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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Jacques Le Goff VII Premessa IX Scienza europea, p. ix Una rivoluzione e il suo passato, p. xiv Di questo libro, p. xvii 1. Ostacoli 3 Dimenticare ciò che sappiamo, p. 3 Fisica, p. 4 Cosmologia, p. 8 Vile meccanico, p. 12 2. Segreti 17 «Margaritae ad porcos», p. 17 Il sapere ermetico, p. 18 Il sapere pubblico, p. 24 Tradizione ermetica e rivoluzione scientifica, p. 29 Segreti e sapere pubblico, p. 33 3. Ingegneri 35 La pratica e le parole, p. 35 Ingegneri e teatri di macchine, p. 37 Botteghe, p. 40 Leonardo, p. 41 «Fabrica» e «discorso», p. 45 Un sapere capace di crescita, p. 48 Arte e natura, p. 50 Dedalo e il Labirinto, p. 52 4. Cose mai viste 55 La stampa, p. 55 Libri antichi, p. 57 L'antico e il nuovo, p. 58 Le illustrazioni, p. 60 Nuove stelle, p. 67 Terre incognite per la vista, p. 70 Il nuovo mondo, p. 75 5. Un nuovo cielo 79 Copernico, p. 79 Il mondo si è sbriciolato, p. 85 Tycho Brahe, p. 91 Keplero, p. 94 6. Galilei 107 I primi scritti, p. 107 Le scoperte astronomiche, p. 109 La natura e la Scrittura, p. 114 Le ipotesi e il realismo, p. 118 La condanna di Copernico, p. 120 Il libro della natura, p. 122 I "Massimi sistemi", p. 127 La distruzione della cosmologia aristotelica, p. 130 Geometrizzazione, relatività, inerzia, p. 132 Le maree, p. 136 La tragedia di Galilei, p. 138 La nuova fisica, p. 141 7. Cartesio 149 Un sistema, p. 149 Avanzo mascherato, p. 150 Introdurre termini matematici nella geometria, p. 153 Fisica e cosmologia, p. 154 Il mondo come geometria realizzata, p. 161 8. Innumerevoli mondi 165 Un vuoto infinito, p. 165 Un universo infinito e infinitamente popolato, p. 168 Galilei, Cartesio e l'infinità del mondo, p. 173 Non siamo soli nell'universo, p. 176 Le congetture di Huygens, p. 181 Crisi e fine dell'antropocentrismo, p.184 9. Filosofia meccanica Necessità della immaginazione, p. 187 La meccanica e le macchine, p. 190 Cose naturali e cose artificiali: conoscere e fare, p. 195 Animali, uomini, macchine, p. 198 Si può essere meccanicisti e rimanere cristiani?, p. 203 Leibniz: la critica al meccanicismo, p. 208 10. Filosofia chimica 215 La chimica e la sua galleria degli antenati, p. 215 Paracelso, p. 217 Paracelsiani, p. 219 Iatrochimici, p. 222 Chimica e filosofia meccanica, p. 223 Meccanicismo e vitalismo, p. 225 11. Filosofia magnetica 229 Fenomeni strani, p. 229 Gilbert, p. 231 I Gesuiti e la magia, p. 234 Prudenza sperimentale e audacia modellistica, p. 237 La sfera di zolfo, p. 240 Musica e tarantismo, p. 241 12. Il cuore e la generazione 243 Il Sole dell'organismo, p. 243 Ovisti e animalculisti, p. 249 Preformismo, p. 251 13. Tempi della natura 255 La scoperta del tempo, p. 255 Pietre strane, p. 257 Come vengono prodotti gli oggetti naturali?, p. 266 Una teoria sacra della Terra, p. 263 La "Protogaea" di Leibniz, p. 266 Newtoniani e cartesiani, p. 270 14. Classificare 273 "Poa bulbosa", p. 273 Classificare, p. 275 Lingue universali, p. 276 Una lingua per parlare della natura, p. 278 Imporre nomi equivale a conoscere, p. 279 Aiuti per la memoria, p. 281 L'essenziale e l'accidentale, p. 282 15. Strumenti e teorie 285 Aiuti per i sensi, p. 285 Aiuti per l'intelletto, p. 290 16. Accademie 299 Università, p. 299 Accademie, p. 302 Prime Accademie, p. 304 Parigi, p. 307 Londra, p. 310 Berlino, p. 312 Bologna, p. 314 «Giornali», p. 315 17. Newton 317 I "Principi matematici della filosofia naturale", p. 317 Lo "Scolio generale", p. 325 L' "Ottica", p. 327 La vita di Newton, p. 332 Intermezzo sui manoscritti, p. 335 Le "Queries" dell' "Ottica", p. 338 I cicli cosmici, p. 340 Cronologia, p. 344 La sapienza degli antichi, p. 347 Alchimia, p. 350 La religione di Newton e l'Apocalisse, p. 352 L'interpretazione della Bibbia e l'interpretazione della natura, p. 355 Conclusioni, p. 358 Cronologia 361 Bibliografta 369 Indice dei nomi 405 |
| << | < | > | >> |Pagina 3Più che alle strutture perenni della mente degli esseri umani gli storici sono interessati alla diversità dei modi di funzionare delle menti in epoche differenti. Quando ci si avvicina a un pensiero che non è il nostro diventa importante cercare di dimenticare ciò che sappiamo o crediamo di sapere. E necessario adottare modi di ragionare o addirittura principi metafisici che per le persone del passato erano altrettanto validi e fondati su ragionamenti e ricerche quanto sono per noi i principi della fisica matematica e i dati dell'astronomia (Koyré, 1971: 77). Come ha scritto una volta Thomas Kuhn è essenziale fare il tentativo di disimparare gli schemi di pensiero indotti dall'esperienza e dall'istruzione precedenti (Kuhn, 1980: 183). | << | < | > | >> |Pagina 7Tutte e tre queste generalizzazioni, come si è detto, nascono dal riferimento a situazioni legate all'esperienza quotidiana: la caduta di una piuma e quella di una pietra, il moto di un carretto tirato da un cavallo. Esse appaiono inoltre legate a una concezione antropomorfica del mondo, che assume le sensazioni e i comportamenti e le percezioni dell'uorno, nella loro immediatezza, come criteri per la realtà. Alle radici degli «errori» della fisica degli antichi stanno motivazioni profonde, radicate nella nostra fisiologia e nella nostra psicologia. Perché, si domanda Renato Cartesio nei Principia (1644), ordinariamente ci inganniamo pensando che sia necessaria una maggiore azione per il movimento che per il riposo? Siamo caduti in questo errore, scrive, «fin dall'inizio della nostra vita», perché siamo abituati a muovere il nostro corpo secondo la nostra volontà e il corpo viene avvertito in riposo solo per il fatto che «è attaccato alla Terra con la pesantezza, di cui non sentiamo la forza». Dato che questa pesantezza resiste al movimento delle membra e fa sì che ci stanchiamo nel corso dei nostri movimenti «ci è sembrato che ci volesse una forza più grande e più azione per produrre un movimento che per fermarlo» (Cartesio, 1967: Il, 88).La scienza moderna non è nata sul terreno della generalizzazione di osservazioni empiriche, ma su quello di un'analisi capace di astrazione, capace cioè di abbandonare il piano del senso comune, delle qualità sensibili, dell'esperienza immediata. Il principale strumento che rese possibile la rivoluzione concettuale della fisica fu, come è noto, la matematizzazione della fisica. Ai suoi sviluppi dettero contributi decisivi Galilei, Pascal, Huygens, Newton, Leibniz. | << | < | > | >> |Pagina 11Semplificando molto le cose, è possibile tentare di elencare i presupposti che fu necessario abbattere e abbandonare per costruire una nuova astronomia.1) La distinzione di principio tra una fisica del Cielo e una fisica terrestre, che risultava dalla divisione dell'universo in due sfere, l'una perfetta, l'altra soggetta al divenire. 2) La convinzione (che conseguiva da questo primo punto) del carattere necessariamente circolare dei moti celesti. 3) Il presupposto dell'immobilità della Terra e della sua centralità nell'universo che era confortato da una serie di argomenti dall'apparenza irrefutabile (il moto terrestre proietterebbe in aria oggetti e animali) e che trovava conferma nel testo delle Scritture. 4) La credenza nella finitezza dell'universo e in un mondo chiuso che è legata alla dottrina dei luoghi naturali. 5) La convinzione, strettamente connessa alla distinzione fra moti naturali e violenti, che non ci sia bisogno di addurre nessuna causa per spiegare lo stato di quiete di un corpo, mentre, al contrario, ogni movimento deve essere spiegato o come dipendente dalla forma o natura del corpo o come provocato da un motore che lo produce e lo conserva. 