Copertina
Autore Philip Roth
Titolo Il complotto contro l'America
EdizioneEinaudi, Torino, 2005, Supercoralli , pag. 412, cop.ril.sov., dim. 140x220x28 mm , Isbn 978-88-06-17317-3
OriginaleThe Plot Against America [2004]
TraduttoreVincenzo Mantovani
LettoreFlo Bertelli, 2005
Classe narrativa statunitense
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

  3 1. Giugno 1940 - ottobre 1940
       Votate per Lindbergh
       o votate per la guerra

 48 2. Novembre 1940 - giugno 1941
       Fanfarone ebreo

 88 3. Giugno 1941 - dicembre 1941
       Seguendo i cristiani

128 4. Gennaio 1942 - febbraio 1942
       Il moncherino

161 5. Marzo 1942 - giugno 1942
       Mai prima di allora

214 6. Maggio 1942 - giugno 1942
       La loro patria

248 7. Giugno 1942 - ottobre 1942
       I disordini di Winchell

300 8. Ottobre 1942
       Brutti giorni

342 9. Ottobre 1942
       Eterna paura

377    Poscritto

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 3

1. Giugno 1940 - ottobre 1940

Votate per Lindbergh o votate per la guerra


La paura domina questi ricordi, un'eterna paura. Certo, nessuna infanzia è priva di terrori, eppure mi domando se da ragazzo avrei avuto meno paura se Lindbergh non fosse diventato presidente o se io stesso non fossi stato di origine ebraica.

Quando ci fu la prima sorpresa - la candidatura alla presidenza di Charles A. Lindbergh, l'eroe dell'aria americano famoso in tutto il mondo, alla convention repubblicana di Philadelphia del giugno 1940 - mio padre era un assicuratore di trentanove anni, munito di licenza media, che guadagnava quasi cinquanta dollari la settimana, abbastanza per pagare in tempo le bollette piú importanti, ma non abbastanza per permetterci altri lussi. Mia madre - che avrebbe voluto andare al teachers' college ma non poté perché costava troppo, che vivendo con i suoi aveva lavorato come segretaria dalla fine delle superiori, e che ci aveva impedito di sentirci poveri nei momenti peggiori della Depressione amministrando i guadagni ricevuti da mio padre ogni venerdí con la stessa efficienza con cui dirigeva la casa - aveva trentasei anni. Mio fratello Sandy, che faceva la settima e mostrava un prodigioso talento per il disegno, aveva dodici anni e io, che ero avanti di un anno e facevo la terza elementare - e avevo cominciato a raccogliere francobolli, ispirato, come milioni di altri ragazzi, dal primo filatelico del paese, il presidente Franklin Delano Roosevelt -, avevo sette anni.

[...] All'estremità occidentale del quartiere, l'estremità senza parco dove vivevamo noi, abitava uno sporadico insegnante o farmacista, ma per il resto pochi erano i professionisti tra i nostri immediati vicini, e sicuramente nessuna delle floride famiglie di industriali o imprenditori. Gli uomini lavoravano cinquanta, sessanta, anche settanta ore o piú la settimana; le donne lavoravano tutto il tempo, con scarsi aiuti da parte delle macchine che avrebbero dovuto alleviare le loro fatiche, facendo il bucato, stirando camicie, rammendando calzini, rivoltando colletti, attaccando bottoni, mettendo l'antitarme nella roba di lana, lucidando i mobili, spazzando e lavando pavimenti, lavando finestre, pulendo lavandini, vasche, gabinetti e fornelli, passando l'aspirapolvere sui tappeti, assistendo i malati, andando a fare la spesa, cucinando, dando da mangiare ai familiari, riordinando armadi e cassetti, controllando il lavoro di imbianchini e altri artigiani, organizzando le cose per i riti delle feste, pagando le bollette e tenendo l'amministrazione familiare mentre si occupavano, simultaneamente, della salute, del vestiario, della pulizia, dell'istruzione, della nutrizione, della condotta, dei compleanni, della disciplina e del morale dei loro figli. Qualche donna lavorava al fianco del marito nel negozio a gestione familiare nelle strade commerciali del quartiere, aiutata dopo la scuola e il sabato dai figli più grandi, che consegnavano la roba a casa dei clienti, mettevano la merce in magazzino e facevano le pulizie.

