Copertina
Autore Philip Roth
Titolo Indignazione
EdizioneEinaudi, Torino, 2009, Supercoralli , pag. 144, cop.ril.sov., dim. 15x22.2x1,5 cm , Isbn 978-88-06-19586-1
OriginaleIndignation [2008]
TraduttoreNorman Gobetti
LettoreRenato di Stefano, 2009
Classe narrativa statunitense
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Indice


    5   Sotto morfina

  133   Non piú sotto

  137   Nota storica


 

 

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Pagina 5

Sotto morfina


Circa due mesi e mezzo dopo che il 25 giugno 1950 le ben addestrate divisioni della Corea del Nord, armate dai comunisti sovietici e cinesi, avevano attraversato il 38° parallelo invadendo la Corea del Sud, e le sciagure della Guerra di Corea avevano avuto inizio, io avevo cominciato a frequentare il Robert Treat, un piccolo college nel centro di Newark che prendeva nome da colui che nel XVII secolo aveva fondato la città. Ero il primo esponente della mia famiglia ad ambire a un'istruzione universitaria. Nessuno dei miei cugini era andato oltre le superiori, e né mio padre né i suoi tre fratelli avevano finito le elementari. - È da quando avevo dieci anni che lavoro per guadagnarmi da vivere, - mi diceva sempre mio padre. Era un macellaio di quartiere, e io per tutto il periodo delle superiori avevo fatto le consegne in bicicletta per lui, eccetto durante la stagione del baseball e nei pomeriggi in cui dovevo partecipare con la mia squadra agli incontri del campionato interscolastico di dibattito. Quasi dal giorno stesso in cui lasciai il negozio - dove avevo lavorato per lui sessanta ore alla settimana da quando mi ero diplomato in gennaio fino all'inizio del college a settembre -, quasi dal giorno stesso in cui andai alla mia prima lezione al Robert Treat, mio padre cominciò a temere per la mia vita. Forse la sua paura aveva a che fare con la guerra, in cui le forze armate statunitensi, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, erano immediatamente entrate per sostenere lo sforzo bellico del male addestrato e poco attrezzato esercito sudcoreano; forse aveva a che fare con le pesanti perdite che le nostre truppe stavano subendo contro la potenza di fuoco comunista e con la paura che, se il conflitto si fosse trascinato altrettanto a lungo della Seconda guerra mondiale, io venissi arruolato nell'esercito per combattere e morire sul campo di battaglia coreano come i miei cugini Abe e Dave erano morti durante la Seconda guerra mondiale. O forse la paura aveva a che fare con le sue preoccupazioni finanziarie: l'anno precedente, il primo supermercato del quartiere aveva aperto i battenti ad appena qualche isolato dalla macelleria kosher della nostra famiglia, e le vendite avevano cominciato progressivamente a calare, in parte perché la sezione carne e pollame del supermercato applicava prezzi inferiori a quelli di mio padre, e in parte perché nel dopoguerra sempre meno famiglie si prendevano il disturbo di mantenere uno stile di vita kosher e di comprare carne e pollo kosher da un negozio con certificazione rabbinica il cui proprietario fosse membro della Federazione dei Macellai Kosher del New Jersey. O forse la sua paura per me nasceva dalla paura per se stesso, poiché a cinquant'anni, dopo aver goduto per tutta la vita di ottima salute, quell'uomo piccolo e robusto cominciava a essere tormentato da una tosse secca e persistente che, per quanto inquietasse mia madre, non gli impediva di tenere per l'intera giornata una sigaretta accesa all'angolo della bocca. Qualunque fosse stata la causa, o la concomitanza di cause, dell'improvvisa trasformazione del suo precedentemente benevolo comportamento paterno, ora mio padre manifestava la sua paura perseguitandomi giorno e notte con le sue domande ossessive. Dove sei stato? Perché non eri a casa? Come faccio a sapere dove sei quando esci? Sei un ragazzo con un magnifico futuro davanti... come faccio a sapere che non vai in posti dove potresti farti ammazzare?

Erano domande grottesche, dal momento che, negli anni delle superiori, ero stato uno studente giudizioso, responsabile, diligente, che prendeva sempre il massimo dei voti e usciva solo con le ragazze piú ammodo, raffinato argomentatore nelle sfide di dibattito, jolly interno per la squadra di baseball della scuola, soddisfatto di mantenermi nell'ambito delle norme adolescenziali del nostro quartiere e della mia scuola. Erano anche domande esasperanti: era come se il padre a cui ero stato cosí vicino nel corso di tutti quegli anni, crescendo praticamente al suo fianco in negozio, non avesse piú la minima idea di chi o cosa fosse suo figlio. Al negozio, i clienti deliziavano lui e mia madre dicendo loro quant'era stato bello veder crescere il piccolino a cui una volta portavano i biscotti - quando il padre per farlo giocare gli lasciava tagliare i pezzi di grasso come un «macellaio grande», sebbene con un coltello dalla lama smussata -, vederlo trasformarsi sotto i loro occhi in un giovanotto distinto e forbito che passava il manzo nel tritacarne e spargeva la segatura per spazzare il pavimento e strappava via le piume rimaste al collo dei polli morti appesi ai ganci quando il padre lo chiamava e gli diceva: - Fa' il piacere, Markie, pulisci due polli per la signora Tal-dei-tali -. Durante i sette mesi prima del college, fece molto piú che darmi la carne da tritare e i polli da pulire. Mi insegnò come ricavare le braciole da un carré d'agnello, come separare ogni costola e, quand'ero arrivato al fondo, prendere la mannaia e affettare quel che restava. E mi insegnò sempre con grande disinvoltura. - Basta che tieni l'altra mano lontana dalla mannaia e andrà tutto bene, - diceva. Mi insegnò a essere paziente con i clienti piú pignoli, in particolare quelli che volevano esaminare la carne da ogni angolazione prima di comprarla, quelli per cui dovevo reggere il pollo in modo tale che loro potessero letteralmente guardargli su per il buco del culo per assicurarsi che fosse pulito. - È incredibile cosa ti fanno passare certe donne prima di convincersi a comprare il pollo, - mi diceva. E poi ne faceva l'imitazione: - «Me lo giri. No, dall'altra parte. Mi faccia vedere il didietro» -. Il mio compito non era solo spennare i polli, ma anche sviscerarli. Incidergli il culo in modo da allargarlo un po', infilarci la mano dentro, agguantare le viscere e tirarle fuori. Odiavo quell'operazione. Era nauseante e disgustosa, ma andava fatta. Ecco cosa imparavo da mio padre e cosa mi piaceva imparare da lui: si fa quel che va fatto.

