Copertina
Autore Guido Rossi
Titolo Il mercato d'azzardo
EdizioneAdelphi, Milano, 2008, Saggi 56 , pag. 114, cop.fle., dim. 14x22x1 cm , Isbn 978-88-459-2241-1
LettoreRiccardo Terzi, 2008
Classe economia finanziaria
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Indice


Introduzione                                        11

I.   Il potere politico delle società per azioni    17

II.  I pregiudizi societari                         35

III. La dissociazione della proprietà               47
     dalla proprietà

IV.  Il caso del «controllo di minoranza»           55

V.   I mercati del capitalismo finanziario          69

VI.  Il futuro del capitalismo finanziario          85

Note                                               103



 

 

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Pagina 13

La «mano invisibile» riportata in auge da molti economisti delle ultime generazioni (e che il suo padre putativo, Adam Smith, non riconoscerebbe più) ha provocato tante e tali crisi da costringere i legislatori, o le autorità da loro delegate, ad assumere il ruolo di curatori fallimentari. La centralità di un mercato totalmente deregolato come unica fonte non solo del benessere sociale, ma anche del diritto, come motore della politica, insomma come unica alternativa liberale, democratica e moderna (non metto virgolette solo per non colmare la misura) a modelli immancabilmente bollati come ideologici, antistorici e dirigistici è un pregiudizio ormai talmente radicato da non venire più nemmeno riconosciuto come tale.

Nessuno contesta quanto si sente ripetere ogni giorno più volte al dì, cioè che lo sviluppo economico può essere garantito solo dalla libera concorrenza, e che i modelli alternativi hanno dato risultati pessimi, per non dire catastrofici. Ma bisognerebbe contestualmente introiettare una seconda verità, che però nessuno ricorda mai: nella storia del capitalismo la libera concorrenza è stata garantita non dal libero mercato, ma dalle leggi antitrust. Lo sapeva molto bene un maestro del liberalismo economico, molto citato ma evidentemente non altrettanto letto, Friedrich von Hayek: «Non vi può essere alcuna legge, nel senso di regola universale di condotta, che non determini confini di aree d'azione, stabilendo regole che permettono a ciascuno di accertare fin dove egli è libero di agire»! Non è dunque chiaro perché si debbano impedire le intese e gli abusi di posizioni dominanti a danno dei consumatori, e consentire quelli dei controlli di minoranza nelle società per azioni a danno degli investitori.

Questo saggio vuole insomma essere prima di tutto un'apologia del diritto, non fosse altro perché, come spero di aver dimostrato nell'ultimo capitolo, solo il diritto può rispondere alle domande che la globalizzazione e le crisi del capitalismo finanziario pongono con una certa insistenza.


Mi sono chiesto a lungo se parlare di «capitalismo finanziario» nel modo in cui ne parlo in queste pagine, cioè come di uno sviluppo del capitalismo classico, abbia veramente un senso. Alla fine ho deciso di sì. Il termine «capitalismo» ha senz'altro molti difetti, e come sapeva già Braudel ha goduto di una fortuna eccessiva. Ma se esiste, concludeva lo stesso Braudel, vuol dire che serve. E in effetti serve, oltre a dimostrarsi più vitale e resistente del previsto. Fino a pochi anni fa, nessuno pensava che si sarebbe potuto applicare a una realtà come quella della Cina postcomunista. Oggi lo fanno tutti, senza porsi problemi.

In Occidente l'assetto capitalistico classico non esiste forse più: ma ciò che lo ha sostituito, e ne ha preso il nome, continua a identificarsi con ogni tipo di organizzazione e di struttura le nostre società si diano. Quello che facciamo tutti quanti, temo, è chiamare «capitalismo» ogni forma di mercato. Può essere una scelta vincente, sul piano pratico, ma questo non significa necessariamente passare sotto silenzio i paradossi che ne derivano.

