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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE Tutto il potere all'autoformazione! 11 del collettivo edu-factory PARTE I. LA PRODUZIONE DI SAPERI NELL'UNIVERSITA GLOBALE L'ascesa della Global University 29 di Andrew Ross Eurocentrismo, Università e i molteplici siti di produzione del sapere 41 di Amit Basole Assemblaggi globali vs. Universalismo 47 di Aihwa Ong Gestione del sapere vs. produzione del sapere 51 di Sunil Sahasrabudhey Cortocircuitare la produzione del sapere 53 di Nirmal Puwar e Sanjay Sharma Condizioni di interdisciplinarità 59 di Randy Martin PARTE II. LE GERARCHIE NEL MERCATO DELLA FORMAZIONE Esile, eppure pesante: la ristrutturazione dell'università in Sudafrica 69 di Franco Barchiesi Governamentalità e mercificazione: i cardini della gerarchia accademica yanqui 75 di Toby Miller La produzione sociale di gerarchia e quello che possiamo fare: appunti dall'Asia 83 di Xiang Biao Il confine come metodo della moltiplicazione del lavoro 87 di Sandro Mezzadra e Brett Neilson Il debito della formazione 93 di Jeffrey Williams La consolle del management 99 di Marc Bousquet PARTE III. LAVORO COGNITIVO, CONFLITTI E TRADUZIONE Report dal movimento studentesco greco del 2006/2007 107 di Dionisis Pratiche di cartografia radicale 111 di Counter Cartographies Collective Formazione online, precariato e sindacalismo open source 115 di Eileen Schell Capitalismo cognitivo e modelli di regolazione del rapporto salariale: insegnamenti dal movimento anti-CPE 121 di Carlo Vercellone Note su edu-factory e capitalismo cognitivo 127 di George Caffentzis e Silvia Federici Traduzione, biopolitica e differenza coloniale 133 di Naoki Sakai e Jon Solomon PARTE IV. PRODUZIONE DEL COMUNE E GLOBAL AUTONOMOUS UNIVERSITY Una gerarchia di reti? Ovvero, reti geo-culturalmente differenziate e i limiti della collaborazione 143 di Ned Rossiter L'università e gli undercommons 147 di Stefano Harney e Fred Moten L'esperienza dell'università: il neoliberalismo contro i commons 153 di Jason Read I pirati erano pieni di risorse, come ninja, e impararono a usare il loro ambiente 157 di James Arvanitakis Da uno studente delle liberal arts 161 di Erik Forman Conflitti nella produzione di sapere 165 di Universidad Experimental Università autonoma globale 169 di Vidya Ashram INTERVISTE Wang Hui 177 Ranabir Samaddar 181 Stanley Aronowitz 185 Chandra Talpade Mohanty 189 APPENDICE Sulle istituzioni del comune 195 di Toni Negri e Judith Revel NOTE BIO-BIBLIOGRAFICHE SUGLI AUTORI 203 |
| << | < | > | >> |Pagina 110. Ciò che un tempo era la fabbrica, ora è l'università. Siamo partiti da questa affermazione, apparentemente secca e aproblematica. Non per assumerla, ma per interrogarla. Aprendola, attraverso il suo radicale ripensamento, alla ricerca teorica e politica. Da qui ha preso le mosse il progetto edu-factory. Ma procediamo con ordine: edu-factory è varie cose. È una mailing-list transnazionale centrata sulle trasformazioni dell'università, la produzione dei saperi e le forme del conflitto (edufactory@listculture.org), a cui dall'inizio del 2007 hanno preso parte circa 500 militanti, studenti e ricercatori di tutto il mondo. Nella scomposizione dei confini statali, lo spazio globale è qui definitivamente affermato come luogo della ricerca e dell'azione politica. In questo libro diamo conto di una parte del dibattito: i contributi completi sono raccolti sul sito del progetto ( www.edu-factory.org ). Tuttavia, le esperienze degli ultimi anni ci hanno insegnato a diffidare della fiducia spesso riposta dai movimenti nei supposti meccanismi spontanei e orizzontali di cui la rete sarebbe portatrice. Ci hanno insegnato che la rete è, al contrario, una struttura gerarchica, e l'orizzontalità è semmai la posta in palio di un rapporto di forze. Ci hanno insegnato a rifuggire da ogni ingenua teleologia, che finisce per leggere la cognitivizzazione del lavoro come smaterializzazione dei rapporti sociali e finanche delle esperienze di lotta. Ci hanno insegnato che la rete va organizzata, o meglio bisogna organizzarsi nella rete. Cogliere la radicale innovazione della forma-rete significa, dunque, assumerla come un campo di battaglia, continuamente attraversato da differenziali di potenza e da linee di forza antagoniste, dalla produzione del comune e dai tentativi di catturarlo. È necessario, allora, sconfiggere ogni «pensiero molle» della rete, che ha catastroficamente confuso la corretta lettura del superamento della rappresentanza e della forma-partito, con la scellerata liquidazione dei nodi gordiani dell'organizzazióne e della rottura. Solo ripartendo da qui è possibile cominciare a costruire quelle nuove forme di istituzionalità autonoma che Ned Rossiter chiama organized network. In questa prospettiva, edu-factory è la sperimentazione di un nuovo modo di discussione, ma potremmo anche dire di organizzazione in rete. Da un lato, il dibattito è temporalmente circoscritto e tematicamente identificato: i due round di discussione – il primo incentrato sui conflitti nella produzione di saperi, il secondo sui processi di gerarchizzazione nel mercato della formazione e sulla costituzione di istituzioni autonome – sono durati tre mesi ciascuno. Dopo di che la lista ha chiuso per riaprire nel ciclo successivo. È questo, in altri termini, il tentativo di passare dal livello estensivo alla dimensione intensiva dell'organizzazione in rete. Dall'altro lato, il dibattito in lista è stato cadenzato da un calendario di interventi anticipatamente programmati, che hanno permesso di strutturare la ricchezza della discussione all'interno di un processo di cooperazione condiviso e focalizzato.