Era il lavoro, per me, a identificare e distinguere i nostri vicini, assai piú della religione. Nessuno nel quartiere aveva la barba o vestiva nella maniera antiquata del Vecchio Continente o portava lo zucchetto per la strada o nelle case che visitavo abitualmente con i miei amici d'infanzia. Gli adulti non erano piú osservanti nei modi esterni e riconoscibili, se lo erano mai stati seriamente, e a parte i bottegai piú vecchi come il sarto e il macellaio kosher - e i nonni malati o decrepiti che vivevano necessariamente con i loro figli adulti - quasi nessuno nel vicinato parlava con un accento. Nel 1940, nell'angolo sudoccidentale della piú grande città del New Jersey, i genitori ebrei e i loro figli parlavano tra loro in un inglese americano somigliante piú alla lingua che si parlava ad Altoona o Binghamton che ai famigerati dialetti parlati sull'altra sponda dell'Hudson dai nostri omologhi ebrei nei cinque distretti amministrativi di New York. Scritte in ebraico erano riprodotte sulla vetrina del macellaio e incise negli architravi delle piccole sinagoghe del quartiere, ma in nessun altro posto (a parte il cimitero) accadeva che l'occhio si fermasse sull'alfabeto del libro di preghiere piuttosto che sui caratteri familiari dell'idioma natio usato tutto il tempo praticamente da tutti per ogni motivo immaginabile, nobile o plebeo. All'edicola davanti al candy store dell'angolo, le persone che compravano il «Racing Form» erano dieci volte piú di quelle che compravano il quotidiano yiddish, il «Forvertz».

Israele ancora non esisteva, sei milioni di ebrei europei non avevano ancora cessato di esistere, e l'interesse locale per la remota Palestina (sotto mandato britannico dal 1918, dopo la dissoluzione da parte degli Alleati vittoriosi delle ultime remote province del defunto impero ottomano) era per me un mistero.

[...]

Quando cominciai ad andare a scuola, nel 1938, quello di Lindbergh era un nome che in casa nostra provocava lo stesso genere d'indignazione dei programmi radiofonici domenicali di padre Coughlin, il prete dell'area di Detroit che dirigeva un settimanale di estrema destra chiamato «Social Justice» e la cui virulenza antisemita eccitò, nei momenti difficili che il paese stava attraversando, le passioni di un pubblico piuttosto ragguardevole. Fu nel novembre 1938 - per gli ebrei d'Europa l'anno piú nero e piú nefasto in diciotto secoli - che il peggiore pogrom della storia moderna, la Kristallnacht, venne organizzato dai nazisti in tutta la Germania: sinagoghe date alle fiamme, le abitazioni e le ditte degli ebrei distrutte, e, nel corso di una notte che faceva presagire il mostruoso futuro, ebrei a migliaia strappati con la forza alle loro case e trasportati nei campi di concentramento. Quando gli suggerirono, come reazione a questa barbarie senza precedenti, perpetrata da uno stato sui suoi cittadini, di restituire la croce d'oro adorna di quattro svastiche conferitagli dal maresciallo dell'aria Göring a nome del Führer, Lindbergh declinò l'invito col pretesto che per lui rinunciare pubblicamente alla Croce di Servizio dell'Ordine dell'Aquila Tedesca avrebbe costituito «un'inutile offesa» alla leadership nazista.

Lindbergh fu il primo celebre americano vivente che imparai a odiare - proprio come il presidente Roosevelt fu il primo celebre americano vivente che mi insegnarono ad amare - e cosí la sua nomination da parte dei repubblicani come avversario di Roosevelt nel 1940 rappresentò l'attacco piú violento che fosse mai stato sferrato contro quella ricca dotazione di sicurezza personale che io avevo dato per scontata come figlio americano di genitori americani in una scuola americana di una città americana in un'America in pace col mondo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 17

La convention repubblicana del 1940. Quella sera - giovedí 27 giugno - mio fratello e io andammo a dormire mentre la radio era accesa nel soggiorno, e nostro padre, nostra madre e nostro cugino Alvin, che era piú grande di noi, ascoltavano tutti insieme la trasmissione in diretta da Philadelphia. Dopo sei votazioni, i repubblicani non avevano ancora scelto un candidato. Il nome di Lindbergh doveva ancora essere pronunciato da un solo delegato, e a causa di un conclave di tecnici in una fabbrica del Midwest dov'era stato chiamato a consulto sul progetto di un nuovo aereo da caccia, Lindbergh non era presente e nessuno si aspettava di vederlo. Quando Sandy e io andammo a letto, la convention era ancora divisa tra Dewey, Willkie e due potenti senatori repubblicani, Vandenberg del Michigan e Taft dell'Ohio, e non sembrava che patti segreti fossero in procinto di essere stipulati da alti papaveri del partito come l'ex presidente Hoover, che era stato sloggiato dalla Casa Bianca dalla schiacciante vittoria di FDR nel 1932, o dal governatore Alf Landon, che FDR aveva sconfitto ancor piú ignominiosamente quattro anni dopo nel trionfo elettorale piú cospicuo della storia.

