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| << | < | > | >> |IndicePrefazione alla nuova edizione Dall'Esposizione del 1881 all'Expo 2015 5 1. Milano e l'Esposizione del 1881 11 2. «La più allegra e socievole città d'Italia» 21 3. Mediolanum e Milano 1881: il ritratto della capitale morale 40 4. La protesta «petroliera» della Milano sconosciuta 58 5. Milano in ombra. Abissi plebei 80 6. L'etica del lavoro produttivo 100 7. La forza del solidarismo municipale 119 8. Milano contro Roma 138 9. Società civile e moderna opinione pubblica 158 10. Il self made man ambrosiano «famiglia e lavoro» 177 11. Verga e «la città più città d'Italia» 192 12. Le «visioni» di Milano e i suoi dintorni 210 13. Il ventre di Milano: mito e contromito 234 14. Il futurismo, «la città che sale» 264 15. Il romanzo di una mitologia in crisi: Bontempelli Gadda Testori 280 Indice dei nomi 314 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Milano capitale morale d'Italia. L'espressione, recuperata da una stagione lontana, è tornata a riecheggiare in questi ultimi tempi; non solo nei libri saggi e inchieste, ma anche nelle cronache di stampa e nelle trasmissioni televisive. A sollecitare il rilancio dell'immagine più proverbiale e più discussa che caratterizza la collettività ambrosiana è stata Expo 2015. In apertura a un Dossier dedicato alle prime fasi del progetto, il successo su Smirne ha una attribuzione certa: «6 aprile 2008 [...] L'Italia, uscita scottata da altre gare internazionali, questa volta ce l'ha fatta. Ce l'ha fatta la sua "capitale morale"». A lavori finalmente avviati, quando il rafforzamento dei controlli di legalità ha smorzato gli scetticismi pregiudiziali e attenuato, se non fugato, le apprensioni più sacrosante, tocca al vicesindaco Ada De Cesaris rivendicare l'antico primato: «Milano può essere riconsiderata la capitale morale del Paese» (Milano è di nuovo capitale morale, «Corriere della Sera», 3 gennaio 2014). Per scongiurare subito fraintendimenti ed evitare confusioni sui due termini che definiscono il carattere e il ruolo della città un chiarimento preliminare è d'obbligo. La celebre etichetta, lungi dall'evocare Meraviglie di epoche remote, eccellenze medievali per la sede vescovile di Ambrogio, richiami cinquecenteschi al Ducato di Milano, o, magari, giuramenti a Pontida contro il Barbarossa, ha senso solo a patto di riconnetterla al paradigma di idee e valori maturato nella civiltà dell'urbanesimo borghese. È nelle stagioni dei Lumi settecenteschi e del primo Ottocento, romantico e risorgimentale, che Milano si apre alle correnti ideali d'oltralpe e avvia il difficile percorso verso la modernità; dopo la costituzione dello Stato unitario e nei decenni che preparano il decollo industriale, è Milano la città italiana che, in diretta competizione con Parigi e Londra, allestisce il maggior numero di Esposizioni. I padiglioni delle Mostre diventano gli spazi ideali per «mettere in vetrina» non solo benessere e ricchezza ma i valori fondativi di una collettività coesa, industriosa e tollerante, che ha ormai imboccato la via del progresso e dello sviluppo. Solo se proiettate su questo orizzonte ideologico e culturale, acquistano significato autentico sia il sostantivo «capitale» sia, ancor di più, l'aggettivo «morale»: spesso equivocata e distorta, l'immagine sintetizza l'orgoglio tenace di una città che si è candidata, e continua a candidarsi, a essere la guida effettiva, non ufficiale del paese. Il modello della modernità ambrosiana è ancorato a due parole d'ordine: il «culto testardo della metropoli» e «la corsa verso l'Europa»: le proclama, nel clima plumbeo del 1934, Edoardo Persico, il giovane direttore della rivista d'architettura «Casabella». Ecco perché, all'inizio del nuovo millennio, quando