Ma edu-factory è, innanzitutto, un punto di vista parziale dentro la
crisi dell'università,
analizzata con chiarezza dai diversi contributi.
The University in Ruins,
scriveva già negli anni Novanta Bill Readings.
L'università statale è in rovina, l'università di massa è in rovina,
l'università come luogo privilegiato della cultura nazionale, così come lo
stesso concetto di cultura nazionale sono in rovina. Non ne abbiamo
nostalgia. Anzi, ne rivendichiamo la distruzione. La crisi dell'università,
infatti, è stata determinata innanzitutto dai movimenti. È la genealogia del
presente a renderci non solo immuni, ma anche nemici delle
lacrime per il passato. L'aziendalizzazione dell'università e il sorgere di una
global university,
per usare la pregnante categoria proposta da
Andrew Ross,
non sono un'imposizione unilaterale o uno sviluppo
tutto interno alla razionalità capitalistica, bensì l'esito – affatto temporaneo
e perciò rovesciabile – di un duro ciclo di lotte. Il problema, ora,
è trasformare il campo di tensione disegnato dai processi qui analizzati
nell'individuazione delle forme di resistenza e nell'organizzazione
delle linee di fuga. Non c'è per noi altro modo di concepire la teoria,
se non come pratica teorica. Di parte e sovversiva. Questo è il punto di
partenza e l'obiettivo, lo stile e il metodo di edu-factory.
1. Torniamo ora all'affermazione iniziale. Sarebbe meglio riformularla in questi termini: ciò che un tempo era la fabbrica, ora è l'università? Attenzione, infatti: l'università non funziona affatto come la fabbrica. Ogni continuità lineare rischia di essere un comodo rifugio nelle categorie a cui eravamo avvezzi, occludendo la possibilità di comprensione e dunque di azione dentro i mutamenti produttivi e sociali. La categoria di knowledge factory, utilizzata da Stanley Aronowitz in un importante libro, ci pare al contempo allusivamente corretta e analiticamente insufficiente. Allusivamente corretta, perché coglie il divenire immediatamente produttivo dell'università, il suo essere centrale nel capitalismo contemporaneo, nonché tratti peculiari di organizzazione, controllo e disciplinamento del lavoro vivo, di cui in Italia la riforma avviata da Berlinguer e Zecchino ci restituisce una chiara esemplificazione – si pensi solo alla frenetica modularizzazione dei corsi e alla vertiginosa accelerazione dei tempi e dei ritmi di studio, non a caso tra gli obiettivi principali delle lotte di studenti e precari nell'autunno del 2005. Tale categoria è tuttavia analiticamente insufficiente laddove sottostima la differenza specifica tra la «fabbrica fordista» e l'università. Il taylorismo, infatti, è qualcosa di storicamente determinato, ossia l'organizzazione scientifica del lavoro attraverso la misurazione dei tempi delle singole mansioni, la velocità di esecuzione e la serializzazione. Se la produzione dei saperi non è misurabile, se non artificialmente, è evidente che un'organizzazione tayloristica della loro produzione (attraverso cronometri, prevedibilità e ripetitività dei gesti, o catene di montaggio virtuali) non può affatto darsi. Cambiano dunque le forme della produzione di forza lavoro. A questa altezza e in questo scarto vanno collocate l'analisi e le possibilità di trasformazione. Quell'interrogazione iniziale, semmai, indica l'urgenza di un problema politico: come ci si può organizzare nella crisi dell'università come se fosse una fabbrica? Meglio ancora: come situare il nodo politico che l'evocatività del paragone tra università e fabbrica sottende, a partire dall'incommensurabile differenza del loro concreto funzionamento e delle rispettive coordinate spazio-temporali? In altre parole: come ripensare il problema dell'organizzazione dopo l'esaurimento delle sue forme tradizionali, cioè sindacato e partito? Come ripensarlo, soprattutto, completamente all'interno della nuova composizione del lavoro vivo, laddove nessun fuori è più, finalmente, praticabile? Dal dibattito sono emerse alcune linee – ancora in parte frammentarie ma già maledettamente concrete – di ricerca politica. Se dovessimo riassumere in un nome comune la cifra delle esperienze globali che in edu-factory si sono confrontate, eccolo: autoformazione. Dalla Rete per l'Autoformazione di Roma al Vidya Ashram di Varanasi, dalla Universidad Experimental di Rosario all'Experimental College negli Stati Uniti, l'autoformazione è praticata non come nicchia debole posta ai margini del sistema formativo, né come arroccamento nell'impotenza delle idee e della cultura disincarnato dalla resistenza e dalla possibilità della sovversione. Al contrario, essa emerge come la forma della lotta del lavoro cognitivo nel capitalismo contemporaneo: è, al contempo, conflitto sulla produzione dei saperi e costruzione del comune, lotta del precariato e organizzazione di istituzioni autonome. | << | < | > | >> |Pagina 29Esposta alla dura legge del mercato, la vita istituzionale delle università si caratterizza più per la velocità del cambiamento che per l'osservanza di consuetudini e tradizioni. Uno degli esempi più illuminanti è la competizione sviluppatasi negli ultimi anni per creare programmi e campus all'estero. Dall'11 settembre il ritmo dell'internazionalizzazione si è impennato, attraversando l'intero spettro delle istituzioni dell'istruzione superiore – dalla bolla del settore for-profit e delle fabbriche dei diplomi online, alle land grant university e ai college blasonati e d'élite. Nessuna ha raggiunto lo status operativo di global university, ma è solo questione di tempo. Da molti anni il WTO spinge per la liberalizzazione dei servizi: l'istruzione superiore è un settore altamente remunerativo, con un mercato globale che si aggira tra i 40 e i 50 bilioni di dollari, poco meno del mercato dei servizi finanziari. Gli oppositori sostengono che la formazione non può e non deve essere oggetto degli accordi di libero commercio, che garantiscono ai fornitori esteri di servizi gli stessi diritti concessi ai fornitori interni, compromettendo così la sovranità delle forme di regolazione nazionale. Tuttavia, così come le corporation non hanno aspettato il via libera del WTO per iniziare le proprie operazioni all'estero, l'assenza