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| << | < | > | >> |IndiceCarlo Lucarelli, Portami via 3 Piersandro Pallavicini, Pautasso bianco 9 Davide Bregola, Burattini e marionette 19 Massimo Cacciapuoti, Dachau e dintorni 27 Francesco Pacifico, Biografie di prigionieri 39 Francesco Permunian, Prime crepe 51 Laura Pugno, Progetto Grande Scimmia 53 Elio Paoloni, Dall'altra parte 73 Marco Aliprandini, Babele 79 Gianluca Di Dio, Il compromesso 91 Michele Rossi, La rappresaglia 99 Michele Governatori, Resistenza 107 Pietro Spirito, Bandiere rosse 115 Giuseppe Caliceti, Giovani e partigiani: una lingua comune 121 Vanessa Ambrosecchio, Milton è vivo 129 Gianluca Morozzi, Ne resterà uno solo 145 Gli autori 155 |
| << | < | > | >> |Pagina 3Cominciò tutto con un manifesto. Poco più di una locandina, in bianco e nero, che annunciava un convegno sugli orrori della Resistenza. Proprio così si intitolava, "Gli orrori della Resistenza", promosso da un'associazione e patrocinato dal comune. Dopo dissero che si erano sbagliati, che la tipografia aveva fatto male il lucido, che ci doveva essere scritto "Gli errori della Resistenza", ma che ormai non potevano più ritirarli perché avevano già speso tutti i soldi. Il sindaco aveva detto al Carlino che si scusava con chi poteva essere rimasto offeso e che comunque, a spaccare il capello, di orrori, nella Resistenza, ce n'erano stati. Adelmo aveva fatto un casino. Aveva attaccato un volantino alla bacheca dell'Anpi, aveva scritto una lettera all'Unità e al Resto del Carlino, e aveva chiesto ai consiglieri d'opposizione di fare qualcosa in consiglio comunale. Due li aveva trovati un po' freddi, va be', certo che è grave, però c'è di peggio e poi ormai è fatta, andiamo avanti; uno, Alberto, quello del centro sociale, era abbastanza incazzato ma anche molto rassegnato, che ci vuoi fare, hanno la maggioranza loro, lo sai come finisce, no? Comunque, almeno lui al picchetto a dare i volantini davanti al teatro c'era venuto. Erano in sei, Adelmo, Alberto, due del centro sociale, Marione, detto "Mingo" quando era nei Gap e Lorenzini, fratello di quello che era stato fucilato dai tedeschi. Sei su una popolazione di mille abitanti, non è poi così male, aveva detto Alberto. Adelmo non aveva commentato. Si era consolato col fatto che dentro al teatro erano undici. Il sindaco, cinque del consiglio comunale, il relatore, e tre ragazzi di Bologna. Poi c'era stata la polemica sul 25 aprile. Il sindaco aveva accampato motivi di salute e non era venuto. Il vicesindaco era venuto ma non aveva detto una parola. Il prete aveva benedetto il monumento ai caduti della Resistenza e in cinque minuti era finito tutto, anche perché pioveva. In tutto, compresi i due di Ravenna che venivano tutti gli anni, erano in quindici. Quelli di Ravenna di solito erano tre, ma uno quell'anno era morto. E alla fine c'era stato il fatto della strada. Adelmo lo aveva saputo da Alberto. Volevano fare una delibera per intestare una strada a Larvatelli. Volevano gli altri, naturalmente. «A Larvatelli?» Adelmo l'aveva soffiato con un filo di voce e quando aveva cercato di ripeterlo gli era sfuggito un ringhio, duro e roco come una specie di rutto. «A Larvatelli? A quel... quel... quel maiale di Larvatelli?» Pio Larvatelli era stato nella Brigata Nera di Bologna, durante la guerra. Un giorno erano arrivati in paese per un rastrellamento e si erano scontrati con un distaccamento della 36a Garibaldi di passaggio. Tre morti nella brigata. Erano tornati il giorno dopo e si erano portati via due uomini e una ragazza, gli unici rimasti in paese, perché gli altri erano già scappati tutti. Ma i due uomini erano malati e