|
|
| << | < | > | >> |Pagina 9(Ti prego non fare domande questa è quella Terra Dorata) Il vaporetto bianco, il «Peter Stuyvesant», che scaricava gli immigranti dal tanfo e dal pulsare della classe ponte al tanfo e al pulsare dei casamenti di New York, ondeggiava appena sull'acqua accanto al molo di pietra dalla parte sottovento delle baracche stinte e delle nuove costruzioni in mattoni di Ellis Island. Il capitano aspettava che gli ultimi funzionari, uomini di fatica e poliziotti si imbarcassero, per salpare e metter la prua su Manhattan. Poiché era sabato pomeriggio e questo era l'ultimo viaggio che il vaporetto faceva per quel fine settimana, chi restava a terra correva il rischio di rimanere lì fino a lunedì. La sirena muggì il suo rauco avvertimento. Alcune figure in tuta uscirono senza fretta dagli alti portali dell'ufficio d'immigrazione e si avviarono lungo il marciapiede grigio che conduceva alla banchina. Era il maggio dell'anno 1907, l'anno destinato a portare il maggior numero di immigranti alle rive degli Stati Uniti. Tutto il giorno, come ogni giorno dall'inizio della primavera, i ponti del vaporetto erano stati affollati da centinaia e centinaia di stranieri, originari di quasi ogni terra sotto il sole — il tèutone mascelluto con i capelli tagliati cortissimi, il russo dalla gran barba, l'ebreo dalle basette spelacchiate, e in mezzo ad essi contadini slovacchi dalle facce docili, armeni dalle guance lisce e scure, greci foruncolosi, danesi dalle palpebre grinzose. Tutto il giorno i suoi ponti erano stati pieni di colore, una matrice dei vividi costumi di altre terre, i grembiali screziati verdi e gialli, i fazzolettoni fioriti, stoffa tessuta in casa e ricamata, il panciotto di pelle di pecora guarnito d'argento, le sciarpe sgargianti, stivali gialli, berretti di pelliccia, caffettani, smorte gabardine. Tutto il giorno voci gutturali e voci acute, gridi di meraviglia, sussulti di sorpresa, esclamazioni di gioia, si erano levati dai suoi ponti in una variopinta onda sonora. Ma ora i suoi ponti erano deserti, silenziosi, e si stendevano sotto il sole quasi che le calde tavole si riposassero della tensione e della pressione di quelle miriadi di piedi. Tutti i passeggeri di classe ponte delle navi attraccate quel giorno i quali avevano avuto il permesso di sbarco erano da tempo sbarcati — tranne due, una donna e un bambino piccino che essa portava in braccio. Erano appena saliti a bordo accompagnati da un uomo. V'era assai poco di insolito nell'aspetto di questi ritardatari. L'uomo evidentemente era in America da qualche tempo, e ora aveva fatto venire da casa la moglie e il bambino. Si poteva pensare che avesse passato gran parte di quel tempo nella parte più bassa di New York, perché faceva pochissima attenzione alla Statua della Libertà o alla città che sorgeva dall'acqua o ai ponti che attraversavano lo East River — o forse semplicemente era troppo agitato per sprecare molto tempo su quelle meraviglie. I suoi abiti erano i comuni abiti che il comune cittadino di New York indossava a quell'epoca — sobri e smorti. Una bombetta nera accentuava l'asprezza e il pallore sedentario del suo viso; una giacca, troppo ampia per la sua alta figura scarna, gli saliva su abbottonata a V fin quasi alla gola; e al di sopra del V, lo stretto nodo di una cravatta nera era incastonato nel solco di un alto colletto inamidato. In quanto a sua moglie, si indovinava che era una europea più dal timido sguardo pieno di meraviglia con cui i suoi occhi passavano dal marito al porto, che non dai suoi abiti. Perché gli abiti erano americani — una sottana nera, una camicetta bianca e una giacchetta nera. Era evidente che il marito aveva avuto la precauzione di mandarglieli quando ancora lei si trovava in Europa, oppure li aveva portati con sé a Ellis Island e lei se li era messi alla svelta prima di ripartire. Soltanto il bambino che essa teneva in braccio indossava un vestito di chiara foggia forestiera, impressione questa che si ricavava specialmente dallo strano, strampalato cappello di paglia blu che aveva in testa, coi suoi nastri blu a pallini bianchi che gli ciondolavano di qua e di là sulle spalle. A parte questo cappello, se i tre nuovi venuti si fossero trovati in mezzo a una folla, probabilmente nessuno avrebbe potuto individuare la donna e il bambino come immigranti appena arrivati. Non avevano lenzuoli annodati in enormi fagotti, non avevano voluminose ceste di vimini, o letti di piume tenuti cari, o scatole di ghiottonerie, salsicce, puri oli di oliva, formaggi rari; quella grossa borsa nera lì accanto era il loro unico bagaglio. Ma nonostante ciò, nonostante il loro aspetto ancor meno che comune, i due uomini in tuta che, stravaccati a poppa, si fumavano le loro sigarette, li osservavano con curiosità. E la vecchia venditrice ambulante, seduta col suo cestino di arance sulle ginocchia, non faceva che aguzzare i suoi occhi deboli nella loro direzione. Il fatto era che c'era davvero qualcosa di fuori del comune nel loro comportamento. La vecchia venditrice sulla panca e gli uomini in tuta a poppa avevano visto troppi mariti incontrarsi con le loro mogli e i loro bambini dopo una lunga separazione per non sapere come doveva comportarsi quella gente. Le razze più vivaci, come gli italiani, spesso danzavano di gioia, volteggiavano abbracciati uno all'altro, piroettavano in un'estasi di felicità; gli svedesi a volte semplicemente si guardavano, respirando a bocca aperta come tanti cani ansanti; gli ebrei piangevano, quasi si cavavano gli occhi l'un l'altro con i loro gesti avventati e improvvisi; i polacchi muggivano e si afferravano a braccia tese come se intendessero strappare all'altro una manciata di carne; e dopo un bacio a beccata, era dato vedere gli inglesi gravitare verso un abbraccio, senza mai raggiungerlo. Ma questi due stavano in silenzio, discosti; l'uomo