Era la prima sera umida e afosa dell'estate, e per questo le finestre erano aperte in tutte le stanze, e Sandy e io non potemmo che continuare a seguire dai nostri letti la cronaca diffusa dalla nostra radio nel soggiorno e la radio accesa nell'appartamento sottostante e - poiché una casa era separata dall'altra da un vialetto cosí stretto da passarci appena con la macchina - le radio dei vicini a destra e a sinistra della nostra casa e di là dalla strada. Questo accadeva molto prima che i condizionatori fuori dalle finestre avessero la meglio sui rumori delle notti tropicali di un quartiere e il programma rimbalzava sopra tutto l'isolato da Keer a Chancellor: un isolato in cui non abitava un solo repubblicano, in nessuna della trentina di case bifamiliari o negli appartamenti della nuova palazzina all'angolo di Chancellor Avenue. Nelle vie come la nostra, per tutto il tempo che FDR fu in cima alla lista, gli ebrei votarono senza esitare per i democratici.

Ma eravamo due bambini e ci addormentammo nonostante tutto, e probabilmente non ci saremmo svegliati fino alla mattina dopo se alle 3,18 antimeridiane Lindbergh - con i repubblicani a un punto morto dopo la ventesima votazione - non avesse fatto il suo ingresso imprevisto nella sala della convention. L'eroe bello, alto e asciutto, un uomo agile dall'aria atletica che non aveva ancora quarant'anni, arrivò in tenuta di volo, essendo atterrato col proprio apparecchio all'aeroporto di Philadelphia solo qualche minuto prima, e alla sua vista un'ondata di emozione liberatrice fece scattare in piedi gli stanchi delegati che urlarono «Lindy! Lindy! Lindy!» per trenta gloriosi minuti senza venire interrotti dal presidente dell'assemblea. Dietro la riuscita messinscena di questo spontaneo dramma pseudoreligioso c'erano le macchinazioni del senatore Gerald P. Nye del North Dakota, un isolazionista di destra che propose rapidamente all'assemblea il nome di Charles A. Lindbergh di Little Falls, nel Minnesota, al che due dei piú reazionari membri del Congresso - il deputato Thorkelson del Montana e il deputato Mundt del South Dakota - appoggiarono la candidatura, e alle quattro precise del mattino di venerdí 28 giugno il Partito repubblicano, per acclamazione, scelse come proprio candidato il fanatico che dai microfoni di una radio nazionale aveva accusato gli ebrei di essere «altri popoli» che usavano la loro enorme «influenza... per portare il nostro paese alla distruzione», invece di riconoscere apertamente che eravamo una piccola minoranza di cittadini ampiamente superati nel numero dai nostri connazionali cristiani, tendenzialmente impossibilitati a conseguire pubblici poteri dall'ostacolo del pregiudizio religioso e sicuramente non meno fedeli ai principi della democrazia americana di un ammiratore di Hitler.


«No!» fu la parola che ci svegliò, un «No! » urlato a pieni polmoni da tutti gli uomini dell'isolato. Non è possibile. No. Non alla presidenza degli Stati Uniti.

In pochi secondi, mio fratello e io tornammo a incollarci alla radio col resto della famiglia, e nessuno si curò di rispedirci a letto. Col caldo che c'era, mia madre aveva dignitosamente indossato una vestaglia sopra la leggera camicia da notte - dormiva anche lei, ed era stata svegliata dal rumore - e ora sedeva sul sofà accanto a mio padre con le dita sulla bocca come se stesse sforzandosi di non vomitare. Intanto mio cugino Alvin, non piú capace di stare seduto, si era messo a passeggiare in quella stanza di cinque metri per quattro con un impeto nell'andatura piú adatto a un vendicatore che battesse la città per disfarsi della sua nemesi.

La rabbia, quella notte, fu la vera fucina rombante, la fornace che ti prende e ti torce come acciaio. E non si placò: non mentre Lindbergh era silenziosamente alla tribuna di Philadelphia a sentirsi applaudire ancora una volta come il salvatore del paese, non quando pronunciò il discorso con cui accettava la nomination del suo partito e con esso il mandato di tenere l'America fuori dalla guerra europea. Aspettavamo tutti, terrorizzati, di sentirlo ripetere alla convention il suo malevolo vilipendio degli ebrei, ma il fatto che non lo facesse non cambiò nulla nel cattivo umore che spinse tutte le famiglie dell'isolato, nessuna esclusa, a uscire in strada quasi alle cinque del mattino. Famiglie intere che avevo conosciuto solo vestite, vestite di tutto punto con gli indumenti di tutti i giorni, indossavano pigiami e camicie da notte sotto le vestaglie e giravano in tondo in ciabatte, all'alba, come sospinte fuori di casa da un terremoto. Ma quella che piú sorprendeva un bambino era la rabbia, la rabbia di uomini che conoscevo come spensierati fornitori di consigli non richiesti o rispettosi e taciturni lavoratori che per tutta la giornata si guadagnavano il pane sgorgando lavandini o pulendo caldaie o vendendo mele al minuto e poi la sera leggevano il giornale e ascoltavano la radio e si addormentavano nella poltrona del soggiorno, gente semplice che era ebrea per caso e che ora dava in escandescenze in mezzo alla strada e inveiva senza preoccuparsi delle convenienze, risospinta bruscamente nella lotta insostenibile a cui aveva creduto di sfuggire grazie alla provvidenziale migrazione della generazione precedente.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 26