Maria, la ragazza, stava con loro perché era la sorella di uno dei due. I due uomini li avevano impiccati a Bologna. La ragazza era riuscita a saltare giù dal camion e a correre via per la campagna, ma le avevano sparato. Era stato Larvatelli, che era saltato giù anche lui, le era corso dietro e ad un certo punto si era fermato per prendere la mira e spararle nella schiena. Poi era tornato al camion, perché l'aveva presa, quello sì, ma non era caduta, si era infilata nel bosco e laggiù era meglio non andarci. La Maria era morta nel bosco, tra le braccia di Adelmo. Lui, Mingo e quelli del suo Gap l'avevano trovata praticamente dissanguata, ma aveva ancora abbastanza fiato per raccontargli quello che era successo. La Brigata Nera. Larvatelli. E Larvatelli era uno del paese anche lui. Adelmo fece un casino. Corse in comune ma il sindaco si fece negare, e allora lo aspettò al varco, al bar, e quando lo vide entrare praticamente gli saltò addosso. Il sindaco cincischiò, traccheggiò, quasi negò, non c'era nessun progetto su Pio Larvatelli, che comunque dopo la guerra era stato amnistiato, e che ormai sarebbe ora di parlare di riconciliazione, e se proprio vogliamo vedere tutti quelli che hanno avuto dei problemi allora non è che stiano tutti da una parte sola. Adelmo strinse i pugni, prese fiato, e come già aveva fatto un milione di volte, di cui almeno cinquecentomila col sindaco, ripeté che le guerre non finiscono di colpo solo perché qualcuno lo dice, che gli odi fanno fatica a spegnersi e che la gente incazzata nera per quello che le hanno fatto può anche lasciarsi andare ad atti di violenza. Disse vendetta, ed era una parola che non aveva mai usato prima. Disse anche per quanto condannabili. Disse anche errori. Ma programmare l'omicidio a freddo come componente della propria ideologia, assieme alla supremazia della razza e alla negazione della libertà, be', quella è un'altra cosa. Usò anche un paragone che aveva letto sul giornale, che parlare di riconciliazione senza che una parte si assuma la responsabilità dei propri errori sarebbe come proporre una celebrazione dei morti dell'11 settembre, includendo tra le vittime anche i dirottatori degli aerei. E poi vediamo se gli americani non si incazzano. Il sindaco ascoltò, un po' annuendo e un po' scuotendo la testa, come al solito, e dichiarò ufficialmente che su Pio Larvatelli, in quanto tale, non c'era e non ci sarebbe stata nessuna delibera. In quanto tale. Adelmo scoprì il trucco dal Carlino, una settimana dopo. Intervista del sindaco sulle novità della toponomastica. Via della Libertà, che ancora non c'era, la piazzetta nuova dietro al comune che si chiamava appunto piazza Nuova, e via Pio Larvatelli. Dov'era il trucco? Pio Larvatelli, dopo l'amnistia era andato a vivere a Milano, dove era morto alla fine degli anni Ottanta, e questo lo sapevano tutti. Quello che non si sapeva era che laggiù aveva scritto un sacco di libri. Libri per ragazzi. Non di grande successo, ma discreti, e tanti, ce n'erano un paio anche nella biblioteca comunale. Solo che per non avere guai col suo passato li aveva sempre firmati con uno pseudonimo. Pino Fedele. Ora, il paese non aveva mai avuto una gloria, niente di niente. Vuoi non fargli una via al suo unico scrittore di fama più o meno nazionale? Mica a Pio Larvatelli in quanto Pio Larvatelli. A Pio Larvatelli in quanto Pino Fedele. Adelmo fece un casino. Soprattutto quando seppe qual era la via che volevano intitolare a Larvatelli. Proprio quella in cui aveva la bottega. In effetti un po' di casino ci fu. Proteste da parte dei consiglieri di minoranza, sentite e vibrate. Volantini in bacheca all'Anpi. Manifestazione in