Il nostro negozio si affacciava su Lyons Avenue, a Newark, a un isolato dal Beth Israel Hospital, e in vetrina avevamo uno scomparto per mettere il ghiaccio, con un ampio ripiano leggermente inclinato in avanti. Un camion del ghiaccio veniva a venderci il ghiaccio tritato, e noi lo mettevamo lí dentro e poi ci mettevamo sopra la carne in modo che la gente la vedesse mentre passava. Nei sette mesi prima del college, quando lavoravo a tempo pieno in macelleria, spettava a me preparare la vetrina per lui. - L'artista è Marcus, - diceva mio padre quando la gente faceva qualche commento. Ci mettevo di tutto. Ci mettevo bistecche, ci mettevo polli, ci mettevo stinchi d'agnello... prendevo tutti i prodotti che avevamo e li disponevo in vetrina in modo «artistico». Mi facevo dare delle felci dal fioraio davanti all'ospedale e le usavo per decorare la carne. E non mi limitavo a fare le vetrine e a tagliare, affettare e vendere la carne; in quei sette mesi in cui sostituivo mia madre al suo fianco, andavo con mio padre al mercato all'ingrosso la mattina presto e imparavo anche a comprarla, la carne. Lui ci andava una volta alla settimana, alle cinque, cinque e mezzo del mattino, perché andando lui al mercato, scegliendo lui la carne, portandola lui in negozio e mettendola lui nella cella frigorifera, risparmiava sul sovrapprezzo che avrebbe dovuto pagare per farsela consegnare. Compravamo un intero quarto di manzo, compravamo un quarto anteriore d'agnello per ricavarne le braciole, compravamo un vitello, compravamo fegati di manzo, compravamo polli e fegatini di pollo e, dato che avevamo un paio di clienti che ne volevano, compravamo cervella. Il negozio apriva alle sette del mattino e si lavorava fino alle sette, otto di sera. Avevo diciassette anni, ero giovane, volenteroso e pieno di energia, ma alle cinque ero già stravolto. Invece lui eccolo li, ancora in forze, che si caricava in spalla quarti anteriori da cento libbre e andava ad appenderli ai ganci nella cella frigorifera. Eccolo lí che tagliava e affettava con i coltelli, che menava fendenti con la mannaia e compilava ordini alle sette di sera, quando io ero sull'orlo del collasso. Però toccava a me pulire i ceppi come ultima cosa prima di andare a casa, buttarci sopra la segatura e grattarli con la spazzola di ferro, e cosí, chiamando a raccolta la poca energia che mi restava, grattavo via il sangue per mantenere il posto kosher.

Ripenso a quei sette mesi come a un periodo meraviglioso - eccetto quando veniva il momento di sviscerare i polli. E anche quella a modo suo era una cosa meravigliosa, perché era una cosa che andava fatta e andava fatta bene, una cosa che non mi piaceva fare. Perciò anche lì c'era una lezione da imparare. E io adoravo le lezioni - adoravo metterle in pratica! E adoravo mio padre, e lui me, piú di quanto fosse mai successo prima. In macelleria preparavo io il pranzo, per lui e per me. Non solo mangiavamo in negozio, ma cucinavamo in negozio, su una piccola griglia nel retro, accanto a dove tagliavamo e preparavamo la carne. Arrostivo fegatini di pollo, arrostivo piccole bistecche, e noi due non eravamo mai stati cosí felici insieme. Eppure poco tempo dopo ebbe inizio la distruttiva lotta fra di noi: Dove sei stato? Perché non eri a casa? Come faccio a sapere dove sei quando esci? Sei un ragazzo con un magnifico futuro davanti... come faccio a sapere che non vai in posti dove potresti farti ammazzare?

Quell'autunno cominciai il primo anno al Robert Treat, e ogni volta che mio padre chiudeva a doppia mandata la porta anteriore e quella posteriore e, se tornavo a casa venti minuti dopo quel che lui si aspettava, non potevo entrare con le mie chiavi e dovevo bussare a una delle due porte, pensavo che fosse diventato pazzo.

Ed era diventato pazzo: pazzo per la preoccupazione che il suo amato figlio unico fosse altrettanto impreparato ai pericoli della vita quanto chiunque altro alle soglie della maggiore età, pazzo per la spaventosa scoperta che un bambino cresce, diventa alto, mette in ombra i genitori e non puoi piú trattenerlo, devi consegnarlo al mondo.

Me ne andai dal Robert Treat dopo un solo anno. Me ne andai perché tutt'a un tratto mio padre non mi credeva nemmeno piú capace di attraversare la strada da solo. Me ne andai perché la sorveglianza di mio padre era diventata insopportabile. La prospettiva della mia indipendenza aveva trasfigurato quell'uomo altrimenti equilibrato, che di rado perdeva la pazienza con qualcuno, ma che adesso pareva determinato a ricorrere alla violenza nel caso avessi l'ardire di deluderlo, mentre io - nonostante la mia rinomata fredda logica mi avesse reso il pilastro della squadra di dibattito delle superiori - ero ridotto a ululare di frustrazione di fronte alla sua ignoranza e irrazionalità. Dovevo allontanarmi da mio padre prima di ucciderlo - questo dissi in un attacco di collera alla mia angosciata madre, che adesso si ritrovava al pari di me sorprendentemente priva di influenza su di lui.