Milano conquista Expo e si prepara ad accogliere i visitatori del mondo, torna un'espressione che l'attualità urticante delle stagioni più o meno vicine ha reso stonata e stridente, per non dire impronunciabile, ben oltre i confini municipali. Il mito della capitale morale, germinato sulle barricate delle Cinque giornate del 1848, quando tutto il popolo milanese insorge contro il dominio austriaco, si consolida all'indomani dell'Unità d'Italia, nella stagione fervida della belle époque. L'evento che sancisce il primato ambrosiano è l'allestimento dell'Esposizione delle Arti e delle Industrie che, nel 1881, celebra la vitalità operosa e ospitale della «città più città d'Italia», per usare la felice espressione verghiana, coniata in quel frangente. Nelle gallerie, allestite nei giardini di via Palestro e sormontate dal motto «Labor omnia vincit», Milano non solo illustrava, a piena luce, il suo progetto di sviluppo economico ma proponeva alla neonata nazione un paradigma serio, non retorico di valori e interessi radicati nella moderna società civile. La classe dirigente e i suoi intellettuali sollecitavano l'intera collettività a riconoscersi nell'etica del lavoro produttivo: intraprendenza e solidarismo; laica tolleranza e filantropia caritatevole; ancoraggio alle «cose serie, cose sode»; richiamo al sapere «positivo», che intreccia studi umanistici e «utili cognizioni»; diffidenza tenace per le teorizzazioni, le astrattezze e le utopie. Se norma di vita quotidiana è il buon senso, misura di equilibrio e moralità, a governare la sfera pubblica è adibito il buon funzionamento della macchina amministrativa, a fronte delle «chiacchiere» inconcludenti di Roma, capitale politica. Rintracciare il filo rosso che lega l'Esposizione dell'81 a Expo 2015 non significa certo riproporre l'immagine solare di quella città industriosa e serena, già allora avvolta in un'aura di «mito». Troppo ovvio sottolineare che il sistema assiologico dell'ethos produttivo non ha mai arginato gli scontri sociali, le contraddizioni del divenire storico, le strategie della tensione. Altrettanto scontato ricordare che proprio l'attuazione di quel modello di sviluppo economico fece ben presto saltare sia l'espansione a raggiera con cui il piano Beruto (1884-1889) disegnava la mappa urbana sia i rapporti di scambio fra città e hinterland, o, come allora si diceva, fra «Milano e i suoi dintorni». Semmai da ribadire, preliminarmente, è la contraddizione genetica, implicita nell'ambiziosa candidatura a essere capitale sì, ma solo capitale morale: ovvero guida effettiva del paese senza però mai assumerne la responsabilità della direzione politica.
Qui risiede il fulcro della mitologia ambrosiana: la struttura polimorfica
dell'economia, che alimenta il dinamismo
ininterrotto di produzione e consumo; l'ipotesi strategica di
un municipalísmo interclassista, in chiave «familistica», che
aspira a smorzare i conflitti fra i ceti e la loro rappresentanza
istituzionale; persino i moti accelerati di modernità che, nel
campo aperto delle idee e della comunicazione, accendono
il confronto fra le élites intellettuali e l'opinione pubblica
borghese: tutto ciò in connessione profonda con un sistema
culturale che, nel reticolo stretto delle mediazioni, rifugge dalle
«grandi narrazioni» e non contempla incombenze di vertice
in campo nazionale.
Milano è la più italianamente europea delle nostre città. Ed è la
più libera: ché sa di non aver dovuto nulla o quasi nulla della sua
civiltà, della sua ricchezza, della sua potenza a posizioni politiche
privilegiate, a volontà di principi o di governi, a organizzazioni
accademiche. Ed ama ed è fiera di tale sua rude indipendenza.
Per tale ragione forse Milano non fu e non è una città politica,
città di governo
(La cultura milanese).