6) Il divorzio, che si era andato rafforzando, fra le ipotesi matematiche dell'astronomia e la fisica. Nel corso di circa cento anni (all'incirca fra il 1610 e il 1710) ciascuno di questi presupposti venne discusso, criticato, respinto. Ne risultò, attraverso un processo difficile (a volte tortuoso), una nuova immagine dell'universo fisico destinata a trovare il suo compimento nell'opera di Isaac Newton, in quella grandiosa costruzione che, dopo Einstein, chiamiamo oggi la «fisica classica». Ma si trattò di un rifiuto che presupponeva un radicale rovesciamento di quadri mentali e di categorie interpretative, che implicava una nuova considerazione della natura e del posto dell'uomo nella natura. | << | < | > | >> |Pagina 16Solo se si tiene presente questo contesto acquista un significato preciso l'atteggiamento assunto da Galilei e che è alla radice delle sue grandi scoperte astronomiche. Nel 1609 Galilei puntava verso il cielo il suo cannocchiale. Ciò che segna una rivoluzione è la fiducia galileiana in uno strumento nato nell'ambiente dei meccanici, progredito solo per pratica, parzialmente accolto negli ambienti militari, ma ignorato, quando non disprezzato, dalla scienza ufficiale. Il cannocchiale era nato negli ambienti dell'artigianato olandese. Galilei l'aveva ricostruito e l'aveva presentato a Venezia nell'agosto del 1609 per farne poi dono al governo della Signoria. Il cannocchiale non è per Galilei uno dei tanti strumenti curiosi costruiti per il diletto degli uomini di corte o per l'immediata utilità degli uomini d'arme. Egli lo impiega e lo volge verso il cielo con spirito metodico e con mentalità scientifica, lo trasforma in uno strumento scientifico. Per prestare fede a ciò che si vede con il cannocchiale bisogna credere che quello strumento serva non a deformare, ma a potenziare la vista. Bisogna considerare gli strumenti come una fonte di conoscenza, abbandonare quell'antico, radicato punto di vista antropocentrico che considera il guardare naturale degli occhi umani come un criterio assoluto di conoscenza. Far entrare gli strumenti nella scienza, concepirli come fonti di verità non fu una facile impresa. Vedere, nella scienza del nostro tempo, vuol dire, quasi esclusivamente, interpretare segni generati da strumenti. Alle origini di ciò che oggi vediamo nei cieli c'è un iniziale, solitario gesto di coraggio intellettuale.La difesa delle arti meccaniche dalla accusa di indegnità, il rifiuto di far coincidere l'orizzonte della cultura con quello delle arti liberali e le operazioni pratiche con il lavoro servile implicavano in realtà l'abbandono di una millenaria immagine della scienza, implicavano la fine di una distinzione di essenza tra il conoscere e il fare. | << | < | > | >> |Pagina 17C'è un passo del Vangelo di Matteo (7, 6) nel quale Gesù afferma: «Nolite dare sanctum canibus neque mittatis margaritas vestras ante porcos ne forte conculcent eas pedibus suis et conversi dirumpant vos» («Non date ai cani ciò che è sacro e non gettate davanti ai porci le vostre perle perché non le calpestino con le zampe e rivoltandosi non vi assaliscano»). Ciò che è prezioso non è per tutti, la verità va mantenuta segreta, la sua diffusione è pericolosa: in questo modo venne letto, per molti secoli e da moltissimi autori, quel passo del Vangelo. | << | < | > | >> |Pagina 21La magia, come tante volte è stato ripetuto, tende sempre a risolversi in psicologia o in religione. Ma non coincide mai né con la psicologia, né con la religione, né con il misticismo. Così come nell'astrologia convivono calcoli sofisticati e vitalismo antropomorfico, allo stesso modo, nella magia e nell'alchimia, convivono misticismo e sperimentalismo. I libri della grande magia del Rinascimento si presentano ai nostri occhi come il frutto di una strana mescolanza. Troviamo, in uno stesso manuale, pagine di ottica, di meccanica e di chimica, ricette di medicina, insegnamenti tecnici sulla costruzione di macchine e di giochi meccanici, codificazione di scritture segrete, ricette di cucina, di veleni per vermi e topi, consigli per i pescatori, i cacciatori e le massaie, suggerimenti attinenti all'igiene, alle sostanze afrodisiache, al sesso e alla vita sessuale, squarci di metafisica, riflessioni di teologia mistica, richiami alla tradizione sapienziale dell'Egitto e dei profeti biblici, riferimenti alle filosofie classiche e ai maestri della cultura medievale, consigli per i prestidigitatori. Non basta: perché la magia - e basta pensare a Giordano Bruno, a Cornelio Agrippa, a Tommaso Campanella - si connette profondamente a desideri di riforma della cultura, al Millenarismo, ad aspirazioni a un radicale rinnovamento politico.Il linguaggio dell'alchimia e della magia è ambiguo e allusivo perché non ha alcun senso che l'idea di una verità riposta o di un segreto possa essere espressa con chiarezza e con parole non allusive e non ambiguo. Quel linguaggio è strutturalmente e non accidentalmente pieno di slittamenti semantici, di metafore, analogie, allusioni. Scrive per esempio l'alchimista Bono da Ferrara: «Nessuno degli antichi poté mai raggiungere il soggetto divino di quest'arte mediante il suo ingegno naturale: né secondo la sola ragione naturale, né secondo l'esperienza perché esso - a guisa di un mistero divino - è al disopra della ragione e al disopra dell'esperienza» (Bono da Ferrara, 1602: 123). | << | < | > | >> |Pagina 29Nell'ultimo mezzo secolo, attraverso una serie di studi importanti, si è giunti a rendersi conto, con sempre maggiore chiarezza, del peso rilevante che la tradizione magico-ermetica ebbe a esercitare sul pensiero di non pochi fra gli esponenti della rivoluzione scientifica. Magia e scienza costituiscono, alle soglie della modernità, un intreccio non facilmente districabile. L'immagine, di derivazione illuministica e positivistica, di una marcia trionfale del sapere scientifico attraverso le tenebre e le superstizioni della magia sembra oggi definitivamente tramontata. Nella sua difesa della centralità del Sole, Nicolò Copernico invoca l'autorità di Ermete Trismegisto. A Ermete e Zoroastro si richiama William Gilbert che identifica la sua dottrina del magnetismo terrestre con la tesi dell'animazione universale. Francesco Bacone è fortemente condizionato, nella elaborazione della sua dottrina delle .cors forme, dal linguaggio e dai modelli presenti nella tradizione alchimistica. Johannes Keplero è un conoscitore profondo del una segreta corrispondenza fra le strutture della geometria e quelle dell'universo, la sua tesi di una musica celeste delle sfere sono profondamente imbevute di misticismo pitagorico. Tycho Brahe vede nell'astrologia una legittima applicazione della sua scienza. Renato Cartesio, la cui filosofia è diventata per i moderni il simbolo della chiarezza razionale, anteponeva, da giovane, i risultati dell'immaginazione a quelli della ragione; si dilettava, come avevano fatto tanti maghi del Cinquecento, alla costruzione di automi e di «giardini d'ombre»; insisteva, come avevano fatto tanti esponenti del lullismo magico, sull'unità e l'armonia del cosmo. Sono temi che, in chiave diversa, ricompaiono anche in Leibniz, nella cui logica confluiscono temi attinti alla tradizione del lullismo ermetico e cabalistico. L'idea leibniziana di armonia, va aggiunto, è fondata sulla lettura appassionata di testi ai quali ben difficilmente si potrebbe attribuire la qualifica di «scientifici». Nelle pagine del alla esaltazione del cuore come «Sole del microcosmo», riecheggiavano i temi della letteratura solare ed ermetica del Quattrocento e del Cinquecento. Fra la definizione che Harvey dà dell'ovum (come non completamente pieno di vita né interamente privo di vitalità) e la definizione che dava Marsilio Ficino (e poi molti paracelsiani e alchimisti) del .cors corpo astrale esistono precisi rapporti. Anche nella concezione newtoniana dello spazio come .cors sensorium Dei sono state rilevate influenze delle correnti neoplatoniche e della cabala giudaica. Newton non solo leggeva e riassumeva testi alchimistici, ma dedicò a ricerche di tipo alchimistico molte ore della sua vita. Dai suoi manoscritti risulta anche chiara la sua fede in una .cors prisca theologia (che è il tema centrale dell'ermetismo) la cui verità deve essere «provata» mediante la nuova scienza sperimentale. | << | < | > | >> |Pagina 35Nell'avvertimento ai lettori, premesso ai suoi admirables, pubblicati a Parigi nel 1580, Bernard Palissy inveiva contro i professori della Sorbona e si domandava: è possibile che un uomo possa giungere alla conoscenza degli effetti naturali senza avere mai letto libri scritti in latino? Palissy era un apprendista vetraio che, cercando il segreto dello smalto bianco da applicare alle ceramiche, era giunto alla celebrità e poi sull'orlo della rovina. Nella sua vita avventurosa aveva progettato numerose macchine che non riuscì mai a eseguire; aveva rischiato più volte di morire di fame e di essere condannato a morte. Morì alla Bastiglia nel 1589 o 1590. Alla domanda che si era posto, Palissy rispondeva affermativamente: la pratica può mostrare che le dottrine dei filosofi (anche i più rinomati) possono essere false. Il laboratorio e il museo di oggetti naturali e artificiali che Palissy ha preparato può insegnare più filosofia di quanta non se ne possa apprendere, frequentando la Sorbona, dalla lettura degli antichi filosofi (Palissy, 1880). | << | < | > | >> |Pagina 43Si è giustamente parlato, soprattutto in relazione al secondo soggiorno milanese, di un progressivo spostamento del maturo Leonardo verso la teoria (Brizio, 1954: 278). Si può certo sottolineare il fatto che i complessi progetti leonardeschi di pompe, chiuse, raddrizzamento e canalizzazione dei corsi d'acqua nascono in questo periodo, ma non si può certo per questo, come molti hanno fatto, cercare nel pensiero di questo artista e letterato grandissimo l'atto di fondazione del metodo sperimentale e della nuova