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| << | < | > | >> |Pagina 11Teneva sua madre per mano.Lo aveva fatto spesso, nell'ultimo anno: stringeva forte la mano morbida della mamma, che le rispondeva allo stesso modo. Non voleva andare là. Si chiamava Lydia Grajauskas e aveva avuto mal di pancia fin da quando erano salite a bordo, nella squallida stazione delle corriere di Klaipeda, dove abitavano, e più si avvicinavano più intenso diventava il dolore. Non era mai stata a Vilnius prima d'allora. Aveva fantasticato, visto foto e ascoltato i racconti di altri, ma ora no, non voleva assolutamente, non era quello il suo posto, non aveva niente da fare lì. Era passato più di un anno dall'ultima volta che l'aveva visto. Stava per compiere nove anni e aveva pensato che una bomba a mano non era male, come regalo. Suo padre naturalmente non l'aveva vista: era seduto di spalle nella stanza sporca, tutto preso da quegli altri, che bevevano e gridavano e odiavano i russi. Lei era stesa testa-piedi con Vladi sul divano, un mobile ingombrante di velluto logoro e puzzolente. Si stendevano spesso lì sopra, quando la scuola era chiusa e il papà lavorava, e restavano ad ascoltare. C'era qualcosa che li affascinava in quelle chiacchiere di pistole e casse di munizioni e nelle voci concitate degli uomini, inducendoli a mettersi lì forse più spesso di quanto non fosse salutare per loro. Papà aveva le guance tanto rosse, mentre di solito non le aveva così, se non qualche volta quando, a casa, beveva a collo dalla bottiglia e poi si avvicinava alla mamma e si premeva contro di lei, da dietro. Naturalmente loro non pensavano che se ne accorgesse, e certo lei fingeva di non vedere. Lui beveva sempre un altro goccio, e anche la mamma, allora, si portava la bottiglia alla bocca per assaggiare, e poi andavano nella stanzina da letto facendo uscire tutti gli altri e chiudendosi la porta alle spalle. A Lydia piaceva quando papà aveva le guance rosse. A casa, e anche là, in mezzo agli altri uomini che lucidavano le armi. Era come se in quelle occasioni vivesse un po': non sembrava vecchio come le appariva sempre. Santo cielo, aveva quasi ventinove anni. Sbirciò cauta fuori dal finestrino. Le faceva ancora più male la pancia, ora che la corriera era partita e procedeva veloce lungo le strade piene di buche. Ogni volta che una delle ruote anteriori urtava il bordo d'asfalto, il sedile su cui era seduta tremava, e contemporaneamente lei avvertiva una fitta acuta in un punto appena sotto le costole. Ecco com'era nella realtà il suo mondo ancora inesplorato, l'intero lungo tratto tra Klaipeda e Vilnius. Non c'era mai stata prima. Non aveva avuto il permesso; in fondo costava molto ed era più importante che ci andasse la mamma. Ci era stata una domenica sì e una no da un anno a quella parte. con il cibo e i soldi che in qualche modo riusciva a procurarsi. Lydia pensò che era difficile sapere che aspetto aveva papà, e cos'avrebbe detto. Probabilmente era la mamma a mancargli di più. Quel giorno delle bombe a mano, lui neanche l'aveva vista. Stesa sul divano, si era sporta in basso a frugare nelle diverse casse piene di esplosivo al plastico e bombe a mano, facendo cenno a Vladi, con un dito sulle labbra, di stare zitto: non volevano essere disturbati, i papà. Tanto, sapeva già come funzionava tutto quanto: l'esplosivo, ma anche le bombe a mano e le piccole pistole. Li aveva sempre osservati mentre si allenavano e conosceva quelle armi quanto le conoscevano alcuni di loro. Aveva ancora lo sguardo fisso fuori dal finestrino della corriera incrostato di sporco. Pioveva forte, e i vetri avrebbero dovuto ripulirsi, ma invece di portare via la polvere, quelle gocce dure facevano schizzare in alto un fango scuro, tanto che seguire il paesaggio con gli occhi risultava ancora