che fissava cupamente l'acqua con occhi freddi, offesi — oppure, se mai volgeva il viso verso la moglie, era soltanto per gettare una dura occhiata sprezzante al cappello di paglia blu del bambino in braccio a lei, e poi i suoi occhi ostili correvano lungo il ponte per vedere se qualcun altro li stesse osservando. E sua moglie, accanto a lui, che lo guardava inquieta, supplichevole. E il bambino stretto al suo petto che guardava dall'uno all'altra con occhi guardinghi, spaventati. Era davvero un incontro assai curioso. Si trovavano in questo strano atteggiamento silenzioso da parecchi minuti, quando la donna, come se spinta ad agire dalla tensione, cercò di sorridere, e toccando il braccio del marito disse timidamente, «E così questa è la Terra Dorata». Parlava in yiddish. L'uomo grugnì, ma non rispose. Lei prese fiato, quasi a farsi coraggio, e con voce tremula, «Mi dispiace, Albert, sono stata così stupida». Fece una pausa in attesa di un qualche guizzo di distensione, una qualche parola, che però non venne. «Ma sei così secco, Albert, così sparuto. E i tuoi baffi — te li sei rasati». Lo sguardo brusco di lui trafisse e si ritirò. «E con ciò». «Devi aver sofferto, in questa terra». Lei continuava gentile nonostante il suo rimprovero. «Non mi hai mai scritto. Sei magro. Ach! Allora anche qui in questa nuova terra è sempre la solita miseria. Sei andato avanti senza mangiare, lo vedo. Sei cambiato». «Be' non importa», scattò lui, ignorando la sua comprensione. «Non è una scusa per non avermi riconosciuto. Chi altro poteva venire a prenderti? Conosci nessun altro in questa terra?». «No», conciliante. «Ma ero così spaventata, Albert. Stammi a sentire. Ero così frastornata, e poi tutta quella attesa là in quello stanzone fin da stamattina. Oh, che terribile attesa! Li ho visti andarsene tutti, uno dopo l'altro. Il calzolaio e sua moglie. Il calderaio di Strij e i suoi bambini. Tutti quelli della "Kaiserin Viktoria". E io invece... io rimanevo. Domani sarà domenica. Mi hanno detto che nessuno poteva venire a prendermi. E se mi rimandavano indietro? Ero terrorizzata!». «Stai dando la colpa a me?». La voce di lui era carica di minaccia. «No! No! Certamente no, Albert! Stavo soltanto spiegando». «Be' allora lascia che spieghi io», disse lui, brusco. «Ho fatto quello che ho potuto. Ho preso la giornata libera all'officina. Ho chiamato quella maledetta Hamburg-American Line quattro volte. E ogni volta mi hanno detto che non eri a bordo». «Non avevano più passaggi di terza classe, così ho dovuto prendere classe ponte...». ««Sì, ora lo so. Va benissimo. Non c'era nulla da farci. Comunque io sono venuto lo stesso. L'ultimo battello. E tu che fai? Ti rifiuti di riconoscermi. Tu, non mi conosci». Appoggiò i gomiti sulla battagliola, volse dall'altra parte il viso furibondo. Questo è il saluto che mi tocca». «Mi dispiace, Albert», carezzandogli umilmente il braccio. «Mi dispiace». «E come se quei bastardi là dentro, con le loro giacche blu, non mi stessero pigliando in giro abbastanza, tu gli vai a dire l'età giusta di codesto moccioso. Non ti avevo scritto di dire diciassette mesi perché così si risparmiava mezzo biglietto? Non mi hai sentito là dentro quando glielo ho detto?». «Come facevo a sentirti, Albert?», protestò lei. «Come facevo? Eri dall'altra parte di quella... quella gabbia». «Be', lo stesso, perché non hai detto diciassette mesi? Guardali!». Indicò vari funzionari vestiti di blu che uscivano in fretta da una delle porte dell'ufficio immigrazione. «Eccoli che arrivano». Una sinistra insolenza appesantì la sua voce. «Se in mezzo a loro c'è quello che mi ha fatto tante domande, avrei qualche parolina da dirgli, se viene quassù». «Lascialo stare, Albert», esclamò lei a disagio. «Ti prego, Albert! Perché ce l'hai con lui? Non poteva farci nulla, è il suo lavoro». «Ah sì?». Gli occhi di lui seguivano con ostinata decisione le giacche blu nel loro avvicinarsi al battello. «Be' allora non c'era bisogno che lo facesse tanto bene». «E dopo tutto, gli ho mentito davvero, Albert», disse lei in fretta cercando di distrarlo. «La verità è che non l'hai fatto», scattò lui, riversando la sua rabbia su di lei. «Hai reso evidente la prima bugia con il dire la verità dopo. E mi hai fatto diventare lo zimbello di tutti!». «Non sapevo che fare». Nella sua disperazione giocherellava con la rete metallica sotto la battagliola. «Ad Amburgo il dottore mi rise in faccia quando gli dissi diciassette mesi. È così grosso. Era grosso quando nacque». Sorrise, e per un momento, mentre carezzava la guancia del figlio, quello sguardo di ansietà sparì dal suo viso. «Non dici nulla a tuo padre, David, tesoro?». Il bambino per tutta risposta nascose la testa dietro a sua madre. Il padre lo squadrò, volse lo sguardo e fissò giù in basso i funzionari, e poi, come se un dubbio gli avesse traversato la mente, aggrottò distratto le sopracciglia. «Che età ha detto che aveva?». «Il dottore? Più di due anni — e, come dicevo, mi ha riso in faccia». «Be', e che ha scritto?». «Diciassette mesi — te l'ho detto». «E allora perché non hai detto loro diciassette...». Si interruppe, dette una violenta alzata di spalle. «Bah! Ci vuole più forza, in questa terra». Ebbe una pausa, la osservò attentamente, e poi d'un tratto aggrottò le sopracciglia. «L'hai portato, il certificato di nascita?». «Be'...». Sembrava confusa. «Sarà nel baule... là sulla nave. Non so. Forse lo avrò lasciato a casa». La mano le vagò incerta verso le labbra. «Non so. E importante? Non ci ho mai pensato. Ma di sicuro il babbo potrebbe spedircelo. Non abbiamo che da scrivere». «Uhm! Be', mettilo giù». La sua testa accennò brusca verso il bambino. «Non hai bisogno di tenerlo in braccio tutto il viaggio. È abbastanza grande da stare in piedi da solo». Lei esitò, e poi con riluttanza mise giù il bambino sul ponte. Impaurito, malsicuro, il