Smantellare gli abiti linguistici più infondati è sempre salutare, ma in questo caso potrebbe addirittura essere necessario. Oltre a infinite contraddizioni, il mercato – qualunque cosa il termine, a sua volta, debba ormai significare – genera infatti, secondo alcuni, possibilità nuove, che sarebbe imprudente trascurare. La più interessante è che in un futuro prossimo la produzione di ricchezza, da sempre considerata come la finalità ultima del capitalismo, possa essere raggiunta senza i mercati. Lo sostiene in uno studio recentissimo Yochai Benkler, secondo il quale una vasta porzione della ricchezza che circola nelle nostre società trae origine da motivazioni che nulla hanno a che fare con, né sono dirette a, operazioni di mercato, né risultano organizzate dal diritto di proprietà o dei contratti, né sono intese a creare imprese o scambi mercantili. Il riferimento di Benkler è alla rete, ormai capillare, del volontariato e più in generale delle attività no profit. La cosiddetta social production non solo si pone al di fuori del mercato, ma si regge su un elemento che, per qualsiasi forma di mercato, è un puro controsenso: l'eccesso dell'offerta rispetto alla domanda. Gli esempi possibili sono innumerevoli, specie nel settore della cultura e dell'informazione stampata e soprattutto digitale, dove la partecipazione altruistica contribuisce in misura molto larga alla produzione, riducendo decisamente i costi di transazione necessari all'attività d'impresa. È un mondo nuovo, dove le regole mancano, ma non in conseguenza di una teoria. In alcuni casi, come quello del diritto d'autore, la tecnologia gioca troppo d'anticipo sulla sua possibile regolamentazione; in altri molto più controversi, come quello dei brevetti o dei prodotti farmaceutici, esiste la possibilità di smantellare un edificio legislativo antico, e una fonte di gravi diseguaglianze. I problemi sono tutti aperti, e non verranno direttamente discussi qui. Ma era doveroso richiamarli ancora una volta.

In conclusione, è probabile che nella società dell'informazione la ricchezza venga prodotta in misura maggiore al di fuori dei mercati: ma i mercati continueranno comunque a garantirne la quota più rilevante. Di conseguenza, norme che li disciplinano, basate sul diritto di proprietà, dei contratti e dell'impresa, continueranno ad avere il ruolo essenziale di sempre. Per questo i mercati devono tornare a essere il luogo della trasparenza e della tutela di tutti, e non quello dell'opacità e del sopruso generalizzato.

Il problema è che stanno diventando proprio questo. Temo che, nelle condizioni attuali, sia inevitabile. Molto prima di me del resto lo presagiva J.M. Keynes, al quale ho rubato il titolo, e spero in piccola parte anche lo spirito, di questo lavoro: «Quando l'accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose vadano male. Per questo si ritiene che i casinò dovrebbero essere, nel pubblico interesse, inaccessibili e costosi. È lo stesso vale forse per le borse».

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Pagina 20

Come molti esseri viventi, nel passaggio all'età adulta le società per azioni danno segno di una qualche insofferenza nei confronti di chi le ha generate. Dopo avere diligentemente assolto, per decenni, il compito loro assegnato – garantire la solidità dell'espansione coloniale, contribuire allo sviluppo di alcuni paesi, assicurare il costante sottosviluppo di altri –, nell'ultima fase mostrano una preoccupante tendenza a sostituire la legge dello Stato col contratto e la legge del mercato col mercato della legge. Sembrano il re protagonista della favola di Piero Calamandrei quando apostrofa, nientemeno, il mago Merlino: «Ricordati, vecchio, che la verità è sulla mia bocca, e che il diritto è quale lo vedono gli occhi del re, anche se il re vede tutto a rovescio!».

La storia della società per azioni è la storia dell'incessante rincorsa tra legislatore e corporation per disciplinare i conflitti di interesse che muovono (e distorcono) il capitalismo. Questa rincorsa si giustifica in alcuni casi appellandosi ai canoni, mutevoli nel tempo e nello spazio, dell'equità, in altri a quelli, solo apparentemente meno mutevoli, dell'efficienza: ma descrive sempre e comunque un percorso circolare tra norme imperative e norme derogabili. Al tempo stesso, racconta l'avvicendarsi di leggi sempre nuove – sull'antitrust e i mercati dell'investimento sulla tutela della sicurezza sul lavoro, sulla protezione dei creditori nelle procedure concorsuali, sulla difesa dell'ambiente, sulla lotta alla corruzione e al riciclaggio — che, pur riguardando solo indirettamente il diritto societario, incidono a fondo sulla struttura stessa della società per azioni, finendo per condizionare l'attività e la gestione dell'impresa. Per questa ragione, per evitare cioè che le società per azioni di grandi dimensioni finiscano col subire passivamente regole sempre più numerose e frammentarie, che ne facilitino la strumentalizzazione a fini illeciti, l'ambito e la definizione del diritto societario vanno ampliati fino a comprendere in un quadro coerente fattispecie finora ritenute, appunto, non pertinenti.

