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| << | < | > | >> |IndiceRingraziamenti 7 Introduzione 11 PARTE I Democrazia di chi? 49 Organizzazioni non governative, società dell'informazione e democrazia non rappresentativa Il Summit mondiale sulla società dell'informazione e 77 le reti organizzate come nuovi movimenti della società civile PARTE II Le industrie creative, la teoria comparativa dei media 107 e i limiti della critica dall'interno Il lavoro creativo e il ruolo della proprietà intellettuale 149 PARTE III La teoria processuale dei media 185 Virtuosismo, democrazia processuale e reti organizzate 219 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Le incertezze legate alle condizioni di lavoro e di vita nelle società della rete e nelle economie informazionali hanno messo a nudo fin troppo chiaramente i limiti delle strutture e dei sistemi istituzionali dominanti. Negli ultimi quindici-trent'anni le istituzioni chiave dell'era moderna – il sindacato, lo stato, l'azienda, l'università – si sono infatti dimostrate inadeguate al compito di organizzare e gestire le popolazioni. In questo periodo di tempo molti paesi hanno registrato trasformazioni sociali drammatiche, prodotte dalla forza e dall'impatto delle riforme che hanno caratterizzato e tutt'ora caratterizzano il neoliberismo e la globalizzazione economica. Le sfide della governance contemporanea possono dunque essere affrontate attraverso la creazione di nuove forme istituzionali che rispondano alla logica delle reti sociotecniche e di processi democratici non basati sulla rappresentanza. Le comunicazioni all'interno delle reti coinvolgono infatti i processi relazionali e non le procedure della rappresentanza. Affermare ciò significa sostenere che non c'è equivalenza tra la definizione di un postulato biopolitico dell'organizzazione e quello espresso dal management attorno alle modalità informatiche della governance neoliberista. Va quindi sgombrato il campo da un equivoco. Le analisi e le proposte teoriche presentate in questo volume non concorrono al controllo della vita. Piuttosto questo libro si interessa a quelle forme ed espressioni di governance che prendono sul serio la potenza espressa dai processi di autorganizzazione. In un certo senso, tutto è espressione di processi di autorganizzazione nella misura in cui il mondo è composto da modelli, processi e sistemi organici e inorganici distinti. Per questo, le istituzioni si trovano a dover svolgere un compito particolarmente difficile quando sono chiamate ad adattarsi al mutare dei contesti. Spesso il ritmo temporale di una qualunque particolare istituzione accumula una relazione asimmetrica rispetto alla temporalità degli elementi interni ed esterni che la caratterizzano. È a questo punto che interviene una situazione di squilibrio. Probabilmente, oggi molte istituzioni combattono questa condizione, e perciò si rendono necessarie nuove piattaforme organizzative tali da ricomporre le condizioni di lavoro e di vita in modi che offrano un senso di sicurezza e stabilità all'interno di sistemi informazionali destabilizzati dai vincoli imposti dalla contingenza produttiva. Una simile prospettiva richiede una forma istituzionale transdisciplinare, distributiva e collaborativa. Questa forma è qui chiamata «rete organizzata». I modelli di socialità della rete resi possibili dalle tecnologie dell'informazione e della comunicazione hanno dato vita a nuove forme di sistemi sociotecnici, o a quelle che chiamo forme istituzionali emergenti di reti organizzate. Anche se possono essere definite forme istituzionali per la loro capacità di organizzare relazioni sociali, queste reti sono radicalmente dissimili dalla tecnica moribonda delle forme istituzionali moderne – o «organizzazioni in rete» – come i governi, i sindacati e le aziende, la cui logica organizzativa è basata sull'integrazione verticale e sul principio della rappresentanza della democrazia liberale. Tali diramiche sono profondamente inadatte alla cultura collaborativa e distributiva delle reti tipica dei mezzi di comunicazione digitale e delle socialità che vi partecipano. A volte in questo libro adotto il linguaggio poco allettante tipico della retorica del neoliberismo. Adotto quindi un pragmatismo propedeutico