponiamo di esaminare,
poiché la volontaria abiezione del filosofo
è parte di una economia calcolata o, per essere più precisi,
appartiene a una economia
sacrificale
secondo le cui leggi il filosofo verrebbe
crocifisso sull'altare della letteratura. Dunque,
«dove eravamo rimasti?», domanda lo studioso.
Infotag: Prosa Descrittiva La French Theory, date le sue carenze, i suoi ricorsi, può essere considerata un modo per evitare di decidere o di dire le differenze tra letteratura e filosofia. Solo da Kant in poi si è reso possibile e necessario distinguere tra filosofia e letteratura. Kant si è presentato al pubblico dei lettori e ha firmato la propria opera come scrittore fallito. Il fatto non è stato privo di conseguenze per il destino della filosofia critica, per la metafisica e in una accezione particolare ma deliberata per la letteratura stessa. La letteratura moderna ha adottato Kant e ha collaborato a farne un eroe popolare, per quanto puntualmente ridicolizzato. Perché Kant come Kant stesso scrive non poteva scrivere. Egli fu il primo a inscrivere íl desiderio del filosofo di essere un autore, conseguendo così una specifica trascendenza letteraria, vale a dire attingere una certa eleganza e rivendicare uno stile proprio. I problemi di Kant lo Scrittore versus Kant il Filosofo diventano una questione di pubblico dominio, giacché egli ha prefato le sue critiche stipandole del suo pensiero con l'ansietà peculiare di ogni anelito a una letterarietà frustrata la sua incapacità di scrivere. Kant non era David Hume, non poteva anzi neppur competere con lui o con il suo magistero stilistico perché destinato fatalmente all'ineleganza; lo stesso Moses (Mendelssohn) gli era di gran lunga superiore in termini di pura potenza espressiva. Che Kant scriva come una capra viene asserito più volte dai più diversi autori, da Jean Paul a Heine, a Nietzsche, a Musil, ad altri campioni di bellettristica, per la maggior parte ironisti. Ma quel che è più è che si tratta di una testimonianza convalidata dallo stesso Kant: la sua inettitudine alla scrittura ferisce e imbarazza visibilmente il filosofo. Kant finisce così per imporre alla sua filosofia la pratica di una ascesi mortificante. Egli non poteva esserle di alcun aiuto, e non era colpa sua. La filosofia non può presentarsi direttamente; è un'entità fragile, ed è proprio la sua esposizione (Darstellung) a renderla vulnerabile, perché è filosofica. Più volte Kant ammette di esser privo di talento, incapace di esprimere il suo pensiero; e tali attribuzioni negative mettono invariabilmente in questione il suo giudizio e il suo talento. Tuttavia, come sottolineato da Jean-Luc Nancy, senza talento non ci può essere costituzione trascendentale della conoscenza. Molti insistono sull'inettitudine kantiana ad attuare il programma nel quale il talento, connesso alla capacità di giudizio, espleta funzioni d'importanza vitale. Per applicarsi alla filosofia, Kant ha dovuto fare a meno del talento. Considerando la storia della metafisica, dobbiamo ammettere che le implicazioni di tale perdita siano molteplici, giacché, tra le altre cose, il talento visto come dono di natura consistente nella facoltà di comprensione non dipenderebbe dall'istruzione, bensì dalle naturali disposizioni del soggetto. C'è sempre il rischio che, in assenza del talento così come viene ordinariamente concepito, la filosofia possa perdere il suo oggetto e mancare i suoi scopi. Pure, Kant confessa a più riprese nel corso della sua opera di mancare di quel medesimo talento che, secondo l' Antropologia, rappresenta il coronamento delle facoltà superiori dell'intelletto, venendo addirittura inteso a un certo punto come l'apice della ragione. Ma consideriamo in