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Pagina 36

Quel che accadde in seguito mi diede da pensare per molte settimane a venire. E anche una volta morto, come sono adesso da non so quanto tempo, tento di ricostruire le usanze che regnavano su quel campus e di ricapitolare i tormentati sforzi per eludere quelle usanze che produssero il concatenarsi di disgrazie che sarebbero culminate nella mia morte a diciannove anni. Anche adesso (se «adesso» è una parola che ha ancora qualche significato), oltre l'esistenza corporea, ora che qui io vivo (se «qui» e «io» significano qualcosa) come sola memoria (se è «memoria», a rigor di termini, la dimensione onnicomprensiva in cui continuo a essere «me stesso»), continuo a interrogarmi sulle azioni di Olivia. È a questo che serve l'eternità, a sguazzare nel pantano delle minuzie di una vita? Chi avrebbe immaginato di avere a disposizione un tempo infinito per ricordare ogni istante della vita in ogni minimo dettaglio? O forse questo è il mio tipo di vita ultraterrena, e come ogni vita è unica, cosí lo è anche ogni vita ultraterrena, come un'imperitura impronta digitale diversa da quella di chiunque altro? Non ho modo di stabilirlo. Come in vita, conosco solo quel che c'è, e in morte quel che c'è consiste in quel che c'è stato. Non solo sei incatenato alla tua vita mentre la vivi, ma non te ne liberi neppure dopo essertene andato. O, di nuovo, forse è cosí per me, per me solo. Chi avrebbe potuto mettermi sull'avviso? E la morte sarebbe stata meno terrificante se avessi saputo che non era un infinito nulla ma un eterno rimuginare della memoria su se stessa? Anche se forse questo perpetuo ricordare non è altro che l'anticamera dell'oblio. In quanto non credente, presumevo che nell'aldilà non esistesse orologio, corpo, cervello, anima, dio, ma solo un'assoluta decomposizione, senza forma, contorno o sostanza. Non sapevo che non solo l'aldilà non era privo di ricordi, ma che i ricordi sarebbero stati tutto. Non ho neppure idea se il mio ricordare si trascini da tre ore o da milioni di anni. Qui non è la memoria che cade nell'oblio, ma il tempo. E non c'è tregua, perché la vita ultraterrena è anche priva di sonno. A meno che sia tutto sonno, e il sogno di un passato per sempre perduto tenga per sempre compagnia al defunto. Ma sogno o non sogno, qui non c'è altro cui pensare se non la vita trascorsa. Questo significa che «qui» è l'inferno? O il paradiso? È meglio o peggio dell'oblio? Si direbbe che almeno nella morte l'incertezza dovrebbe cessare. Ma nella misura in cui non ho idea di dove sono, di cosa sono o di quanto a lungo resterò in questo stato, l'incertezza a quanto pare continua. Di certo questo non è lo spazioso paradiso dell'immaginazione religiosa, dove tutte noi brave persone siamo di nuovo insieme, con l'incomparabile felicità di non avere piú la spada della morte che ci incombe sulla testa. Per la cronaca, ho il forte sospetto che anche qui si possa morire. Qui non si può andare oltre, questo è sicuro. Non ci sono porte. Non ci sono giorni. L'unica direzione (per ora?) è all'indietro. E il giudizio non ha mai fine, e non perché ci sia una divinità a giudicarti, ma perché le tue azioni vengono per tutto il tempo assillantemente giudicate da te stesso.

Se voi mi chiedete come ciò possa essere - memoria su memoria, nient'altro che memoria - io ovviamente non so rispondere, e non perché non esistano «io» e «voi», non piú di quanto esistano «qui» e «ora», ma perché l'unica cosa che esiste è il passato ricordato, non ritrovato e - attenzione alla differenza - non rivissuto nell'immediatezza del regno sensoriale, ma semplicemente ritrasmesso. E quanto ancora del mio passato posso sopportare? Racconto a me stesso la mia storia ventiquattr'ore su ventiquattro in un mondo senza ore, aleggiando senza corpo in questa grotta della memoria, mi sento come se non facessi altro da milioni di anni. Continuerà davvero cosí? I miei diciannove piccoli anni per l'eternità, mentre tutto il resto è assente, i miei diciannove piccoli anni inesorabilmente qui, persistentemente presenti, mentre tutto ciò che ha reso reali questi diciannove anni, mentre tutto ciò che ci situa pienamente nel «qui e ora» rimane un remoto, remoto fantasma?

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Pagina 51

L'ufficio del decano della sezione maschile era uno fra i molti uffici amministrativi allineati lungo il corridoio del primo piano di Jenkins Hall. Lo studentato maschile, dove avevo dormito in un letto a castello prima sotto Bertram Flusser e poi sotto Elwyn Ayers Jr, occupava i piani secondo e terzo. Quando dall'anticamera entrai nel suo ufficio, il decano girò intorno alla scrivania per venire a stringermi la mano. Era snello e con le spalle larghe, le mascelle affilate, scintillanti occhi azzurri e una folta cresta di capelli argentati, un uomo alto che doveva avere quasi sessant'anni ma si muoveva ancora con l'agilità del giovane atleta che a Winesburg alla vigilia della Prima guerra mondiale eccelleva in tre sport. Alle pareti c'erano fotografie delle premiate squadre sportive di Winesburg, e su un piedistallo dietro la scrivania era esposta una palla ovale in bronzo. Gli unici libri nell'ufficio erano i volumi dell'annuario del college, l'«Owl's Nest», disposti in ordine cronologico in una vetrinetta alle sue spalle.

Mi fece cenno di sedermi sulla sedia di fronte alla sua e, mentre tornava dal suo lato della scrivania, disse in tono amabile: - Le ho chiesto di venirmi a trovare per conoscerla e capire se posso aiutarla ad ambientarsi a Winesburg. Vedo dalla copia del suo libretto, - e sollevò dalla scrivania la cartellina il cui contenuto stava scorrendo quando ero entrato, - che nel primo anno di università lei ha sempre preso il massimo dei voti. Non vorrei mai che a Winesburg qualcosa interferisse con risultati accademici tanto favolosi.

Avevo già la canottiera madida di sudore prima ancora di sedermi e di pronunciare qualche parola stentata. E ovviamente ero ancora sovreccitato e nervoso per la funzione appena terminata, non solo a causa del sermone del dottor Donehower, ma anche a causa della mia sfrenata vocalizzazione interiore dell'inno nazionale cinese. - Neppure io, signore, - replicai.