piazza con tutti quelli della 36a che avevano combattuto da quelle parti, quelli ancora vivi. Articoli su Carlino, Unità e Repubblica Bologna. Un giornalista della redazione nazionale. Un'interrogazione parlamentare. Un'altra manifestazione con un paio di deputati e il Tg3 egualmente ripartito tra quella e la contro-manifestazione organizzata dalla maggioranza con un reduce della repubblica di Salò, titolo: Contro i terrorismi di tutti tempi. Poi più niente. Nel frattempo la cosa era andata avanti come se nessuno avesse detto nulla. Il sindaco aveva continuato la procedura, l'aveva terminata, e un lunedì mattina all'angolo della strada c'era un cartello nuovissimo con sopra scritto PIO LARVATELLI, e nella riga sotto, assieme alle date 1920-1989, scrittore. Adelmo non sapeva più cosa fare. Ne aveva parlato con gli altri, all'Anpi. Mica possiamo sparargli alla scritta, come in Sardegna, avevano detto i due consiglieri di minoranza, e Mingo aveva fatto una faccia strana, così strana che Adelmo aveva dovuto mettergli una mano sul braccio, scuotendo la testa. «Il fatto è che a parte noi e loro sembra che a nessuno, qui in paese, gli freghi più niente di questa storia» disse uno dei due della minoranza. «Mi sa che non ve ne frega più molto neanche a voi» disse Alberto. «Passate ancora tutto il tempo a chiedervi com'è successo che avete perso il comune». «Abbiamo perso, non avete...» disse l'altro della minoranza. «Perché, tu non c'eri?» Finì che si misero a discutere. Adelmo si alzò e se ne andò. Il giorno dopo non aprì bottega. Ne aveva tutto il diritto, perché era in pensione da un pezzo, e la bottega la teneva aperta così, perché non c'era rimasto più nessuno a fare il falegname in proprio, da artigiano. Non aprì bottega e sopra la saracinesca ci attaccò un cartello, chiuso per lutto. E sotto una mortina bordata di nero. Dentro c'era la foto di una ragazza, una foto vecchia, quasi color seppia, con una ragazza giovane che guardava da una parte, un sorriso fisso e un po' imbarazzato, mantenuto a lungo prima che il fotografo si decidesse a scattare. La gente che passava di lì si avvicinava incuriosita, be'? chi è morto?, corrugava la fronte guardando la fotografia, chi è questa qua?, poi leggeva la data, 20 aprile 1945, be', ma è la Maria, quella ragazza che hanno ammazzato durante la guerra. «Pessimo gusto» disse il sindaco, e tirò dritto. Il giorno dopo la bottega di Adelmo era ancora chiusa e sulla saracinesca c'era un'altra mortina, con un'altra foto e un altro nome, quello di un partigiano del paese fucilato nel '44. Il giorno dopo un'altra ancora, il fratello della Maria. Il sindaco annunciò in consiglio che avrebbe fatto un controllo su come venivano spesi i fondi comunali destinati all'Anpi. Tacque sul fatto che non ce n'erano. Adelmo si era aspettato che qualcuno avrebbe strappato le mortine e invece non era mai successo. Stavano lì fino alla mattina dopo, quando le cambiava. Ignorate. Avrebbe preferito vedersele strappate con rabbia, con paura, e invece niente. La cosa gli fece così male da dargli il colpo di grazia. Dopo due settimane di mortine – e ce n'erano ancora, perché nella zona tra ammazzati, deportati, fucilati e torturati si poteva arrivare a trentaquattro – Adelmo ebbe un infarto, il terzo, e morì. Lui non l'aveva mai saputo, ma non è vero che le sue mortine erano ignorate da tutti. C'era stato un ragazzo che era venuto da Bologna, aveva fotografato una mortina e l'aveva messa su internet. Quella della biblioteca aveva raccolto un po' di vecchi ritratti, gente del paese vicino, quattro morti bruciati vivi in una cascina dai tedeschi, e stava per andare a portarglieli la mattina che Adelmo