Copertina
Autore Marco Rossari
Titolo Perso l'amore
Sottotitolo(non resta che bere)
EdizioneFernandel, Ravenna, 2003 , pag. 160, dim. 140x200x13 mm , Isbn 978-88-87433-34-0
LettoreRiccardo Terzi, 2003
Classe narrativa italiana
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Indice

Non resta che bere        5

Non resta che morire     61

Non resta che vivere    127

 

 

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Pagina 5

PARTE PRIMA
Non resta che bere



Perso l'amore, non resta che bere.


L'endecasillabo perfetto.

Un poeta solo con un solo verso.

E io di versi ne ho scritti così pochi... Però ne ho emessi a volontà!

Uooh! Uooh! Uooh!

Versi. Conati. Sbocchi. Rigurgiti. Spurghi. Macché, nemmeno riesco a vomitare.

Le cose non vanno per il verso giusto. Per certi versi. Per un verso o per l'altro. Mi faccio il verso.

Verso? Verso cosa? lo non sto andando da nessuna parte.


Sono qua. Sdraiato su una dura fredda panchina dell'aeroporto di Stansted, fisso il soffitto bianco e cerco di dormire. Penso all'infanzia, alla serenità, ai bambini che riposano cullati dalla mamma e dal carillon, al silenzio, al vento, a un deltaplano, ai prati verdi, al sonno, alla domenica pomeriggio, alle camere vuote, alle città deserte, alla nevrosi per cui sei mesi fa stavo a letto fino alle sette della sera, penso a prendere il sole in riva al mare, percependo solo voci senza volto, penso al mio corpo come a quello di un animale che dorme, il calore, il respiro, la bava stanca, non ce la faccio, un gatto sul calorifero, un cane sul tappeto, un bisonte su una rupe, aiuto!, penso alle pecorelle che saltano una staccionata, poverelle, tutte rosa e bianche, penso a mia nonna in una bara, allo spazio immenso, alla fine del tempo, niente da fare, penso a dimenticare chi sono, a dormire sotto i ponti, ad avere solo il mio corpo per poi buttarlo nel buio del sogno, niente, ho il respiro affannato, io voglio dormire, lo ripeto a mente come un mantra, come una litania, iovogliodormireiovogliodormireiovogliodormire, lo zen e l'arte di dormire, il libro ideale da leggere a letto, un vero sonnifero, mi convinco di avere preso un sonnifero, ma certo, nel bagno dell'aeroporto, dieci gocce in un bicchiere, dieci gocce pulite trasparenti efficaci in un bicchiere, poco fa, e poi il bicchiere bevuto d'un fiato, le dieci gocce che fanno effetto sui miei sensi, e io che perdo le forze, la palpebra scende, la mano è debole, il pensiero vaga, si perde, già sogno, no!, niente da fare, comincio con i conti alla rovescia, ogni respiro un numero, ogni numero un gradino verso il sonno, parto da cinquanta, cinquanta, quarantanove, quarantotto, quarantasette, forse cinquanta è troppo, facciamo trenta, ecco, trenta, ventinove, ventotto, ventisette, mi distraggo, non ce la faccio, sono troppo stanco, allora prego, ma certo, padre nostro che sei nei cieli, iovogliodormireiovogliodormireiovogliodormire, un'altra litania, radici cattoliche, campane di paese che suonano a distesa, domenica mattina, la provincia dove è nata mia madre, la foto di una barca sul Po in quella mostra a Palazzo Reale, l'Italia innocente del boom, forse neanche tanto innocente, la passeggiata spensierata tra i tavolini del bar centrale, tramezzini deliziosi, mio nonno, ci sono quasi, no!, non dovevo dirlo, non dovevo pensarlo, non è come disinnescare una bomba, qua bisogna solo volare, è come un'erezione, devi lasciarti andare, non parliamo d'erezione, per carità, ave maria piena di grazia, io voglio solo dormire, non chiedo miracoli, niente resurrezioni, io voglio sprofondare, dimenticare, altro che Lazzaro, l'aeroporto deve sparire, io devo sparire, tutto deve sparire. Ma niente, e poi perché mai Dio dovrebbe darmi retta dopo tutti questi anni? Più facile che mi parli Pietro, qua seduto di fianco a me, e invece di aiutarmi a dormire, invece di soffocarmi con un cuscino, spremendomi la testa e ignorando le mani che sventolano e le gambe che scalciano, mi chieda che cosa è successo ieri sera con la ragazza australiana che ho rimorchiato in quel locale a tre piani, chi si ricorda come si chiamava, il locale e anche lei, certo, e io invece di dirgli: Ehi vecchio mio dovevi vedermi, dovevi davvero esserci perché ho cominciato bene, un approccio molto naturale, una battuta simpatica, un po' audace ma non troppo e lei ha riso e io ho pensato: ecco, abbiamo messo il primo mattone: ha riso: ho già vinto io. Stasera me la scopo. Ci siamo appoggiati al bancone e abbiamo cominciato a parlare: come ti chiami cosa fai chi sei. Ridevamo e bevevamo: le piacevo: glielo leggevo negli occhi. Non si scappa. Stasera me la scopo. A Pietro, adesso, direi: Come si sta bene, eh? Come si sta bene vecchio mio quando senti di aver preso il cavallo giusto, e niente, dico niente può impedirti di ficcare due metri di lingua nella bocca di una ragazza che desidera solo quello, e ha uno sguardo lascivo che dice It's up lo you, infatti dopo due minuti ci stavamo baciando con quanta avidità mamma mia queste australiane, ragazzotte perbene che lavorano duro come dicono loro («We work really hard, that's why they all want us») e girano l'Europa e l'Asia per mesi e mesi, cercando di colmare lacune culturali e orifizi d'ogni genere, quanta irruenza e quanta lingua.