di accordi internazionali non ha fermato le università dei principali paesi anglofoni dall'imporre i loro nomi e servizi ad un ampio spettro di siti globali. La straordinaria crescita delle iscrizioni internazionali degli studenti, combinata con l'espansione della capacità tecnologica e il consolidamento dell'inglese come lingua franca, è risultata una miniera d'oro per gli investitori nella formazione offshore. I critici argomentano che la qualità della formazione è messa in pericolo dalla deregolamentazione del mercato globale. Molto meno è stato detto dell'impatto sulle condizioni di lavoro nell'università o sul profilo etico e l'identità delle istituzioni. Che effetti ha la globalizzazione sulla sicurezza delle forme di vita legate agli ideali formativi liberali come l'accesso meritocratico, l'apprendimento vis-à-vis, la ricerca disinteressata? Questi ideali, e il lavoro su di essi fondato, saranno completamente eliminati nella competizione del mercato globale, o sopravviveranno solamente negli angoli riservati alle élite in grado di pagarseli a suon di dollari? | << | < | > | >> |Pagina 37Corporate University?Qualcuno potrebbe dire che fino a quando la qualità della formazione e l'integrità della ricerca verranno mantenute, e la lusinga del guadagno monetario tenuta a bada, l'internazionalizzazione è una sorta di obbligo morale per i docenti dei paesi benestanti. Mentre le multinazionali saccheggiano le risorse dei paesi in via di sviluppo alla conquista dei brevetti genetici e del copyright sulla storia dei popoli indigeni, non è forse un modo per condividere o redistribuire la ricchezza che la riproduzione di capitale intellettuale conferisce alle nazioni avanzate? In risposta, vorrei domandare se la penetrazione oltreoceano dei college anglofoni è davvero la via migliore, specialmente laddove il principale impeto all'espansione ha a che fare esclusivamente con il profitto, mentre la crisi del debito studentesco interno è più facilmente esportabile nella forma di una nuova «trappola del debito» per gli studenti dei paesi in via di sviluppo. Un'alternativa è fornire tutto ciò gratuitamente, senza proprietà intellettuale. Nel pionieristico progetto del MIT OpenCourseWare, l'università rende i propri corsi accessibili online per l'autoformazione; altri college, come Tufts, Utha State e Carnegie Mellon, hanno seguito l'esempio. I corsi del MIT sono stati tradotti in Cina e in altri paesi asiatici. Lodevole nell'ispirazione, il contenuto importato ha una chiara impronta culturale. Se non viene rielaborata da punti di vista situati, resta da vedere quanto ciò sarà differente, nel lungo periodo, dal tradizionale sistema educativo coloniale. In tutti i paesi in via di sviluppo i governi, ansiosi di attrarre investimenti stranieri, multinazionali e ora università globali, stanno dirottando le scarse risorse nella formazione pubblica in programmi confezionati su misura per le competenze di una «società della conoscenza», a spese di tutte le altre definizioni del sapere. A queste condizioni, l'istruzione superiore è sempre più vista come formazione strumentale per i knowledge worker in sintonia con la razionalità capitalistica. Se le università hanno fedelmente seguito il modello offshore delle imprese, che cosa dobbiamo aspettarci ora? Nelle industrie a lavoro intensivo (caratteristica che il sistema formativo condivide con l'industria dell'abbigliamento, il 75% dei costi dell'educazione vanno al lavoro di insegnamento) il datore di lavoro cerca anzitutto di minimizzare i costi, solitamente introducendo l'apprendimento a distanza o assumendo istruttori locali a bassissimi salari. Gli impiegati espatriati per approntare le strutture all'estero e formare i locali, diventano una responsabilità fiscale da scaricare alla prima occasione. Se il campus satellite è situato nello stesso parco industriale delle 500 più importanti aziende di Fortune, è quasi certo che venga invitato a produrre ricerca su misura per queste compagnie, ancora una volta a prezzi ridotti. È solo questione di tempo prima che un amministratore decida di tagliare i costi trasferendo alcune operazioni di ricerca all'estero. E agli istruttori locali verrà chiesto di creare programmi formativi e, in ultima analisi, di insegnare remote materie agli studenti negli Stati Uniti. In un'università con programmi globali, gli amministratori favoriranno le location dove il rientro economico è più elevato. Perché sobbarcarsi spese aggiuntive a casa se un governo straniero o una zona di libero commercio offrono sedi gratuite e infrastrutture? Perché preoccuparsi dell'immatricolazione di studenti all'estero se essi possono essere formati più profittevolmente nei loro paesi di origine? Le funzioni di ufficio e le ricerche ad alta quantità di dati saranno le prime ad essere esternalizzate. Coloro che si trovano nelle posizioni più deboli o nelle discipline più vulnerabili risentiranno maggiormente e immediatamente dell'impatto, mentre i docenti delle università d'élite saranno i meno colpiti. Le istituzioni dell'istruzione superiore hanno inoltre seguito la strada dei subappalti già sperimentata dalle industrie, con l' outsourcing del personale non accademico e con la precarizzazione dell'istruzione standardizzata, seguita dalla creazione di una classe di lavoratori temporanei con contratti a breve termine, preservando un piccolo nucleo di docenti a tempo indeterminato, cruciali per il prestigio del brand. La pressione alla riduzione dei salari e l'erosione della sicurezza del lavoro sono gli inevitabili esiti. Ma l'internazionalizzazione dell'istruzione superiore non va confusa con lo svuotamento delle economie manifatturiere, con la fuga dei grandi imprenditori verso luoghi a più basso costo, oppure con la più recente esternalizzazione dei servizi da colletti bianchi, in cui il trasferimento di conoscenza implica di caricare e scaricare le competenze e i know-how da e verso i cervelli umani in diversi angoli del pianeta. Il mondo della formazione è profondamente diverso, data la sua natura e tradizioni, il suo ruolo di servizio pubblico, la complessità di relazioni tra i vari stakeholder. Del resto, ad eccezione del fiorente settore