era morto. E c'era stato un vigile che non aveva obbedito all'ordine del sindaco di togliere le mortine. C'era andato fino alla bottega di Adelmo, ma poi si era fermato a guardare la fotografia attaccata alla saracinesca. Era quella di suo nonno. Via Pio Larvatelli (scrittore), in paese c'è ancora. Però ogni tanto capita che qualcuno, di notte, ci scriva sopra qualcosa con un pennarello. Il sindaco ha fatto alzare la targhetta di metallo, ma non importa, ci arrivano sempre. Mica tanto spesso, però parecchie volte agli operai del comune tocca andare a pulire il cartello. Qualcuno cancella la parola scrittore e sotto ce ne scrive un'altra. Così la strada diventa via Pio Larvatelli. Assassino. | << | < | > | >> |Pagina 73«Basta un nulla, un passo falso, un'impennata dell'anima, e ci si trova dall'altra parte». Italo Calvino«È una questione d'onore». Conosceva la formula. L'onore è tutto. Se perdi la faccia perdi tutto. Tutti gli altri paroloni, tutti i valori che il fratello minore avrebbe di sicuro tirato in ballo, non avevano vita autonoma, erano solo un corollario. Volendo scacciare l'argomento scacciò una mosca. Faceva ancora caldo. Nella bottega l'aria stordiva: mangiare vero, roba da affondarci i denti e riempirsi lo stomaco, non ce n'era più ma gli aromi non mancavano. E non mancava il peperoncino che disinfetta e dà gusto, forza e calore. Erano in piedi tutti e due, il bancone tra loro come un confine. «Quaggiù siamo fuori dai giochi, possiamo starcene tranquilli, non c'è motivo di andare a cercare altri guai». «Lui è ancora lì, ancora in sella». «Che dici! È braccato, ha i giorni contati». «Ci guiderà alla riscossa». «Ma di che parli? Lo sai che non può farcela. Gli angloamericani sono dei tritasassi. Te li ricordi i bombardamenti, sì?» «Come faccio a dimenticare gli zii?» Erano in casa quella sera, nella loro casetta vicino a quel ristorante della capitale. Nessuno sarebbe riuscito a trattenere il fratello. Il padre era all'estero da anni, forse aveva un'altra moglie. La madre, quella madre istupidita dai lutti, dagli abbandoni, che cosa poteva fare, ammesso che una donna possa contare qualcosa? Il capofamiglia era lui, ora, ma i tempi erano cambiati, nessuno comandava più nel paese e neanche nelle famiglie. Mise dei semi di zucca sul bancone, come se il passatempo preferito del ragazzo potesse ritardarne la partenza. «È stato lui a sfidarli. È sua la colpa». «Le scritte su quel pezzo di metallo erano in inglese». «Anche l'insegna di questo negozio presto sarà in inglese». «Non sarò qui a vederla». «Sarai morto». «Sì, forse perderemo, ma io non tradirò». «Tradire? Tradire?! È lui che ci ha traditi. Ha mandato migliaia di noi a morire, in quelle trincee fangose. Due fratelli ci sono morti. Due». «Lo ha fatto per difendere la patria». «Ma che c'entra la patria con le sue invenzioni, l'impero, le glorie di mille e mille anni fa?» «E la stessa cosa, tu non capisci». «No che non capisco. Vai a morire per niente». «La morte è bella». Non riuscì ad articolare subito la risposta. Restò a fissarlo, un po' inclinato in avanti come se la rabbia che gli gonfiava gli occhi avesse un peso. Aveva sentito frasi del genere, e ne aveva riso. Ma erano penetrate nella testa del minore. Ricordava bene il fucile di legno, più grande di lui, che strappava agli altri due fratelli, quelli mandati a morire. «La morte è bella?» ringhiò. «Raggiungerò i fratelli». «E ucciderai nostra madre». «A lei penserai tu». «Dovresti pensare anche a tua sorella». «Non ho sorelle». Non aveva mai accettato il comportamento della sorella, che non potendo andare a scuola aveva imparato a leggere e scrivere guardando i fratelli che facevano