Sopra il ritratto centrale, ogni francobollo presentava l'immagine di un lume che l'ufficio poste e telegrafi identificava come il «Lume del Sapere», ma al quale io pensavo come alla lampada di Aladino per via del ragazzo delle Mille e una notte con la lampada magica e l'anello e i due geni che gli danno tutto ciò che chiede. Quelli che io avrei chiesto a un genio erano i piú agognati di tutti i francobolli americani: primo, il celebre posta aerea da ventiquattro cent del 1918, un francobollo che a quanto si diceva valeva 3400 dollari, dove l'aereo raffigurato al centro, il Flying Jenny dell'esercito, è invertito; e poi i tre famosi francobolli dell'emissione per l'Esposizione Panamericana del 1901 che erano stati, anche quelli, stampati per sbaglio con i centri invertiti e che valevano piú di mille dollari l'uno.

Sul francobollo verde da un cent nella serie degli educatori, appena sopra l'immagine del Lume del Sapere, c'era Horace Mann; sul due cent rosso, Mark Hopkins; sul tre cent viola, Charles W. Eliot; sul quattro cent blu, Frances E. Willard; sul dieci cent marrone c'era Booker T. Washington, il primo negro che fosse mai apparso su un francobollo americano. Ricordo che dopo aver messo il Booker T. Washington nel mio album e mostrato a mia madre che esso completava la serie di cinque, le avevo chiesto: «Credi che ci sarà mai un ebreo su un francobollo?» e lei aveva risposto: «Probabilmente... Un giorno, sí. Lo spero, in ogni modo». In realtà, dovevano passare altri ventisei anni, e ci volle Einstein per arrivarci.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 46

Earl possedeva la migliore collezione di francobolli del quartiere. Mi insegnò tutto ciò che di pratico e di esoterico imparai da bambino sui francobolli - sulla loro storia, sui pregi e sui difetti del collezionismo del nuovo e dell'usato, su cose tecniche come la carta, la stampa, il colore, la gomma, le sovrastampe, le stampigliature e le emissioni speciali, sui grandi falsi e sugli errori nei disegni - e, da quel prodigioso pedante che era, aveva cominciato la mia educazione parlandomi del collezionista francese Monsieur Herpin, colui che coniò la parola «filatelia», spiegandone la derivazione da due parole greche, la seconda delle quali, ateleia, che significava esenzione dalle tasse, non ebbe mai senso per me. E ogni volta che in cucina avevamo finito con i francobolli e lui aveva smesso temporaneamente di spadroneggiare, ridacchiava e diceva: «E adesso facciamo qualcosa di terribile», che fu il modo in cui arrivai a vedere la biancheria di sua madre.

Nel sogno stavo andando da Earl con l'album dei francobolli incollato al petto quando qualcuno urlava il mio nome e cominciava a darmi la caccia. Mi gettavo in un vialetto e mi infilavo in uno dei garage a nascondermi e a controllare l'album per vedere se qualche francobollo si era staccato dalle linguelle quando, mentre fuggivo davanti al mio inseguitore, inciampavo e lasciavo cadere l'album proprio nel punto del marciapiede dove giocavamo regolarmente a «Dichiaro guerra». Quando aprivo l'album al Bicentenario di Washington del 1932 - dodici francobolli il cui valore andava dal mezzo cent marrone scuro ai dieci cent giallo - rimanevo sbalordito. Sui francobolli Washington non c'era più. Immutata in cima a ogni francobollo - stampata in quelli che avevo imparato a riconoscere come caratteri romani chiari e spazieggiati su una o due righe - c'era la scritta «United States Postage». Anche i colori dei francobolli erano immutati - quello da due cent rosso, quello da cinque cent blu, quello da otto cent verde oliva, e cosí via -, tutti i francobolli avevano le stesse dimensioni regolamentari e le cornici dei ritratti erano disegnate una per una come nella serie originaria, ma invece di un diverso ritratto di Washington per ciascuno dei dodici francobolli, ora i ritratti erano tutti uguali e non piú di Washington, ma di Hitler. E anche sul nastro sotto ogni ritratto non c'era piú il nome «Washington». Che il nastro fosse piegato all'ingiú come nel francobollo da mezzo cent e da sei, o piegato all'insú come in quello da quattro, da cinque, da sette e da dieci, o diritto con i capi sollevati come in quello da uno, uno e mezzo, due, tre, otto e nove, il nome scritto sul nastro era «Hitler».