Quando, in un saggio apparso su «Corrente» nel 1941, il filosofo Antonio Banfi individua i motivi di fierezza cittadina nell'indipendenza e nell'autonomia siamo in pieno conflitto bellico. L'insistenza sullo spirito europeo e sull'anelito di libertà suona come condanna inequivocabile del regime fascista; nella speranza che dalla «crisi profondamente vissuta» possa sorgere «una civiltà schiettamente umana e vigorosamente progressiva» riecheggia una nota profetica. E, nondimeno, a distanza di oltre mezzo secolo e in ben altro clima, quel «forse», che segnala uno storico impasse, non solo non ha perso significato, ma trova conferma nella stagione ultima del Novecento e dell'inizio del millennio. Poco importa se la conquista milanese di Palazzo Chigi sia avvenuta, per la prima volta nella storia della nazione, per mano del segretario del partito che ha dato il maggior numero di sindaci alla città, o di un abile imprenditore sceso direttamente in campo, o ancora di un bocconiano gran commis d'esperienza europea: «Milano a Roma», come suona il titolo di un pamphlet di Diamanti e Mannheimer, non risolve il deficit d'egemonia e di governo della classe dirigente ambrosiana: anzi. Solo dall'osservatorio privilegiato di Palazzo Marino, solo dai Padiglioni di una nuova Esposizione, sembra possibile rilanciare quell'orgoglioso motto, magari per verificare oggi ciò che un grande storico come Fernand Braudel dichiarava nel 1980:
La città più importante d'Italia, da tutti i punti di vista è Milano,
metropoli europea per definizione: se dovessimo essere ragionevoli, Milano
dovrebbe essere la capitale del vostro paese.
Anche alla luce di questi temi, non solo municipali e non solo nazionali, vale la pena ripensare all'immagine di una città che ha continuato a salire, ed è intenzionata, come nel lontano 1881, a guidare, sempre in posizione defilata, le dinamiche tumultuose dello sviluppo: rileggere quel mito significa ripercorrere i nessi sempre problematici tra storia e memoria, fra passato e futuro, e soprattutto interrogarsi sui tratti costitutivi della «Grande Milano». Il confronto fra epoche lontane e diverse non chiede banalmente di misurare l'abisso che separa sia il Milanin sia anche il Milanon dalla metropoli in procinto d'ospitare i visitatori di tutto il mondo; e neppure di ridurre l'evento globale al tema prescelto, anch'esso, peraltro, ben radicato nella storia di «Milano epicurea», come la descrivono gli autori di Milano 1881 o del Ventre di Milano. La posta in gioco è più alta e più intellettualmente intrigante. Riflettere sui caratteri mai etnicamente identitari della società ambrosiana sollecita a ritrovare il dna di una capitale che, continuando ad avere un ruolo di traino economico, fatica ad autoriconoscersi e autonominarsi; suggerisce, altresì, di proiettare la «città più città d'Italia» sullo scenario epocale, caratterizzato dal sorpasso, nel 2007, delle aree urbanizzate sulle zone agricole del pianeta, e domandarsi quale idea di progresso viene messa in mostra nei padiglioni e nei cluster di Expo. Non ultimo, può essere un invito a chiedersi quale ritratto di sé voglia offrire all'immaginario collettivo Milano, che, per prima e con maggior acutezza, ha conosciuto e scandagliato l'«esperienza della modernità» (Marshall Berman) | << | < | > | >> |Pagina 11Per Walter Benjamin le esposizioni universali segnano un passaggio cruciale nel clima ideologico e artistico che caratterizza l'età dello sviluppo capitalistico. Le esposizioni mondiali edificano l'universo delle merci. [...] La fantasmagoria della città capitalistica tocca la sua espansione più radiosa nell'Esposizione universale del 1867. I promotori dell'Esposizione delle Arti e delle Industrie, allestita nel capoluogo lombardo nel maggio del 1881, erano certamente ben lontani dallo spirito spettacolare descritto da Benjamin in Angelus Novus: non solo Milano non era Parigi, secondo un ritornello comune e diffuso, ma soprattutto la filiera delle manifatture e del commercio di cui la Mostra dava conto non ammetteva paragoni con i traguardi raggiunti dai paesi europei. Eppure, al di là dello scarto evidente fra le due capitali, con l'Esposizione del 1881 anche Milano si impegna a offrire ai visitatori una festa coinvolgente, tesa a celebrare l'avvio del processo industriale: la città, mettendo in vetrina la propria immagine solare, si dichiara