più difficile. La strada però adesso era migliorata: niente buche, niente sussulti, niente fitte sotto le costole. Aveva tenuto la bomba in mano anche quando la polizia aveva sfondato la porta irrompendo nello stanzone. Suo padre e gli altri uomini si erano gridati qualcosa, ma erano stati troppo lenti e nel giro di un minuto erano tutti addossati alla parete con le manette ai polsi e un bel po' di botte in corpo. Non ricordava più quanti erano quelli entrati nella stanza: forse dieci, forse venti; sapeva solo che avevano gridato: Zatknis! più e più volte e che avevano pistole uguali a quelle che vendeva suo padre e che avevano vinto prima ancora di cominciare. Le loro urla si erano mescolate allo sferragliare di armi e al rumore di bottiglie rotte; tutti suoni che le avevano lacerato le orecchie e poi si erano trasformati in un silenzio improvviso e strano, quando suo padre e gli altri uomini erano a terra. Probabilmente era quello che ricordava meglio: il silenzio che aveva coperto tutto il resto. La mano della mamma. La strinse forte, di nuovo. La tirò a sé appoggiandola sul sedile della corriera, tenendola fino a quando la pelle si sbiancò e lei non ebbe la forza di stringere più forte. L'aveva tenuta così anche davanti al tribunale di Klaipeda durante il processo di suo padre e degli altri uomini. Erano rimaste lì sedute tenendosi per mano e la mamma aveva pianto a lungo quando una guardia in divisa grigia era uscita da una sala dicendo che erano stati condannati a ventun anni di prigione, tutti, nessuno escluso. Non lo vedeva da un anno. Probabilmente non l'avrebbe riconosciuta. Lydia tastò la borsa di tela che la mamma aveva portato con sé. Era piena di cibo fino all'orlo. Sua madre le aveva raccontato cosa si mangiava là, la pappa d'avena che davano tutti i giorni, fatta quasi soltanto di farina. Parlava di vitamine, del fatto che altrimenti ci si ammalava e che tutti quelli che stavano lì dentro avevano bisogno di altro cibo, che veniva portato dai parenti in visita. La corriera procedeva piuttosto velocemente, ora. Una strada più larga e trafficata, e gli edifici fuori dal finestrino infangato diventavano sempre più grandi man mano che si avvicinavano a Vilnius. Quelli che aveva visto prima, dove la strada era piena di buche, erano malmessi. Adesso invece vedeva dei palazzoni, che più che altro erano muri grigi con un tetto di lamiera, ma erano comunque molto più moderni degli altri. Ben presto si cominciarono a vedere case ancora più costose e poi tutti i distributori di benzina, quasi attaccati uno all'altro. Sorrise e li indicò: non ne aveva mai visti tanti prima d'allora. Aveva quasi smesso di piovere. Meno male: non voleva bagnarsi i capelli. Non quel giorno. | << | < | > | >> |Pagina 84La luce era sempre la stessa, al pronto soccorso dell'ospedale Södersjukhuset.Mattina, mezzogiorno, pomeriggio, sera, notte: una luce di quelle che restavano costanti. Un giovane medico con gli occhi stanchi e il corpo magro e allampanato fissava una delle semplici lampade sul soffitto del corridoio cercando di farsi forza. Stava camminando accanto a una lettiga e intanto ascoltava l'infermiera. Quest'ultima paziente, poi forse avrebbe potuto tornare a casa, uscire e godere dell'altra luce, quella che a volte cambiava. «Donna priva di sensi, probabilmente maltrattata. Trauma cranico, frattura al braccio, presunte emorragie interne. Difficoltà di respirazione senza ausili. Avverto la traumatologia.» Il giovane medico guardò in silenzio l'infermiera. Non voleva sentire altro, oggi, non voleva essere costretto a capire altro sugli esseri umani e sul modo in cui si stavano autodistruggendo. «Va intubata.» Annuì per confermare la decisione e rimase per qualche istante accanto alla lettiga della donna. Qualche secondo tutto per sé. Era stata una