piccolo si spostò dalla parte opposta a quella del padre e, nascosto dietro alla madre, si aggrappò alla sua sottana. «Be', ormai è passato tutto». Lei cercava di essere allegra. «Ormai è tutto dietro di noi, non è così Albert? Qualsiasi sbaglio abbia fatto non ha più molta importanza. Oppure sì?». «Un bell'assaggio di quello che mi aspetta!». Le voltò la schiena e si piegò cupo sulla battagliola. «Proprio un bell'assaggio!». Rimasero in silenzio. Sotto, sulla banchina, le scure gomene erano state fatte scorrere dai pali d'ormeggio, e ora sul ponte inferiore i marinai le tiravano su dall'acqua, gocciolanti. Campanelle rintoccavano. La nave vibrò. Spaventati dal rauco muggito della sirena, i gabbiani che ruotavano davanti alla prua si levarono con debole stridulo grido sull'acqua verde, e come la nave si allontanava ribollendo dal molo di pietra, sfiorarono il suo cammino con una indolente ala falcata. Dietro la nave, la scia bianca che si stendeva fino a Ellis Island si allungava, sfilacciandosi pallida in un verde melone. Da un lato la curva della bassa costa grigiastra del Jersey, con i pali e le alberature del porto che frangiavano il cielo; dall'altro lato Brooklyn, piatta, con le torri dei suoi serbatoi dell'acqua: le due corna del porto. E dinanzi a loro, verso occidente, sorgendo sul suo alto piedistallo dal brulicante sfaccettato splendore dell'acqua piena di sole, la Libertà. Il disco ruotante del tardo sole pomeridiano le scendeva dietro obliquo, e per quelli a bordo che la guardavano i suoi lineamenti erano neri d'ombra, le sue profondità svuotate, le sue masse livellate ad un unico singolo piano. Contro il cielo luminoso i raggi della sua aureola erano aculei di tenebra che speronavano l'aria; l'ombra appiattiva la torcia che essa brandiva in una croce nera contro la luce purissima — l'elsa annerita di una spada spezzata. La Libertà. Il bambino e la madre, ammirati, continuavano a fissare la massiccia figura. La nave piegò in un lungo arco verso Manhattan, additando con la prua e poi lasciandosi da una parte Brooklyn e i ponti, i cui cavi e piloni, sovrapposti per la distanza, attraversavano lo East River in rigide onde diafane. Il vento di ponente che rastrellava il porto in zolle brillanti soffiava fresco e chiaro — un pungente odore di sale nelle pause delle sue virate. Faceva sferzare dietro al bambino i nastri a pallini del suo cappello, che colsero l'attenzione del padre. «Dove l'hai trovata, quella corona?». Spaventata dalla sua domanda improvvisa, la moglie guardò in giù. «Quello? Quello è stato il regalo d'addio di Maria — la vecchia balia. L'ha comprato lei di suo e ci ha cucito sopra i nastri. Non ti sembra carino?». «Carino? E me lo domandi?». Le sue scarne mascelle si muovevano appena quando parlava. «Non li vedi quegli idioti laggiù distesi che ci stanno già guardando? Ci stanno pigliando in giro! E che faranno gli altri sul treno? Sembra un pagliaccio, con quell'affare in capo. E poi è lui la causa di tutto questo imbroglio!». La voce dura, lo sguardo adirato, la mano agitata verso di lui, spaventarono il bambino. Senza conoscerne la ragione, capì che l'ira di quello sconosciuto era diretta contro di lui. Scoppiò a piangere e si strinse ancor più a sua madre. «Silenzio!», scattò quella voce sopra di lui. Facendosi piccino, il bambino pianse ancora più forte. «Zitto, tesoro!». Le mani protettive della madre si posarono sulle sue spalle. «Proprio quando stiamo per sbarcare!», disse infuriato il marito. «Senti quel che si mette a fare! Sentili, questi urli! E ora ce li dovremo godere fino a casa, immagino! Silenzio! Mi senti?». «Sei tu che lo spaventi, Albert!», protestò lei. «Ah sono io! Be', fallo stare zitto. E levagli di capo quell'affare di paglia». «Ma Albert, fa fresco qui». «Glielo levi, sì o no, quando io...». Un ringhio soffocò qualunque altra cosa potesse voler dire. Mentre la moglie assisteva atterrita, le sue lunghe dita strapparono il cappello di testa al bambino. Un attimo dopo esso veleggiava al di là della battagliola della nave verso le verdi acque sottostanti. Gli uomini in tuta a poppa si guardarono sogghignando. La vecchia venditrice di arance scosse la testa e fece un suono di disapprovazione. «Albert!». Sua moglie riprese fiato. «Come hai potuto?». «Ho potuto, sì!», ribatté lui. «Avresti dovuto lasciartelo dietro!». Digrignò i denti, e dette un'occhiata torva per il ponte. Lei si sollevò al petto il bambino che singhiozzava, se lo strinse contro. Il suo sguardo, con una espressione vuota e stordita, vagava dal volto cupo e pieno di sorda agitazione del marito alla poppa della nave. Nella scia verde argento che si piegava allargandosi come una tromba sull'acqua, il cappello blu continuava a danzare e ad ondeggiare, col nastro allungato sulle onde. Le vennero le lacrime agli occhi. Se le asciugò alla svelta, scosse la testa come per scacciare il ricordo, e guardò verso prua. Di fronte a lei si profilavano le sporche cupole e le torreggianti mura verticali della città. Al di sopra dei tetti dentellati, il fumo bianco, reso chiaro e diluito dal sole che scendeva, svaniva nelle fessure e nei cunei di cielo. Lei premé la fronte contro quella del bambino, lo chetò sussurrando. Questa era quella vasta incredibile terra, la terra della libertà, delle infinite occasioni, quella Terra Dorata. Tentò di nuovo di sorridere. «Albert», disse timidamente. «Albert». «Eh?». «Gehen vir voinen du? In Nev York?». «Nein. Bronzeville. Ich hud dir schoin geschriben». Lei assentì incerta, sospirò... Nel mulinare delle eliche, con l'acqua che si ritirava all'indietro, il «Peter Stuyvesant» si avvicinò alla sua banchina — lasciandosi portare lentamente e senza più slancio, come se riluttante. | << | < | > | >> |Pagina 43Dalla camera da letto, dove lei era andata per riporre la tovaglia, giunse a David il rumore del cassetto