for-profit, molte università non possono funzionare fiscalmente come un mercato tradizionale, mentre i principi di collaborazione e di condivisione che sostengono l'insegnamento, l'apprendimento e la ricerca sono, a lungo termine, irriducibili nemici della finanziarizzazione. Altro ancora si potrebbe dire della cultura organizzativa delle industrie della conoscenza. Le imprese del settore hi-tech dipendono sempre più dal sapere internazionalmente disponibile in specifici campi; collaborano reciprocamente in ricerche che sarebbero troppo costose o spazialmente dislocate per essere intraprese individualmente; dipendono, attraverso un elevato turnover, da un pool di ingegneri iperqualificati per far circolare la capacità intellettuale all'interno dell'industria. Dunque, anche la gestione dei lavoratori della conoscenza si divarica nettamente dalle tradizioni del taylorismo, per esser sempre piú modellata sulla mentalità del lavoro del mondo accademico moderno, in cui il lavoro non è confinato a un luogo fisicamente stabile o ad una temporalità classicamente scandita dalle lancette dell'orologio. È difficile oggi per i lavoratori della conoscenza dire quando stanno lavorando o meno, mentre le loro idee – cioè le scorte di magazzino del loro sostentamento industriale – sono prodotte in ogni momento della giornata. Da questa prospettiva, parlare di corporate university rischia di essere una pigra abbreviazione stenografica. La migrazione delle abitudini e delle mentalità del lavoro accademico nei campus aziendali e nell'industria della conoscenza è una parte importante nella storia dell'ascesa del capitalismo cognitivo, al pari dell'importazione della razionalità del business nel mondo universitario, ma il primo movimento è spesso occultato da una mentalità sotto assedio. Stiamo vivendo i passaggi iniziali di un modo di produzione segnato dalla convergenza dell'accademia e delle corporation della conoscenza. Entrambe stanno mutando in una nuova specie che condivide e negozia molte caratteristiche. Questi cambiamenti sono parte di un ambiente economico in cui, da un lato, un bene pubblico entra nel mercato delle idee e una carriera assicurata da stabili norme professionali si trasforma in un continuo procacciarsi contratti e assumersi i rischi imprenditoriali; dall'altro lato, le frenetiche spinte verso lucrosi brevetti e copyright sono travestite da protezione per i lavoratori creativi, mentre la continua ricerca di mercati emergenti è mascherata da scambio internazionale o processo di democratizzazione. Sarebbe troppo facile concludere che la global university ricalcherà i comportamenti delle multinazionali. La sfida sta nel cogliere le conseguenze della co-evoluzione tra imprese cognitive e istituzioni accademiche. Ciò è molto più importante se stiamo immaginando pratiche formative alternative in una civilizzazione che si basa sul lavoro mentale per arricchire la propria linfa vitale. | << | < | > | >> |Pagina 75L'Illuminismo europeo ha inventato le collettività sociali e gli individui liberali. Da allora, le popolazioni sono state comprese attraverso statistiche e l'intervento della politica – quale cura delle carenze del corpo sociale. Da lì in avanti governare ha significato combinare scienza e governo per ottimizzare l'amministrazione civica e la produttività economica. Questi sviluppi sono coincisi con le trasformazioni politiche che hanno plasmato il capitalismo industriale e finanziario. Anche la storia delle università statunitensi è caratterizzata da un'espansione della governamentalità, come ricerca intrapresa sia nell'interesse del bene comune, in quanto insegnamento all'autoregolazione delle masse, sia come espansione della mercificazione mossa dalle esigenze delle multinazionali, con studenti in misura crescente trattati come consumatori e con l'aumento dell'autorità di finanziatori, contabili e amministratori a scapito degli accademici. Entrambe le tendenze hanno acuito la gerarchizzazione. Molti autori lavorano sulla tradizione della governamentalità, considerandola incommensurabile alla critica marxista. Non ne vedo alcun motivo logico. Il progetto di «governo a distanza» neoliberale ha logiche che combaciano col programma e coi metodi di multinazionalizzazione tanto quanto la governamentalità. Le due tendenze sono presenti fin dall'emergere dell'istruzione superiore come parte della cultura pubblica negli Stati Uniti, ma il neoliberalismo ne ha ottimizzato l'influenza. Il modello statunitense d'istruzione superiore si pone l'obiettivo di dotare gli studenti di un'inclinazione liberale che rispetti la conoscenza di un argomento e per uno scopo, piuttosto che la conoscenza proveniente da una persona in particolare. Il modello ripone la sua fiducia in un discorso di specializzazione piuttosto che di carisma. Esorta le persone a credere in e scambiarsi un sapere apertamente fruibile, non una magia segreta. Il liberalismo usa anche il concetto di capitale umano – secondo cui dovrebbe esserci un reciproco investimento di tempo, denaro e formazione da parte sia della società sia del soggetto, per creare un corpo di tecnici dotati e patrioti volenterosi che vengono educati da un docile corpo insegnante – da qui l'idea dell'istruzione superiore come industria e degli studenti come investitori. A questo punto, Bruce Johnson, ex rettore della State University di New York, propone il concetto di «produttività dell'apprendimento» come primo passo verso una «maggiore assunzione di responsabilità da parte degli studenti». Come siamo arrivati a questo stato di cose? Fin dagli anni Trenta dell'Ottocento, quando le prime ondate d'immigrazione di coloni bianchi cominciarono a frequentare le lezioni, l'istruzione superiore statunitense ha generato pratiche e saperi ad uso e consumo dello Stato e del mondo degli affari, orientate ad integrare la popolazione. Fino alla metà del secolo, mentre il paese s'industrializzava rapidamente, nuovi capitani d'industria contemplarono la possibilità di fare affari con l'istruzione universitaria per sviluppare forza lavoro qualificata. Il Partito Repubblicano di Abraham Lincoln permise questa intesa tramite il tecnocratico sistema delle concessioni demaniali, che