giornata lunga, e aveva dovuto occuparsi di un maggior numero di giovani rispetto al solito: persone della sua stessa età o anche meno, alle quali aveva dovuto rammendare il corpo come meglio poteva, conscio che nessuna di loro avrebbe potuto avere una vita uguale a prima. Sapeva che avrebbero per sempre portato dentro di sé quella giornata, e che su alcuni sarebbe risultata evidente mentre altri l'avrebbero nascosta nel proprio intimo, senza mai mostrarla a nessuno. Studiò il volto della ragazza. Non era svedese. Non era del posto ma non veniva da molto lontano. Bionda, probabilmente molto bella. Somigliava a qualcuno, non ricordava chi. Estrasse il foglio dalla busta di plastica che gli avevano consegnato i barellieri. Lesse le frasi concise. Ora sapeva che si chiamava Lydia Grajauskas e che i suoi dati personali erano stati forniti da un'altra donna che si trovava nell'appartamento in cui aveva avuto luogo l'aggressione. La osservò. Tutte quelle donne. Che espressione aveva mentre lui la picchiava? Cosa diceva? Alcune persone vestite di bianco e di verde affluirono a passo svelto dai corridoi. Aspettarono il medico dagli occhi stanchi e pesti, cercando di incrociarne lo sguardo per fargli capire che erano pronte. Presa in consegna la barella, la spinsero nella sala di traumatologia, poi sollevarono delicatamente il corpo e lo spostarono su un tavolo operatorio. Controllarono pulsazioni, ECG, pressione arteriosa. Le aprirono la bocca e aspirarono il contenuto dello stomaco. Diventò sempre meno un corpo e un essere umano e sempre più statistica e diagrammi: era più facile, così, rapportarsi a lei. Chissà poi se aveva detto qualcosa? Magari aveva gridato, ma cosa si grida quando qualcuno si arroga il diritto di picchiarti? L'uomo dagli occhi stanchi non riusciva ad andarsene di lì. Voleva vedere, pur non sapendo cosa. Uno dei colleghi che gli erano subentrati si trovava a qualche metro di distanza. Sollevò delicatamente la donna di cui ora conoscevano il nome, Lydia Grajauskas, girando sul fianco il corpo senza peso, e vide la pelle lacerata mescolata al sangue. Diede un grido, turbato. «Mi serve aiuto!» Il medico dagli occhi stanchi accorse subito e vide ciò che aveva visto il collega accanto a lui. Le contò. Si fermò a trenta. Le piaghe erano rosse e gonfie. Sentì che doveva soffocarle, quelle lacrime che a volte premevano per uscire. Avvertì lo sforzo di comportarsi in maniera professionale. Quella donna avrebbe dovuto essere statistiche e diagrammi. Tentò di ragionare così: io non la conosco non la conosco non la conosco non la conosco, ma non funzionò, non quel giorno; ce n'erano state troppe, di queste cose insensate che non capiva. La pelle rossa e lacerata. Lo disse a voce alta, forse per udire lui stesso come suonava, o per informare gli altri, non lo sapeva. «E stata frustata!» Lo ripeté di nuovo, più lentamente, sommesso. «È stata frustata. Dalla nuca fino al bacino. La pelle... qualcuno gliel'ha squarciata.» | << | < | > | >> |Pagina 173Da qualche minuto si muovevano, irrequieti, tutti e cinque. Avevano cautamente girato una gamba, o inclinato piano una testa verso la spalla. Come se avessero il corpo indolenzito, lì sul pavimento, come se non osassero ricordarle la propria esistenza e proprio per questo non potessero restare immobili.Lydia avvertiva la loro angoscia e li lasciò stare. Sapeva quanto era difficile respirare quando, dal basso, si guardava una persona che si è appena arrogata il diritto di possedere il tuo corpo. Ricordava il traghetto, la Stena Baltica, e il modo in cui una minaccia di morte ti fa spegnere in gola il grido d'aiuto che sale spontaneo. D'un tratto uno di loro cadde in avanti. Era uno dei giovani tirocinanti: aveva perso l'equilibrio staccandosi dal cerchio di cui aveva fatto parte fino a quel