decisa a percorrere senza incertezze o tentennamenti la strada intrapresa. L'evento, che coinvolse l'intera collettività ambrosiana, esprimeva lo slancio espansivo di cui erano dotate le forze imprenditoriali più dinamiche della penisola: quei padiglioni, pieni di merci e prodotti, rappresentavano l'operosità infaticabile di una città che, a vent'anni esatti dalla costituzione dello Stato unitario, si proclamava con fierezza «la capitale morale d'Italia». Versione moderna del vecchio proverbio popolare «Milan dis, e Mílan fa», l'espressione rilanciava il senso di orgogliosa supremazia maturato durante le Cinque giornate del '48, quando tutto il popolo ambrosiano insorse contro gli austriaci: il 18 marzo, «Milano mandava, dopo tanta pazienza e soggezione, il suo formidabile grido di collera»; il 23 marzo, mentre le truppe di Radetzky lasciano la città, «il sole fulgido dava alle strade affollate un giulivo aspetto di festa». La doppia citazione è tratta da Entusiasmi, romanzo di Roberto Sacchetti uscito in quello stesso 1881. Sull'onda travolgente delle musiche del Ballo Excelsior, allestito per l'occasione al Teatro alla Scala, l'Esposizione voleva testimoniare il fervore con cui la città riaffermava il suo ruolo di guida, orientando l'antagonismo polemico non più verso la Torino sabauda, ma verso Roma, capitale politica della nazione unita. Milano rivendica il suo primato – capitale morale, non ufficialmente accreditata – in nome di un paradigma di valori radicati nella modernità urbano-borghese: la ricca e operosa società civile si faceva portavoce della nuova etica del lavoro produttivo. A dare corpo alla mitologia ambrosiana è la riflessione collettiva che si sviluppa nel capoluogo lombardo a cavallo degli anni Ottanta, quando, sotto la spinta delle suggestioni della sociologia positivista, intellettuali e ceti dirigenti si interrogano sui destini futuri dell'area milanese. Espressione privilegiata di queste tensioni ideologiche e culturali è la serie di opere che vengono pubblicate a complemento della Mostra: Mediolanum, in quattro grossi tomi per i tipi di Vallardi; Milano 1881, edizione Ottino; Milano e i suoi dintorni, pubblicato da Civelli. Questi volumi compongono pagina dopo pagina il ritratto a tutto tondo di una comunità urbana che si è ormai avviata a sciogliere il «paradosso delle "città del silenzio"» (Gramsci), acquistando quei caratteri originali che a tutt'oggi la definiscono: un'idea di progresso cauto, capace di legare l'interesse del singolo al bene comune; un sapere «positivo» ancorato ai principi di laica tolleranza e solidarismo caritatevole; il culto dell'efficienza pragmatica, che si traduce in «cose serie, cose sode»; la promozione delle «utili cognizioni» nel rifiuto delle utopie astratte e delle teorie speculative; la ricerca costante delle mediazioni e dell'equilibrio; la diffidenza accentuata verso la dimensione politica a cui si contrappone il buon funzionamento della macchina amministrativa. Norma suprema il buon senso, che è misura di ordine e moralità. Dai libri che illustrano l'Esposizione emerge un'immagine ideale di collettività che compone in sintesi «l'unico mito ideologico serio, non retoricamente fittizio, elaborato dalla borghesia italiana dopo l'Unità» (Spinazzola), così radicato nello spirito cittadino da oltrepassare la soglia del XIX secolo e prolungarsi, anche se in modo discontinuo e contraddittorio, per tutto il Novecento. Sullo sfondo di piazze e strade animate da una folla atti- vamente affaccendata, la «città più città d'Italia» – come la definisce Verga in un articolo scritto per Milano 1881 – mostra il suo volto cordiale e laborioso, sollecitando l'intera comunità a riconoscersi nei principi della nuova etica produttiva. Il progetto è possibile grazie al fervore intraprendente di un'editoria che si sente comprimaria dell'evento. Vallardi Ottíno Civelli, e poi Hoepli Treves e Sonzogno chiamano a raccolta le schiere di intellettuali umanistici e scientifici che operano nel capoluogo lombardo: tutti accolgono l'invito, ingegneri ed economisti, tecnici e scienziati, letterati e giornalisti.
Progetti ideali, ipotesi strategiche e convergenze professionali si saldano
in una operazione ad ampio raggio che, dichiarando apertamente la sua
borghesità, assume uno spessore originalmente moderno.
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