scienza della natura. Non a torto, dopo tanta insistenza sul «miracolo» Leonardo, si è ricordato il suo assoluto disdegno per la tipografia e per la stampa e si è sottolineato il fatto che la valutazione che fu data dei codici leonardeschi all'epoca della loro pubblicazione dipendeva dalla scarsa o nessuna conoscenza che si aveva allora dell'effettiva situazione del sapere scientifico del Cinquecento. La ricerca di Leonardo, che è straordinariamente ricca di balenanti intuizioni e di geniali vedute, non oltrepassa mai il piano degli esperimenti curiosi per giungere a quella sistematicità che è una delle caratteristiche fondamentali della scienza e della tecnica moderne. La sua indagine, sempre oscillante fra l'esperimento e l'annotazione, appare come frantumata e polverizzata in una serie di brevi note, di osservazioni sparse, di appunti scritti per se medesimo in una simbologia spesso oscura e volutamente non trasmissibile. Sempre incuriosito da un problema particolare, Leonardo non ha alcun interesse a lavorare a un corpus sistematico di conoscenze e non ha la preoccupazione (che è anch'essa una dimensione fondamentale di ciò che chiamiamo tecnica e scienza) di trasmettere, spiegare e provare agli altri le proprie scoperte. Da questo punto di vista anche le innumerevoli, famose macchine progettate da Leonardo riacquistano le loro reali proporzioni e appaiono costruite, più che come strumenti per alleviare la fatica degli uomini e accrescere il loro potere sul mondo, in vista di scopi fuggitivi: feste, divertimenti, sorprese meccaniche. Leonardo, non per caso, è più preoccupato della elaborazione che della esecuzione dei suoi progetti. Quelle macchine rischiano continuamente di diventare «giocattoli», mentre il concetto di «forza» (sul quale si è tanto insistito) è certo più legato alla tematica ermetica e ficiniana dell'animazione universale che alla nascita della meccanica razionale.| << | < | > | >> |Pagina 55Siamo così abituati a quell'attività individuale, che avviene nel silenzio e nell'isolamento, della lettura dei libri, che ci è difficile renderci conto che l'oggetto familiare che abbiamo tra le mani sia potuto apparire come una novità sconvolgente, qualcosa che non solo diffondeva in modo prima non immaginabile le idee e il sapere, ma che sostituiva la lettura, prima prevalentemente collettiva ed effettuata probabilmente a voce alta, di testi privi di punteggiatura (McLuhan, 1967). L'arte della stampa, la polvere da sparo, la bussola. Troviamo spesso accostate queste tre invenzioni meccaniche. Esse danno l'impressione, vivissima nella Città del Sole di Campanella (1602), di una serie di conquiste che coincide con un accelerarsi della storia: «v'è più historia in cent'anni che non ebbe il mondo in quattromila; e più libri si fecero in questi cento che in cinquemila; e l'invenzione stupende della calamita e stampe ed archibugi, gran segni dell'unione del mondo» (Campanella, 1941: 109). | << | < | > | >> |Pagina 58Fra la riscoperta degli antichi e il senso del nuovo che caratterizzano la cultura del cosiddetto Rinascimento (che è termine di significato ambiguo) esiste un complicato rapporto. Perché i maggiori esponenti della rivoluzione scientifica ebbero, nei confronti dell'antichità, un atteggiamento assai diverso da quello degli umanisti. Nel momento stesso in cui fanno ricorso ai testi dell'antichità, Bacone e Cartesio negano il carattere esemplare della civiltà classica. Non respingono solo la pedante imitazione e la passiva ripetizione. Anche la aemulatio, sulla quale avevano insistito molti umanisti, appare ad essi qualcosa che non ha più senso. E' il terreno stesso di una «contesa» con gli antichi che viene ora rifiutato: quando si impiega troppo tempo nel viaggiare, afferma Cartesio, si diventa alla fine stranieri nel proprio paese, allo stesso modo chi è troppo curioso delle cose del passato diventa, per lo più, molto ignorante delle presenti. Lo spirito degli uomini che vissero nell'antica Grecia appare a Bacone angusto e limitato. Se noi seguissimo la via che hanno seguito gli antichi, non riusciremmo certo a imitarli. Si tratta di cambiare strada, di assumere: «non la parte dei giudici, ma quella delle guide» (Bacon, 1887-92: III, 572). | << | < | > | >> |Pagina 60Come ha rilevato una volta Erwin Panofsky (che pubblicò nel 1945 una grande monografia su Albrecht Dúrer) la rigorosa descrizione della realtà naturale che è presente nell'opera dei grandi pittori e incisori dal tardo Quattrocento al Seicento ha, per le scienze descrittive, la stessa importanza che ha (per l'astronomia e le scienze della vita) l'invenzione del telescopio e del microscopio. Le illustrazioni dei libri di botanica, anatomia, zoologia non sono semplici integrazioni al testo. La insufficienza delle descrizioni verbali dipendeva anche dalla assenza di un linguaggio tecnico (che viene raggiunto dalla botanica solo nel corso dell'Ottocento). La collaborazione degli artisti ebbe comunque, nelle scienze descrittive, effetti rivoluzionari. | << | < | > | >> |Pagina 63I molti interpreti contemporanei che hanno insistito sul «galenismo» di Vesalio non solo hanno avuto la tendenza a trascurare queste affermazioni, ma anche a non dar conto della veemenza degli attacchi ai quali fu sottoposta la Fabrica da parte dei difensori dell'ortodossia galenica. Jacques Dubois (Jacobus Sylvius), antico maestro di Vesalio a Parigi, diventerà il suo principale avversario e nemico, lo chiamerà di continuo (con un pesante gioco di parole) Vesanus (folle o delirante) accusandolo di aver avvelenato con la sua opera il mondo della medicina. Vesalio affermava con energia la necessità di una piena saldatura fra la medicina clinica e la dissezione (e la chirurgia), polemizzava con forza contro una medicina ridotta a cultura libresca, lottava per la convergenza, nella medicina, della teoria e dell'osservazione diretta. Egli proponeva una nuova immagine del medico, del professore di medicina e del rapporto che intercorre, nelle scienze «sperimentali», fra il lavoro delle mani e l'opera dell'intelletto. Il «disprezzo per l'opera della mano» gli appare una delle ragioni della degenerazione della medicina. I medici si sono limitati alla prescrizione dei farmaci e delle diete e hanno abbandonato il resto della medicina a coloro che «essi chiamano chirurghi e considerano appena come schiavi». Quando tutto il procedimento dell'operazione manuale fu affidato ai barbieri «non solo andò perduta per i medici la conoscenza dei visceri, ma venne completamente meno l'abilità settoria». I medici non si arrischiavano a operare, mentre quelli cui quest'incarico era affidato erano troppo ignoranti per leggere gli scritti dei dottori. Si è in tal modo fatta strada una consuetudine detestabile: uno esegue il sezionamento, un altro descrive le parti. Quest'ultimo «gracchia dall'alto di una cattedra con rara presunzione» e ripete fino alla monotonia cose che non ha osservato direttamente, ma ha imparato a memoria dai libri: ogni cosa viene insegnata male e «in quella confusione sono presentate agli studenti meno cose di quelle che un macellaio dal suo bancone potrebbe insegnare a un medico» (Vesalio, 1964: 19, 25, 27).L'astronomo polacco Niklas Koppernigk (1473-1543) latinizzò il suo nome in Copernicus. Quel nome è diventato, nell'età moderna, il simbolo di una grande svolta del pensiero, l'atto di nascita di una nuova età e di una rivoluzione intellettuale. Nicolò Copernico, come è stato più volte sottolineato, non assunse, né nella sua vita né nelle sue opere, alcun atteggiamento rivoluzionario. Ritenne, da buon umanista, che la possibilità stessa di un nuovo metodo di calcolo dei moti delle sfere (capace di porre fine alle incertezze degli astronomi) andasse ricercata nei testi dei filosofi antichi. Presentò la sua dottrina come un tentativo di far rivivere le antiche tesi di Pitagora e di Filolao. Fu estremamente cauto ed esitante. Ebbe preoccupazioni notevoli circa il «disprezzo» che la sua strana e inusitata dottrina sul moto della Terra poteva suscitare nel mondo degli ecclesiastici e dei professori. Scrisse la sua opera maggiore, il De revolutionibus orbium coelestium (1543), in continuo parallelismo con l' Almagesto di Tolomeo seguendolo libro per libro e sezione per sezione, tanto che Keplero poté osservare che egli, più che interpretare la natura, aveva interpretato Tolomeo. | << | < | > | >> |Pagina 83La rivoluzione copernicana non consistette in un perfezionamento dei metodi dell'astronomia, né in una scoperta di nuovi dati, ma nella costruzione di una cosmologia nuova fondata fondata .cors sugli stessi dati forniti dall'astronomia tolemaica. Questa cosmologia è inoltre fortemente legata ad alcune fondamentali tesi dell'aristotelismo: l'universo copernicano è perfettamente sferico e finito; la