che modo Kant operi tale gesto di dismissione, perché nonostante il fatto che non possa fare diversamente e che la cosa non dipenda da lui e che, in definitiva, sia lei (la filosofia) l'artefice di tutto questo è pur sempre lui, dopo tutto, ad aver gettato la spugna, vale a dire ad aver fatto la sua scelta, prendendo la decisione di buttar via il talento. Adducendo qualche solida motivazione all'atto di rinuncia così operato, il filosofo di Kφnigsberg sarebbe riuscito a tramutare la negatività della carenza di talento ricorrendo al meccanismo transvalutativo. Perché, non dimentichiamolo, da Kant in poi come Heine e Nietzsche ci rammentano per essere un filosofo si deve sempre scrivere male. La cosa diviene parte del contratto, un imperativo ossessivamente presente nel testo kantiano. Di conseguenza, in base al legato di Kant, un vero filosofo dovrà essere uno scrittore scadente o, perlomeno, uno scrittore alquanto impacciato a manipolare gli strumenti retorici standard del mestiere, dalla sintassi approssimativa, carente nel dominio del lessico un autore, in definitiva, di assai scarse pretese, letterariamente parlando. Il concetto non potrebbe mai calcare la scena del pensiero in scarpine da ballo rosa, ma deve essere rivelato scientificamente: vale a dire, inadorno e privo di inutili fronzoli retorici. Viene sollecitata a gran voce la sostituzione dell'arte con la scienza da parte di Kant, il quale pare inteso a promuovere i valori di sgradevolezza quantunque leggibile dell'elaborazione scientifica, con tutto il suo corollario di elementi connotativi fatti di sobrio, faticoso, aspro confronto con l'oggetto del proprio studio: «La Verità richiede così per se stessa l'intervento della scienza, laboriosa e priva di garbo particolare, priva di sdolcinature (sans miel)». Tale procedura, che non è in grado neppure di metabolizzare un surrogato dello zucchero, commenda se stessa in quanto necessità della struttura e dell'essenza della conoscenza. La descrizione filosofica doveva perciò essere somministrata senza ricorrere a dolcificanti o additivi analoghi, del tutto scevra degli imbarazzanti lenocini dell'arte. Il cavarsela senza infamia e senza lode, riconoscendo e abbracciando nella sua nuda realtà il virile dovere dell'atto filosofico, diventava in questa maniera qualcosa di simile a una soluzione epistemologica. Tale eredità avrebbe finito in seguito per estendere un influsso uguale e contrario sulla cosiddetta French Theory che, sulle orme degli epigoni nietzscheani, pratica il grande stile e non vuole essere ignara di eleganze di pensiero espresse con finezza retorica. C'è dunque poco da meravigliarsi che i buttafuori delle scuole filosofiche più virili e seriose desiderino sbarazzarsi, stigmatizzandolo come ridicolo, di chiunque pratichi il talento al quale il Kant scrittore aveva scientemente rinunciato. Dall'età kantiana in avanti, il bello scrivere è stato marchiato come una pratica femminile e omosessuale, come molti attacchi teoretici presuntivamente anodini sono in realtà in grado di rivelare (o cercano di occultare). Kant, per parte sua, viene alle mani in campo aperto con due entità eterogenee: da un lato con la filosofia e, dall'altro (dal lato femminile, diciamo), con l'eleganza della scrittura. | << | < | > | >> |Pagina 411La stupidità ha fatto progressi enormi. Θ un sole che non si può più guardare fissamente. Grazie ai mezzi di comunicazione, non è nemmeno più la stessa, si nutre di altri miti, si vende moltissimo, ha ridicolizzato il buon senso, spande il terrore intorno a sé. [...] Oggi il cretino è pieno di idee. Ennio Flaiano, Ombre grigie («Corriere della Sera», 13 marzo 1969)
Non c'è cosa più stupida di una persona intelligente.