dell'armadio che ridacchiava e si chiudeva sommesso. E poi, «Ohimè!», venne la voce di sua madre. «Se ne è dimenticato». Riapparve, con un pacchetto sulla mano tesa. «Il regalo che doveva portar loro. Ora ci va a mani vuote». Lo posò su una sedia. «Bisogna che mi ricordi di darglielo, domani; o forse se ne ricorderà e tornerà a prenderlo». La possibilità che Luter tornasse inquietava David, ed egli cacciò via il pensiero. Aveva aspettato tanto questa serata in cui la avrebbe avuta tutta per sé fino all'ora di andare a letto. Era la seconda sera del teatro. Suo padre c'era andato da solo. Lei sollevò il bricco dell'acqua dal fornello, lo portò all'acquaio e versò l'acqua fumante nel bacino. Si volse a guardarlo. «Il modo come mi guardi», disse con una risata, «mi fa sentire come se stessi facendo della magia nera. Sto soltanto lavando dei piatti». E dopo una pausa: «Ti piacerebbe un altro fratellino?», domandò maliziosa, «oppure una sorellina?». «No», rispose lui con aria seria. «Per te sarebbe meglio, se tu l'avessi», lo stuzzicò lei. «Ti darebbe qualcos'altro da guardare, oltre tua madre». «Non voglio guardare nient'altro». «Tua madre ne aveva otto, tra fratelli e sorelle», gli ricordò lei. «Una di loro potrebbe venire qui, un giorno o l'altro, una delle mie sorelle, la tua Zia Bertha — ti farebbe piacere?». «Non lo so». «Ti piacerebbe», gli assicurò lei. «È molto buffa. Ha i capelli rossi e una lingua che taglia. E non c'è nessuno a cui non riesca a fare il verso. Non che sia molto grassa, eppure l'estate il sudore le viene giù a torrenti. Non so perché: ho visto degli uomini sudare così, ma una donna mai». «Io l'estate divento tutto bagnato qui». Lui si indicò le ascelle. «Ecco», disse sua madre con particolare vivacità, «anche a lei succedeva la stessa cosa. Una volta le dissero... ma tu non hai mai visto un orso, vero?». «In un libro. C'erano tre orsi». «Sì, me l'hai raccontato. Be', in Europa gli zingari... gli zingari sono uomini e donne, gente scura. Vanno in giro per tutto il mondo». «Perché?». «Gli piace». «Mi hai domandato di un orso». «Sì. Certe volte questi zingari si portano dietro un orso in tutti i posti dove vanno». «Mangiano il porridge, gli orsi?». Aveva detto quella parola in inglese. «Cos'è il porridge?». «La maestra ha detto che è farina e fiocchi d'avena; me lo dai la mattina». «Sì, sì. Me l'hai detto. Ma non sono sicura. So che gli piacciono le mele. Però se la maestra...». «E che faceva l'orso?». «L'orso ballava. Gli zingari cantavano e scuotevano il tamburello, e l'orso ballava». David si abbracciò dalla contentezza. «E chi lo faceva ballare?». «Gli zingari. Si guadagnavano la vita a questo modo. Quando l'orso era stanco, la gente buttava le monete nel tamburello... Allora! Ti stavo dicendo di tua zia. Qualcuno le disse che se strisciava di nascosto dietro all'orso e strofinava le mani sulla sua pelliccia, avrebbe cessato di sudare sotto le palme. E così un giorno mentre l'orso stava ballando...». Cessò di parlare. Anche David l'aveva udito: un passo fuori della porta. Un attimo dopo qualcuno bussò. Una voce. «Sono soltanto io... Luter». Con una esclamazione di sorpresa, lei aprì la porta. Luter entrò. «Sono andato via senza la testa», disse con aria di scusa. «Ho dimenticato il mio regalo». «Peccato che abbia dovuto disturbarsi un'altra volta», disse lei con comprensione. «L'ha lasciato in camera da letto». Prese il pacchetto dalla sedia. «Sì, lo so», rispose lui, posandolo sul tavolo. Guardò il suo orologio. «Ho paura che ormai sia troppo tardi per andare. Prima delle nove non potrei arrivarci, e poi quanto ci si può stare, un'ora». David fu segretamente contrariato a vederlo mettersi a sedere. Luter si aprì la giacca, e con una espressione di ansiosa indecisione in viso guardò fisso la madre di David. I suoi occhi avevano un brillio e una irrequietezza maggiori del solito. David notò ancora una volta le difficili curve del viso di quell'uomo. «Si tolga la giacca», suggerì lei. «Fa caldo, qui». «Se non la disturbo», se la sfilò dalle spalle. «Ora che non ho nessun posto dove andare». «Non ci resteranno male quando vedono che lei non arriva?». «No, lo capiranno che l'ora nera ancora non mi ha preso». Rise. «La prego, continui col suo lavoro, non voglio interromperla». «Stavo soltanto lavando qualche piatto», disse lei. «Ormai ho finito, a parte queste pentole». Prese la scatola bianca e rossa del sapone in polvere dall'angolo della mensolina sopra l'acquaio, ne scosse un po' in una pentola, e stropicciò vigorosamente l'interno con uno straccio, piegandosi in avanti per lo sforzo. David, che si sporgeva da un lato della sedia, poteva vedere allo stesso tempo sia Luter che sua madre. Assorto a guardare sua madre, avrebbe fatto poca attenzione all'altro se non lo avesse colpito un improvviso movimento obliquo degli occhi di Luter verso di lui, che lo spinse a osservarli attentamente. Luter, gli occhi ridotti a una fessura da uno sbadiglio immobile, stava fissando sua madre, le anche di sua madre. Per la prima volta, David si rese conto di come la sua carne, racchiusa nella sottana, modellasse contro di essa forme distinte. Si sentì improvvisamente confuso, in lotta con qualcosa nella sua mente che non riusciva a diventare un pensiero. «Voi donne», stava dicendo Luter con partecipazione, «specialmente quando vi sposate dovete lavorare come delle schiave». «È meno peggio di quel che lei pensa. A dispetto del vecchio proverbio». «Sì», disse Luter pensoso, «si può sopportare tutto, nella vita. Ma faticare senza un grazie, quello è duro». «Vero. Ma anche faticare con un grazie, a che serve?». «Be'», disincrociò le gambe, «nulla viene dal nulla, nemmeno i milionari, ma la stima dà fiato al trombettiere... stima e regali, naturalmente». «Allora io la mia stima ce l'ho», rise lei, raddrizzandosi e voltandosi, mentre Luter dava alla propria bocca