sfericità alla quale appetiscono tutti i corpi costituisce una forma perfetta ed è una totalità in sé conchiusa che viene giustamente attribuita ai corpi divini; il moto circolare delle sfere cristalline deriva dal fatto che la mobilità propria della sfera è di muoversi in circolo (mobilitas sphaerae est in circulum volvi), la condizione di immobilità del Sole (che, come il cielo delle stelle fisse, è immobile) deriva dalla sua natura divina, la sua centralità dal fatto che questa «lucerna del mondo» chiamata da altri «mente e rettore dell'universo» è collocata nel luogo migliore dal quale «può illuminare ogni cosa simultaneamente» (Copernico, 1979: 212-13).La semplicità del nuovo sistema era più apparente che reale: per giustificare i dati delle osservazioni, Copernico era costretto, in primo luogo, a non far coincidere il centro dell'universo con il Sole (il suo sistema è stato definito come eliostatico meglio che come eliocentrico), ma con il punto centrale dell'orbita terrestre; in secondo luogo a reintrodurre, come in Tolomeo, una serie di cerchi ruotanti attorno ad altri cerchi; ad attribuire infine alla Terra (oltre al moto di rotazione attorno al suo asse e di rivoluzione attorno al Sole) un terzo movimento di declinazione (declinationis motus) per giustificare la invariabilità dell'asse terrestre rispetto alla sfera delle stelle fisse. | << | < | > | >> |Pagina 93(...) Le sfere «non esistono» realmente nei cieli, «vengono ammesse solo a beneficio dell'apprendimento» (Kepler, 1858-71: 1, 44, 159).Era, questa di Brahe, un'affermazione di importanza rivoluzionaria, paragonabile a quella di Copernico sulla mobilità della Terra. Sul terreno dell'astronomia (e non, come era avvenuto per Francesco Patrizi, su quello dell'immaginazione speculativa) era caduto uno dei dogmi centrali della cosmologia tradizionale: quello della incorruttibilità e immutabilità dei cieli. Nel capitolo ottavo del De mundi aetherei recentioribus phaenomenis liber secundus (il titolo stesso, con il riferimento a fenomeni recenti, era una sfida alla tradizione), pubblicato a Uraniborg nel 1588, Brahe esponeva anche le linee essenziali del suo sistema del mondo. Esso traeva vita da un duplice rifiuto: dell'astronomia tolemaica e dell'astronomia copernicana. Copernico ha costruito un elegante sistema del mondo, matematicamente superiore a quello tolemaico. Ma Tycho non crede, come vuole Copernico, che al «corpo pigro ed enorme della Terra» possa essere attribuito il movimento (anzi, tre movimenti). Se la Terra fosse in moto, afferma, una pietra lasciata cadere da una torre non cadrebbe, come invece avviene, ai piedi della torre. Il sistema di Copernico è inoltre inaccettabile perché tra l'orbita di Saturno e le stelle fisse bisognerebbe porre uno spazio enorme, a causa della mancanza di una parallasse osservabile delle stelle. Infine, il sistema di Copernico si oppone alla Scrittura che fa più volte riferimento all'immobilità della Terra. Il nuovo sistema dovrà «accordarsi sia con la matematica sia con la fisica, evitare la censura teologica, essere in completo accordo con quanto si osserva nei cieli» (Brahe, 1913-29: IV, 155-57). | << | < | > | >> |Pagina 97Nel .cors Mysterium Keplero non ricerca solo le leggi della struttura del cosmo, affronta anche il problema del perché dei moti dei pianeti e della loro velocità (che è tanto minore quanto più i pianeti sono lontani dal Sole). Ritiene che si debba necessariamente accettare una di queste due affermazioni: o le anime motrici dei singoli pianeti sono tanto più deboli quanto più distano dal Sole, oppure c'è una sola anima motrice, posta nel centro di tutti gli orbi, ossia nel Sole, che sospinge ogni corpo: con maggior forza i corpi vicini, con forza minore quelli lontani, in ragione della attenuazione della forza con la distanza. Keplero decide per la seconda ipotesi e ritiene che la forza sia proporzionale al cerchio in cui si diffonde e diminuisca con l'accrescersi della distanza. Dato che il periodo aumenta con l'accrescersi della circonferenza «la maggior distanza dal Sole agisce due volte nell'accrescere il periodo, e, inversamente, la metà dell'aumento del periodo è proporzionale all'aurnento della distanza». I risultati dei calcoli non erano troppo lontani da quelli di Copernico e Keplero ha l'impressione di essersi «avvicinato alla verità». Nella sua cosmologia, il Sole è al centro dell'universo (per Copernico il centro dell'universo non coincide con il Sole ma con il centro dell'orbita terrestre). Il Sole è la sede della vita, del moto e dell'anima del mondo. Le stelle fisse sono in quiete; i pianeti hanno un'attività secondaria di moto. Al Sole, che supera in splendore e bellezza tutte le cose, compete quell'atto primo che è più nobile di tutti gli atti secondi. Immobile e fonte di movimento, il Sole è l'immagine stessa del Dio Padre. Non solo l'universo, ma l'intera astronomia diventavano eliocentriche. Il Sole era concepito non solo come il centro architettonico del cosmo, ma come il suo centro dinamico.| << | < | > | >> |Pagina 104L'idea che il mondo non sia un divino organismo è ciò che davvero pone Keplero in insanabile dissidio con il pensiero magico. La riduzione delle molte anime (dei singoli pianeti) a un'anima sola (quella del Sole), la identificazione dell'anima con una forza si configurano ai suoi stessi occhi come risultati positivi. Annotando (nel 1625) la nuova edizione del Mysterium cosmographicum, afferma di aver già dimostrato, nell' Astronomia Nova, che non esistono specifiche anime per i singoli pianeti e dichiara che, per quanto riguarda il Sole, «se sostituiamo al termine anima il termine forza abbiamo esattamente lo stesso principio che è a fondamento della mia fisica del cielo». Un tempo, scrive, «credevo fermamente che la causa motrice di un pianeta fosse un'anima». Riflettendo sul fatto che la causa motrice si indebolisce in proporzione alla distanza e che lo stesso avviene per la luce del Sole, «giunsi alla conclusione che questa forza era qualcosa di corporeo, anche se corporeo va inteso qui non in senso letterale, ma traslato, allo stesso modo in cui diciamo che il lumen è qualcosa di corporeo».| << | < | > | >> |Pagina 107Galileo Galilei nacque a Pisa il 15 febbraio 1564 da Vincenzio Galilei, mercante fiorentino, maestro di canto e teorico della musica, e da Giulia Ammannati, di Pescia. Nel 1581 il giovane Galilei fu iscritto allo Studio di Pisa per gli studi di medicina. Si avviò invece a studi di matematica. Nel 1585, senza aver conseguito alcun titolo, abbandona lo studio pisano. Il primo frutto dei suoi interessi per la fisica e per il metodo di Archimede sono i Theoremata circa centrum gravitatis solidorum. Nel 1586, sulla base delle indicazioni di Archimede, progetta una bilancia idrostatica e pubblica La bilancetta. | << | < | > | >> |Pagina 125I caratteri in cui è scritto il libro della natura sono diversi da quelli del nostro alfabeto, e non tutti sono in grado di leggere in quel libro. Su questo presupposto Galilei fonda la fermissima, ostinata convinzione di tutta la sua vita: la scienza non si limita a formulare ipotesi, a «salvare i fenomeni», ma è in grado di dire qualcosa di vero sulla costituzione delle parti dell'universo in rerum natura, di rappresentare la struttura fisica del mondo. Nella pagina del "Saggiatore" che segue quella contenente la celebre frase sopra citata, Galilei afferma di desiderare, con Seneca, la «vera costituzion dell'universo» e qualifica questo suo desiderio come «una domanda grande e da me molto bramata».Il significato di queste affermazioni fu inteso bene da coloro che consideravano empia e pericolosa l'idea di una conoscenza matematica fondata sulla struttura obiettiva del mondo e capace di conseguenza di eguagliare in qualche modo la conoscenza divina. La posizione del cardinale Maffeo Barberini (1568-1644, dal 1623 papa Urbano VIII) è su questo punto assai chiara: poiché per ogni effetto naturale può darsi una spiegazione diversa da quella che a noi sembra la migliore, ogni teoria deve muoversi sul piano delle ipotesi e rimanere su questo piano. Nel Dialogo, proprio in opposizione a questa tesi, Galilei sosterrà la possibilità, per la conoscenza matematica, di eguagliare quella divina. Con un ragionamento che appare «molto ardito» all'aristotelico Simplicio, Salviati afferma: «extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intellegibili, che sono infiniti, l'intender umano è come nullo ma pigliando l'intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente alcuna proposizione, dico che l'intelletto umano ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanta se n'abbia l'istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l'aritmetica, delle quali l'intelletto divino ne sa ben infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall'intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva» (ivi: VII, 128-29). | << | < | > | >> |Pagina 136Anche se è difficile leggere Galilei senza «vedere» le possibilità newtoniane presenti nel suo discorso, è necessario non cadere nella fallacia di attribuire a ciò che fu pensato prima le implicazioni che emersero poi. Il principio di inerzia, così come risulta formulato nella prima legge newtoniana del moto, ebbe una lunga gestazione ed è l'elaborazione, da parte di Cartesio e di Newton, di una grande e rivoluzionaria idea galileiana. Come ha scritto William Shea, per passare dai concetti di Galilei alla prima legge di Newton l'inerzia dovrà essere: 1) riconosciuta come una legge fondamentale di natura; 2) considerata come implicante la rettilinearità; 3) generalizzata dal moto sulla Terra a ogni moto che avvenga in uno spazio vuoto; 4) associata con la massa come quantità di materia. I primi tre passi verranno compiuti da Cartesio, il quarto solo da Newton (Shea, 1974: 9).