Detto
sufi
attribuito a Nasreddin Hodja (sec. XIII)
La favola parla anche di noi, bestie che siamo. C'è poco da ridere, dunque. Ma c'è ancor meno da dire? Possiamo crederlo ancora, dopo aver letto e tradotto, e ri-glossato questo libro, scimmiottandone il più fedelmente possibile (o perfino al limite della stupidità, se è lecito confessarlo) l' allure ondivaga e desultoria, le mosse bizzose, lo sciame di formule disperse e frammentariamente organizzate in un discorso cui ci si è studiati di conferire il massimo grado di coerenza tonale, fin troppo laboriosamente accordandolo con l'originale? L'interrogativo è forse meno superfluo di quanto a tutta prima possa sembrare. Anzi, sotto certi rispetti, potremmo ammettere di aver contribuito, per quanto capiva nelle nostre possibilità, a rilevare la presenza di un astro errante altrimenti invisibile, orbitante intorno a un luminare centrale che a tratti eclissa, facendone così discernere la corona di vampe spiranti dal globo accecato. Perché Stupidity è anche un non-testo, l'impronta, il calco di un libro passibile di essere ancora scritto in un futuro non sappiamo quanto remoto. Per ora, ci si dovrà accontentare della ricognizione prevalentemente subliminale (come dire: riflessa, indiretta, documentaria). D'altra parte, esiliato in imbarazzato silenzio dai territori della filosofia «da università», era inevitabile che a quanto apprendiamo il tema della stupidità trovasse rifugio nella letteratura, e non soltanto in quella specificamente medico-psichiatrica, com'è evidente. Di qui la varietà delle direttrici d'indagine tracciate, nelle quali l'Autrice cui fa aggio l'interdisciplinarietà delle sue competenze di comparativista, diffuse e profonde a un tempo ha buon gioco a dimostrare l'ubiquità di una durevole ossessione. Una ossessione che assume tuttavia forme ben definite, senza esplicarsi nella rassegna, quantunque necessariamente non esaustiva, di un repertorio del cretinismo moderno sub specie litterarum, ma concentrandosi piuttosto a prova, e talora consumandosi, nella specillazione, tenace al punto di poter apparire un poco pretestuosa, di una peculiare fenomenologia diciamo l'antisemitismo, per convenzione considerata apoditticamente esemplare (e che tale è forse davvero, in certo qual modo, in indissolubile unione con il suo «doppio» perennemente assente, con la sua ombra sempre inespressa, latitante, innominata e innominabile: difficile, come è stato detto, impossibile sottrarsi al contagio, la cui virulenza non risparmia nessuno, neppure il diagnostico). Al di là di tutto questo, avremmo voluto, vorremmo essere in grado di significare la gravità incostante, lo stile tutt'altro che piano e pedestre della scrittura idiomatica di Ronell, in cui trova riscontro l'inevitabile asistematicità della trattazione; le amplissime escursioni di registri espressivi dal triviale al letterario, al tecnicismo più impervio resi forzatamente contigui, a garanzia di una funzione comunicativa (di una trasformazione linguistica) di più in più estesa; gli impasti verbali scoppiettanti di molto lacaniani calembours, di scatti e scarti umorali improvvisamente rilevati pur nel mezzo denso e oscuro del contesto, e ad onta di ogni legittima? pretensione di scientificità. Il prezzo da pagare per l'intelligenza critica di un testo siffatto è elevatissimo, nella misura in cui le rapsodie e i capricci decostruttivistici per l'occasione improvvisati paiono pregiudicare fortemente i risultati pur genialmente intuitivi cui riescono ad approdare. Ci auguriamo di essere almeno riusciti (in parte, se non altro) a suggerire tutto questo in termini di allusività seguace, conforme pure alla scelta operata dall'Autrice di servirsi con la più spiegata libertà di fonti dirette e indirette, epperò sempre deliberatamente privilegianti quella sorta di «vulgata» angloamericana o americana tout court del sapere contemporaneo che ci ha indotti a tenere primariamente conto, ancorché in modo strettamente finalizzato a preservare un serrato dialogo con il testo originario, di ragguagli e citazioni da opere straniere così come contenuti nell'edizione originale di Stupidity, salvo integrarli genericamente attraverso la menzione, ove possibile, dei corrispondenti riferimenti bibliografici in lingua italiana. |