Non avevo programmato di rivolgermi al decano chiamandolo «signore», anche se per me non era inusuale, la prima volta che mi trovavo di fronte a un'autorità, sentirmi sopraffatto da una timidezza che assumeva i tratti di un'estrema formalità. Anche se il mio impulso non era esattamente quello di strisciare, dovevo combattere un forte senso di soggezione, e invariabilmente ci riuscivo solo parlando in modo molto piú brusco di quanto richiesto dal colloquio. Ogni volta uscivo da tali incontri rimproverandomi sia per l'iniziale timidezza sia per l'eccessiva franchezza con cui l'avevo superata, e ripromettendomi d'ora innanzi di rispondere con la massima brevità a qualunque domanda mi venisse rivolta, e per il resto di restare calmo e a bocca chiusa.

- Vede qualche potenziale difficoltà all'orizzonte? - mi domandò il decano.

- No, signore. Niente affatto, signore.

- Come vanno le cose a lezione?

- Mi sembra bene, signore.

- Sta ricavando dai corsi tutto ciò che sperava?

- Sí, signore.

A rigor di termini, questo non era vero. I miei professori erano o troppo ingessati oppure troppo rustici per i miei gusti e, nel corso di quei primi mesi al campus, non ne avevo ancora trovato nessuno carismatico come quelli del primo anno al Robert Treat. Là quasi tutti i miei insegnanti ogni giorno si facevano i venti chilometri da New York per venire da noi a Newark, e mi sembravano ribollire di energia e di opinioni - in taluni casi opinioni esplicitamente di sinistra, nonostante le pressioni politiche prevalenti -, due cose che mancavano a questi insegnanti del Midwest. Al Robert Treat un paio dei miei professori erano ebrei, eccitabili in un modo che non mi era estraneo, ma anche i tre che non erano ebrei parlavano in modo molto piú serrato e veemente dei professori di Winesburg, e dalla babele sull'altra sponda dell'Hudson portavano con sé a lezione un atteggiamento piú affilato e duro e vitale, che li spingeva a non celare le proprie avversioni. A letto la notte, con Elwyn addormentato sopra di me, pensavo spesso a quei meravigliosi insegnanti che avevo avuto la fortuna di conoscere, che mi avevano entusiasmato e per la prima volta mi avevano introdotto alla vera conoscenza e, sentendomi sopraffatto da inattesi sentimenti di tenerezza, pensavo agli amici della squadra di baseball delle matricole, come il mio compagno italiano Angelo Spinelli, amici ormai perduti. Al Robert Treat non avevo mai percepito l'esistenza di un vecchio stile di vita che l'intero corpo docente cercasse di tutelare, al contrario di quanto accadeva a Winesburg ogni volta che sentivo celebrare le virtú della «tradizione» locale.

- Sta socializzando abbastanza? - domandò Caudwell. - Si sta guardando attorno, sta conoscendo altri studenti?

- Sí, signore.

Mi aspettavo che mi chiedesse di elencare quelli che avevo conosciuto fino ad allora, e che si segnasse i nomi sul blocchetto per gli appunti che aveva di fronte e in cima a cui aveva scritto il mio nome per poi convocarli in ufficio e controllare se avevo detto la verità. Invece si limitò a riempire un bicchiere d'acqua da una caraffa posata su un tavolino dietro la scrivania e a passarmelo.

- Grazie, signore -. Sorseggiai l'acqua in modo che non mi andasse di traverso facendomi tossire in modo incontrollabile. Intanto ero avvampato al pensiero che solo ascoltando le mie prime risposte fosse già riuscito a indovinare che avevo la bocca riarsa.

- Dunque l'unico problema è che lei stenta ad adattarsi alla vita dello studentato, - disse. - È cosí? Come dicevo nella mia lettera, mi preoccupa un po' il fatto che lei abbia già risieduto in tre diverse stanze nel giro di poche settimane. Me lo dica con parole sue, cosa c'è che non va?

La sera prima avevo messo a punto una risposta, sapendo che sarebbe stato quello il tema principale dell'incontro. Solo che adesso non ricordavo piú quel che avevo pensato di dire.

- Può ripetere la domanda, signore?

- Si calmi, figliolo, - disse Caudwell. - Beva ancora un po' d'acqua.

Feci come diceva. Sto per essere buttato fuori, pensai. Per i miei troppi cambiamenti di stanza mi chiederanno di andarmene da Winesburg. È cosí che andrà a finire. Buttato fuori, arruolato, spedito in Corea e ucciso.

- Qual è il problema, Marcus?

- Nella camera che mi era stata assegnata all'inizio, - sí, eccole, le parole che avevo scritto e memorizzato, - uno dei miei tre compagni di stanza ascoltava sempre il grammofono quando io ero già a letto, perciò non riuscivo a dormire. E per studiare ho bisogno di dormire. La situazione era insostenibile -. All'ultimo momento avevo deciso per «insostenibile» invece di «inammissibile», l'aggettivo che avevo preparato la sera prima.

- Ma non potevate discuterne e accordarvi su un orario per ascoltare il grammofono che fosse accettabile per entrambi? - mi domandò Caudwell. - Era proprio necessario andarsene? Non c'era altra scelta?

- Sí, era necessario andarsene.

- Non c'era modo di raggiungere un compromesso.

- Non con lui, signore -. Piú in là di cosí non andai, nella speranza che il decano trovasse ammirevole che evitassi di denunciare Flusser facendone il nome.

- Le capita spesso di non riuscire a raggiungere un compromesso con le persone con cui non va d'accordo?

- Spesso non direi, signore. Una cosa simile non mi era mai capitata.

- E che mi dice del secondo compagno di stanza? Anche la convivenza con lui a quanto pare non ha funzionato. O sbaglio?

- No, signore.

- E questa volta a cosa è stato dovuto?

- I nostri interessi erano incompatibili.

- Dunque anche in questo caso non c'era spazio per un compromesso.

- No, signore.

- E adesso vive solo, a quanto vedo. Vive per conto suo in un sottotetto a Neil Hall.

- A questo punto del semestre, era l'unica stanza vuota disponibile, signore.

- Beva ancora un po' d'acqua, Marcus. La aiuterà.