fiorì all'alba del nuovo secolo, in concomitanza con la crescente fiducia delle multinazionali nella scienza applicata: elettromagnetismo, geologia, chimica, elettricità. Fino agli anni Venti Harvard aveva la facoltà di economia e commercio, la New York University (NYU) una facoltà commerciale sponsorizzata da Macy's, Cornell la scuola alberghiera. Niente di cui meravigliarsi, allora, se Thorstein Veblen chiamava le università americane «concorrenti nel traffico dell'istruzione in vendita». Parole che, un po' antiquate nello stile, rivelano un'analisi accurata. Con le due guerre mondiali il governo federale fornì nuovi contributi per il praticantato e non a caso durante la Depressione i grandi istituti di ricerca aumentarono la loro produttività. Oggi la dipendenza finanziaria da fonti private va a braccetto con la camaleontica fallacia manageriale che muove la prospettiva aziendalista di governi e amministratori delle università. Ciò comporta un'inopportuna ingerenza non solo sull'indirizzo della ricerca e dell'insegnamento, ma anche sull'amministrazione stessa delle università, sempre più prone alle infantili superstizioni dei manager sull'«eccellenza» e sul «controllo di qualità». Le istituzioni accademiche somigliano sempre più alle entità delle quali sono al servizio. I college sono diventati grandi aziende. I principali istituti di ricerca, specialmente quelli privati, sono allo stesso tempo affittacamere, paradisi fiscali e surrogati di ricerca e sviluppo, con amministratori e raccoglitori di fondi che tessono le lodi del corpo docente. La camaleontica fallacia dirigenziale comporta inoltre crescenti forme di sorveglianza/ingerenza esterna. Gli istituti di accreditamento che verificano la qualità delle lauree americane hanno cambiato rotta a partire dagli anni Settanta, privilegiando le valutazioni dell'insegnamento basate sulle prestazioni di facoltà e dipartimenti, piuttosto che considerare gli standard dell'istituto nel suo insieme. Oggi tali metodi sono utilizzati dal 95% delle facoltà e, coerentemente con le intenzioni prevalenti dei mandarini della politica pubblica – il loro sforzo indefesso a comportarsi come servetti mancati delle multinazionali –, legano direttamente il budget ai risultati accademici. Con l'arrivo degli anni Novanta, il fascino per la doxa ha portato gli amministratori a schierarsi con il Total Quality Management. I risultati sono stati il peggioramento del rapporto professori-studenti e la crescita per dimensioni e potere degli apparati amministrativi e del controllo. Nel campo della ricerca, il concetto di interesse reciproco consente rapporti di partenariato tra Stato, college e industria. A partire dalla guerra fredda, che ha stimolato la crescita aumentando i sussidi federali e statali, è stato intrapreso un notevole sforzo per distillare priorità di ricerca su misura per governi e multinazionali. Basti considerare le scienze politiche (il progetto Camelot negli anni Sessanta); l'economia (Robert Triffin nelle vesti di rappresentante plenipotenziario per gli Stati Uniti alla Comunità Economica Europea e in seguito delegato al Fondo Monetario Internazionale); la sociologia (la difesa della violenza sessuale maschile); la psicologia (la partecipazione alla tortura durante l'ultima Guerra all'Islam). La stessa esistenza della ricerca sulla comunicazione solleva questioni di torsione ideologica. La disciplina si è formata sotto le insegne di guerra e all'ombra dell'attività clandestina dello Stato a sostegno delle multinazionali e delle fondazioni. E potremmo continuare a lungo. | << | < | > | >> |Pagina 93I mutui sono la nuova modalità di finanziamento per la maggior parte di coloro che frequentano il college. L'indebitamento studentesco è diventato il nuovo paradigma della vita dei giovani. Sono finiti i tempi in cui l'università statale era accessibile a tutti e considerata un diritto, come l'istruzione secondaria. Oggi l'istruzione superiore, come la maggior parte dei servizi sociali, è ampiamente privatizzata, e i mutui sono la più diffusa modalità di accesso. Lo scorso decennio una valanga di critiche si è abbattuta sull'aziendalizzazione dell'università, soprattutto per l'interferenza delle multinazionali sulla ricerca, il ridimensionamento del potere di amministrativi e corpo docente e la precarizzazione del lavoro accademico. Poca attenzione è stata invece rivolta all'indebitamento degli studenti, la cui media nel 2002 era di 18.900 dollari a testa, una cifra raddoppiata rispetto ai 9.000 dollari del 1992. Se a ciò si aggiunge l'indebitamento da carta di credito (3.000 dollari nel 2002, per un totale di circa 22.000 dollari), possiamo supporre che il debito medio degli studenti abbia oggi oltrepassato i 30.000 dollari, senza considerare altri prestiti privati o i debiti contratti dai genitori, o i «mutui post-laurea», più che raddoppiati in sette anni. I prestiti per gli studenti sono un'invenzione relativamente nuova. È del 1965 il programma Guaranteed Student Loan (GSL), nato come sostegno agli studenti meno abbienti e agli studenti lavoratori. Dal 1965 al 1978 il programma ha avuto un'entità modesta, con 12 miliardi di dollari (meno di un miliardo l'anno). Negli anni Novanta è invece cresciuto in modo spropositato (prima 15 e poi 20 miliardi l'anno), raggiungendo oggi i 50 miliardi l'anno, ovvero il 59% degli aiuti all'istruzione superiore forniti dal governo federale, superando tutti i sussidi e le borse di studio. Il motivo di una tale crescita è l'aumento delle tasse universitarie — dai community college alle Ivy League — in una percentuale tre volte maggiore dell'inflazione. Impossibilitati a far fronte ai pesanti rincari, studenti e famiglie sono ricorsi ai mutui: ipotecare la casa per pagare il college è diventata pratica comune. Il prezzo da pagare per il college, nonostante sia di difficile misurazione, è tra le principali cause del crescente indebitamento delle famiglie americane medie. Gli studenti un tempo dicevano «mi sto facendo strada grazie al college». Oggi è impossibile. Se negli anni Sessanta uno studente poteva lavorare a salario minimo per 15 ore a settimana nel corso dell'anno accademico e 40 in estate per pagarsi