Fu quando guardai, subito dopo, la pagina opposta dell'album per vedere cos'era successo, se era successo qualcosa, ai miei dieci francobolli della serie dei parchi nazionali del 1934 che caddi dal letto e mi svegliai sul pavimento, questa volta urlando. Yosemite in California, Grand Canyon in Arizona, Mesa Verde in Colorado, Crater Lake nell'Oregon, Acadia nel Maine, Mount Rainier nello stato di Washington, Yellowstone nel Wyoming, Zion nello Utah, Glacier nel Montana, le Great Smoky Mountains nel Tennessee: e sulla faccia di ognuno di essi, sulle rupi, sui boschi, sui fiumi, sulle cime, sui geyser, sui burroni, sulle coste di granito, sulle acque profonde e sulle grandi cascate, su quanto di piú verde, bianco e blu ci fosse in America, da conservare per sempre in queste riserve incorrotte, era stampata una svastica nera.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 97

La zia Evelyn era trionfante. Sandy parlò dell'ultimo lavoro che aveva fatto in campagna: andare in giro con Orin, uno dei figli di Mawhinney, a raccogliere le foglie di tabacco staccatesi durante il raccolto. Erano di solito le piú basse sulla pianta, disse Sandy, le chiamavano «volanti», e il caso voleva che fosse tabacco della migliore qualità, quello che al mercato spuntava il prezzo piú alto. Ma gli uomini che tagliano il tabacco in una piantagione di dieci ettari non possono curarsi delle foglie rimaste sul terreno, ci spiegò, perché devono tagliare quasi tremila mazzi di tabacco al giorno per poter sistemare ogni cosa nel capannone per la cura in due settimane. - Oooh! Ferma il cavallo... Cos'è un «mazzo», caro? - chiese la zia Evelyn, e di buon grado lui le usò la cortesia di darle la piú lunga spiegazione possibile. E cos'è la cura, chiese lei, cos'è la cimatura, cos'è la spollonatura, cos'è lo sverminamento?... E piú domande faceva la zia Evelyn, piú autorevole diventava Sandy, tanto che, quando arrivammo in Summit Avenue e mio padre mise la macchina nel vialetto, stava ancora parlando del tabacco come se si aspettasse che tutti noi andassimo subito nel cortile dietro casa e ci mettessimo a preparare il pezzo di terra pieno di erbacce vicino ai bidoni della spazzatura per il primo raccolto di Burley chiaro che si fosse mai fatto a Newark. - È il Burley addolcito che c'è nelle Lucky - ci informò - a dargli quel sapore, e intanto io morivo dalla voglia di toccare nuovamente i suoi bicipiti, che per me non erano meno straordinari dell'accento regionale, se quello era l'accento del Kentucky: diceva «cain't» per «can't» e «rimember» per «remember» e «fahr» per «fire» e «agin» per «again» e «awalkin'» e «atalkin'» per «walking» e «talking», e comunque si fosse voluto chiamare quella mistura d'inglese, non era la lingua che parlavano i nati nel New Jersey.

La zia Evelyn era trionfante, ma mio padre era contrariato, non disse quasi nulla, e a cena, quella sera, sembrò particolarmente cupo quando Sandy si mise a spiegare che uomo eccezionale fosse il signor Mawhinney. Prima di tutto, il signor Mawhinney si era laureato al College of Agriculture dell'università del Kentucky, mentre mio padre, come quasi tutti gli altri figli dei quartieri poveri di Newark prima della guerra mondiale, non era andato oltre l'ottava elementare. Il signor Mawhinney possedeva non una ma tre aziende agricole, le piú piccole delle quali erano in mano a due affittuari: terra che apparteneva alla sua famiglia fin quasi dai tempi di Daniel Boone, mentre mio padre non aveva nulla di piú imponente di un'automobile vecchia di sei anni. Il signor Mawhinney era capace di sellare un cavallo, guidare un trattore, usare una trebbiatrice, manovrare uno spandiconcime, arare un campo con una coppia di muli e con una coppia di buoi; sapeva alternare le colture e dirigere i braccianti, bianchi e neri; sapeva aggiustare gli attrezzi, affilare le lame degli aratri e delle falciatrici, drizzare staccionate, tirare filo spinato, allevare galline, disinfestare le pecore, tagliare le corna al bestiame, ammazzare i maiali, affumicare la pancetta, salare e stagionare i prosciutti: e produceva angurie che erano le piú dolci e le piú succose che Sandy avesse mai mangiato. Coltivando tabacco, granturco e patate, il signor Mawhinney riusciva a vivere dei frutti della terra e poi, durante la cena domenicale (dove quell'agricoltore, che pesava un quintale ed era alto un metro e novanta, consumava piú pollo fritto col sugo alla panna di tutti gli altri commensali messi insieme), mangiava solo roba coltivata da lui personalmente, mentre mio padre non sapeva fare altro che vendere polizze di assicurazione. Superfluo aggiungere che il signor Mawhinney era cristiano, membro di vecchia data della schiacciante maggioranza che aveva fatto la Rivoluzione e fondato la nazione e civilizzato la selva e soggiogato gli indiani e ridotto i negri in schiavitú ed emancipato i negri e segregato i negri, uno dei milioni di buoni cristiani, puliti e laboriosi, che avevano colonizzato la frontiera, arato i campi, costruito le città, e che governavano gli stati, sedevano al Congresso, occupavano la Casa Bianca, ammassavano ricchezze, possedevano la terra, e le acciaierie e le squadre di baseball e le strade ferrate e le banche, e possedevano e controllavano persino la lingua, uno di quegli inattaccabili protestanti nordici e anglosassoni che governavano l'America e sempre l'avrebbero governata - generali, dignitari, magnati, capitani d'industria, gli uomini che facevano le leggi e comandavano e quando volevano richiamavano all'ordine - mentre mio padre, naturalmente, era soltanto un ebreo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 157