una espressione più decisa. «Ho una stima che cresce». Guardò David con un sorriso divertito. «Sì», disse Luter con un sospiro, «ma chiunque può avere quel tipo di stima. Tuttavia, è un bene avere dei bambini». E poi, con zelo: «Lo sa che non ho mai visto un bambino stare così attaccato alla madre». David si accorse di risentirsi del commento di Luter. «Sì, sono certa che è proprio così», convenne lei. «Ne sono sicuro», disse lui con calore. «Be', i bambini di mia cugina — proprio quella parente che dovevo andare a trovare stasera — sono a casa soltanto quando dormono e quando mangiano. La sera dopo cena, sono sempre su in casa di qualche vicino», alzò la mano per sottolineare quello che diceva, «a giocare per tutta la sera con altri bambini». «Ci sono degli altri bambini nella casa», rispose sua madre, «ma lui non sembra fare amicizia con nessuno. È capitato soltanto una volta o due», si volse verso David, «che sei stato su da Yussie o lui è venuto qui, vero?». David assentì, a disagio. «È un bambino strano!», disse Luter con convinzione. Sua madre rise, indulgente. «Molto intelligente, però», la rassicurò lui. Ci fu una pausa mentre lei vuotava il catino nell'acquaio; l'acqua grigia brontolò giù per lo scarico. «Assomiglia molto a lei», disse Luter con la esitazione di chi sta facendo una valutazione accurata. «Ha gli stessi occhi marroni che ha lei — bellissimi occhi — e la stessa pelle bianca. Dove l'hai presa quella pelle bianca da tedesco?», domandò scherzosamente a David. «Non lo so». La familiarità di quell'uomo lo metteva in imbarazzo. Avrebbe voluto che Luter se ne andasse. «E tutti e due avete delle mani molto piccole. Non ha le mani piccole, per un bambino della sua altezza? Sembrano quelle di un principe. Forse un giorno diventerà un dottore». «Se ha qualcosa di più, oltre alle mani». «Sì», convenne Luter. «Eppure io non credo che per guadagnarsi il pane dovrà faticare come suo padre, o anche come me». «Spero di no, ma lo sa solo Iddio». «Non è strano», disse lui d'un tratto, «come Albert si è preso la passione del teatro? Come un ubriacone col suo bicchierino. Chi l'avrebbe creduto?». «Vuol dire moltissimo, per lui. Lo sentivo lì accanto a me che digrignava i denti contro un certo personaggio». Luter rise. «Albert è un brav'uomo, anche se gli altri operai lo considerano strambo. Sono io che mantengo la pace, sa». Rise ancora. «Sì, lo so, e gliene sono grata». «Oh, non è niente. Una parola qui, una parola là, appiana tutto. La verità è che avrei potuto non esser tanto pronto a proteggerlo se non avessi conosciuto lei, cioè, se non fossi venuto qui e non fossi diventato uno di voi. Ma ora mi metto dalla sua parte come se fosse mio fratello. Non è sempre facile con un uomo così strano». «Lei è molto gentile». «Niente, niente», disse Luter. «Mi avete ripagato. Tutti e due». Presi su diversi utensili asciutti, lei attraversò la cucina e andò alla dispensa. Qui aprì lo sportello, si chinò e li appese dentro, ai chiodi. La testa di Luter si inclinò, il suo sguardo volò al petto di lei. Si schiarì la gola con un suono come di una beccata. «Ma dica quello che vuole, Albert è... come dire, un uomo nervoso... finché non lo si conosce, naturalmente. Ma posso capire perché lei non è mai andata da nessuna parte con lui», concluse con comprensione. «Lei è una donna orgogliosa e di una grande sensibilità, vero?». «Non più di chiunque altro. Che c'entra, questo?». «Le dirò. Vede: Albert, be'...», sorrise e si grattò il collo, incerto. «Anche per la strada, si comporta in modo così strano. Lei lo sa meglio di me. Sembra che cerchi gli insulti sulla faccia dei passanti. E quando si va fuori con lui — io esco con lui tutte le sere — è come se ci provasse una specie di gusto a camminare dietro a uno storpio o a un ubriaco o a qualsiasi altro tipo fuori del normale... che so! Si direbbe che lo faccia sentire più sicuro. Vuole che la gente per la strada guardi qualcun altro. Chiunque altro, purché non sia lui. Perfino un carro dell'acqua o dei giocatori d'azzardo per la strada gli danno questa stramba soddisfazione. Ma chi sa perché parlo a questo modo quando mi è tanto simpatico». Fece una pausa e rise, in silenzio. La madre di David guardò il canovaccio per i piatti, ma non rispose. «Sì», ridacchiò lui, in fretta. «Mi piace specialmente come non parla mai della Tysmienical senza farci entrare il bestiame a cui una volta badava». «Be', c'erano poche cose che amasse di più, nel vecchio paese». «Ma amare tanto il bestiame», sorrise Luter. «Tutto quello a cui pensavo io quando vedevo una mucca era che dava del latte. Ora quando penso all'Europa, e al mio borgo, il primo pensiero che mi viene, così come il suo primo pensiero è una mucca o un toro da primo premio, il mio primo pensiero sono le contadine. Capisce?». «Naturale, ognuno ha i suoi ricordi». Avendo riposto gli ultimi piatti nella credenza, lei tirò una sedia accanto a quella di David e si mise a sedere. Da una parte della tavola sedeva Luter, dall'altra David e sua madre. «Esattamente», disse Luter. «Ognuno ricorda quello da cui era attratto, e io ricordo le ragazze di campagna. Non erano forse una gran bella vista, con le loro pettorine a quadri attillate e la loro dozzina di sottovesti?». Scosse la testa, pieno di rimpianti. «Qua non si vede nulla di simile. È una terra che butta poco, da quel che se ne vede a Brooklyn, e le donne sono secche. Ma a Sorvik crescevano come querce. Avevano i capelli biondi, gli occhi che ardevano. E quando sorridevano con quei denti bianchi e quegli occhi azzurri, chi poteva resistere? Bastava quello a infuocarti il sangue. Non è rimasta mai abbagliata così dagli uomini?», domandò dopo una pausa. «No, non ho mai fatto loro troppo caso». «Be', certo... lei era una brava ragazza ebrea. E poi, gli uomini erano un branco di vagabondi, tangheri senza nulla dentro, con delle spalle