Ma non avevo piú la bocca secca. Non stavo neanche piú sudando. Ero invece irritato per come aveva detto: «La aiuterà», quando a me sembrava di non essere piú tanto nervoso, e di star dando buona prova di me, considerando l'età e la situazione. Ero irritato, ero umiliato, ero risentito, e non avevo intenzione di degnare il bicchiere nemmeno di uno sguardo. Perché dovevo essere sottoposto a un tale interrogatorio solo perché mi ero spostato da una camera a un'altra al fine di trovare la tranquillità mentale necessaria allo studio? Erano forse affari suoi? Non aveva di meglio da fare che interrogarmi riguardo a dove dormivo? Prendevo sempre il massimo dei voti... perché questo non bastava a nessuno dei miei insaziabili tutori (che poi erano due, il decano e mio padre)?

- E che mi dice della confraternita in cui entrerà? Prenderà i suoi pasti lí, presumo.

- Non entrerò in nessuna confraternita, signore. Non mi interessa la vita delle confraternite.

- Quali sarebbero dunque i suoi interessi?

- I miei studi, signore. Istruirmi.

- Cosa indubbiamente ammirevole. Ma nient'altro? Ha socializzato con qualcuno da quando è a Winesburg?

- Durante il fine settimana lavoro, signore. Lavoro al bar della locanda come cameriere. Devo lavorare per aiutare mio padre a mantenermi agli studi, signore.

- Non ce n'è bisogno, Marcus... basta chiamarmi signore. E basta con questo «lei». Chiamami decano Caudwell, o anche solo decano, se preferisci. Winesburg non è un'accademia militare, e non siamo ai primi del secolo. È il 1951.

- Non mi pesa chiamarla signore, decano -. Invece mi pesava. Mi ripugnava. Ed era per questo che lo facevo! Volevo prendere la parola «signore» e ficcargliela su per il culo perché mi aveva preso di mira e convocato nel suo ufficio per farmi il terzo grado. Prendevo sempre il massimo dei voti. Perché questo non bastava? Durante i fine settimana lavoravo. Perché questo non bastava? Non ero neanche riuscito a godermi il mio primo pompino senza chiedermi per tutto il tempo qual era l'inghippo grazie a cui l'avevo ottenuto. Perché questo non bastava? Cos'altro dovevo fare per dimostrare alla gente quanto valevo?

Prontamente il decano menzionò mio padre. - Qui dice che tuo padre è un macellaio kosher.

- Non mi pare, signore. Ricordo di aver scritto solo «macellaio». È quello che scriverei su qualunque modulo, ne sono certo.

- Sí, hai scritto cosí. Sono io che presumo sia un macellaio kosher.

- Lo è, ma non è quello che ho scritto.

- Questo l'ho già ammesso. Però non è inaccurato definirlo con maggior precisione macellaio kosher, vero?

- Ma neanche quello che ho scritto io è inaccurato.

- Sarei curioso di sapere perché non hai scritto «kosher», Marcus.

- Non mi sembrava rilevante. Se il padre fosse un dermatologo, un ortopedico o un ostetrico, lo studente che compila il modulo d'iscrizione non scriverebbe semplicemente «medico»? Almeno penso.

- Ma kosher non rientra in quella stessa categoria.

- Se mi sta chiedendo, signore, se intendevo nascondere la religione in cui sono nato, la risposta è no.

- Lo spero bene. E sono lieto di sentirlo. Ognuno ha il diritto di praticare liberamente la propria fede, e questo vale per Winesburg come per qualunque altro angolo di questo paese. D'altro canto, noto che sotto «preferenza religiosa» tu non hai scritto «ebraica», nonostante tu sia di estrazione ebraica e di conseguenza, secondo la politica del college di favorire la convivenza degli studenti della medesima fede, ti siano stati inizialmente assegnati compagni di stanza ebrei.

- Non ho scritto niente sotto preferenza religiosa, signore.

- Lo vedo. E mi chiedo perché.

- Perché non ho nessuna preferenza religiosa. Perché non preferisco una pratica religiosa all'altra.

- Da cosa dunque ricavi un sostegno spirituale? A chi rivolgi le tue preghiere quando hai bisogno di pregare?

- Non ne ho bisogno. Non credo in Dio e non credo nella preghiera -. Alle superiori, nelle gare di dibattito, ero noto per come insistevo implacabilmente sulle mie ragioni, e questo feci. - Ricavo un sostegno da ciò che è reale, non da ciò che è immaginario. Pregare, per me, è privo di senso.

- Davvero? - replicò lui con un sorriso. - Eppure molti milioni di persone pregano.

- Un tempo milioni di persone pensavano che la terra fosse piatta, signore.

- Sí, questo è vero. Ma posso domandarti, Marcus, solo per curiosità, come te la cavi nella vita, essendo la nostra vita inevitabilmente piena di affanni e tribolazioni, in mancanza di una guida religiosa e spirituale?

- Prendo il massimo dei voti, signore.

Quelle parole suscitarono un secondo sorriso, un sorriso di condiscendenza che mi piacque ancor meno del primo. Adesso ero pronto a disprezzare con tutto me stesso il decano Caudwell per avermi fatto passare attraverso questa tribolazione.

- Non ti ho chiesto dei tuoi voti, - disse. - I tuoi voti li conosco. E hai tutto il diritto di andarne fiero, come ti ho già detto.

- Se è cosí, signore, allora conosce la risposta alla sua domanda su come me la cavo senza una guida religiosa e spirituale. Me la cavo proprio bene.

Cominciavo a esasperarlo, e in un modo che di certo non mi avrebbe giovato.

- Ebbene, se posso dirlo, - ribatté il decano, - a me non sembra affatto che te la cavi proprio bene. Quanto meno, mi pare, non te la cavi proprio bene con le persone con cui dividi la stanza. Alla minima divergenza d'opinione, prendi e te ne vai.

- C'è qualcosa di male nel trovare una soluzione andandosene tranquillamente via? - domandai, e dentro cominciai a cantare: «In piedi, voi che rifiutate di essere schiavi! Con la nostra carne e il nostro sangue costruiremo una nuova Grande Muraglia!»