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Pagina 34

Mi lavo. Mi vesto. Eseguo con mani tremanti il rito della mattina dei bravi ragazzi. Preparo la colazione. Una bella tazza di latte caldo. Il latte fa bene. Qualche biscotto. Trovo un paio di arance. Una spremuta. Metto il fuoco al minimo e prima che il latte strabordi scendo a comprare il giornale. Milano è grigia e umida. A Milano si lavora. Io devo studiare, devo finire la mia lurida università, trovare un lavoro, un'altra ragazza, sposarmi, fare un figlio, poi un altro. Smetterla di bere, di fumare, di fare tardi, di perdermi dietro idee che non portano da nessuna parte. L'arte, la letteratura, il cinema. La poesia. Non in generale. Intendo proprio quella che dovevo scriverle. La poesia. E ora lei non c'è più. Cammino debole e pallido, ma nessuno sa il perché. Tutte queste persone che corrono, vanno a lavorare e non sanno che a un passo da loro c'è un disperato. Anzi, non gliene frega un cazzo. Quanti saranno gli altri che come me stanno male? Decine? Centinaia? Migliaia, addirittura? Se Milano e dintorni consta di dieci milioni d'abitanti è possibile. Dovrebbero fare un punto di raccolta. Un ambulatorio dei cuori infranti. Nella sala d'attesa cartelli tipo: Broken hearts are for assholes (una bella strigliata da Frank Zappa) oppure I'm so lonesome I could cry (un incoraggiamento da Hank Williams). Tutti chiusi in una stanza verde, seduti in cerchio, a raccontare la propria esperienza. Tipo manicomio o alcolisti anonimi. Vestiti di bianco. Intimiditi dalle autorità e intontiti dai farmaci.

Nel mezzo un'infermiera irritata e frigida come la Mrs Rached di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Quella stronza che osteggia il prode Jack Nicholson, il nostro idolo, il delinquente che è in noi, fino a farlo lobotomizzare.

«Salutate Mr Marco, il nuovo arrivo».

(In coro) «Buongiorno, Mr Marco!»

«Mr Marco, ci vuole dire come è andata a lei?»

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Pagina 43

Torno a casa. Lo tiro fuori e vedo che la macchiolina è diventata rosa. Forse avevano ragione i ragazzi. Era solo lo strofinamento. Forse sono sano: ci penserò più tardi.

Più tardi.

Ma sì.

E ora?

Ora sì che bisogna fare qualcosa.

Più tardi.

Ora devo uscire.

L'unica cosa che devo fare è uscire.

La prima e l'ultima cosa che devo fare è uscire.

Perso l'amore, non resta che bere.

L'endecasillabo perfetto.

A noi due.

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Pagina 51

Le telefonate mi perseguitano. Tutti stanno male. Nemmeno fossi Cristo risorto, mi cercano tutti. E io non so dire di no, perché anch'io non sto bene, e a volte da solo, a casa, mi trastullo con l'idea di smetterla con la vita di questi mesi, anche solo per una settimana. Penso di potercela fare, di prendere una pausa da queste anime in pena, per pensare a tutto quel che è stato. A volte ho davvero voglia di tirare il freno. Scendere. Respirare.

Invece no.

Alla fine esco, perché un po' si ride e un po' si rimanda tutto al giorno dopo, che è lontanissimo. Lontano quanto una notte di sbronze, dove il tempo si dilata all'infinito sotto le luci soffuse di un locale, nei riflessi scarlatti o ocra del bicchiere, nel mormorio degli avventori, nello specchio dietro al bancone che riflette sagome sfocate, nelle grida dei lunatici sbronzi, nel fumo delle ultime sigarette, nei vecchi senza più denti e capelli e vita che ti siedono accanto, nei brindisi sghembi e nei sorrisi forzati, nei borbottii di una canna fumata al freddo, nelle camminate per una città divorata dal gelo, in un'ora abbandonata come l'alba, mentre rincasiamo con i geloni e vediamo accendersi le prime luci, tanto calde da commuoverci, al pensiero del tepore di una famiglia, un bacio sul collo, un colpo di tosse e un caffè.

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Pagina 64

«Un infarto?» ha detto con un filo di voce. E poi: «Come. Non capisco».

Un padre, un genitore, ha paura di mille cose: gli incidenti di macchina, la droga, le amicizie pericolose, la delinquenza, l'anoressia, la bulimia, la depressione, il suicidio, l'assenza di motivazioni, la ribellione, la mancanza di rispetto, la disoccupazione, il ripudio della famiglia, le nevrosi, gli abusi, l'incertezza sessuale, la devianza, il suicidio, anche l'omicidio. Ma l'infarto! Lo so cosa vorrebbe dire mio padre: «Ascolta, c'è stato un equivoco! Sono io che vado a giocare a tennis due volte alla settimana per non schiattare prima degli ottanta! Sono io che non fumo da trent'anni per agevolare la circolazione! Sono io che bevo con moderazione per non affaticare le coronarie! Sono io che controllo ogni anno il colesterolo! Che cazzo c'entri tu! Tanto vale che mi metta un giubbotto di pelle, dei jeans sdruciti, un bandana in testa e vada in discoteca a calarmi rischiando la vita alle tre di notte sulla tangenziale!»

«Papà, quello è Fonzie. Io non vado in giro vestito così».

«Dicevo per dire. Il concetto è chiaro».

Ma mio padre non è incazzato: solo non sa cosa pensare. Mi guarda.

Secoli di generazioni assennate buttate nel cesso, vorrebbe forse dire.

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