un'università pubblica, in un ateneo privato avrebbe dovuto lavorare per 20 ore a settimana durante l'anno. Oggi dovrebbe lavorare 52 ore a settimana in un'università pubblica e 136 ore la settimana in una privata. Da qui la necessità del ricorso ai mutui. Le tasse universitarie sono aumentate perché i singoli stati ricevono sempre meno fondi federali per l'istruzione. Nel 1980 ogni Stato rimborsava quasi la metà delle tasse universitarie, nel 2000 solo il 32%. Le università hanno cercato fonti alternative: «trasferimenti tecnologici», forme di «partenariato» con le imprese e campagne di raccolta fondi. Ma il modo più stabile, rinnovato ogni autunno come il raccolto, passa attraverso le tasse. Così facendo i costi sono stati trasferiti dallo Stato ai singoli studenti e ai loro genitori, stravolgendo l'idea di istruzione superiore, da compito pubblico a servizio privato. Nel dopoguerra, secondo l'idea sviluppata da James Bryant Conant, presidente di Harvard, l'università era concepita come un'istituzione meritocratica, che non provvedeva semplicemente a dare ai suoi studenti un'opportunità, ma traeva vantaggio dai migliori e dagli eccellenti per costruire l'America. In questo quadro le tasse sono rimaste basse e le porte dell'università si sono aperte a classi prima escluse. L'ho chiamata «università dello stato sociale», perchè esemplifica le politiche e l'etica dello stato sociale del dopoguerra. Oggi, invece, l'università è un servizio privato: i cittadini ne pagano una parte considerevole dei costi. Questa è l'«università del post-stato sociale», che applica le politiche e l'etica della «rivoluzione reaganiana» attraverso la «riforma Clinton», fino all'odierno smantellamento dei servizi sociali. Il principio è che i cittadini pagano i servizi pubblici, che a loro volta vengono privatizzati. Il ruolo dello Stato diventa quello di oliare le ruote del mercato sovvenzionando i cittadini affinché vi partecipino e le imprese affinché provvedano ai servizi sociali. I mutui seguono la logica del post-Stato sociale perché riconfigurano il finanziamento degli studi universitari non come diritto ma come un'auto-sovvenzione: dunque, come un servizio privatizzato, amministrato da mega-banche come Citibank, o da istituti federali di credito no profit come Sallie Mae e Nellie Mae. Lo Stato incoraggia la partecipazione al mercato dell'istruzione superiore finanziando gli interessi, come nel caso di un prestito per l'avvio di un'impresa. Per íl resto, bisogna cavarsela da soli. Si tratta di un capovolgimento dell'idea di istruzione superiore, da bene sociale a bene individuale. Nel dopoguerra l'istruzione superiore era concepita come impegno nazionale. In parte era il retaggio dell'etica di guerra, in parte l'eredità del New Deal, in parte una risposta alla guerra fredda. Adottava un socialismo modificato, una varietà più debole di comunismo, come un vaccino per rimanerne immune. L'orizzonte era il valore dell'individuo, ma il bene comune rappresentava lo scopo unificante: produrre ingegneri, scienziati e umanisti per far crescere il paese. Oggi l'istruzione superiore è quasi totalmente un bene individuale, per ottenere un lavoro e una paga migliori. Chi frequenta l'università è un individuo atomizzato che fa una scelta personale nel mercato dell'istruzione per ottimizzare il suo potenziale economico. È un modello fondato su una concezione della società non come cooperazione sociale, ma come mercato concorrenziale che definisce bene comune ciò che apre un mercato redditizio. I prestiti sono un investimento personale sul potenziale di mercato di una persona piuttosto che un investimento pubblico sul suo potenziale sociale. Come negli affari, ogni individuo è depositario di capitale umano, e l'istruzione superiore produce plusvalore. | << | < | > | >> |Pagina 153Come ipotesi, suggerisco innanzitutto di osservare l'università attraverso le sue tensioni e contraddizioni. Come molti contributi della discussione proposta da edu-factory hanno già evidenziato, queste contraddizioni possono permettere di analizzare l'università sia come un sito di produzione del comune e di circolazione del sapere, sia come un luogo di ristrutturazione neoliberale. In secondo luogo, penso che queste tensioni possano essere produttivamente interrogate non in quanto tensioni tra principi diversi, ad esempio la ricerca della conoscenza in alternativa alla formazione per un futuro impiego, bensì come pratiche differenti, che in ultima analisi producono differenti modi di vivere e di pensare. In altri termini, differenti formazioni di soggettività. Per illustrare ciò che intendo quando parlo di connessione tra pratiche e soggettività, partiamo dall'immagine dello studente come ribelle, contestualizzandola nelle pratiche della vita del college. Se per decenni la figura dello studente era sinonimo di ribellione sociale e di critica spietata dell'esistente, ciò aveva più a che fare con una particolare pratica, una peculiare esperienza di vita, che non con le teorie insegnate all'università. Le università sradicavano gli studenti dalle loro case e dal proprio ordine famigliare, per collocarli in un contesto che è una via di mezzo tra comunismo (le forme di vita collettive, dal mangiare al dormire) e anarchia, cioè la necessità di creare un ordine sociale dal nulla, fosse anche semplicemente l'ordine sociale tra due compagni di stanza. In cima a tutto ciò vi è la questione del tempo, libero dal lavoro e da altre costrizioni; tempo da passare in gruppi e attività sociali. C'è qualcosa di radicale nella vita dello studente, indipendentemente dalle aule, nel modo in cui produce nuove esperienze ed esperimenti di vita. O almeno c'era, come vedremo meglio in seguito. Inoltre, possiamo aggiungere a questa liminale esperienza del college il fatto che la vita di uno studente costituisce un'immersione in una particolare forma di produzione del comune intellettuale. I commons assumono molteplici forme, dalle biblioteche spesso zeppe di libri inutilizzati, alle più appariscenti e visibili forme di commons dell'informazione e di accesso a internet ad alta velocità, che è diventato uno dei maggiori vantaggi della vita del college. Ciò che connette