all'obiettivo di facilitare le culture della rete nell'attraversamento della trasformazione in atto. Allo stesso modo, parlo in modo assorutamente deliberato delle tendenze gerarchizzanti e centralizzatrici delle reti. La dinamica sociotecnica delle reti organizzate costituisce l'organizzazione in modi sostanzialmente differenti da quelli delle organizzazioni in rete. Naturalmente le tecnologie dell'informazione e della comunicazione (Ict) sono comuni a entrambe queste forme di organizzazione. Vi sono però alcune differenze fondamentali: le reti organizzate sono co-emergenti rispetto ai mezzi di comunicazione digitali, mentre le organizzazioni in rete tipicamente precedono l'avvento delle tecnologie digitali dell'informazione e della comunicazione. Particolarmente significativa è la tendenza delle organizzazioni in rete ad adottare i diritti sulla proprietà intellettuale in quanto architettura che regola il commercio e le partnership istituzionali, mentre le reti organizzate spesso difendono strenuamente la cultura e il software open source. Questi tipi di differenze inoltre producono tensioni all'interno della dinamica sociotecnica delle reti. C'è un consenso dominante sul fatto che le esperienze di condivisione, feedback, flessibilità e amicizia siano primarie per la cultura delle reti. Ma è un errore pensare le capacità orizzontali, decentralizzanti e distributive dei network digitali come realtà immuni dalla tendenza a ricadere in modalità organizzative e modelli comportamentali gerarchici e centralizzanti. Per la verità, ci sono momenti in cui questo passaggio è necessario. Le decisioni, d'altronde, vanno a un certo punto sempre prese. Come sostengo in modo più dettagliato nel volume, i sistemi di comunicazione cosiddetti «aperti» spesso non solo non sono aperti, ma sopprimono anche le operazioni gerarchiche che permettono alle reti di organizzarsi. Non dimentichiamo che la flessibilità è anche la modalità operativa del lavoro postfordista e il suo custode, la lama a doppio taglio dell'incertezza economica e della precarietà ontologica. È essenziale affrontare queste sfide per creare strutture di comunicazione all'interno delle reti che consentano la distribuzione delle risorse e dei redditi che esse generano. I modelli economici sviluppati grazie a questo tipo di tecnica sono immanenti alla logica delle culture della rete e specifici rispetto alla comunicazione e pratica in rete. In altre parole, non ci sarà un modello universale applicabile alla dinamica delle reti, che sono per definizione singolari, anche se con schemi, tendenze sovrapponibili. Le «economie collaborative» caratteristiche delle culture della rete sono distinguibili dalle economie dei servizi al cliente dell'università in rete e dalle sue merci culturali inserite nei regimi sulla proprietà intellettuale che conferiscono all'istruzione e al lavoro le proprietà di merce informazíonale, seppur di un tipo particolare di merce che definisco informazionale. E non è come se le organizzazioni in rete fossero inconsapevoli dell'esigenza di adattarsi alla modalità di gestione informazionale. Nella sua prefazione a un rapporto del think-tank Demos intitolato Disorganisation: Why Future Organisations must «Loosen Up», il vicepresidente di Business Solutions, Orange Uk, Mike Newnham delinea la posta in gioco per i manager che non adeguano le loro organizzazioni alla forza del capitalismo informazionale: L'idea potrà non piacervi se dirigete veramente un'organizzazione, ma dai risultati di questo rapporto emerge con evidenza un messaggio chiaro: dobbiamo «lasciar andare», o «disorganizzare». Altrimenti i dipendenti di cui tutti noi abbiamo bisogno, i più brillanti e i migliori, tenderanno verso realtà più aperte, più flessibili che soddisfino i loro valori e rispondano alle loro aspirazioni. Questo provocherà alcuni dilemmi reali. Dovete chiedervi se qui il messaggio è per manager perdenti e persone incapaci di gestire. Da un po' di tempo a questa parte, sono moltissime le organizzazioni in rete che esistono grazie alla flessibilizzazione del lavoro e al suo out-sourcing. Ricordate, questa è stata la logica delle corporations multinazionali sin dagli anni '70 del Novecento, logica che ha raggiunto il suo apogeo con la bolla delle «dot.com» alla