Alvin era a letto e ancora in pigiama alle quattro del pomeriggio di quel giorno di gennaio in cui Monty venne a trovarlo per la prima volta e osò fargli la domanda di cui nessuno di noi conosceva esattamente la risposta: «Come diavolo hai fatto a perdere una gamba?» Poiché Alvin era stato cosí poco socievole quando ero tornato da scuola, reagendo con un grugnito di disgusto a tutti i miei tentativi di rallegrarlo, non mi aspettavo proprio che il nostro meno amabile parente gli strappasse una risposta.

Ma la presenza minacciosa dello zio Monty, con l'eterna sigaretta penzolante dall'angolo della bocca, fu tale che neppure Alvin, in quei primi giorni, poté dirgli di chiudere il becco e togliersi dai piedi. Quel particolare pomeriggio Alvin non arrivò neanche a una pallida imitazione della sprezzante insolenza che al suo ritorno a casa da amputato gli aveva permesso di attraversare con una serie di salti prodigiosi l'atrio principale della Penn Station.

- Francia, - rispose Alvin con voce cavernosa alla grossa domanda.

- Il paese peggiore della terra, - gli disse Monty, senza la minima incertezza. A ventun anni, nell'estate del 1918, lui stesso aveva combattuto in Francia contro i tedeschi nella seconda sanguinosa battaglia della Marna, e poi nella foresta delle Argonne quando gli Alleati sfondarono il fronte occidentale tedesco, e cosí, naturalmente, sapeva tutto della Francia.

- Non ti sto chiedendo dove, - disse Monty, - ti sto chiedendo come.

- Come? - ripeté Alvin.

- Sputa, ragazzo. Ti farà bene.

Sapeva anche questo: cosa gli avrebbe fatto bene.

- Dov'eri - chiese - quando ti hanno colpito? E non dirmi «nel posto sbagliato». Sei stato per tutta la vita nel posto sbagliato.

- Stavamo aspettando che la barca ci venisse a prendere.

A questo punto Alvin chiuse gli occhi come se sperasse di non riaprirli mai più. Ma invece di fermarsi lí, come io pregavo che facesse, «Avevo sparato a un tedesco», disse a un tratto.

- E...? - disse Monty.

- È rimasto là fuori a urlare per il resto della notte.

- E allora? Allora? Avanti. Quello urlava. E allora?

- Allora verso l'alba, prima che arrivasse la barca, mi sono avvicinato strisciando al posto dove si trovava. Forse a cinquanta metri di distanza. A quel punto era già morto. Ma io ho strisciato fino a trovarmi sopra di lui e gli ho sparato due volte alla testa. Poi ho sputato su quel figlio di puttana. E in quel secondo hanno tirato la granata. L'ho presa nelle gambe. Su una delle gambe il piede era girato dall'altra parte. Rotto e girato. Quello hanno potuto aggiustarlo. L'hanno operato e aggiustato. Ci hanno messo un'ingessatura. L'hanno raddrizzato. Ma l'altro non c'era piú. Ho guardato sotto e ho visto un piede rivolto all'indietro e una gamba ciondoloni. La sinistra, già quasi amputata.

Ecco tutto, e ben lontano dall'eroica realtà che avevo cosí futilmente immaginato.

- Solo soletto là nella terra di nessuno, - gli disse Monty, - potresti essere stato colpito da uno dei tuoi. Ancora non c'è luce, c'è una mezza luce, uno sente sparare, viene preso dal panico... Tombola, strappa la sicura.

A quelle congetture, Alvin non trovò niente da dire.

Chiunque altro avrebbe capito e ridotto la pressione, anche solo per il sudore che imperlava la fronte di Alvin e le goccioline che gli si raccoglievano nella cavità della gola e il fatto che non voleva ancora aprire gli occhi. Ma mio zio no: lui capisce e insiste. - E come mai non ti hanno lasciato là? Dopo una bravata come quella, perché non ti hanno lasciato là a morire?