così e, sopra, un naso come un pisello spaccato. Le loro donne erano sprecate, con loro. Lo sa», la voce si fece molto zelante, «l'unica donna che conosca che mi ricorda quelle ragazze, è lei». Lei arrossì, gettò indietro la testa e rise, «Io? Io sono soltanto una brava ragazza ebrea». «Non la accuso di nient'altro, ma da quando sono in America non ho mai visto una donna che me le ricordasse tanto. Avevano delle labbra così piene, così mature, come se fossero fatte per esser baciate». Lei fece un sorriso strano, con una guancia sola. «Lo sa Iddio le contadine austriache che ci devono essere anche in questa terra. Se hanno fatto entrare gli ebrei, di certo nessuno avrà chiuso la porta agli slovacchi». Luter abbassò gli occhi all'anello che si stava facendo girare attorno al dito. «Sì, è probabile che sia così. Qualcuna ne ho vista, ma nessuna che mi andasse veramente». «Allora farà meglio a guardare in giro un altro po'». La faccia di Luter divenne stranamente seria, le linee intorno alle narici si accentuarono. Senza alzare la testa, i suoi occhi guardarono di sotto in su la madre di David. «Forse posso smettere di cercare». Lei scoppiò in una risata. «Non dica sciocchezze, signor Luter!». «Signor Luter!». Per un momento ebbe un'aria seccata, poi si strinse nelle spalle e sorrise. «Ora che mi conosce tanto bene, perché continuare con quel "signor"?». «Evidentemente, tanto bene non la conosco». «Ci vuole un po' di tempo», ammise lui. Il suo sguardo vagò per la stanza e venne a fermarsi su David. «Le andrebbe qualcosa?». «No, ma se lei ne ha voglia posso fare un po' di tè». «No, grazie», disse lui premurosamente, «non stia a disturbarsi. Ma so che cosa le andrebbe... un gelatino». «La prego, non si disturbi». «Macché, nessun disturbo. Il piccolo, qui, andrà giù per noi». Tirò fuori una moneta. «Ecco, sai dov'è la gelateria. Vai a prendere un po' di tutti frutti e cioccolata. Ti piace, vero?». Con occhi inquieti, David guardò prima Luter, poi la moneta. Sotto la tavola una mano strinse gentilmente la sua coscia. Sua madre! Che cosa voleva da lui? «Non mi piace», disse con voce incerta. «Non mi piace il gelato». Le dita della stessa mano dettero un leggerissimo colpetto sui suoi ginocchi. Aveva detto la cosa giusta. «No? Gelato tutti frutti? Dolciumi, allora: ti piacciono, quelli?». «No». «Credo che sia un po' troppo tardi, per lui, per un gelato o per dei dolci». «Be', vorrà dire che se ne farà a meno, allora, visto che presto dovrà andare a letto». Luter guardò il suo orologio. «È proprio l'ora che l'ho messo a letto l'ultima volta, vero David mio?». «Sì», esitò lui, con la paura di sbagliare. «Immagino che abbia sonno, ora», suggerì Luter con fare incoraggiante. «Non ha l'aria di aver sonno», disse sua madre, e gli tirò su i capelli dalla fronte. «Ha gli occhi ancora aperti e brillanti». «Non ho sonno». Questo, almeno, era vero. Non era mai stato così stranamente turbato, non si era mai sentito così vicino all'orlo di un abisso. «Allora ti lasceremo stare alzato ancora un po'». Vi fu un breve momento di silenzio. Luter aggrottò le sopracciglia, emise un lieve suono schioccante con un lato della bocca. «Si direbbe che lei non abbia nessuno dei soliti impulsi della donna». «Davvero? Non mi sembra di allontanarmi tanto dalla strada battuta». «La curiosità, per esempio». «Quella l'avevo già perduta anche prima del matrimonio». «Se lo immagina lei. Ma non mi fraintenda, mi riferivo semplicemente alla curiosità per il pacchetto che mi sono lasciato dietro. Lei avrà senza dubbio capito che quello che c'è dentro non l'ho preso per fare un piacere ai miei parenti». «Be', ora è meglio che glielo dia». «Non troppo presto». E quando lei non rispose, si strinse nelle spalle, si alzò dalla sedia e si rimise la giacca. «Me ne voglia pure se glielo ripeto, ma lei è proprio una bella donna. Questa volta però non dimenticherò il mio pacchetto». Allungò la mano verso il pomello della porta, si girò. «Ma posso ancora venire a cena, domani?». Lei rise. «Se ancora non si è stancato della mia cucina». «Ancora no». E ridacchiando, «Buona notte. Buona notte, piccino. Deve essere una gioia avere un figlio così». Se ne andò. Con un sorriso storto sulle labbra, lei ascoltò il suono dei suoi passi che si allontanavano. Poi la sua fronte si increspò di sdegno. «E si chiamano uomini!». Sedette per un momento fissando davanti a sé con occhi turbati. Ben presto però la sua fronte si schiarì; inclinò la testa e scrutò David negli occhi. «Sei preoccupato per qualcosa? Hai un'aria così intenta». «Non mi piace», confessò lui. «Be', ormai se ne è andato», disse lei in tono rassicurante. «Non pensiamoci più. Al babbo non staremo nemmeno a dirlo, che è venuto — va bene?». «No». «Andiamo a letto, allora; si sta facendo tardi». | << | < | > | >> |Pagina 269«Un capretto, un unico capretto», prese il filo con cautela, «un capretto che mio padre comprò per due zuzim. Un capretto, un unico capretto. E venne un gatto e mangiò il capretto che mio padre aveva comprato per due zuzim. Un capretto, un unico capretto. E venne un cane e morse il gatto che aveva mangiato il capretto che mio padre aveva comprato per due zuzim. Un capretto, un unico capretto». Sempre di più, via via che andava avanti, aveva come la sensazione che gli altri stessero rannicchiati pronti a saltargli addosso appena mancasse un piolo in quella lunga scala di colpa e di vendetta. Prudentemente, si arrampicò oltre la mucca e il macellaio e l'angelo della morte. «E allora l'Onnipotente, che lodato Egli sia...». (Ma pensa! Ultimo! Nessuno, dopo. Non lo sapevo, prima. Ma qualche volta, mamma. Ma pensa!) Improvvisi, quei pensieri estranei si affollarono nella breccia. Per un istante esitò. (No! No! Non ti fermare!). «Che lodato Egli sia», ripeté in fretta, «uccise l'angelo della morte, che aveva ucciso il macellaio, che aveva ucciso il