fine degli anni '90 e che ha continuato a presiedere al mondo «post-crash» della «classe creativa» di Richard Florida. Il paradossale invito a destrutturare e rendere flessibili le organizzazioni comporta anche una minore trasparenza e assunzione di responsabilità nelle organizzazioni. I meccanismi della rappresentanza dei lavoratori sotto forma di sindacati o consigli accademici sono soggetti anch'essi alla logica postfordista della flessibilità, del rischio e dell'incertezza. La disorganizzazione all'interno di una modalità informale corrisponde tuttavia alla crisi della democrazia rappresentativa. L'organizzazione, non la disorganizzazione, è la sfida che hanno davanti a sé le culture della rete. Come fare questo all'interno di sistemi sociotecnici di comunicazione non basati sulla rappresentanza è una delle principali linee di indagine che attraversano questo libro. Per i progetti politici che desiderano andare oltre i contesti gratificanti delle comunità del consenso (come se esistessero al di fuori della fantasia, del mito e dell'auto-inganno, a prescindere che si sia di tendenze anarchiche o socialdemocratiche), sostengo che è meglio affrontare i discorsi egemonici, sfruttare la loro legittimità politica, e misurarsi con le materialità della comunicazione informazionale per rendere concreti gli orizzonti della speculazione utopica. Liquidare questa idea come una variante della politica della «terza via» sarebbe facile, ma significherebbe dimenticare le materialità della comunicazione e della socialità delle reti che funzionano come dissonanze nel sistema, e come registrazioni del «politico». Devo chiarire una cosa fin dall'inizio: questo libro non discute i numerosi software open source e le pratiche di programmazione delle culture della rete, né le loro possibilità. Né discute gli sviluppi delle reti sociali e l'avvento del tanto pubblicizzato Web 2.0 e Internet 2, collocati come sono all'interno di una geografia diseguale dell'informazione. Tale lavoro può essere svolto meglio in contesti che hanno una relazione più stretta con il dispiegarsi digitale degli sviluppi sociotecnici. Questo libro vuole essere un intervento generale che incoraggi studi dettagliati la cui empiria analitica sia immanente al tempo e allo spazio delle collaborazioni delle reti. Questo equivale a ciò che Mario Tronti chiama «ricerca concreta» per creare «una strategia del futuro». Una delle istanze fondamentali di ricerca concreta che auspico per le reti organizzate risiede in progetti di produzione, trasmissione e circolazione di saperi transidisciplinari, di cui mi occupo più avanti. I modelli alternativi auspicati in questo libro possono infatti imparare dalle esperienze maturate attorno alla sperimentazione di nuove organizzazioni. Mi sembra che l'organizzazione e la sua relazione con la questione della forma istituzionale siano troppo spesso trascurate quando si riflette su questioni di sostenibilità e collaborazione nelle culture delle reti e nei movimenti sociali. Questo libro rappresenta una ricerca di nuove tecniche organizzative. Si pone cioè il problema di definire una relazione immanente tra teoria e pratica – o ciò che andava sotto il nome di prassi – nella convinzione che l'invenzione di forme istituzionali transdisciplinari consenta il dispiegamento della potenza trasformativa della forza-lavoro. Ho diviso questo libro in tre parti, e ho lasciato queste tre parti prive di titolo proprio perché i temi della teoria della comunicazione, del lavoro creativo e dell'invenzione di nuove forme istituzionali attraversano, più o meno esplicitamente, ciascuno dei saggi. Ciascuna parte mantiene le sue specifiche curiosità di indagine che segnalano quelle che ritengo essere le traiettorie chiave dell'intervento politico per le reti organizzate. Il concetto politico di reti organizzate cerca di andare oltre l'inadeguatezza del pensiero sui movimenti sociopolitici radicali e sulla loro relazione con le forme istituzionali. Ma non è mia intenzione intraprendere uno studio sociologico su cosa si intenda comunemente per «movimento dei movimenti». L'accento è posto invece sulla transdisciplinarità in quanto pratica immanente che interroga la tendenza delle culture della rete a soddisfare l'autovalorizzazione