i compiti. Quando la scoprì muovere la penna, la madre la schiaffeggiò: a che ti serve, a mandare biglietti ai maschi? Ma a quel punto lui decise che a scuola ci sarebbe andata. Il minore disapprovò, e disapprovò tutto quello che lei imparò insieme alla scrittura, tutti gli atteggiamenti che ebbe da allora. Erano disonorevoli. «Ce l'hai una sorella. E una madre. E anche me». Le ultime parole gli vennero fiacche: tra maschi, nella sua famiglia non si erano mai scomodati i sentimenti. Lui, poi, era sempre stato più lontano. Più adulto, responsabile per forza, mai nei loro giochi, nelle loro scorribande dentro e fuori il paese. Non aveva mai avuto tempo, lui, per giocare all'ombra merlettata degli ulivi, a quella profumata dei limoni. Neppure per gli sfoghi serali, i su e giù per la strada principale. Per ovviare, la buttò sul mercantile: «C'è bisogno di aiuto, qui. È anche tuo, lo sai». «Non starò qui a guardare gli ebrei comandare». «Io ebrei non ne vedo». «Lo sai che dipende tutto da loro. Sono loro che comandano il mondo. L'hai letto il Protocollo, no?» «Nostro cugino non l'hanno bastonato gli ebrei. E il tuo maestro lo ha messo in carcere Lui». «Era un disfattista». «Era uno che voleva le elezioni. E con loro le avremo. Avremo la democrazia». «Che ce ne facciamo della democrazia? La democrazia l'hanno inventata loro, i banchieri, gli usurai, i giudei. Noi abbiamo le nostre leggi. E Lui sa cosa va fatto». Era così, il minore. Non aveva dubbi. Era nato che già comandava Lui. Lui era nel bronzo, nel marmo, nella ghisa. E sulla carta. Anche nel negozio era stato, fino al giorno prima. E il ragazzo aveva risposte per tutto. Anzi la risposta era una sola: il Nemico. Le cose non potevano andare diversamente perché il paese aveva tanti nemici. La guerra? Colpa del Nemico. Le sconfitte? Colpa dei disfattisti collusi col Nemico. La polizia segreta? Colpa del Nemico, perché il Nemico è soprattutto in casa. Le sanzioni internazionali? Colpa della coalizione di Nemici. Una finta coalizione, s'intende, perché il Nemico è uno solo: l'ebreo. La plutocrazia non è che la sua emanazione. E questi alleati che risalgono il paese dopo lo sbarco, questa armata di stupratori bianchi e neri, sono qui soltanto perché ai Savi di Sion non andava giù che anche noi avessimo un posto al sole. Perché noi no? Tutti spadroneggiano dappertutto, ma noi non potevamo reclamare terre che ci spettavano di diritto. Ci hanno levato i commerci, le materie prime, tutto, anche il caffè. Ma noi abbiamo resistito. E resisteremo ancora, insieme a Lui. E li ributteremo a mare. [...] | << | < | > | >> |Pagina 79Prima c'era il Verbo. Am Anfang war das Wort, e Wort in tedesco significa Parola. Prima c'era la Parola, il linguaggio unico delle Parole uniche. Il linguaggio non fraintendibile. La Parola a cui potersi sempre e comunque appoggiare, come a un albero, come a una musica piena. Poi l'uomo rivolse il suo sguardo al cielo. Vi rivolse uno sguardo malato e lo rivolse a Dio, al Dio dell'unicità della Parola. E seguendo quello sguardo malato, seguendo quel brivido vertiginosò, lui, l'uomo, senza ricordare, decise di costruire una torre. Einen Turm. Un'unica torre che lo potesse-portare alla fonte prima della Parola, del Verbo. Dio, il Dio del linguaggio puro, di fronte a questa enorme torre, che giorno dopo giorno gli si avvicinava, iniziò a moltiplicarsi, a sciogliersi, a diventare anche altro da sé. Iniziò, il Dio della Parola, a frantumare la sua univocità. Il Verbo esplose e le schegge di quella esplosione, un'esplosione silenziosa, divennero ambiguità. Devastante sotterranea ambiguità. Zweideutigkeit. L'uomo, investito da quella frana polverosa