bue, che aveva bevuto l'acqua, che aveva spento il fuoco, che aveva bruciato il bastone, che aveva picchiato il cane, che aveva morso il gatto, che aveva mangiato il capretto, che mio padre aveva comprato per due zuzim. Un capretto, un unico capretto!». Senza più fiato, arrivò in fondo, domandandosi se il rabbino fosse arrabbiato con lui perché a metà si era fermato.Ma il rabbino sorrideva. «Ecco!». Batté insieme le palme delle mani. «Questo io lo chiamo mio figlio. Questa sì che è memoria. Questo sì che è intelletto. Potresti anche diventare un grande rabbino, un giorno — chi sa!». Si lisciò la barba nera con aria soddisfatta e per un momento contemplò David, poi ad un tratto si ficcò la mano in tasca e ne tirò fuori un logoro borsellino nero. Un mormorio di incredulo stupore si levò dalla panca. Aprendo di scatto il fermaglio metallico a due punte, il rabbino fece tentennare le monete che c'erano dentro e ne tirò su una di rame. «Ecco! Perché tu hai un vero cervello yiddish. Tieni, su!». Automaticamente, David alzò la mano e la richiuse intorno al penny. Gli altri guardavano in silenzio, a bocca spalancata. «Ora vieni a leggere». Il rabbino era di nuovo perentorio. «E voialtri imbecilli, state bene attenti! Fatemi sentire che battete ciglio e vi farò non a pezzetti, ma a pezzetti di pezzetti!». Un po' confuso dalla fortuna inaspettata, David lo seguì al tavolo di lettura e si sedette. Mentre il rabbino si arrotolava attentamente una sigaretta, David fissò fuori della finestra. La pioggia era cessata, benché il cortile fosse ancora scuro. Egli avvertiva una strana quiete che teneva tutto, all'esterno, nella sua morsa. Dietro di lui, il primo bisbiglio guizzò su da qualche parte lungo la panca. Il rabbino accese la sua sigaretta, chiuse il libro da cui aveva letto Mendel e lo spinse da una parte. ...Ora potresti domandarglielo, scommetto. Mi ha dato un penny. Di Isaia e il tizzone. Dove? Sì. Pagina sessantotto. Potrei domandarglielo... Già! Hu! Del fumo leggero sorvolò il tavolo. Il rabbino allungò la mano a prendere il libro sciupato e poi prese la bacchetta. «Rabbino?». «Be'?». Giocherellò con le pagine. «Quando Mendel stava leggendo di quel... di quell'uomo che lei ha detto, che...». Non finì. Due volte, attraverso il cortile, come se una lanterna fosse stata fatta dondolare avanti e indietro sopra i tetti, una luce violetta scosse i muri di fronte — e buio per un momento ed un tuono ed un brontolio come di una botte che rotolasse giù per le scale di una cantina. «Shemà Israel.!». Il rabbino abbassò la testa e afferrò il braccio di David. «Me infelice!». «Ahi!», strillò David, e quando la pressione sul suo braccio si allentò, fece una risatina. Dietro di lui, le voci acute, eccitate: «L'avete visto! Beng! Beng — che botta ha fatto! Ve lo dicevo che avevo visto un blitz, prima!». «Shah!». Il rabbino ritrovò la sua compostezza. «Fulmine prima del Pesah! Un'estate calda». E a David, come se gli tornasse in mente: «Perché hai gridato, perché ti sei messo a ridere?». «Lei mi ha dato un pizzicotto», spiegò lui cauto, «e poi...». «Be'?». «E poi si è piegato in giù — come noi quando lei lascia cadere la bacchetta, e poi pensavo...». «Davanti a Dio», interruppe il rabbino, «nessuno può restare diritto». ... Davanti a Dio. «Ma che cos'è che pensavi?». «Prima pensavo che fosse un letto. Su di sopra. Ma non era». «Un letto! Non era!». Guardò fisso David. «Non credere di fare lo scemo con me soltanto perché ti ho dato un penny». Gli spinse il libro davanti. «Via, dunque!», disse brusco. «Sta facendosi tardi». ...Non puoi domandarlo, ora. «Comincia! Shohèn ad maròn...». «Shohèn ad maròn vekadosh shemò vekatuv rannenú zaddikim badonai». Il pensiero affondò nel tono monotono. Dopo una breve lettura il rabbino lo dispensò, e David scivolò giù dalla panca e andò dove erano seduti gli altri per prendere la cinghia con i libri. Schloime, che li teneva sulle sue ginocchia, si era alzato con alacrità e glieli aveva porti. «Loro volevano prenderli, ma io li ho tenuti stretti», lo informò. «Che cosa compri?». «Nulla». «Aaa!». E poi, con premura, «So un posto dove c'è delle caramelle all'arancio — otto per un centesimo». «Non compro nulla». «Taccagno pidocchioso che non sei altro!». Gli altri si erano affollati intorno. «Te l'avevo detto che non ci avresti guadagnato nulla a tenergli i libri. Già, lo vedi! Avanti, vediamo questo penny. Veniamo con te. Chi non l'avrebbe saputa dire!». «Shah!». Si dispersero e tornarono alla loro panca. David uscì quieto dalla porta. | << | < | > | >> |Pagina 272L'aria si era fatta più fresca, l'oscurità si era rischiarata. Il vento, più freddo ora, corrugava le scure pozzanghere tra le lastre di pietra, sollevava le corde del bucato. Da qualche parte ancora cadevano dei goccioloni, benché muri e steccati già mostrassero larghe chiazze asciutte. Con le dita ancora chiuse intorno al suo penny nella tasca, David salì le scale color marrone bagnate di pioggia, percorse il caldo corridoio e fu fuori nella strada. I marciapiedi e la strada si stavano asciugando e diventavano di nuovo grigi, mentre gli scuri ruscelli sotto l'orlo dei marciapiedi si assottigliavano. Nella schiarita verso ponente, le nubi erano una devastazione d'argento; nell'aspra cornice di pietra delle strade, la loro luce era tetra ed argentea. ...Falle vedere il penny quando arrivo su. E lei lo dice al babbo. Che cosa dirà, lui? Scommetto che non ci crederà. Capace di dire che l'ho trovato. Ma gliela potrei ridire — tutta da cima a fondo. Un capretto, un unico capretto, e allora dovrebbe... Quel negozio. Si fermò, guardò pensoso il disordine di giocattoli e cornette di stagno, maschere, bottiglie di bibite e pubblicità di sigarette. ...No. Prima devi farlo vedere a lei. Guarda che cosa ho avuto. Dopo puoi comprare. Che cosa? Caramelle? No. Piacerebbe prendere di quelle palline