le differenti pratiche e forme di commons è il fatto che, in ognuno di questi casi, il comune o l'uso collettivo o l'appropriazione del sapere è visto come la condizione necessaria per qualsiasi produzione o utilizzo individuale. La produzione intellettuale, la scrittura di un saggio o fare un esperimento richiede l'attività collettiva e condivisa degli altri. Così, una parte della vita dello studente è una vera e propria formazione non solo alla produzione del comune, a quello scambio libero e collettivo del sapere che è alla base di ogni scoperta, ma alla sperimentazione e alla trasformazione sociale. Questa parte è duramente contrastata dalla strutturazione neoliberale dell'università, ossia da una ristrutturazione che riguarda, prima ancora delle sue politiche, un insieme di pratiche, forme di vita e soggettività. Il taglio ai fondi delle università pubbliche e l'aumento delle tasse ha effetti non solo nella trasformazione del sistema formativo in un bene privato, ma innanzitutto nel cambiamento del modo in cui la formazione è vissuta e nell'esperienza che ne viene fatta. Gli studenti delle università pubbliche fanno molti lavori, dentro e fuori dal campus, spesso costretti a restare a vivere a casa. In questo modo è stato sradicato il momento liminale dell'università, che rende anomala la posizione soggettiva dello studente del college, cioè né bambino né adulto. La vita del college è così catturata nella doppia morsa dell'essere bambini e adulti. Lo scarto tra questi due spazi si è chiuso: ora bisogna allo stesso tempo rispondere ai genitori e ai futuri datori di lavoro. Ciò che osserviamo nell'università è una produzione neoliberale di soggettività, che va intesa come una risposta alla produzione liminale e collettiva di soggettività. Come sostiene Michel Foucault in Nascita della biopolitica, uno degli aspetti centrali della teoria e della pratica neoliberale è la riconfigurazione degli esseri umani in quanto «capitale umano». Tutto ciò che forma l'individuo (l'intelligenza, l'apparenza, l'educazione, il matrimonio o il territorio) costituisce un investimento di tempo o energia che rende possibili futuri guadagni. Come scrive Foucault, l' homo cecomomicus è un imprenditore di sé stesso. Tanto più l'università è un'esperienza attraversata dalla produzione del comune, dall'uso collettivo e dalla condivisione dei saperi, quanto più è interpretata – specialmente da coloro che la frequentano – come un investimento nel loro capitale umano. Ogni classe, ogni attività extracurricolare, sociale o di gruppo, diventa un possibile curriculum e un investimento in capitale umano. La domanda posta dagli studenti in ogni college o università è: «Come ciò mi aiuterà a trovare un lavoro?». Questa interpretazione dell'esperienza universitaria non è esattamente un prodotto della corrente ideologia neoliberale, ma piuttosto è attivamente prodotta dalla diffusa sensazione di insicurezza e paura che accompagna i tagli ai finanziamenti all'università. I sostenitori delle «guerre culturali» hanno ragione nel vedere l'università come una battaglia sui cuori e sulle menti, ma hanno torto nel situare questa battaglia. Non è tanto un questione di contenuto, di Smith contro Marx oppure il canone occidentale contrapposto a molti altri; riguarda invece la forma del sapere stesso. È il sapere un bene sociale, comune, che deve circolare per poter produrre degli effetti? O è una merce, qualcosa che può essere acquistato, un investimento che ha valore solo in quanto proprietà? Queste interpretazioni alternative del valore del sapere costituiscono dei conflitti che si incarnano nelle pratiche dell'università e nella sua struttura. Hanno la potenza per estendersi oltre le torri d'avorio dell'università, per eccederle e divenire due interpretazioni radicalmente differenti di organizzazione sociale: una basata sulla merce, sulla proprietà privata della conoscenza, delle risorse e dei diritti, l'altra sulla produzione del comune. (Su questo aspetto consiglio la lettura del testo di Nick Dyer-Witheford, The Circulation of the Common, all'indirizzo www.geocities.com/immateriallabour/withefordpaper2006.html ). Perciò la questione politica dirimente è: come sviluppare i commons contro la loro riduzione neoliberale alla proprietà e agli investimenti? Come soggettivare i commons, per renderli una forma di vita? | << | < | > | >> |Pagina 169La conoscenza contro la società Quello trascorso è stato un secolo di produzione di conoscenza, così come di violenza senza precedenti. La conoscenza che produciamo viene, alla fine, rivolta contro chi la produce e contro la società nel suo complesso. Se ciò era vero anche per l'università moderna, la società della conoscenza sembra essere concepita proprio per questo, appropriandosi del sapere e mettendolo al servizio del capitale globale e della sua violenza. In epoca moderna l'università era luogo privilegiato della produzione di saperi, incaricata di condurre la società dalle tenebre dell'ignoranza alla luce, da un regime di scarsità a una condizione di abbondanza. La conoscenza prodotta diventava serva del profitto e della dominazione. In quanto unica autorità riconosciuta nella produzione di saperi, l'università era complice nel processo di soppressione della conoscenza sociale. L'università offriva uno spazio di ricerca pura, di conoscenza per amore della conoscenza, senza interferenze da parte del potere, e difendeva a denti stretti questo suo privilegio. Oggi lo sta perdendo. Nel XX secolo è stata attraversata da profonde trasformazioni. Ancora oggi si assiste ad un'enorme espansione delle università, milioni di persone vi hanno ora accesso, ma i suoi protocolli di produzione della conoscenza sono stati messi in discussione da molteplici punti di vista. Donne, neri, ex colonizzati, lavoratori, ribelli hanno sfidato il sistema di istruzione superiore in tutto il mondo. I processi di democratizzazione della conoscenza sono stati accompagnati da un movimento parallelo di militarizzazione e industrializzazione della conoscenza introdotto dal Progetto Manhattan. Questi due processi hanno raggiunto il culmine negli anni Sessanta, con le rivolte studentesche nei campus di tutto il mondo.