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Pagina 69

V
I MERCATI DEL CAPITALISMO FINANZIARIO



                                Oggi si conosce il prezzo di ogni cosa
                                e il valore di nessuna.

                                OSCAR WILDE, Il ritratto di Dorian Gray



La proprietà e il controllo societario hanno perso la loro identità, e si possono come abbiamo visto «decostruire» con una certa disinvoltura. È un dato nuovo, che ha conseguenze ramificate, in parte ancora da decifrare. E che crea, sui mercati finanziari, una situazione senza precedenti. Al momento se ne intravedono solo i contorni, sui quali è comunque il caso di spendere qualche parola.

Com'è noto, gli economisti tendono ad affidare al mercato, e unicamente al mercato, la valutazione in tempo reale delle imprese quotate. Sembrerebbe un assunto elegante, chiaro e inoppugnabile, non fosse contraddetto da uno dei cardini del mercato stesso, la libertà contrattuale.

Per il massimo teorico del contrattualismo, Ronald Coase, la libertà costituisce il vero limite del mercato. La libertà della definizione degli statuti, quella con cui si costituiscono organismi di corporate governance, e soprattutto la libertà nella creazione di strumenti finanziari sono malattie tanto più pericolose quanto più asintomatiche, o peggio, mascherate da soluzioni terapeutiche. Per rimanere alla cronaca, anziché una panacea universale la libertà di circolazione di strumenti finanziari quali i junk bonds o i mutui sub-prime ha provocato più volte, negli ultimi anni o addirittura mesi, la caduta delle quotazioni su tutti i mercati, anche su quelli dei paesi in cui i titoli non vengono direttamente trattati. Il punto è che i mercati sono ormai condizionati da meccanismi macroeconomici per definizione sovranazionali, e il loro ruolo appare destinato a diventare sempre più marginale. Inoltre, la loro debolezza intrinseca è stata messa più volte a nudo nelle gravi – anche se ancora dominabili – crisi dei titoli sub-prime e degli hedge funds, tutte risolte tramite il ricorso non a energie interne, ma all'intervento monetario delle banche centrali. Una prova indiretta, ma incontrovertibile, del loro essere ormai mercati della liquidità, non più dell'investimento.

Il rapporto fra prezzi e valori, il continuo, vacuo richiamo ai cosiddetti «fondamentali» sono la spia eloquente di un disagio globale. Di fatto, allo stato attuale il mercato finanziario del nuovo capitalismo è interamente nelle mani degli speculatori, mentre chi produce è costretto a recitare un ruolo da comparsa. La straordinaria liquidità degli hedge funds, dei fondi di private equity, le obbligazioni strutturate delle grandi banche, insomma l'intera panoplia di prodotti sempre più sofisticati e sempre meno comprensibili nei quali tutti i giorni ci viene chiesto di investire il nostro denaro è la stessa che tiene in scacco, da sola, anche le imprese più robuste e consolidate, esponendole ad acquisizioni e scissioni, o quantomeno a pesanti condizionamenti di ogni genere.

L'espressione «mercato finanziario» usata in queste pagine è in realtà un detrito linguistico ereditato da epoche che appaiono ormai remote. E che ha assunto accezioni multiple. Accanto al sostantivo «mercato» compare infatti ormai immancabilmente una qualche forma di specificazione. A seconda dei casi si parla di mercato regolamentato, privato, di mercato del controllo, delle regole, dei derivati e così via, in una moltiplicazione di etichette che non sempre assolvono il loro compito, cioè non aiutano a capire meglio — anzi. Purtroppo, l'unico tratto comune a tutti questi mercati paralleli, o se si preferisce a tutti questi segmenti paralleli della cosa che un tempo chiamavamo mercato, è la corporate governance, un'entità onnipresente quanto misteriosa, che richiede un breve supplemento d'indagine.

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