momento, formato da cinque persone in ginocchio intorno alla barella di un morto. Lydia gli puntò immediatamente addosso la pistola. Era piegato in avanti, con le ginocchia ancora sul pavimento, il viso appena sopra, le mani strettamente legate dietro la schiena. Il corpo gli tremava tutto e non riusciva a tenerlo diritto. Piangeva di paura. Non ci aveva mai pensato prima: la vita procedeva per la sua strada e lui era giovane e tutto era eterno, mentre ora capiva che poteva finire qui e adesso. Aveva solo ventitré anni, gli tremava il corpo, voleva vivere molto di più. «On knee!» Lydia gli si avvicinò e gli premette la pistola contro la nuca. «On knee!» Lentamente, lui sollevò il tronco, si rimise dritto, ma continuando a tremare, con le lacrime che gli scorrevano sulle guance. «Name.» Lui la guardò in silenzio. «Name!» Faticava a parlare. Le parole non gli uscivano di bocca. «Johan.» «Name!» «Johan Larsen.» Lydia si sporse verso di lui, premendogli forte la canna della pistola sulla fronte. Come gli uomini sulla Stena Baltica. La tenne lì mentre parlava. «You on knee! If again, boom!» Il ragazzo rimase con la schiena diritta, senza respirare. Non riusciva a far smettere di tremare il corpo, neanche quando lungo una gamba cominciò a scorrergli l'urina. Gli bagnò i pantaloni e lui nemmeno se ne accorse. Lydia li osservò, uno alla volta. Loro ancora non la guardavano: non osavano farlo. Prese da terra il sacchetto di plastica con il logo dell'ICA e ne tirò fuori l'involucro con l'esplosivo al plastico e i detonatori. Si avvicinò a un tavolino di acciaio inossidabile di fianco alla barella, ci distribuì sopra il blocco beige, lo lavorò con la mano e lo rese sufficientemente morbido e malleabile per fissarlo intorno alla porta attraverso la quale poco prima era entrata di nascosto. Tenendo l'arma con la mano sana staccò contemporaneamente, con la stessa mano, un blocco di esplosivo pari alla metà di quello che aveva appena distribuito intorno al telaio della porta, modellandolo in un rotolino diritto e ininterrotto, ma abbastanza sottile. Proseguì poi con la metà restante e applicò l'esplosivo al plastico sulle cinque persone in ginocchio sul pavimento, una dopo l'altra. Erano in cerchio intorno a una barella con una persona nuda che aveva appena subito l'autopsia, e portavano la morte da una spalla all'altra, simile a una pellicola di pasta beige dietro la nuca. Si trovava lì dentro da quasi venti minuti. Ne aveva impiegati altri dieci a spostarsi dal reparto di chirurgia al settimo piano all'obitorio in fondo al piano interrato. Si rese conto che la sua fuga doveva ormai essere stata scoperta da tempo. Che la polizia era stata chiamata e la stava cercando. Si avvicinò alla tirocinante, quella così simile a lei, con i capelli a mezza lunghezza dai riflessi rossi e il corpo sottile. Quella che aveva legato le mani agli altri. «Police!» Lydia le mostrò il cellulare che aveva preso da una delle tasche dei camici e glielo piazzò davanti al viso. Poi, prima di allentare cautamente lo spago intorno ai suoi polsi, appoggiò la mano sull'esplosivo al plastico che le aveva fatto aderire alle spalle, per ricordarle di ubbidire. «Police! Call police!» La tirocinante esitò. Temeva di fraintendere l'ordine. Si guardò intorno irrequieta, cercando lo sguardo del medico più anziano, dai capelli grigi. Lui fece come prima: le parlò riuscendo a mantenere la voce calma e a nascondere la propria angoscia. «Vuole che chiami la polizia.» La tirocinante aveva capito: ora annuì, per confermare. Il medico anziano costrinse la propria voce a restare salda per qualche altra frase. «Fallo. Fa' come vuole lei. Componi l'uno, uno, due.» Le tremavano le mani: il cellulare le cadde a terra, lei lo raccolse, compose prima il numero sbagliato, alzò rapidamente gli occhi su Lydia