- Non necessariamente, non piú di quanto ci sia qualcosa di male nel trovare una soluzione lavorandoci tranquillamente su e restando. Guarda dove sei finito... nella stanza meno desiderabile dell'intero campus. Una stanza in cui da molti anni ormai nessuno ha voluto o dovuto vivere. Francamente, non mi piace pensarti lassú da solo. È la peggiore stanza di Winesburg, nessuna esclusa. Da centinaia d'anni è la stanza peggiore del piano peggiore dello studentato peggiore. In inverno si gela e all'inizio dell'estate è già una sauna. Ed è piena di mosche. E proprio li dentro hai deciso di trascorrere i giorni e le notti del tuo secondo anno di università.

- Ma non vivo lí perché non ho credenze religiose, signore... se è questo a cui lei in modo un po' tortuoso sta alludendo.

- E perché allora?

- Come le ho spiegato... - dissi, e nel frattempo nella mia testa cantavo a gran voce: «Per le masse della Cina giunge il giorno del pericolo...» - nella mia prima stanza non riuscivo a dormire a causa di un compagno di stanza che si ostinava ad ascoltare il grammofono fino a tardi e a declamare ad alta voce nel cuore della notte, mentre nella seconda stanza mi trovavo a vivere con una persona la cui condotta consideravo intollerabile.

- La tolleranza non è il tuo forte, giovanotto.

- Non me l'ha mai detto nessuno prima d'ora, signore, - ribattei, proprio nel momento in cui scandivo dentro di me la piú bella parola della nostra lingua: «In-di-gna-zio-ne!» A un tratto mi domandai come si diceva in cinese. Volevo scoprirlo e andarmene in giro per il campus urlandolo a squarciagola.

- A quanto pare ci sono molte cose che non ti ha mai detto nessuno prima d'ora, - replicò. - Ma «prima d'ora» vivevi a casa, nel seno della tua famiglia d'infanzia. Adesso vivi da adulto per conto tuo insieme a milleduecento altri adulti, e quello che devi imparare qui a Winesburg, a parte lo studio, è andare d'accordo con la gente ed estendere la tua tolleranza a persone che non sono copie esatte di te stesso.

Ormai infervorato dal mio cantare furtivo, sbottai: - E lei che ne direbbe di estendere la sua tolleranza a me? Mi scusi, signore, non intendo essere sfrontato o insolente. Ma, - e con mio grande stupore mi sporsi in avanti e battei il pugno sulla scrivania, - qual è esattamente il crimine che ho commesso? Va bene, mi sono spostato un paio di volte, mi sono spostato da una stanza all'altra... È considerato un crimine al Winesburg College? Questo mi rende un reo confesso?

A questo punto si versò dell'acqua e toccò a lui bere un lungo sorso. Oh, se solo gliel'avessi versato io. Se solo gli avessi passato il bicchiere dicendo in tono cortese: «Si calmi, decano. Provi questo».

Con un sorriso munifico, disse: - Qualcuno ha detto che è un crimine, Marcus? Tu hai un debole per le esagerazioni drammatiche. Non ti si addice ed è una caratteristica su cui ti farebbe bene riflettere. Ora dimmi, come va con la famiglia? Tutto bene a casa fra te, tua madre e tuo padre? Vedo da questo modulo, quello dove affermi di non avere preferenze religiose, che non hai neanche fratelli o sorelle. A casa ci siete solo voi tre, se devo considerare accurato quel che hai scritto qui.

- Perché non dovrebbe essere accurato, signore? - Sta' zitto, dissi a me stesso. Sta' zitto, e da adesso a quando uscirai di qua, niente piú marce trionfali! Solo che non ci riuscii. Non ci riuscii perché il debole per l'esagerazione non era una caratteristica mia, ma del decano: quello stesso incontro si fondava sull'importanza ridicolmente esagerata che lui dava alla camera in cui avevo scelto di abitare. - Sono stato accurato quando ho scritto che mio padre è un macellaio, - dissi. - È un macellaio. Non sono l'unico che direbbe che è un macellaio. Lui stesso direbbe che è un macellaio. È lei che preferisce dire che è un macellaio kosher. Il che mi sta bene. Ma non è una buona ragione per insinuare che io sia stato in alcun modo inaccurato nel compilare il modulo per l'iscrizione a Winesburg. E non è stato inaccurato da parte mia lasciare in bianco lo spazio per le preferenze religiose...

- Se posso interromperti, Marcus, come va fra voi tre, dal tuo punto di vista? È questa la mia domanda. Tu, tua madre e tuo padre... come va fra voi? Una risposta diretta, per favore.

- Fra me e mia madre va perfettamente bene. Come sempre. Anche con mio padre è andato tutto perfettamente bene per la maggior parte della mia vita. Dall'ultimo anno delle elementari fino a quando ho cominciato a frequentare il Robert Treat, ho lavorato part-time per lui alla macelleria. Un padre e un figlio non potrebbero essere piú vicini di quanto lo siamo stati noi. Ultimamente invece ci sono state delle tensioni che ci hanno reso entrambi infelici.

- Tensioni relative a cosa, se posso chiedertelo?

- Lui era ingiustificatamente preoccupato per la mia indipendenza.

- Ingiustificatamente perché non ha motivo di esserlo?

- Nessun motivo.

- È preoccupato, ad esempio, per la tua incapacità di adattarti ai compagni di stanza qui a Winesburg?

- Non gli ho raccontato dei miei compagni di stanza. Non mi sembrava importante. E comunque «incapacità di adattarsi» non è un modo appropriato per definire le mie difficoltà, signore. Non voglio essere distratto dai miei studi da problemi superflui.

- Io non considero il tuo esserti spostato due volte in meno di due mesi un problema superfluo, e nemmeno tuo padre, ne sono certo, lo considererebbe tale, se fosse messo al corrente della situazione... come fra l'altro è nei suoi diritti. E tu stesso non ti saresti dato la briga di spostarti se l'avessi visto come un «problema superfluo». Ma sia come sia, Marcus, sei uscito con qualche ragazza da quando ti trovi a Winesburg?

Avvampai. «In piedi, voi che rifiutate...» - Sí, - dissi.

- Con qualcuna? Diverse? Molte?

- Una.

- Solo una?