- C'era fango dappertutto, - fu la risposta distratta di Alvin. - Il terreno era pieno di fango. Non ricordo altro che questo: c'era del fango.

- Chi ti ha salvato, balordo?

- Sono venuti a prendermi. Devo aver perso i sensi. Sono venuti a prendermi.

- Sto cercando di capire come ragioni, Alvin, e non ci riesco. Sputa. Lui sputa. Ed ecco la storia di come perde una gamba.

- Certe cose, non sai perché le fai -. Ero stato io a parlare. Che ne sapevo, io? Però stavo dicendo a mio zio: - Si fanno e basta, zio Monty. Non puoi farne a meno.

- Non puoi farne a meno, Phillie, quando sei un balordo di professione -. Ad Alvin disse: - E ora ? Vuoi stare lí sdraiato a vivere degli assegni d'invalidità? Vuoi fare il furbo e approfittare della fortuna che hai avuto? O magari prenderesti in considerazione l'idea di mantenerti come il resto di noi stupidi mortali? C'è un posto al mercato per te, quando ti sarai alzato dal letto. Comincerai dalla gavetta, lavando il pavimento e facendo la cernita dei pomodori, comincerai dalla gavetta con gli scaricatori e gli imbranati, ma c'è un posto per te nella mia ditta, e un assegno ogni settimana. Tu ti sei fregato metà dell'incasso della stazione della Esso, ma io ti darò una mano ugualmente perché sei sempre il figlio di Jack, e per mio fratello Jack farei qualunque cosa. Non sarei arrivato dove sono senza di lui. Jack mi ha insegnato il mestiere ed è morto. Proprio come Steinheim voleva insegnarti il suo. Ma nessuno è capace d'insegnarti qualcosa, balordo. Butta le chiavi in faccia a Steinheim, lui. È troppo grande per Abe Steinheim. Solo Hitler è abbastanza grande per Alvin Roth.

In cucina, in un cassetto con le presine e il termometro del forno, mia madre teneva un ago lungo e rigido e del filo grosso per cucire il tacchino del Ringraziamento dopo averlo farcito. Era l'unico strumento di tortura che avessimo, a parte il torcitoio, e mi venne voglia di andarlo a prendere per chiudere la bocca di mio zio.

Sulla porta della camera da letto, prima di uscire per andare al mercato, Monty si voltò indietro per ricapitolare. I prepotenti amano ricapitolare. La ricapitolazione, ammonitrice e ridondante, che ha qualcosa in comune solo con l'antica fustigazione. - I tuoi compagni hanno rischiato tutto per salvarti. Sono venuti a prenderti e a trascinarti via sotto il fuoco. No? E per cosa? Perché tu potessi passare il resto della vita giocando a dadi con Margulis? Perche tu possa giocare a teresina nel cortile della scuola? Perché tu possa riprendere a pompare benzina e a derubare Simkowitz fino a ridurlo sul lastrico? Tu fai tutti gli errori dell'elenco. Tutto quello che fai è sbagliato. Hai sbagliato persino a sparare ai tedeschi. Perché? Perché tiri le chiavi alla gente? Perché sputi? Uno che è già morto... E tu sputi? Perché? Perché la vita non ti è stata servita su un piatto d'argento come al resto dei Roth? Se non fosse per Jack, Alvin, non starei qui a sprecare il fiato. Non c'è nulla che tu ti sia guadagnato. Diciamolo chiaramente. Nulla. Per ventidue anni sei sempre stato un disastro. Io faccio questo per tuo padre, figliolo, non per te. Lo faccio per tua nonna. «Aiuta quel ragazzo», mi dice, e io ti aiuto. Quando avrai deciso come vuoi fare fortuna, vieni a trovarmi sulla tua gamba di legno e faremo quattro chiacchiere.

Alvin non pianse, non imprecò, non gridò, anche dopo che Monty era uscito dalla porta di dietro e rimontato in macchina, quando avrebbe potuto sfogare tutta la sua rabbia. Era troppo abbattuto, quel giorno, per sfogarsi. O anche per crollare. Solo io crollai, dopo che non volle aprire gli occhi e guardarmi quando lo implorai di farlo; solo io crollai, piú tardi, da solo, nell'unico posto della casa dove sapevo di poter andare per essere lontano dai vivi e da tutto ciò che non possono trattenersi dal fare.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 297

- Tu prendi la mira, - spiegò a mio padre il signor Cucuzza, usando l'indice e il pollice per la sua dimostrazione, - e spari. Prendi la mira e spari, tutto qui.

- Non mi serve, - disse mio padre.

- Ma se vengono, - disse il signor Cucuzza, - come ti difendi?

- Cucuzza, io sono nato nella città di Newark nell'anno millenovecento e uno, - gli disse mio padre. - Per tutta la vita ho pagato l'affitto in tempo, ho pagato le tasse in tempo e in tempo ho pagato le mie fatture. Non ho mai rubato a un datore di lavoro neanche dieci cent. Non ho mai cercato di imbrogliare il governo degli Stati Uniti. Io credo in questo paese. Amo questo paese.