chiedendo scusa, e poi digitò le cifre giuste: uno, uno, due. Lydia udì il segnale: era soddisfatta. Poi fece cenno alla tirocinante di stendersi prona. Le prese il telefono, lo portò al medico anziano e glielo premette contro un orecchio. «Talk!» L'uomo annuì. Aspettò, con la fronte luccicante di sudore. La stanza era immersa nel silenzio più assoluto. Un minuto. Poi una voce che rispondeva. Lui parlò con la bocca vicina al microfono. «Polizia.» Rimase in silenzio, ad aspettare. Lydia, accanto a lui, teneva il telefono. Gli altri avevano gli occhi chiusi o fissavano il pavimento davanti a sé, lontano, lontanissimo. Un'altra voce. L'uomo dai capelli grigi parlò di nuovo. «Mi chiamo Gustaf Ejder. Sono un primario del Södersjukhuset. In questo momento mi trovo nell'obitorio dell'ospedale, nei sotterranei. Sono qui insieme ad altre quattro persone che sono state prese in ostaggio da una giovane donna armata di pistola, che indossa il camice ospedaliero riservato ai pazienti. Ha una pistola carica e la tiene puntata alla nostra testa. Ci ha anche messo addosso una sostanza che credo sia un qualche genere di esplosivo al plastico.» Il giovane tirocinante di nome Johan Larsen che poco prima si era accasciato in avanti, tremante, non riuscendo più a restare dritto, si mise a gridare, rivolto al telefono. «È esplosivo al plastico Semtex! Si chiama così! Ne ha usato quasi mezzo chilo. Se lo fa detonare ci sarà un botto allucinante!» Lydia gli puntò la pistola addosso, ma poi si rilassò. Aveva sentito pronunciare la parola Semtex, e quella voce incontrollata era servita a far arrivare il messaggio: chi si trovava in ascolto aveva sicuramente capito. Prese di nuovo in mano le pagine che aveva strappato dal quaderno. Sempre tenendo il cellulare attaccato all'orecchio del medico, gli mise davanti i fogli, sul pavimento. Il primo era in bianco, con l'eccezione di una riga. Gli fece capire di volere che continuasse a parlare. Lui ubbidì. «È ancora lì?» La voce dall'altra parte confermò brevemente. «La donna vuole che legga un nome scritto su un foglio, probabilmente strappato da un quaderno. C'è scritto Bengt Nordwall. Soltanto questo.» L'interlocutore lo pregò di ripetere. «Bengt Nordwall. Nient'altro. La scrittura è difficile da decifrare, ma sono certo di aver letto correttamente. Anche l'inglese che usa quando parla non è facile da interpretare. Direi che è russa. Oppure di un paese baltico.» Lydia gli staccò il telefono dall'orecchio e gli fece segno di mettersi di nuovo diritto. L'aveva udito pronunciare il nome che aveva scritto. Aveva anche sentito l'aggettivo «baltico». Le bastava. | << | < | > | >> |Pagina 271Lisa Öhrström aveva tenuto gli occhi chiusi a lungo.Aveva sentito che il tipo dai capelli scuri che l'aveva minacciata se n'era andato, ma era rimasta seduta immobile, senza osare muoversi, fino a quando Ann-Marie aveva lasciato il gabbiotto di vetro ed era tornata in cucina. La caposala le aveva parlato con calma, si era seduta accanto a lei e l'aveva abbracciata. Per un attimo avevano tenuto le mani una sopra l'altra, alternate, come i bambini che fanno a gara per vedere quale mano finisce in cima. Poi era andata a casa. Aveva cercato di vedere i pazienti ma non ne aveva la forza, la paura era troppo intensa. Non aveva mai provato una paura così, prima. Era stata una lunga notte. Aveva cercato di spiegare razionalmente il dolore al petto. Il cuore le batteva forte, si era sforzata di respirare lentamente per fargli riprendere il ritmo normale, ma aveva finito per spaventarsi ancora di più. Non riusciva a prendere fiato. Non osava addormentarsi, aveva paura di non svegliarsi più. Non voleva dormire, né chiudere gli occhi, mai più. Jonathan e Sanna. Si erano intromessi nei suoi pensieri. Per tutta la notte non avevano fatto altro che