e la collaborazione orizzontale piuttosto che attendere risultati dall'esito delle pratiche di governance all'interno di reti stratificate. | << | < | > | >> |Pagina 49La problematica della rete Uno spettro si aggira in quest'epoca di informazionalità – lo spettro della sovranità statale. In quanto tecnica moderna di governance basata sul controllo territoriale, «monopolio della violenza» e capacità di regolare il flusso di beni, servizi e persone, il potere sovrano dello stato-nazione non è ancora pronto a separarsi dal sistema di relazioni interstatali. Il patto di alleanze tra gli stati-nazione in materia di commercio, sicurezza, aiuti stranieri, investimenti, e così via, sostanzia la perdurante rilevanza della forma statuale nel modellare la vita e il movimento delle persone e delle cose. Per tutti gli anni '90, man mano che Internet guadagnava terreno nell'esperienza quotidiana, in particolare, di quanti vivevano nelle economie avanzate, la fantasia popolare è stata incantata dalla promessa di un mondo «senza confini» e di un «capitalismo senza attrito». Sono in molti a nutrire simili convincimenti: filosofi politici, economisti, cyber-libertari, agenzie pubblicitarie, spin-doctors politici ed ecologisti hanno tutti una loro versione dell'idea di un sistema-mondo post-nazionale globale inter-connesso da flussi informazionali. Proprio come lo stato-nazione appare a molti obsoleto, così il termine rete è diventato la metafora più pervasiva per descrivere un insieme di fenomeni, desideri e pratiche presenti nelle società contemporanee dell'informazione. Da alcuni anni a questa parte capita di sentire, a proposito delle reti, un ritornello che suona più o meno così: fluide, effimere, transitorie, innovative, scorrevoli, non-lineari, decentralizzate, capaci di aggiungere valore, creative, flessibili, aperte, collaborative, disposte al rischio, riflessive, informali, individualizzate, intense, trasformative, e così via. Molte di queste parole sono usate in modo intercambiabile come metafore, concetti e descrizioni. Nella ricerca sulle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione c'è una disperazione sempre più evidente che si manifesta nella forma della ricerca empirica. Paradossalmente, gran parte di questa ricerca consiste in metodi e cornici epistemologiche che rendono la mobilità e l'astrazione dell'informazione in termini di stasi. I governi hanno scoperto che il ritornello sulla rete è in armonia con le loro sensibilità neoliberiste. Essi cercano una nuova retorica per l'eliminazione dei servizi sociali e delle infrastrutture statali, sostituite dalla logica dell'auto-formazione individualizzata nell'ambito delle reti di «capitale sociale», com'è nello stile dei teorici della Terza Via. I comitati di ricerca a livello universitario e nazionale vedono nelle reti la capacità di offrire l'ultima promessa di un'utopia economica in cui la pratica della ricerca modella sincronicamente il movimento dinamico del capitale finanziario. Eppure, spesso, i risultati delle imprese impegnate nella ricerca si basano sulla riproduzione di cluster di ricerca pre-esistenti e propedeutici al mantenimento dell'egemonia di istituzioni e singoli che manifestano l'ambizione di legittimare se stessi all'interno del pensiero dominante. Le compagnie telefoniche e i «provider» televisivi via cavo sguazzano nella loro capacità di ostentare un sistema di comunicazioni che è meno una rete che una massa eterogenea di utenti-consumatori-pubblico connessi dal contenuto e dai servizi erogati da oligopoli mediatici privati. Gli attivisti ricercano tecniche di disaggregazione e consolidamento simultanei grazie all'organizzazione on-line, tentando di promuovere dissenso e mobilitazioni nella forma di affinità mutevoli contro la aziendalizzazione della vita di tutti i giorni. Dal canto suo, il complesso militare dell'intrattenimento Usa schiera strategie di distribuzione organizzata di truppe e armamenti sui campi di battaglia definiti dalla imprevedibilità e dal caos, mantenendo allo stesso tempo il controllo sullo spettacolo attraverso i mezzi d'informazione. La riserva permanente di miseria umana spazza i resti dell'orrore quotidiano. Teorici e artisti dei nuovi media non sono immunizzati rispetto al prevalere di