Oggi l'ordine mondiale si sta reinventando. Nell'era dell'informazione, non
ci sarà un settore privilegiato di produttori di conoscenza a
cui sarà permesso di avere uno spazio autonomo, un rifugio sicuro per
esplorare e inventare. La conoscenza è imbrigliata e soggetta a regimi
di misurazione cognitiva, gestione del sapere e recinzione informazionale.
Le gerarchie del sapere e del lavoro Lo sfruttamento del lavoro era il tratto distintivo della società industriale. Oggi lo sfruttamento del sapere si somma allo sfruttamento del lavoro, gettando le fondamenta di un nuovo sistema capitalistico. Inseguono saperi prodotti in differenti siti — dall'università a internet, dalle religioni alla vita quotidiana — per catturarli e sfruttarli nella costruzione della «società della conoscenza». Le tecnologie della virtualità giocano un ruolo centrale. Il sapere vivo e il suo sfruttamento sono ingredienti essenziali per i nuovi sistemi produttivi, diversamente dai precedenti che dipendevano dalla conoscenza incorporata nelle macchine e nelle operazioni seriali. Questi sviluppi aprono la strada per l'autoconsapevolezza dei lavoratori in quanto portatori e produttori di conoscenza. Non c'è contraddizione tra sapere e lavoro, né esiste un abisso tra «corpi che conoscono» e «corpi che lavorano». Queste contraddizioni nascono dalla divisione tra lavoro fisico e mentale, relitto della civiltà industriale. È giunto íl momento di portare in primo piano l'interpretazione dell'essere umano come essere epistemico. La categoria del lavoro, per come è stata concepita nel vecchio sistema capitalistico e utilizzata perfino nelle ideologie socialista e comunista, implica l'esistenza di una gerarchia nella società — lavoro intellettuale, lavoro industriale, lavoro delle donne, lavoro artigiano, lavoro agricolo, lavoro primitivo, gli oziosi e così via. Questa gerarchia ricalca implicitamente la gerarchia tra i vari tipi di saperi nella società: quelli universitari, la scienza moderna e la tecnologia occupavano lo spazio della conoscenza, mentre i saperi delle donne, dei contadini, degli artigiani e tribali erano considerati un prodotto delle abitudini oppure dettati dal caso, se non frutto della pura superstizione. Noi rifiutiamo questa interpretazione e la gerarchia che ne deriva. Anche nell'era moderna i saperi nella società indiana che chiamiamo lokvidya hanno giocato un ruolo importante per la sopravvivenza di quelle persone, le cui genealogie del sapere costituiscono la lokvidya stessa.
Se eliminassimo la gerarchia tra i diversi luoghi di produzione dei
saperi nella società, prepareremmo il terreno per solidarietà non gerarchiche
attraverso i confini. Inoltre, il riconoscimento epistemico della
lokvidya
apre un grande spazio vasto per l'attività autonoma del sapere vivo. Ciò crea le
condizioni per vedere i propri saperi come fonte di
forza e non soltanto in quanto mezzi di sopravvivenza. Diversamente
dalla società industriale, la società della conoscenza riconosce la
lokvidya,
ma soltanto per trarne benefici economici. In altre parole, la società della
conoscenza è costruita sull'integrazione di ogni sapere attraverso lo
sfruttamento economico.
L'Università Autonoma Globale La proposta del collettivo edu-factory di costruire una Autonomous Global University (d'ora in avanti AGU) è coraggiosa. Ha la potenzialità di progettare una prospettiva di trasformazione nella società della conoscenza. La supportiamo. Dire che AGU è autonoma significa dire che è libera da interferenze del sistema politico, da pressioni economiche e da esigenze militari. E per questo è necessario che essa abbia una sua forte connotazione politica. Nel contesto della conoscenza e nell'era dell'aziendalizzazione, l'autonomia significa innanzitutto regolazione delle attività di conoscenza attraverso norme epistemiche derivanti dalla produzione di sapere al di fuori del mercato. Questa si collega ai saperi che circolano nella società: la lokvidya e le espressioni culturali, politiche e di altro tipo intenzionalmente autonome. AGU non è solamente un altro sito di produzione dei saperi. È un luogo di cooperazione tra produttori di saperi e di non-cooperazione con il regime globale della conoscenza. È un'università in quanto la sua attività più importante è quella del sapere vivo. Possiamo forse pensare ad essa come ad una combinazione di reti e organizzazioni. Per necessità, opererà soprattutto attraverso il mondo virtuale, ma è composta di forme di resistenza e organizzazione negli spazi globali.
AGU valorizza il sapere come strumento di ricostruzione della
società e dei singoli, come mezzo di liberazione. Costituisce una prefigurazione
sociale che non è una semplice variante del capitalismo globale. Attraverso le
sue attività crea i lessici delle trasformazioni globali. AGU analizza perché la
conoscenza da noi prodotta ci viene rivoltata contro. Cerca di costruire
solidarietà attraverso i confini dell'università e al suo interno, solidarietà
di tutti i portatori e produttori di sapere. Non è un bastione di creatività e
produzione. È un luogo di dibattito, solidarietà e organizzazione. Cerca infatti
di organizzare quella parte di produttori di sapere relativamente forte che si
trova nell'università per sfidare le strutture globali dello sfruttamento e
della violenza. Illustra i modi e i mezzi attraverso cui la conoscenza diventa
uno strumento di profitto e un'arma contro la società, per liberare il sapere
dalla sua condizione.
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