Prima che osasse chiedermi chi era, prima di dover pronunciare il suo nome ed essere costretto a rispondere a una singola domanda su quel che era accaduto fra noi, mi alzai dalla sedia. - Signore, - dissi, - ho da obiettare a questo interrogatorio. Non ne comprendo lo scopo. Non vedo perché dovrei rispondere a domande relative alle mie relazioni con i compagni di stanza o al mio rapporto con la religione o alle mie idee sulla religione di chiunque altro. Queste sono mie faccende private, come lo è la mia vita sociale e il modo in cui la conduco. Non sto violando nessuna legge, il mio comportamento non causa danno o dolore a nessuno, e nulla di ciò che ho fatto ha violato i diritti di nessuno. Se c'è qualcuno i cui diritti sono stati violati, quello sono io.

- Risiediti, per favore, e spiegati.

Mi sedetti e, questa volta di mia propria iniziativa, bevvi un lungo sorso dal mio bicchiere d'acqua. Cominciava a essere piú di quanto potevo sopportare, ma come avrei potuto capitolare, quando lui aveva torto e io ragione? - Ho da obiettare all'obbligo di partecipare alla funzione in cappella quaranta volte prima di potermi laureare, signore. Non capisco su quali basi il college possa costringermi ad ascoltare anche solo una volta un ecclesiastico di qualsivoglia fede, o ad ascoltare anche solo una volta un inno cristiano che invoca la divinità cristiana, essendo io un ateo che, a dirla tutta, è profondamente offeso dalle pratiche e credenze delle religioni organizzate -. Ormai non riuscivo piú a trattenermi, per quanto mi sentissi esausto. - Non ho bisogno che i sermoni di qualche moralista di professione mi dicano come comportarmi. E certamente non ho bisogno di un qualche Dio che me lo spieghi. Sono del tutto in grado di condurre un'esistenza morale senza prestar fede a credenze impossibili da avvalorare e oltremodo inverosimili che, a mio parere, non sono altro che fantasie infantili conservate da adulti, senza maggiori fondamenti della favola di Babbo Natale. Presumo che a lei, decano Caudwell, non siano ignoti gli scritti di Bertrand Russell. Lo scorso anno Bertrand Russell, rinomato matematico e filosofo inglese, ha vinto il Nobel per la letteratura. Una delle opere letterarie per cui gli è stato assegnato il Nobel è un saggio molto letto presentato per la prima volta sotto forma di conferenza nel 1927 e intitolato Perché non sono cristiano. Conosce questo saggio, signore?

- Risiediti per favore, - disse il decano.

Feci quel che diceva, ma continuai: - Le ho chiesto se conosce questo importantissimo saggio di Bertrand Russell. Mi sembra di capire che la risposta sia no. Ebbene, io lo conosco perché quando ero capitano della squadra di dibattito della mia scuola mi sono imposto di memorizzarne alcune grosse parti. Non le ho ancora dimenticate, e mi sono ripromesso di non dimenticarle mai. Questo saggio e altri analoghi contengono le tesi di Russell non solo contro la concezione cristiana di Dio ma contro le concezioni di Dio espresse da tutte le grandi religioni del mondo, ognuna delle quali Russell considera sia falsa sia dannosa. Semmai leggesse questo saggio, e nell'interesse della sua apertura mentale le consiglio di farlo, scoprirebbe che Bertrand Russell, che è uno dei principali logici nonché filosofi e matematici del mondo, smonta con logica incontrovertibile i vari argomenti a favore dell'esistenza di Dio: l'argomento della causa prima, l'argomento della legge naturale, l'argomento del fine delle cose, gli argomenti morali e l'argomento del rimedio all'ingiustizia. Le farò due esempi. Primo, riguardo all'argomento della causa prima, ne nega la validità dicendo: «Se tutto deve avere una causa, anche Dio deve averla. Se qualcosa può esistere senza una causa, allora perché Dio sí e il mondo no?» Secondo, riguardo all'argomento del fine delle cose, dice: «Se voi aveste l'onnipotenza, l'onniscienza e milioni di anni a vostra disposizione in cui perfezionare il vostro mondo, non produrreste qualcosa di meglio che il Ku Klux Klan o i fascisti?» Affronta anche la questione delle pecche dell'insegnamento di Cristo cosí come lo presentano i Vangeli, precisando che storicamente è alquanto dubbio che egli sia veramente esistito. Per Russell la piú grave pecca nel carattere morale di Cristo è la credenza nell'esistenza dell'inferno. Russell scrive: «A mio giudizio, chiunque abbia in sé un poco di umanità non può credere nel castigo eterno», e accusa Cristo di furia vendicativa contro le persone che non davano ascolto alla sua predicazione. Parla in modo estremamente esplicito di come le chiese abbiano frenato il progresso umano e di come, con la loro insistenza su ciò che definiscono moralità, infliggano sofferenze inutili e immeritate a ogni sorta di persone. La religione, dichiara, si fonda originariamente e principalmente sulla paura: paura dell'occulto, paura dell'insuccesso, paura della morte. La paura, dice Bertrand Russell, è parente della crudeltà, e non c'è dunque da stupirsi se nel corso dei secoli crudeltà e religione sono andate a braccetto. Conquistate il mondo con l'intelligenza, dice Russell, e non facendovi sottomettere come schiavi dal terrore che deriva dal vivere in esso. L'intera concezione di Dio, conclude, è una concezione indegna di uomini liberi. Questi sono i pensieri di un premio Nobel rinomato per i suoi contributi alla filosofia e per la sua padronanza della logica e della teoria della conoscenza, e io mi trovo in totale accordo con lui. Avendo studiato questi pensieri e avendoci riflettuto a fondo, intendo vivere in conformità ad essi, e certamente lei ammetterà, signore, che ne ho tutto il diritto.

- Risiediti per favore, - disse ancora una volta il decano. Lo feci. Non mi ero accorto di essermi rialzato. Ma è questo l'effetto che fa a una persona in preda a una crisi di nervi l'esortazione «In piedi!» ripetuta per tre volte in rapida successione.

- Dunque tu e Bertrand Russell non tollerate la religione organizzata, - mi disse, - né il clero e neppure la credenza in una divinità, non piú di quanto tu, Marcus Messner, tolleri i tuoi compagni di stanza... e, a quanto capisco, non piú di quanto tolleri un padre affezionato e operoso che tanta pena si dà per il benessere del figlio. Il fardello finanziario di cui si è caricato per mantenerti agli studi in un college lontano da casa dev'essere considerevole, o sbaglio?