questi discorsi, riproponendo omologie della rete simili a quelle dominanti proprio mentre cercano di valorizzare forme sociotecniche aperte, decentralizzate, distribuite, egualitarie ed emergenti. Nel fare questo, attribuiscono alla forma discorsiva e sociotecnica delle reti uno statuto ontologico. Le cosiddette apertura, fluidità e natura contingente delle reti sono rese in termini essenzialisti, il cui funzionamento cancella le complessità e le contraddizioni che comprendono le pratiche materiali e le dimensioni spazio-temporali diseguali delle reti. Analogamente, la forza dell'«esterno costitutivo» viene spesso liquidata dai media e dai teorici della cultura a favore di discorsi deliranti sull'apertura e sull'orizzontalità. Così come è stata una metafora chiave per descrivere la logica della informazionalizzazione, l'«immanenza» può essere usata anche per definire le reti. Per dirla in poche parole, la tecnica delle reti può essere descritta così: se possiamo tracciare un diagramma delle relazioni le cui connessioni sono «esterne ai loro termini» (Hume-Deleuze), allora avremo il quadro di un modello di rete. Quali che siano le specificità che il ritornello sulle reti può assumere, predomina la tendenza a non tenere conto dei modi in cui le reti sono prodotte da regimi di potere, da economie del desiderio e dai ritmi incessanti del capitale globale. Come potrebbero, mi chiedo, gli antagonismi caratteristici di queste situazioni politiche varie e spesso inadeguate di informazionalità essere formulati nei termini di una teoria politica delle reti? Da un punto di vista teorico e pratico, come potrebbero le reti organizzate essere definite nuove forme istituzionali di informazionalismo? Dato che le istituzioni nella storia servono a organizzare le relazioni sociali, che cosa distingue le reti organizzate in quanto istituzioni dai loro corrispettivi moderni? Ovviamente vi sono delle differenze in termini di orizzontale versus verticale, distribuita versus contenuta, decentralizzata versus centralizzata, ragione burocratica versus elaborazione di banche dati, e così via. Ma cos'altro c'è? Non è sufficiente identificare differenze strutturali di base, ma dobbiamo anche porci la questione del modo in cui le dinamiche della rete sono condizionate dalla logica combinatoria del «politico» così come quest'ultimo è plasmato dalle materialità della conoscenza e dalle modalità di espressione. È qui in gioco una questione epistemologica con le sue condizioni di possibilità, una questione che riguarda il modo in cui le tecniche di intelligibilità sono ordinate e acquisiscono livelli variabili di status e di capacità di influenzare il cambiamento. A questo fine, i setting istituzionali funzionano come una forza strutturante. Essi forniscono una cornice e un insieme di risorse da cui gli idiomi espressivi emergenti possono essere organizzati in modi che rendano possibili sostenibilità e innovazione – una cosa che, ad esempio, non ha caratterizzato la maggior parte degli interventi mediatici tattici. E, per questa ragione, sostengo che la strategia politica primaria per le reti, nella congiuntura attuale, è cimentarsi nella invenzione di nuove forme istituzionali. Questo capitolo – e, a dire il vero, tutto questo libro – afferma la necessità di una svolta strategica, se le culture della rete vogliono affrontare le problematiche legate alla crescita e alla sostenibilità: la situazione della politica informazionale.
La sfida per le culture della rete politicamente attive è fare un uso
strategico dei nuovi mezzi di comunicazione, allo scopo di creare nuove
istituzioni. Tali formazioni sociotecniche assumeranno le caratteristiche
delle reti organizzate – distributive, non lineari, situate, basate su
progetti - così da creare ecologie mediatiche capaci di auto-sostenersi e che,
semplicemente, non siano sulla mappa delle istituzioni politiche e culturali
consolidate. Come sostiene Gary Genosko, «il vero compito è trovare i
mezzi istituzionali per incarnare nuovi modi di soggettivizzazione evitando
allo stesso tempo lo scivolamento nella sclerosi burocratica» Tale analisi
promette bene anche per la vita delle reti, che vivono all'interno della logica
politica della informazionalità costituita dalla forza dell'esterno.