di linguaggio, non riuscì più a capire e iniziò a interpretare. Alois, mio padre, riguardando la sua vita con gli occhi lenti della vecchiaia, spesso pensava che tutto ciò che gli era successo, tutti gli avvenimenti piccoli o grandi che lo avevano attraversato, potevano essere visti come alberi, come gli alberi di mele a cui aveva lavorato fin da bambino. Ogni storia ha radici, diceva, tante radici, un tronco e rami sparpagliati qua e là come le radici. Radici aggrappate alla terra e rami allungati nell'aria alla ricerca di un appiglio. Anche i ricordi erano per lui come alberi e anche loro, i ricordi, avevano radici immobili e tanti rami che, nei giorni di vento, potevano perfino ferire. [...] Alois quella mattina era andato subito nei campi. Aveva molto lavoro da fare. Presto avrebbe dovuto auszwicken, che significava salire su ogni albero e con occhio esperto buttare a terra le mele di troppo. L'albero altrimenti non sarebbe riuscito a nutrire a sufficienza tutti i suoi frutti. Doveva essere alleggerito, così come Alois, se avesse potuto, avrebbe alleggerito la tristezza di Lisl, la propria stanchezza e soprattutto quel presagio scuro che attanagliava loro il cuore. Dopo 1'8 settembre 1943 piccole frange della popolazione sud-tirolese, in particolare tra i Dableiber, i "restanti", cioè coloro che non avevano optato, nel 1939, per l'espatrio in Germania, cercarono di contrastare il potere nazista in Südtirol. Figura emblematica di questa opposizione fu certamente Joseph Mayr-Nusser. Il trentacinquenne bolzanino, fervente cattolico e padre di un bambino di un anno, il 4 ottobre 1944 rifiutò di giurare fedeltà al Führer come ogni recluta dell'esercito nazista era costretta a fare. Mayr-Nusser, semplice impiegato in una ditta commerciale, chiamato a forza alle armi, non aveva voluto ripetere le frasi scandite da un sottoufficiale. «Giuro a te, Adolf Hitler, Führer e cancelliere del Reich, fedeltà e coraggio. Prometto solennemente a te e ai superiori designati da te, l'obbedienza fino alla morte. Che Dio mi assista». Al diniego del giovane lo stesso maresciallo maggiore si era talmente stupito da prendere inizialmente un tono quasi paterno. Non ci fu però niente da fare. Mayr-Nusser venne portato al carcere preventivo di Danzica, condannato a morte e destinato al campo di concentramento di Dachau. Solo una decina di persone in tutto il Reich avevano avuto la stessa determinazione che, il 24 febbraio 1945, condurre Mayr-Nusser alla morte di stenti durante il trasporto, in un vagone bestiame, verso Dachau. [...] Franz adesso si sentiva un vero soldato. Si sentiva più uomo in quegli stivali di pelle scura che lucidava ogni sera. Più uomo nel senso che gli pareva di avere una missione da svolgere. Questa sensazione di utilità era qualcosa di indistinto dentro di lui. Non si era infatti mai chiesto cosa volesse dire essere un soldato della Wehrmacht e nemmeno cosa significasse combattere die Partisanen, i partigiani. Erano loro i suoi nemici invisibili. Franz a forza di sentire quella parola, der Widerstand, la Resistenza, una parola che nel suo dialetto ruvido voleva dire ben poco, aveva iniziato a odiarli, i Partisanen. Loro erano il nemico che tutti sembravano temere di più. Non erano i ripetuti attacchi aerei degli alleati che dall'alto seguivano gli spostamenti di interi convogli, le loro bombe o le loro raffiche di mitragliatrice, a spaventare lui e i suoi camerati. Erano uomini e donne che all'improvviso spuntavano armati sulle strade, nei boschi, tra le case dei paesi. I partigiani erano come fantasmi che potevano colpire ovunque, in qualsiasi momento. E questa loro presenza indecifrabile li rendeva