intromettersi. Aveva cercato di respirare lentamente, di mandarli via. Li amava, lei che non aveva mai osato amare nessun altro. Forse Hilding, per un po', finché non l'aveva costretta a smettere di provare sentimenti, ma i due bambini erano una parte di lei. L'uomo aveva in mano le loro foto. Sapeva di loro. Quel maledetto dolore al petto. I nipotini erano la sua debolezza e la sua forza. Erano loro che non aveva il coraggio di perdere, ma curiosamente erano sempre loro a spingerla a resistere ora che il panico cercava di prendere il sopravvento L'ispettore Sven Sundkvist, il poliziotto che l'aveva interrogata quando Hilding era finito giù per le scale e che le aveva mostrato la foto dell'uomo che lei aveva riconosciuto, l'aveva chiamata la mattina presto. Trovandola ancora a letto, si era scusato dicendo che purtroppo c'era molta fretta e l'aveva pregata di andare alla Centrale il prima possibile. Ora aspettava in una stanza buia da qualche parte nella Centrale di polizia. Non era sola. Sundkvist era a un paio di metri da lei e un avvocato che supponeva rappresentasse il sospettato stava entrando proprio in quel momento. Sven Sundkvist le disse di prendersi tutto il tempo che voleva. Non avevano fretta, ed era importante fare le cose per bene. Lisa Öhrström andò alla finestra. Il poliziotto le aveva assicurato che solo loro tre potevano vedere attraverso il vetro, dall'altro lato si vedeva uno specchio, nient'altro. Erano in dieci, più o meno della stessa altezza e della stessa età, tutti con la testa rasata. Avevano dei grossi cartelli appesi sul petto. Cifre nere su fondo bianco. Stavano in piedi uno accanto all'altro, spalla contro spalla, e la fissavano. O almeno quella era l'impressione che davano, come se aspettassero di vedere cosa faceva. Li guardò senza vederli. Qualche secondo ciascuno, dai piedi alla testa, evitando gli occhi. «No.» Scosse la testa. «Nessuno.» Sven Sundkvist si avvicinò di un passo. «È sicura?» «Non è stato nessuno di loro.» Sundkvist fece un cenno del capo verso il vetro. «Ora li facciamo camminare un po' in cerchio. Voglio che li guardi un'altra volta.» Quello più a sinistra, con il numero uno sul cartello sul petto, fece qualche passo avanti e descrisse un giro completo. Lisa Öhrström lo seguì con lo sguardo. Aveva un'andatura ciondolante, un modo di muoversi che esprimeva sicurezza. Era lui. Era Lang. Maledetto, maledetto Hilding. Lo vide fermarsi nello stesso punto di prima mentre il numero due iniziava la sua passeggiata. Li osservò uno dopo l'altro mentre descrivevano i loro cerchi davanti a lei. Solo poco prima sembravano tutti uguali, ora vedeva chiaramente le differenze. Sven Sundkvist era rimasto in silenzio come gli altri mentre i dieci uomini con dieci numeri diversi gli erano passati davanti. Ora si voltò di nuovo verso di lei, in attesa della risposta. «Ora li ha visti meglio. Viso, postura, modo di muoversi. Voglio sapere se ha riconosciuto qualcuno.» Non lo guardò. Non poteva. «No.» «Nessuno?» «Nessuno.» Sundkvist si avvicinò di un altro passo, cercando i suoi occhi sfuggenti. «Ne è sicura? È sicura che nessuno di loro è l'uomo che lei ha visto uccidere suo fratello, Hilding Oldéus?» Guardò la donna che aveva davanti. La sua reazione lo stupì. La morte di suo fratello non l'aveva rattristata. Sembrava piuttosto arrabbiata. «Mai sentito parlare di amore fraterno? Certo che lo amavo. Amavo l'Hilding con cui sono cresciuta. Ma non quello che è morto ieri. Non l'Hilding tossicomane. Quello lo odiavo. Odiavo quello che mi aveva costretta a diventare.» Deglutì mandando giù tutto in una volta quello che le si alternava dentro, rabbia e odio e paura e panico.
«E come le ho già detto, non riconosco nessuno dei dieci
uomini dall'altra parte del vetro.»
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