| << | < | > | >> |Pagina 141Gli studi compiuti su Galilei nel corso degli anni Settanta non solo hanno chiarito la grande importanza del giovanile De motu e delle Mecaniche, ma hanno anche mostrato, attraverso un accurato studio dei frammenti, che tutti i problemi di fondo della fisica galileiana fanno capo al decennio 1600-10 (Wisan, 1974). La maggiore opera scientifica di Galilei ha dunque una gestazione lunghissima. Ufficialmente all'insaputa di Galilei i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai movimenti locali videro la luce a Leida, in Olanda, nel 1638. I tre interlocutori del Dialogo comparivano nuovamente. Nelle prime due giornate, dedicate al problema della resistenza dei materiali, si svolgeva un vero e proprio dialogo. Nella terza e nella quarta giornata, dedicate rispettivamente ai problemi del moto uniforme, naturalmente accelerato e uniformemente accelerato e a quello della traiettoria percorsa dai proiettili, Salviati legge un trattato in latino sul moto che si immagina composto dal suo amico Accademico. Solo qua e là la lettura è interrotta da domande di chiarimenti da parte dei due interlocutori. Una «quinta giornata» (sulla teoria euclidea delle proporzioni) e una «sesta giornata» (sul problema della percossa) verranno pubblicate rispettivamente nel 1774 e nel 1718. Le teorie elaborate nei Discorsi relativamente alla resistenza dei materiali sono l'atto di nascita di un nuovo sapere: un corpus organico di teorie può essere per la prima volta applicato alla ingegneria civile e militare e alla scienza delle costruzioni. In questo contesto diventa rilevante la tesi, presente all'inizio dei Discorsi, che il «filosofare» debba prendere in attenta considerazione il lavoro dei tecnici e la pratica degli artigiani. La conversazione con i meccanici «peritissimi e di finissimo discorso», dichiara Sagredo, mi ha aiutato più volte nella ricerca degli effetti «reconditi ancora e quasi inopinabili». Galilei sottolinea, in primo luogo, l'importanza della scala di una struttura come fattore determinante la sua resistenza e dimostra le ragioni della maggior resistenza del modello rispetto alla scala reale. Prismi e cilindri che differiscono in lunghezza e sottigliezza offrono una resistenza alle fratture (al supporto di pesi alle estremità) che è direttamente proporzionale ai cubi dei diametri delle loro basi e inversamente proporzionale alla loro lunghezza. Le ossa di un gigante dovrebbero essere sproporzionatamente spesse rispetto alla loro lunghezza: sia nell'arte sia nella natura non è concesso accrescere indefinitamente la dimensione delle strutture. La coesione dei solidi e la resistenza dei materiali viene spiegata facendo ricorso alla loro composizione atomica o corpuscolare, al fatto che esiste una resistenza alla formazione del vuoto fra le particelle (come è mostrato dalla resistenza alla separazione di due superfici liscie a contatto) o una sostanza vischiosa fra le stesse particelle. Nella sua analisi della frattura delle travi, Galilei ignora il cosiddetto effetto di compressione e considera inestensibili le fibre della trave. | << | < | > | >> |Pagina 149| << | < | > | >> |Pagina 153La scienza moderna non è nata - si è visto - sul terreno della generalizzazione di osservazioni empiriche, ma (come è apparso evidente nel caso di Galilei) su quello di un'analisi capace di astrazioni, capace cioè di abbandonare il piano del senso comune, delle qualità sensibili, dell'esperienza immediata. Il principale strumento che rese possibile la rivoluzione concettuale della fisica fu, come è noto, la matematizzazione della fisica. Ai suoi sviluppi dettero contributi decisivi Galilei, Pascal, Huygens, Newton, Leibniz. Ma al centro di questo grande e complicato processo è da collocare la figura di Cartesio. | << | < | > | >> |Pagina 161Nella mia fisica, scrisse una volta Cartesio a Mersenne, «non c'è nulla che non sia anche nella mia geometria». Strettamente connessa alla geometria, la fisica cartesiana è fondata, come la geometria, su una serie di assiomi e ha carattere strettamente deduttivo. La sua fisica - come ha chiarito lucidamente Alexandre Koyré (Koyré, 1972) - a differenza di quella di Galilei e di quella di Newton, non si pone mai la domanda: «quali sono i modi d'azione effettivamente seguiti dalla natura?». Si pone invece la domanda: «quali sono i modi d'azione che la natura deve seguire?». La concezione della fisica come geometria e del mondo come «geometria realizzata» condussero Cartesio verso una fisica «immaginaria», il cui carattere di «romanzo filosofico» verrà sottolineato non solo dal «cartesiano» Huygens e da Newton ma da critici innumerevoli. In moltissimi casi la connessione con l'esperienza, la ricerca di conferme empiriche delle teorie erano, nel sistema cartesiano, solo chimeriche. Le leggi cartesiane della natura (ha scritto ancora Koyré) sono leggi per la natura alle quali essa non può non conformarsi perché sono esse che la costituiscono. | << | < | > | >> |Pagina 165| << | < | > | >> |Pagina 168In un celebre libro pubblicato nel 1936 e intitolato The Great Chain of Being, il teorico e il fondatore della «storia delle idee», Arthur O. Lovejoy, ha elencato le cinque «tesi rivoluzionarie» che caratterizzarono, nel secondo Seicento e nel Settecento, la nuova visione dell'universo: 1) l'affermazione secondo la quale altri pianeti del nostro sistema solare sono abitati da creature viventi, senzienti e razionali; 2) la demolizione delle mura esterne dell'universo medievale, sia che queste si identificassero con l'estrema sfera cristallina oppure con una determinata regione delle stelle fisse, e la dispersione di queste stelle entro spazi vasti e irregolari; 3) la convinzione che le stelle fisse siano soli simili al nostro, tutti o quasi tutti circondati da propri sistemi planetari; 4) l'ipotesi che anche i pianeti di questi altri mondi possano essere abitati da esseri ragionevoli; 5) l'affermazione della effettiva infinità dello spazio dell'universo fisico e del numero dei sistemi solari in esso contenuti (Lovejoy, 1966: 114). Nessuna delle cinque tesi precedentemente elencate è presente in Copernico. Sia la dottrina dell'infinità dell'universo sia quella della pluralità dei mondi furono variamente respinte dai tre più grandi astronomi dell'età di Bruno e della generazione successiva: Tycho Brahe, Keplero e Galilei. | << | < | > | >> |Pagina 184Si era andata lentamente formando un'immagine «lucreziana» dell'universo che costituirà per almeno un secolo (fino al Barone d'Holbach e oltre) la grande alternativa al deismo e all'immagine del mondo costruita da Newton e dai newtoniani. In questa nuova visione del cosmo non c'è più molto spazio per la celebrazione di un universo ordinato e perfetto, costruito per il signore del mondo, che lascia trasparire, a edificazione dell'uomo, i disegni di una infinita sapienza. Bisogna - aveva scritto Pierre Borel - che gli uomini imparino a non essere come quei contadini che non hanno mai visto una città e continuano a ritenere per tutta la vita che non possa esservi nulla di più grande o più bello del loro piccolo villaggio (Borel, 1657: 14, 32). L'intera Terra si configurava ora come soltanto una provincia o un villaggio dell'universo. Non diversamente da come era avvenuto, per il Mediterraneo e per l'Occidente, di fronte alle scoperte geografiche e ai viaggi in paesi sconosciuti e presso popoli lontani. Le lunghe dispute sull'infinità dell'universo e sulla pluralità e abitabilità dei mondi contribuirono - entro un più vasto contesto culturale - non solo a mettere in crisi ogni concezione antropocentrica e «terrestre» dell'universo, ma anche a svuotare di senso il tradizionale discorso degli umanisti sulla nobiltà e dignità dell'uomo. Per acquistare un significato