come feroci animali sempre in agguato. Una volta Franz li aveva anche visti in faccia, i partigiani: tre uomini e due donne che erano stati arrestati e condotti nella caserma di Feltre. Tre uomini e due donne che a lui erano sembrati normali. Gli erano sembrati uguali agli uomini e alle donne di Algund, del suo paese. Nei pochi istanti in cui Franz gli era stato di fronte non aveva visto nei loro gesti, nei loro sguardi, la crudeltà, la ferocia che si sarebbe aspettato. A dire il vero in quel momento qualcosa di molto simile al dubbio lo aveva attraversato ma a quel dubbio non aveva voluto dare peso. [...] Resistenza è parola, Wort, e come tutte le parole, Wörter, è interpretabile. Ha prospettive e significati. Può essere utilizzata da chi attacca e da chi difende. In Italiano la Resistenza ha un significato storico-politico condiviso, è parola capace di muovere discussioni, dispute, incomprensioni. È parola delicata, da maneggiare con cura. In tedesco invece è parola più neutra, der Widerstand, o come sinonino die Gegenwehr, è parola che assume significato se contestualizzata. Incontrare resistenza, auf Widerstand stossen; resistenza alla fatica, körperliche Ausdauer; resistenza di materiale, die Festigkeit, die Haltbarkeit; resistenza armata, bewaffneter Widerstand; combattente della Resistenza, der Widerstandskämpfer. [...] Dopo la morte di mio fratello, nel giro di pochi mesi di nuovo tutto era cambiato per l'Alto Adige-Südtirol. Finito il fascismo, finito il nazismo, con l'Accordo De Gasperl-Gruber del 5 settembre 1945 si aprì per noi sudtirolesi una nuova stagione, che proseguì con la grande manifestazione di Castel Firmiano- Sigmundskron, il 17 novembre 1957, con la sempre maggiore influenza del partito di raccolta Südtiroler Volkspartei e con il nuovo Statuto di autonomia, entrato in vigore il 20 gennaio 1972.
Nonostante la storia proseguisse il suo corso, mio padre, seppellita anche
mia madre, continuava a uscire ogni giorno a passeggiare intorno al suo maso,
l'
Oberhebsacker-Hof.
Lì, in mezzo alla terra che avrebbe dovuto lavorare suo figlio, sono certa
sentiva dentro di sé le radici profonde dei ricordi, sentiva le ferite causate
dal movimento improvviso dei loro rami. Del complesso rapporto tra
il Sudtirolo e il nazismo, e soprattutto della morte di molti ragazzi
sudtirolesi arruolati nell'esercito nazista, non si sarebbe più tanto
parlato. Loro erano il passato. Un passato arido da cui non è germogliato nessun
presente. Sono morti inutili, scomodi, che hanno combattuto gli ultimi mesi di
una guerra non loro. Ma mio padre Alois, che solo poco tempo prima di morire si
era riconciliato con i suoi alberi, non poteva dimenticare nessuno di quei
morti. Anzi, alle volte si sforzava di ricordarne i nomi. Me li diceva uno a
uno, con lunghe pause di silenzio. Mi diceva i nomi dei giovani uomini
che lui aveva conosciuto bambini. Il nome di suo figlio Franz. E
ripetendo tutti quei nomi nella stube, ripetendoli a me che facevo
quasi fatica a starlo ad ascoltare, gli sembrava di richiamarli al presente, di
rispondere alle loro domande, di liberarli. Mio padre sapeva che sarebbe stato
giusto parlarne. Sarebbe stato giusto risolvere, per fare in modo che anche
quelle morti venissero in parte giustificate da un barlume di senso. Ma allo
stesso tempo, osservando gli ospiti, anche italiani, del nostro piccolo garnì,
ospiti che si aggiravano nell'
Hof,
vestiti di tutto punto per andare a fare passeggiate in montagna, lui, mio
padre, capiva che nessuno aveva più voglia di discutere. Che non c'erano più
parole capaci di dar voce ai ricordi, di renderli vivi.
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