Le reti e i limiti della democrazia liberale Una rete non nasce dal nulla. Una delle sfide chiave che le reti hanno di fronte è la possibilità di nuove forme istituzionali che vogliono fare la differenza in termini politici, sociali e culturali all'interno della logica sociotecnica delle reti. Non è ancora chiaro quale forma queste istituzioni prenderanno. Ributtarsi nella vacillante sicurezza delle istituzioni tradizionali consolidate non è però una strada percorribile. La logica della rete è sempre di più la modalità normativa con cui le relazioni sociotecniche si organizzano nelle economie avanzate, e questo influisce sulla realtà sociale, accentuando le diseguaglianze di quei paesi, nonché quella nei paesi in via di sviluppo. Così, l'istituzione tradizionale è difficilmente un luogo di fuga per quanti desiderano sfuggire alla logica dominante nelle reti. Un certo grado di centralizzazione e gerarchizzazione appare essenziale perché una rete si caratterizzi come rete organizzata. Può dunque la rete essere definita una «istituzione», o potrebbe essa avere bisogno di acquisire qualità ulteriori? È lo status istituzionale persino desiderabile, per una rete che aspiri a intervenire nei dibattiti sulla ricerca e la cultura critiche di Internet? In che modo una rete organizzata ci aiuta a ridefinire la nostra comprensione di ciò che una istituzione potrebbe diventare? Inoltre, qual è la particolare logica politica delle reti organizzate? Sono questi gli interrogativi fondamentali che affronto in questa sezione e, per farlo, sviluppo il concetto di democrazia non rappresentativa attraverso una analisi critica della democrazia liberale. Nel suo libro The Democratic Paradox, Chantal Mouffe ricapitola le caratteristiche chiave della democrazia moderna. I valori e le idee centrali della democrazia consistono nella «eguaglianza, nella identità tra governanti, governati e sovranità popolare». La democrazia moderna ha incorporato le caratteristiche della tradizione liberale, che era a sua volta caratterizzata dal «dominio della legge, dalla difesa dei diritti umani e dal rispetto della libertà individuale». Da qui, l'espressione democrazia liberale. La democrazia rappresentativa nella forma dei governi eletti attraverso libere elezioni è la modalità principale che la democrazia ha assunto in tutto l'Occidente. La sovranità popolare garantisce autorità alla figura discorsiva del «popolo». Questo tipo di potere muove dall'assunto che tra il popolo e lo stato via sia relazione, piuttosto che alienazione. Per la verità, esso presuppone che le persone in quanto cittadini siano al contempo rappresentati dallo stato, e tutelati dal suo funzionamento, nella misura in cui essi costituiscono la possibilità stessa dello stato. Tale nozione è stata spesso messa in discussione, poiché è in larga misura un mito. Chi, ad esempio, costituisce la figura del «popolo»? Le donne, i bambini, le minoranze? Storicamente la figura del popolo è segnata da una logica di esclusione che a sua volta mina la legittimità della sovranità popolare. La democrazia liberale è basata su una dialettica tra l'elettorato formato dai cittadini e i rappresentanti eletti. Negli ultimi anni questa dialettica è stata erosa dall'avvento dello stato neoliberista, che ingloba non tanto i cittadini, quanto i clienti-consumatori nel nesso azienda-stato. L'ambivalenza che emerge intorno alla composizione delle soggettività o degli elettorati politici è stata il tema di un recente dibattito sui filosofi politici e i movimenti italiani. Paolo Virno distingue tra la «moltitudine» (una pluralità) e il «popolo» (una unità). Egli vede la prima come la base per una politica che non comporta il trasferimento o la delega di potere (ad esempio, nel processo decisionale) al sovrano, che è il modello della politica rappresentativa attraverso il meccanismo del voto elettorale. In diverse misure, questo modello ha funzionato come tecnica di organizzazione delle relazioni sociali ed economiche all'interno dell'architettura statuale. Ma trasferirlo alle reti che si basano sulle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (Ict) è necessariamente un'operazione debole, giacché la disposizione architettonica è composta da variabili, dinamiche, forze, spazi, temporalità e simili, molto diverse tra loro. Per dirla schiettamente, nell'ambiente delle reti che si basano sulle tecnologie dell'informazione e della comunicazione non è possibile parlare di democrazia come di una politica rappresentativa basata sul consenso. Per fare un esempio ricorrente: in senso sia teorico che pratico, i fautori della «e-democracy» stanno investendo su un fantasma con la loro convinzione che i principi centrali della democrazia rappresentativa (cittadinanza, partecipazione, eguaglianza, trasparenza, ecc.) possano essere trasferiti nella sfera delle reti. | << | < | > | >> |Pagina 185La percezione dei sensi avviene in noi inconsciamente; tutto quello di cui diventiamo consapevoli sono già percezioni elaborate.