- Anch'io, - disse il nostro massiccio nuovo vicino del piano di sotto, il cui cinturone nero avrebbe potuto reggere una fila di teste rimpicciolite, dato il fascino che continuava a esercitare su di me. - Io sono arrivato che avevo dieci anni. Il paese migliore di tutti. Niente Mussolini, qui.

- Sono lieto che tu la pensi cosí, Cucuzza. È una tragedia per l'Italia, è una tragedia umana per la gente come te.

- Mussolini, Hitler... Mi fanno vomitare.

- Sai qual è la mia passione, Cucuzza? Il giorno delle elezioni, - gli disse mio padre. - Io amo votare. Da quando ero abbastanza grande, non ho perso un'elezione. Nel 1924 ho votato contro Coolidge e per Davis, e ha vinto Coolidge. E sappiamo tutti cos'ha fatto Coolidge per i poveri di questo paese. Nel 1928 ho votato contro Hoover e per Smith, e ha vinto Hoover. E sappiamo cos'ha fatto lui per i poveri di questo paese. Nel 1932 ho votato contro Hoover per la seconda volta e per Roosevelt per la prima volta, e grazie a Dio Roosevelt ha vinto, e ha rimesso l'America in piedi. Ha tirato questo paese fuori dalla Depressione e ha dato alla gente quello che aveva promesso: un nuovo patto. Nel 1936 ho votato contro Landon e per Roosevelt, e Roosevelt ha vinto ancora: due stati, il Maine e il Vermont, ecco gli unici posti dove Landon riesce a vincere. Non riesce ad assicurarsi nemmeno il Kansas. Roosevelt stravince in tutto il paese col maggior numero di voti mai ottenuti alle elezioni, e ancora una volta mantiene ogni promessa fatta ai lavoratori in quella campagna. E allora cosa fanno gli elettori nel millenovecento e quaranta? Al suo posto eleggono un fascista. Non un semplice idiota come Coolidge, non un semplice allocco come Hoover, ma un fascista patentato con tanto di medaglia che lo prova. Eleggono un fascista e un demagogo fascista, Wheeler, come suo compare, e nel gabinetto ci mettono anche Ford, che non è soltanto un antisemita come Hitler ma uno schiavista che ha trasformato il lavoratore in una macchina. E cosí stasera tu vieni da me, Cucuzza, a casa mia, e mi offri una pistola. In America nell'anno millenovecento e quarantadue, un vicino nuovo di zecca, un uomo che ancora non conosco, deve venire qui a offrirmi una pistola perché io possa proteggere la mia famiglia dalla teppa antisemita del signor Lindbergh. Be', non credere che io non ti sia grato, Cucuzza. Non dimenticherò mai che ti sei preoccupato per noi. Ma io sono un cittadino degli Stati Uniti d'America, e cosí mia moglie, e cosí i miei figli, e cosí... - disse, con la voce che tremava, - e cosí era Walter Winchell...

Ma ora, tutt'a un tratto, c'è un bollettino della radio su Walter Winchell. - Ssss! - dice mio padre. - Ssss! - come se non fosse stato lui, l'oratore principale in cucina. Ascoltiamo tutti - persino Joey sembra ascoltare - come gli uccelli formano uno stormo per migrare e i pesci nuotano in un banco.

La salma di Walter Winchell, trucidato quel giorno durante una manifestazione politica a Louisville, nel Kentucky, da un presunto assassino del Partito nazista americano che agiva in collaborazione col Ku Klux Klan, sarà portata durante la notte in treno da Louisville alla Pennsylvania Station di New York City. Là, per ordine del sindaco Fiorello La Guardia e sotto la protezione della polizia di New York City la salma sarà esposta per tutta la mattina nella camera ardente del salone della stazione ferroviaria. Secondo la tradizione ebraica, un servizio funebre si terrà lo stesso giorno alle due pomeridiane nel tempio Emanu-El, la piú grande sinagoga di New York. Un sistema di altoparlanti trasmetterà la cerimonia all'esterno del tempio a una folla di dolenti in Fifth Avenue, il cui numero dovrebbe ascendere a decine di migliaia. Insieme al sindaco La Guardia, gli oratori comprenderanno il senatore democratico James Mead, il governatore ebreo di New York Herbert Lehman e l'ex presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt.

- Finalmente! - esclama mio padre. - È tornato! FDR è tornato!

- Ne abbiamo bisogno un mucchio, - dice il signor Cucuzza.

- Ragazzi, - chiede nostro padre, - capite cosa sta succedendo? - e ci butta le braccia al collo, a Sandy e a me. - È l'inizio della fine del fascismo in America! Niente Mussolini qui, Cucuzza... Basta con i Mussolini, qui!

| << |  <  |