- In caso contrario non lavorerei alla New Willard House, signore. Del resto mi sembra che ne abbiamo già parlato.

- Bene, allora dimmi, questa volta lasciando da parte Bertrand Russell... ti è mai capitato di tollerare le credenze di qualcuno anche se contrastavano con le tue?

- Mi pare, signore, che le visioni religiose che piú risultano intollerabili al novantanove per cento degli studenti, dei docenti e del personale amministrativo di Winesburg siano le mie.

A questo punto lui apri il mio fascicolo e cominciò a sfogliarlo lentamente, forse per rinfrescarsi la memoria sui miei risultati, forse (speravo) per trattenersi dall'espellermi all'istante per le accuse che avevo rivolto con tanta veemenza all'intero college. Forse solo per fingere che, pur essendo una persona tanto stimata e ammirata a Winesburg, sopportava di essere contraddetto.

- Vedo qui, - mi disse, - che stai studiando per diventare avvocato. Sulla base di questo colloquio, credo che sarai un avvocato di prim'ordine. - Senza piú sorridere, continuò: - Ti vedo già discutere una causa davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti. E vincerla, giovanotto, vincerla. Ammiro la tua schiettezza, la tua dizione, la tua sintassi... ammiro la tua tenacia e la convinzione con cui ti attieni a ciò che professi. Ammiro la tua capacità di memorizzare e trattenere astruse letture, anche se non necessariamente ammiro quel che hai scelto di leggere e la dabbenaggine con cui prendi come oro colato le bestemmie razionaliste di un uomo licenzioso come Bertrand Russell, sposato quattro volte, sfacciato adultero, sostenitore del libero amore, socialista confesso cacciato dalla propria università e imprigionato dalle autorità britanniche per la sua campagna disfattista nel corso della Prima guerra.

- Ma, e il premio Nobel?

- Ti ammiro anche adesso, Marcus, adesso che batti il pugno sulla mia scrivania e ti alzi in piedi additandomi per domandarmi del premio Nobel. Hai uno spirito combattivo. Questo lo ammiro, o meglio lo ammirerei se tu lo ponessi al servizio di una causa piú degna di quella di un uomo considerato un sovversivo criminale dal suo stesso governo.

- Non intendevo additarla, signore. Non me ne sono accorto.

- L'hai fatto, figliolo. Non è stata la prima volta e probabilmente non sarà l'ultima. Ma questo è il meno. Scoprire che Bertrand Russell per te è un eroe non mi stupisce affatto. In ogni campus ci sono sempre due o tre giovani intellettualmente precoci, saputelli che si autoproclamano membri di un'élite e hanno bisogno di sentirsi superiori ai compagni, superiori addirittura ai professori, e per questo attraversano la fase dell'ammirazione per un agitatore o iconoclasta del tenore di Russell o Nietzsche o Schopenhauer. Comunque non siamo qui per parlare di tali visioni, e certamente tu hai il diritto di ammirare chi vuoi, per quanto a me possa apparire deleteria l'influenza, e pericolose le conseguenze, di un cosiddetto libero pensatore e sedicente riformatore. Marcus, ciò che oggi ci porta qui insieme, ciò che oggi mi preoccupa, non è il fatto che per prepararti ai dibattiti alla scuola superiore tu abbia memorizzato parola per parola le facinorose opinioni di un Bertrand Russell volte ad alimentare lo scontento e la ribellione. Ciò che mi preoccupa sono le scarse capacità di socializzazione che stai dimostrando qui al Winesburg College. Ciò che mi preoccupa è il tuo isolamento. Ciò che mi preoccupa è la tua aperta ostilità all'antica tradizione di Winesburg, come dimostra il modo in cui hai reagito alla funzione in cappella, un impegno di poco conto, che agli studenti non sottrae che un'ora di tempo alla settimana per circa tre trimestri. Lo stesso impegno richiesto per l'educazione fisica, e non piú insidioso di quello, come io e te ben sappiamo. In tutti i miei anni di esperienza a Winesburg, non mi sono mai imbattuto in uno studente che avesse qualcosa da obiettare a uno di questi due impegni ritenendoli una violazione dei suoi diritti o una condanna alla stregua dei lavori forzati nelle miniere di sale. Ciò che mi preoccupa è quanto poco ti sei inserito nella comunità di Winesburg. A me sembra una situazione da affrontare subito e da troncare sul nascere.

Sto per essere espulso, pensai. Sto per essere rispedito a casa, arruolato e ucciso. Non ha compreso una sola delle parole che gli ho citato da Perché non sono cristiano. Oppure le ha capite, ed è proprio per questo che verrò arruolato e ucciso.

- Io ho una responsabilità sia personale sia professionale nei confronti dei miei studenti, - disse Caudwell, - nei confronti delle loro famiglie...

- Signore, non ce la faccio piú. Mi viene da vomitare.

- Scusa? - Ormai esaurita ogni pazienza, adesso gli occhi azzurri lucenti e cristallini di Caudwell mi fissavano con un letale miscuglio di incredulità ed esasperazione.

- Ho la nausea, - dissi. - Mi viene da vomitare. Non sopporto di sentirmi fare la morale in questo modo. Non sono uno scontento. Non sono un ribelle. Nessuna delle due parole mi definisce, ed entrambe mi offendono, anche se solo allusivamente si riferivano a me. Non ho fatto niente per meritarmi questa predica, se non trovare una camera in cui dormire in pace e dedicarmi ai miei studi senza distrazioni. Non ho commesso alcuna infrazione. Ho tutto il diritto di socializzare o non socializzare come piú mi aggrada. Non c'è altro da aggiungere. Non mi importa se la stanza è troppo calda o troppo fredda... è un problema mio. Non mi importa se è piena di mosche oppure no. Non è questo il punto! Inoltre devo richiamare la sua attenzione sul fatto che le sue argomentazioni contro Bertrand Russell non sono basate sulla ragione e rivolte all'intelletto ma sono indirizzate contro il suo carattere e basate sul pregiudizio, sono cioè attacchi ad hominem, e quindi privi di valore dal punto di vista logico. Signore, ora le chiedo rispettosamente il permesso di alzarmi e andarmene perché altrimenti temo che vomiterò.

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