non meramente retorico e letterario, esso doveva ora essere diversamente formulato, venir inserito in un più complicato contesto, assumere un nuovo significato. Era nata un'immagine nuova della natura e del posto dell'uomo nella natura. Essa, così come la nozione di un universo infinito, poteva essere variamente utilizzata: poteva servire come fondamento alla religiosità profonda di Pascal come al determiniamo dei grandi materialisti del Settecento. I grandi protagonisti della complicata storia che condusse dall'immagine del mondo chiuso a quella di un universo infinito - Bruno e Wilkins, Borel e Burnet, Cyrano e Fontenelle - utilizzarono liberamente, a sostegno delle loro visioni del cosmo, i risultati più sconvolgenti ai quali aveva dato luogo il lavoro dei grandi astronomi del Seicento. Nel far questo effettuarono (come oggi si direbbe) non sempre legittime né sempre caute estrapolazioni. Si fondarono su analogie. Ma anche le loro «fantasie» e i loro procedimenti di tipo analogico contribuirono non poco a mutare il corso della storia delle idee e anche il cammino della storia della scienza. Il Somnium di Keplero e il Cosmotheoros di Huygens stanno comunque a dimostrare che a quelle «fantasie» non furono indifferenti anche i grandi scienziati di quel tempo. Immaginazione e cosmologia non sembrano termini antitetici. Uno dei maggiori cosmologi del nostro tempo, che risponde al nome di Fred Hoyle, non ha forse anche scritto La nuvola nera? | << | < | > | >> |Pagina 186Nell'età che va da Copernico a Newton sono presenti sia le macro-scienze sia le micro-scienze. Le prime, per esempio l'astronomia planetaria e la meccanica terrestre, hanno a che fare con proprietà e processi che possono essere, più o meno, direttamente osservati e misurati. Le seconde, per esempio l'ottica, il magnetismo, le teorie sulla capillarità, sul calore, sui mutamenti chimici, postulano invece delle micro-entità che vengono dichiarate di principio inosservabili (Laudan, 1981: 21-22). Galileo, Cartesio, Boyle, Gassendi, Hooke, Huygens, Newton parlano tutti di entità che possiedono proprietà radicalmente diverse da quelle dei corpi macroscopici che costituiscono il mondo della quotidianità. In questo contesto, le metafore e le analogie esercitano una funzione centrale. | << | < | > | >> |Pagina 190Anche il termine meccanicismo (così come accade per tutti i termini che finiscono in ismo) è una parola elastica, non facilmente definibile in modo univoco e che finisce per assumere significati molto vaghi. Lo storico olandese E.J. Dijksterhuis (Dijksterhuis, 1971), che ha scritto una storia del meccanicismo dai presocratici fino a Newton, si è domandato: l'uso di questo termine applicato al millenario sviluppo del sapere scientifico fa riferimento al significato di ordigno o macchina presente nel termine greco mechané? a una visione del mondo che considera l'intero universo simile a un grande orologio costruito da un Grande Orologiaio? oppure, facendo uso di quel termine, intendiamo riferirci al fatto che gli eventi naturali che costituiscono il mondo possono venire descritti e interpretati mediante i concetti e i metodi di quella parte della fisica che viene detta meccanica e che è la scienza dei movimenti? Come molti altri storici della scienza, Dijksterhuis aveva una spiccata preferenza per le soluzioni chiare: sapeva bene che la meccanica, come parte della fisica, si è grandemente emancipata, nel corso del Seicento, dalle sue origini pratiche e dai suoi iniziali legami con le macchine, con il modo di pensare degli artigiani, degli ingegneri, dei maestri di bottega, dei meccanici. Con Galilei e con Newton la meccanica è effettivamente diventata un ramo della fisica, si è sviluppata come un settore della fisica matematica che studia le leggi del moto (dinamica) e le condizioni di equilibrio dei corpi (statica) e che trova nella cosiddetta «teoria delle macchine» solo una delle sue molte applicazioni pratiche. Molti filosofi e molti storici della scienza appaiono sinceramente dispiaciuti del fatto che la storia (anche quella della scienza) sia piena di equivoci e di fraintendimenti. Se la meccanica (affermava Dijksterhuis) avesse lasciato cadere il suo antichissimo legame con le macchine e si fosse chiamata cinetica o studio dei moti e se si fosse parlato di matematizzazione anziché di meccanizzazione della natura, si sarebbero potuti evitare molti equivoci e molti fraintendimenti. Ma non ha molto senso cercare di risolvere i problemi storici sul piano dei fraintendimenti o su quello degli equivoci linguistici. Quando si considerano i testi del Seicento scritti dai molti sostenitori (o dagli altrettanto numerosi avversari) della filosofia corpuscolare o meccanica, si ha quasi sempre l'impressione che entrambi i significati ai quali Dijksterhuis faceva riferimento siano presenti, spesso combinati o mescolati insieme, nella nuova visione del mondo. La cosiddetta «filosofia meccanica» (che prima dell'età di Newton non coincideva affatto con quella parte della fisica che oggi chiamiamo meccanica) è fondata su alcuni presupposti: 1) la natura non è la manifestazione di un principio vivente, ma è un sistema di materia in movimento retto da leggi; 2) tali leggi sono determinabili con precisione matematica; 3) un numero assai ridotto di tali leggi è sufficiente a spiegare l'universo; 4) la spiegazione dei comportamenti della natura esclude di principio ogni riferimento alle forze vitali o alle cause finali. Sulla base di questi presupposti spiegare un fenomeno vuol dire costruire un modello meccanico che «sostituisce» il fenomeno reale che si intende analizzare. Questa ricostruzione è tanto più vera (tanto più adeguata al mondo reale) quanto più il modello sarà stato costruito solo mediante elementi quantitativi e tali da potere essere ricondotti alle formulazioni della geometria. | << | < | > | >> |Pagina 194I riferimenti agli orologi, ai mulini, alle fontane, alla ingegneria idraulica sono insistenti e continui. Nella «filosofia meccanica» il riferimento alla meccanica come settore della fisica e il riferimento alle macchine appaiono strettamente congiunti. Per secoli era stata accettata, e in molti periodi storici era stata prevalente, l'immagine di un universo non solo creato per l'uomo, ma strutturalmente simile o analogo all'uomo. La dottrina dell'analogia microcosmo-macrocosmo aveva dato espressione a un'immagine antropomorfica della natura. Il meccanicismo elimina invece ogni prospettiva di tipo antropomorfico nella considerazione della natura. Il metodo caratteristico della filosofia meccanica apparve ai suoi sostenitori così potente da essere applicabile a tutti gli aspetti della realtà: non solo al mondo della natura, ma anche al mondo della vita, non solo al moto degli astri e alla caduta dei gravi, ma anche alla sfera delle percezioni e dei sentimenti degli essere umani. Il meccanicismo investì anche il terreno di indagine della fisiologia e della psicologia. Le teorie della percezione appaiono per esempio fondate sull'ipotesi di particelle che, attraverso invisibili porosità, penetrano negli organi di senso producendo moti che vengono trasmessi dai nervi al cervello.Il meccanicismo non fu soltanto un metodo. Affermava l'esistenza di regole per la scienza e negava che potessero essere considerate «scientifiche» affermazioni che si richiamavano all'esistenza di anime e di «forze vitali». Si configurò - ed i contemporanei se ne resero subito conto - come una vera e propria filosofia. La filosofia meccanica proponeva di conseguenza anche una «immagine della scienza». Affermava che cosa la scienza era e che cosa doveva essere. Fatta esclusione per la teologia, nessun dominio del sapere poteva, di principio, essere sottratto ai principi della filosofia meccanica. Muovendosi in questa direzione, Thomas Hobbes collocherà anche la politica sotto il segno della filosofia meccanica. | << | < | > | >> |Pagina 215| << | < | > | >> |Pagina 225La teoria chimica moderna implica il riconoscimento dell'esistenza degli elementi, cioè di un numero preciso di sostanze identificate mediante una serie precisa di prove. La chimica, come Boyle la concepisce, può in realtà trasformare ogni cosa in una qualsiasi altra cosa e, da questo punto di vista, la sua pratica chimica risultò addirittura ostacolata dalla sua filosofia meccanica (Westfall, 1984: 100). Resta però del tutto vero che l'adesione dei chimici ai principi della filosofia meccanica segnò, al di là di tutte le incertezze e gli equivoci che si possono di volta in volta rilevare, un irreversibile punto di svolta. Fra l'inizio e la fine del secolo, inoltre, non cambiano solo i metodi, i principi, le filosofie che fanno da sfondo alle ricerche dei chimici. Cambia il loro status sociale. Muta il tipo di considerazione che ha la società