nella gabbia di fil di ferro. Si soffia e si prende. Solo che non riesco a prenderla bene. Quando riuscirò a prenderla bene? Forse è meglio aspettare a domani quando prendo un altro penny. E poi... Ehi! Vai alla pasticceria della zia Bertha. Quand'è che ci sono stato? Tanto tempo fa, quella volta con la mamma. Troppo lontano. E le ragazze, Esther e Polly. Odiose. E poi, come leticano! Come mangiano la minestra! Il babbo mi ammazzerebbe, se lo facessi io. Ma lo zio Nathan urla e basta, e la zia Bertha urla a lui. Ti ricordi lo zio Nathan, con la sua mamma? Aceto e luce quando raccontava. Luce! Ehi! E Isaia e quel carbone d'angelo. Sulla bocca. Ma ricordati. Libro blu — grosso così. A pagina sessantotto. Magari domandalo la prossima volta. Forse la mamma lo sa. Penny? Dove? Oh! Eccolo! Quasi non lo ritrovavo. Quando quel buffone è entrato a mezzo del Had Gadià. Chi sa che cosa! Stavo dicendo. Sì. Stavo dicendo... «Bambino». Era stato detto in yiddish. Trasalì e alzò gli occhi. Le era quasi andato a sbattere contro — una vecchia raggrinzita con una faccia così segnata da brevi rughe sottili che queste scendevano oblique giù per la pelle avvizzita come una pioggia. Stava tutta piegata. Un grembiule a strisce blu e bianche copriva il davanti del suo vestito di raso nero scolorito. Il bianco dei suoi occhi era torbido come una vecchia zanna, e preso in una rete di vene rosse. Le sue narici erano bagnate. Tra la fronte e il fazzoletto bianco che aveva in testa, una rigida parrucca color marrone sporgeva in fuori come un aggetto. «Bambino», ripeté con una voce tremante di soprano, mentre la testa le tentennava malferma di qua e di là. «Sei ebreo?». Per un rapido istante, David si domandò come avrebbe fatto a capirla se non fosse stato ebreo. «Sì». «Be', a te ad ogni modo non ti farà nulla», borbottò. «Tanto non sei abbastanza grande da far peccato. Vieni con me e ti darò un penny». Lui la fissò a occhi spalancati. V'era in tutto ciò qualcosa di terrificante e come di sogno. I bambini di pan di zenzero che la vecchia strega cuoceva. In seconda A, nel primo trimestre. «Me l'accenderesti, eh? la stufa a gas?». Anche quello era proprio ciò che facevano — soltanto che non era a gas. Ehi! Si sentiva quasi spinto a darsela a gambe. «Ho già acceso le candele», spiegò lei, «e ora è troppo tardi». «Oh!». Ora capiva: era venerdì. Eppure, perché le aveva accese così presto? Ancora non era notte. «Vieni?», domandò lei, e si volse per avviarsi. «Ti darò un penny». Dopo tutto, quella era la sua strada. Ecco là la sua casa, due case più in là. E avrebbe avuto un altro penny. Le andò dietro. Strascicando i piedi, lei si diresse verso una casa vicina e salì faticosamente i gradini dell'entrata. Il suo respiro, che al secondo gradino era un ansito, al quinto divenne un gemito. Sopra a lui, le lente scarpe raggrinzite e screpolate si arrestarono alla soglia. Lui la raggiunse. «Non abbiamo più gradini da salire», mormorò lei, aspettando che il fiato grosso le si acquetasse. «Maledetto quel sonno nero che mi ha preso. Quando mi sono svegliata faceva buio, e io, ubriaca di sonno, ho acceso le candele. Troppo stordita per prima guardare la pendola, e troppo stupida per accendere la stufa a gas. Povera me». Fece cenno di rimettersi in moto. Pochi passi lungo il vestibolo, e poi lei si fermò davanti a una porta, la aprì e entrò. La cucina, ben spazzata ma tetra; il linoleum senza più smalto; quattro candele che luccicavano debolmente sulla pesante tovaglia bianca e rossa. Odore di pesce. Aria stagnante. «Prima piglia una seggiola», disse lei, «e accendi il gas lassù. Ci arrivi a prendere i fiammiferi?». David aprì il cassetto che lei indicava e trovò la scatola dei fiammiferi; poi trascinò una seggiola sotto la luce a gas, e vi si arrampicò sopra. «Sai come fare?», domandò lei. «Sì». Sfregò un fiammifero, girò la chiavetta del gas, e lo accese. «Bene! E ora, sotto le pentole». Lui accese anche quelle. «Più basso», disse lei. «Più basso. Il più basso possibile». Quando lui ebbe terminato, lei gli indicò il borsellino sulla tavola. «Prendilo», disse, e incominciò ad assentire con la testa, continuando ad assentire come se non riuscisse a smettere, «e tira fuori un penny». «Non lo voglio...», esitò lui. «Avanti! Avanti!». Mentre lei lo guardava, lui tirò su un penny.
«Ora richiudilo». E quando lui lo ebbe richiuso, «Sei un
bravo bambino», disse. «Che Dio ti benedica», e aprì la porta.
No, pensò mentre usciva, non era una strega — era soltanto
una vecchia della Nona Strada, ecco tutto. Ma anche così, una
inspiegabile tristezza intorbidiva la gioia che avrebbe dovuto
provare per avere avuto un altro
penny.
Anche se non era stato
trasformato in pan di zenzero, qualcosa aveva appesantito il
suo cuore. Perché? Un peccato, forse? Sì, scommetto che è per
quello. Ma troppo giovane, aveva detto lei. No. Scommetto che
nessuno è troppo giovane. Allora quale è il
penny
del peccato? Li guardò. Questo con l'indiano. Questo con Lincoln. Lincoln
l'ho appena avuto. Ma quando uscì per la strada, l'aria fresca
dell'esterno scacciò via il rimorso così come scacciò via dalle
narici gli odori di quella cucina. Si avviò verso casa sua e
affrettò il passo. L'oscurità stava riconquistando il vicolo dell'oriente. Le
ciminiere al di là del fiume oscuro avevano incominciato il loro pellegrinaggio
nella notte. All'angolo della Avenue D, l'indistinto lampionaio, la pallida
faccia rivolta verso l'alto,
stava ficcando la sua lunga lancia dalla punta incandescente
nel globo velato del lampione. David si fermò un momento per
vedere se il gas dentro la reticella avrebbe preso. Un debole
sbuffo, e il globo si riempì di un fiore giallo. Salì i gradini del
suo ingresso, domandandosi se i lampionai fossero mai turbati
dal loro sacrilegio o se fossero invece tutti
goyim.
Mentre saliva le scale, arrivarono dall'alto voci di ragazzi.
|