Friedrich Nietzsche,
Frammenti postumi 1884-1885
«Il processo come tale» scrive Michel Serres, «resta da concepire...». Inoltre, se prendiamo alla lettera Gilles Deleuze e Félix Guattari (cosa che loro stessi ci raccomandano di non fare!), allora tutti i concetti sono connessi a problemi. La relazione tra i concetti e i loro problemi costituisce una situazione. Ai fini di questo capitolo, la formazione della intelligibilità è un sistema consistente in concetti, problemi e situazioni. Il processo è qualcosa che avviene in natura, una qualità emergente la cui espressione è plasmata dalle contingenze e dal campo di forze di una qualunque situazione particolare. Sotto questo aspetto, il processo non può mai essere concepito in se stesso. Data questa difficoltà immediata, il presente capitolo analizza la possibilità per i media studies di concepire una teoria processuale collocando il concetto emergente di processo accanto a una serie di problemi. O piuttosto, il concetto di processo emerge attraverso l'incontro con una serie di problemi, i quali a loro volta possono essere intesi come situazioni di possibilità o come un «continuum di variazione». I problemi centrali affrontati in questo capitolo includono quelli dell'estetica, della nuova empiria dei media, del tempo e del movimento. Naturalmente questa serie di problemi, questo continuum di variazione, non esprime in alcun modo la totalità del campo dei nuovi studi sui media. Ciò sarebbe assurdo, o semplicemente stupido. Questi problemi emergono come istanze di incontro, come dispositivi capaci di fornire una cornice, nel pensare il concetto di processo. In questo capitolo il termine estetica (aesthesis) è usato per parlare dell'organizzazione e della gestione della sensazione e della percezione. Mi interessa il modo in cui è possibile discutere dell'affetto sensoriale e di un regime estetico, in quanto distinto dalla rappresentazione (mimesis), in relazione ai nuovi mezzi di comunicazione. La dimensione estetica dei nuovi media sta nei processi — i modi del fare, il ricombinarsi delle relazioni, lo smantellamento figurale dell'azione – che costituiscono l'astrazione del sociale. Sta qui il codice inconscio della nuova empiria dei media. Vale a dire, la nuova empiria dei media può diventare qualcosa d'altro rispetto a ciò che essa prevalentemente è nella congiuntura attuale. Attraverso il concetto di processo, questo capitolo cerca di tradurre la potenzialità di una superempiria dei nuovi media. Un superempirismo, o un empirismo rinnovato, è coestensivo rispetto al processuale come una diagrammazione di diversi strati e registri di relazioni e regimi di valore che costituiscono la possibilità dell'evento dove «l'affetto [è] espresso come pura potenzialità». Seguendo Massumi, un superempirismo deleuziano presuppone una modalità di incontro che articola il campo delle forze, il sentire le sensazioni, che attraversa il movimento tra ciò che è emerso come oggetto, codice o significato, e le sue condizioni di possibilità. Il lavoro politico ed etico di un rinnovato empirismo potrebbe procedere proprio prestando attenzione a queste istanze assolutamente locali, le quali sono naturalmente connesse e intrecciate con forze strutturali più grandi.
Un'estetica processuale della cultura dei media permette che cose
solitamente non legate l'una all'altra siano accostate in un sistema di
relazioni. Come mostrerò più avanti, la combinazione di arte, commercio e
routine del
day trading
(compravendita di azioni in una stessa giornata a
scopo speculativo,
ndt)
in borsa costituisce un sistema di questo tipo.
Troppo spesso la rappresentazione, la comprensione o la visione della
pratica artistica dividono l'opera d'arte o l'artista dalle forze economiche
realmente esistenti, che danno forma alla pratica artistica e la influenzano.
Con simili omissioni, si può essere scusati per aver pensato che il progetto
modernista sia veramente intatto. L'installazione di Michael Goldberg
catchingafallingknife.com
istanzia i modi in cui le forze estetiche non sono
semplicemente sostenute dalle relazioni economiche; l'estetica, come il
sentire le sensazioni, gioca anch'essa un ruolo sostanziale nel plasmare gli
esiti economici. Qui si evidenzia una lezione fondamentale, ossia che
l'arte ha davvero effetti che vanno oltre il ghetto tipicamente auto-affermativo
dell'oscurità illuminata dagli spot e delle mode cicliche delle industrie
culturali. L'arte è parte di un processo di «differenza che fa la differenza»
come ha detto chiaramente l'antropologo Gregory Bateson.
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