del loro lavoro. | << | < | > | >> |Pagina 227Per spiegare i fenomeni della combustione, calcinazione e respirazione Stahl si richiamava ancora a Becher e introduceva nella chimica un principio della combustione chiamato flogisto. Il termine floghistòs, come aggettivo che significa infiammabile, è già presente in Sofocle e Aristotele (Partington, 1961-62: 11, 667-68). Il flogisto o principio infiammabile era la seconda terra di Becher, o, se si vuole, lo Zolfo o Principio di combustione di Paracelso. Della combustione e della calcinazione dei metalli (ossidazione) il flogisto sembrava dare una spiegazione soddisfacente: una sostanza brucia se contiene flogisto, quest'ultimo, durante la combustione e la calcinazione, viene emesso dai corpi e si disperde nell'aria.Come ha dimostrato Ferdinando Abbri una teoria del flogisto non è mai esistita. Nel corso del Settecento, fino alla grande rivoluzione concettuale operata da Antoine Laurent Lavoisier (1734-94), la parola flogisto significò cose diverse all'interno di ciascuna teoria, funzionò come un concetto ridondante e come una vera e propria «fisarmonica concettuale» (Abbri, 1978, 1984). Flogisto è una di quelle parole che è collocabile in un ampio elenco che comprende le sfere celesti, le anime motrici dei pianeti, l'impetus come una sorta di motore interno, i vortici cartesiani, il calorico, il seme femminile, l'aura spermatica, il magnetismo animale, la forza vitale in fisiologia, l'etere luminifero, l'elettrone nucleare. Anche di entità di questo tipo - che vennero ritenute vere e confermate dall'esperienza e accanitamente difese è ricca la storia della scienza. Si tratta di termini che designano entità che sono scomparse dal mondo fisico e dai manuali scientifici oggi in uso, che non interessano più gli scienziati e che conservano un significato solo per gli storici della scienza. | << | < | > | >> |Pagina 229| << | < | > | >> |Pagina 170Le teorie newtoniane sulla struttura dell'universo e della materia divennero nelle Boyle lectures, iniziate da Richard Bentley (1662-1742) nel 1691-92, armi da impiegare contro gli epicurei e i freethinkers, contro gli assertori di un millenarismo popolare legato alla rivoluzione del 1688. A quel millenarismo la posizione di Burnet non era stata estranea. La filosofia naturale di Newton venne largamente utilizzata come un'ideologia. Nel sermone del 7 novembre 1692, intitolato A Confutation of atheism from the Origin and Frame of the World, Bentley polemizzava contro «l'ipotesi ateistica sulla formazione del mondo» affermando la sostanziale equivalenza dei termini meccanico e fortuito. Nella Examination of Dr. Burnet Theory of the Earth (1698) John Keill (1671-1721), primo professore di fisica newtoniana a Oxford e autore della celebre Introductio in veram physicam (1700), attacca con grande durezza i world makers o costruttori di mondi immaginari e i flood makers o costruttori di immaginari diluvi. Sulla base dei soli principi della materia e del movimento essi presumono «di conoscere l'intima essenza della natura e di informarci esattamente su come Dio ha costruito il mondo». Costoro sono «rozzi, arroganti e presuntuosi» come i filosofi e i poeti pagani. La loro straordinaria presunzione è stata incoraggiata da Cartesio, «primo fra i costruttori di mondi di questo nostro secolo». Le grandi cosmologie cartesiane degli anni Novanta vengono degradate da Keill (e da molti altri newtoniani) a opere di fantascienza. Contro di esse ci si richiama al valore della scienza newtoniana, alla certezza delle sue leggi, al rigore delle sue definizioni. Dietro la polemica dei seguaci i Newton contro le romanzesche ipotesi dei world makers e dietro il richiamo alla grande fisica di Newton operano in realtà tre massicci presupposti che vengono di principio sottratti a ogni possibile discussione: 1) la storia della Terra e del cosmo non è per intero spiegabile sul terreno della filosofia naturale e in quella storia sono operanti alcuni eventi miracolosi; 2) la verità del racconto biblico non può essere messa in dubbio; 3) è necessario riconoscere la presenza, in natura, delle cause finali e l'assunzione di un punto di vista antropomorfico è, anche in sede di fisica, del tutto legittima. | << | < | > | >> |Pagina 243| << | < | > | >> |Pagina 255| << | < | > | >> |Pagina 273E' molto frequente anche sui nostri prati una pianticella con foglie ruvide e inflorescenze verdastre. Appartiene, diciamo oggi, alla famiglia delle Graminacee. In base alla classificazione (ancora oggi in uso) del grande botanico svedese Carolus Linnaeus o Carl von Linné, in italiano Linneo (1707-78), la denominiamo Poa bulbosa. Con questa denominazione binaria collochiamo quella pianta all'interno di un sistema. La sistematica (o tassonomia) botanica (o zoologica), che ha oggi attribuito un nome a più di un milione di specie animali e vegetali (e che deve ancora classificare una grandissima quantità di specie di acari e di insetti), è appunto la disciplina che si occupa delle classificazioni, che riunisce cioè le varie forme in gruppi via via più ampi e comprensivi: razza, specie, genere, famiglia, ordine, classe, tipo o phylum, regno. Il nome di quella pianticella contiene - se conosciamo la struttura del sistema - una quantità davvero notevole di informazioni. Il sistema linneano è funzionale: la cosiddetta nomenclatura binomia comprende due parole: il nome del genere e un epiteto specifico che distingue la specie fra tutte le altre dello stesso genere, esattamente - afferma Linneo - come avviene per il cognome e il nome degli esseri umani. Identificare la specie non vuol dire solo distinguerla, ma anche riconoscere le sue affinità con le altre che appartengono allo stesso genere. L'uso del latino evita la confusione delle lingue nazionali. Linneo paragona la classificazione a un esercito suddiviso in legioni, coorti, manipoli e squadre e la concepisce come un sistema gerarchico di gruppi inclusi in gruppi sempre più ampi. Ognuno dei livelli più ristretti limita progressivamente le proprietà che deve possedere quello specifico essere vivente, mentre ognuno dei livelli più ampi comprende un numero sempre maggiore di proprietà e di organismi affini. A ciascuno dei termini impiegati viene attribuito un livello gerarchico. E' come se risalissi le pareti interne di un imbuto e, a ogni stadio, mi trovassi in una compagnia sempre più numerosa. Accanto alla mia specie (homo sapiens) c'è solo la specie estinta dell' homo erectus, poi c'è il genere Homo, poi la famiglia Hominidae che abbraccia anche le grandi scimmie, poi l'ordine Primati che hanno dita flessibili e un grande cervello, poi la classe Mammalia che hanno sangue caldo, peli e allattano i loro piccoli, poi il phylum Cordata che, in un qualche loro stadio, hanno le caratteristiche dei vertebrati, poi c'è il regno Animalia che raggruppa tutti gli esseri viventi incapaci di fotosintesi. E' chiaro che posso compiere anche l'operazione inversa e discendere lungo le pareti dell'imbuto. | << | < | > | >> |Pagina 295Vedere, nella scienza del nostro tempo, vuol dire, quasi esclusivamente interpretare segni generati da strumenti: tra la vista di un astronomo del nostro tempo che fa uso del telescopio di Hubble e una di quelle lontane galassie che appassionano gli astrofisici e accendono la fantasia di tutti gli esseri umani sono interposti oltre una dozzina di complicati apparati mediatori del tipo: un satellite, un sistema di specchi, una lente telescopica, un sistema fotografico, un apparecchio a scansione che digitalizza le immagini, vari computer che governano riprese fotografiche e processi di scansione e memorizzazione delle immagini digitalizzate, un apparecchio che trasmette a terra queste immagini in forma di impulsi radio, un apparecchio a terra che ritrasforma gli impulsi radio in linguaggio per un computer, il software che ricostruisce l'immagine e le conferisce i necessari colori, il video, una stampante a colori e così via (Pickering, 1992; Gallino, 1995). Un filosofo contemporaneo ha scritto un bel libro di filosofia della scienza intitolato Rappresentare e intervenire. Per capire che cosa è la scienza e che cosa la scienza fa è necessario saldare insieme quei due termini. La scienza ha due attività fondamentali: la teoria e gli esperimenti. Le teorie cercano di immaginare come il mondo è; gli esperimenti servono a controllare la validità delle teorie e la tecnologia che ne consegue cambia il mondo. Rappresentiamo e interveniamo. Rappresentiamo al fine di intervenire e interveniamo alla luce delle rappresentazioni. Dall'epoca della rivoluzione scientifica ha preso vita una sorta di artefatto collettivo che dà campo libero a tre fondamentali interessi umani: la speculazione, il calcolo, l'esperimento. La collaborazione fra ciascuno di questi tre ambiti porta a ciascuno di essi un arricchimento che sarebbe altrimenti impossibile (Hacking, 1987: 37, 295). Per questo, come ha insegnato Francesco Bacone, la scienza non è osservazione della natura allo stato grezzo. I sensi dell'uomo vanno ampliati mediante strumenti. I raggi dell'ottica di Newton, così come le particelle della fisica contemporanea, non sono dati in natura, sono i «dati» di una natura sollecitata da strumenti. Di fronte alla natura - come aveva affermato con una delle sue barocche metafore il Lord Cancelliere - dobbiamo imparare a «torcere la coda al leone». Da questo punto di vista la storia degli strumenti non è esterna alla scienza, ma ne è parte costitutiva e integrante. | << | < | > | >> |Pagina 296(...) L'idea alla quale giunsero, indipendentemente l'uno dall'altro, Newton e Leibniz fu quella di prendere una distanza infinitesima e il corrispondente intervallo di tempo infinitesimo, farne il rapporto e osservare che cosa accade quando l'intervallo di tempo considerato diventa sempre più piccolo, all'infinito (Feynman, Leighton, Saads, 1988: 8-6).L'incremento infinitamente piccolo della fluente newtoniana diventa, nella terminologia di Leibniz (poi universalmente adottata), il differenziale. Leibniz è molto meno «pragmatista» di Newton. La sua concezione del calcolo è saldamente connessa ad alcuni grandi temi della sua filosofia: quello del simbolismo e quello del continuo. Leibniz pensa all'esistenza di idee semplici e primitive, paragonabili alle lettere dell'alfabeto, capaci di combinarsi tra loro. Progetta una caratteristica universale, simile a una notazione algebrica, una lingua universale o filosofica nella quale i caratteri e le parole esprimano direttamente le relazioni logiche fra i concetti, infine un calculus ratiocinator che ha le caratteristiche di un sistema di ragionamento formale e che dovrebbe essere in grado di rendere immediatamente evidenti gli errori e pertanto di eliminarli. Tutti e tre questi progetti hanno a che fare con l'ideale di una pace religiosa. | << | < | > | >> |Pagina 299| << | < | > | >> |Pagina 317I Philosophiae naturalis principia mathematica, pubblicati a Londra nel 1687, sono un testo che non cessa di stupire il lettore. In esso si congiungono assieme il genio sperimentale e il genio matematico di Newton. In esso giunge a compimento e trova una coerente sistemazione, e sul piano del metodo e su quello delle soluzioni, la rivoluzione scientifica iniziata da Copernico e da Galilei. Quel testo, così a lungo elaborato e così a lungo celebrato, era destinato non solo a fornire gli elementi essenziali del credo scientifico e filosofico del secolo XVIII, ma anche a dare forma a quell'immagine dell'universo e delle sue leggi che è diventato una parte non trascurabile del patrimonio culturale di tutti coloro che hanno studiato fino all'età di quindici o sedici anni. Nella sostanza quel quadro si è identificato per più di due secoli - fino alla cosiddetta «crisi della fisica classica» - con la fisica. Il titolo stesso di quel grande libro esprimeva una presa di posizione nei confronti della fisica cartesiana: i principi della filosofia hanno carattere matematico. A differenza di Cartesio, Newton presentava in linguaggio matematico i principi della filosofia naturale e al tempo stesso faceva propria la lezione della tradizione dello sperimentalismo e assumeva come costitutiva del metodo scientifico la diffidenza - che era stata di Bacone e dei baconiani - per le ipotesi prive di connessioni con l'evidenza empirica. Nonostante che fosse giunto alla scoperta del calcolo infinitesimale quasi vent'anni prima della pubblicazione dei Principia, Newton non ne fece uso (salvo qualche accenno) nel suo capolavoro e si espresse nel tradizionale linguaggio della geometria. Newton era un ammiratore della geometria degli antichi tanto che rimpiangerà di essersi dedicato allo studio delle opere di Cartesio e degli algebristi moderni prima di aver esaminato con sufficiente attenzione gli Elementi di Euclide (Westfall, 1989: 393). Dietro la facciata della geometria classica operavano tuttavia in profondità (come molti non hanno mancato di sottolineare) strutture di pensiero caratteristiche del calcolo infinitesimale (Whiteside, 1970; Westfall, 1989: 442). Seguendo il modello di Euclide, Newton parte dalle definizioni di massa, forza e movimento; fa seguire gli assiomi o leggi del moto; elenca i presupposti, che chiama proposizione o lemmi; aggiunge i corollari e gli scolii (commenti o note esplicative). Nel capitolo quindicesimo di questo libro si è accennato alla grande controversia sulla scoperta del calcolo che vide duramente impegnati l'uno contro l'altro, Newton e Leibniz. La storia è piena di «ironie»: tutti i newtoniani del Settecento esporranno la nuova fisica dei Principla ed estenderanno il campo di applicazione della meccanica newtoniana servendosi del calcolo infinitesimale nella sua versione leibniziana. | << | < | > | >> |Pagina 356Il metodo per interpretare il testo è sostanzialmente identico a quello che serve per interpretare la natura. C'è un solo metodo per cogliere la verità ed esso vale nei confronti della Bibbia e nei confronti della natura. Esso è proprio e caratteristico sia della scienza sia della religione. Non solo i due libri della Bibbia e della natura, come aveva affermato Galilei, non possono contraddirsi l'uno con l'altro, ma (e questo Galilei non l'avrebbe mai sottoscritto) vanno letti facendo uso delle stesse regole di lettura: «Come quelli che vorrebbero comprendere la struttura del mondo devono sforzarsi di ridurre la loro conoscenza a ogni possibile semplicità, così deve essere nel cercare di comprendere queste visioni» (ivi: 29).| << | < | > | >> |Pagina 358Come nel caso degli interessi per l'alchimia e della ferma credenza di Newton in una originaria sapienza delle origini, anche il rapporto che Newton stabilisce tra la scienza e la religione, tra il concetto di Dio e la fisica, tra il metodo di indagine sulla natura e il metodo di lettura dei Testi Sacri collocano l'intera opera di Newton su un piano assai diverso da quello, irrimediabilmente obsoleto, delle interpretazioni di Newton come scienziato positivo o delle celebrazioni di Newton come primo grande scienziato moderno. Anche la scienza moderna ha i suoi eroi e Newton è forse il più grande tra questi. E' vero che l'epitaffio funebre collocato sulla sua tomba, nella sua magniloquenza barocca, coglie nel segno: «i mortali possono gioire che sia esistito un tale e così grande ornamento dello spirito umano». Ed esprime in qualche modo una profonda verità anche il distico, tanto spesso citato, di Alexander Pope Nature and Nature's laws were hid in night God said «Let Newton be», and all was light. [La Natura e le sue leggi erano nascoste nell'oscurità Dio disse «Sia Newton!» e tutto fu luce. Ma è anche vero che riportare tutte le affermazioni di Newton a un contesto interamente «moderno» sembra un'impresa disperata. Questa non è una conclusione sgradevole per chi ha dedicato quelli che si chiamavano un tempo gli anni migliori della vita a studiare, nell'età della nascita della scienza moderna, i rapporti tra la magia e la scienza. Ciò che oggi chiamiamo scienza non è mai apparsa (e credo anche non dovrebbe mai apparire) agli storici come un prodotto finito, ma come una serie di tentativi di misurarsi con problemi che erano allora non risolti e che, in molti casi, si faticava a far accettare come problemi che era sensato e legittimo porsi. La storia della scienza può servire a renderci consapevoli del fatto che la razionalità, il rigore logico, la controllabilità delle asserzioni, la pubblicità dei risultati e dei metodi, la stessa struttura del sapere scientifico come qualcosa che è capace di crescere su se stesso, non sono categorie perenni dello spirito né dati eterni della storia umana, ma conquiste storiche, che, come tutte le conquiste, sono, per definizione, suscettibili di andare perdute. Quanto alle origini che possono apparire torbide di molti dei valori che sono connessi al sapere scientifico e che assumiamo oggi come positivi e non rinunciabili non è accaduto qualcosa di molto simile anche per i valori politici della libertà e della tolleranza? |
| << | < | > | >> |RiferimentiLa prima parte della presente Bibliografia comprende solo ed esclusivamente i testi e gli studi dai quali sono state tratte le citazioni o (nel caso degli studi) ai quali si è fatto esplicito riferimento nei vari capitoli che compongono questo libro. Essi vengono indicati, nell'ordine alfabetico del cognome dell'autore. La seconda parte della Bibliografia intitolata "Altre letture" comprende (suddivisa per argomenti) una molto sommaria indicazione di alcuni fra gli studi più importanti non ricordati nella prima parte. | << | < | |