Autore Arundhati Roy
Titolo I fantasmi del capitale
EdizioneGuanda, Parma, 2015, Le fenici rosse , pag. 176, cop.fle., dim. 12x20x1,5 cm , Isbn 978-88-235-1124-8
OriginaleCapitalism. A Ghost Story [2014]
TraduttoreFederica Oddera
LettoreRiccardo Terzi, 2015
Classe economia , paesi: India , globalizzazione , movimenti , guerra-pace , paesi: Pakistan












 

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Indice


    PRIMA PARTE

1.  I fantasmi del capitale                           11

2.  Preferirei non essere Anna                        71

3.  Morti che parlano                                 81


    SECONDA PARTE

4.  I pomi della discordia del Kashmir                97

5.  Un giorno ideale per la democrazia               107

6.  Conseguenze dell'impiccagione di Afzal Guru      115


    POSTFAZIONE.

    Discorso tenuto alla People's University         129


    Note                                             135
    Indice analitico                                 157


 

 

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1
I fantasmi del capitale



È un palazzo o una casa? Un tempio alla nuova India o un deposito per i suoi fantasmi? Da quando Antilla è spuntata in Altamount Road a Mumbai, con la sua aura di mistero e tacita minaccia, le cose non sono più le stesse. «Ecco qua» mi ha detto l'amica che mi ha accompagnata a vederla. «Rendi omaggio alla nostra nuova sovrana.»

Antilla appartiene all'uomo più ricco dell'India, Mukesh Ambani. Avevo letto di quella dimora, la più costosa mai costruita: ventisette piani, tre piattaforme per elicotteri, nove ascensori, giardini pensili, sale da ballo, stanze dove si può cambiare clima a piacimento, palestre, parcheggio a sei livelli, seicento addetti alla manutenzione. Nulla di tutto ciò mi aveva preparata al vertiginoso prato verticale: una muraglia d'erba, fissata a un'enorme griglia di metallo, che corre lungo i ventisette piani. Qua e là i fili apparivano inariditi; pezzi di prato si erano staccati in nitidi rettangoli. A quanto pareva, il Trickledown, lo sgocciolio verso il basso, non aveva funzionato.

Ma il Gush-Up, lo zampillo verso l'alto, era evidente. Ecco perché, in un paese di un miliardo e duecentomila persone, i cento individui più ricchi sono proprietari di beni che equivalgono a un quarto del prodotto interno lordo nazionale.

Secondo la voce che circola (o almeno circolava) per le strade (e sulle pagine del «New York Times»), dopo tanti sforzi e tanto giardinaggio, gli Ambani non abitano ad Antilla. Nessuno lo sa per certo. La gente continua a mormorare di spettri e di malasorte, di Vastu e di feng shui. Forse è tutta colpa di Karl Marx. (È lui il colpevole di tante maledizioni.) Il capitalismo, ha scritto, «che ha suscitato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate».

In India, i trecento milioni di noi che rientrano nella nuova classe media successiva alle «riforme» del Fondo Monetario Internazionale (e costituiscono il mercato interno) vivono fianco a fianco con gli spiriti degli inferi, con il poltergeist dei fiumi morti, dei pozzi disseccati, delle montagne brulle come il Monte Calvo e delle foreste depredate e spogliate; con i fantasmi dei duecentocinquantamila agricoltori oberati di debiti che si sono tolti la vita e degli ottocento milioni di nostri concittadini impoveriti e diseredati per fare spazio a noi. Gente che sopravvive con meno di venti rupie al giorno.

Il patrimonio personale di Mukesh Ambani ammonta a venti miliardi di dollari. Ambani ha il pacchetto di maggioranza della Reliance Industries Limited (RIL), un'azienda con una capitalizzazione di mercato pari a quarantasette miliardi di dollari, attiva globalmente nel campo dei prodotti petrolchimici, petroliferi, del gas naturale, delle fibre poliestere, delle Zone Economiche Speciali, della vendita al dettaglio di derrate deperibili, delle scuole superiori, della ricerca scientifica e dei servizi di conservazione delle cellule staminali. La RIL ha acquistato di recente il novantacinque per cento delle azioni di Infotel, un consorzio televisivo che controlla ventisette canali di notizie e intrattenimento, tra i quali la CNN-IBN, la IBN Live, la CNBC, la IBN Lokmat e la ETV, in quasi tutte le lingue regionali indiane. Infotel dispone dell'unica licenza a copertura nazionale per la banda larga 4G, un sistema di comunicazione dati ad alta velocità che, se la tecnologia funzionerà, potrebbe rappresentare il futuro dello scambio di informazioni. Il signor Ambani possiede inoltre una squadra di cricket.

La RIL fa parte della manciata di imprese che gestiscono l'India. Alcune delle altre sono la Tata, la Jindal, la Vedanta, la Mittal, la Infosys, la Essar e la seconda Reliance, chiamata Reliance Anil Dhirubhai Ambani Group (ADAG), il cui proprietario è il fratello di Mukesh, Anil. La loro corsa alla crescita le ha portate a espandersi in Europa, nel centro dell'Asia, in Africa e nell'America Latina. Tessono reti che arrivano lontano, visibili e invisibili, in superficie e sottoterra. La Tata, per esempio, dirige più di cento aziende distribuite in ottanta paesi. È una delle società indiane più grandi e più antiche nel settore privato. Possiede miniere, giacimenti di gas, acciaierie, compagnie telefoniche, emittenti televisive, reti a banda larga e amministra intere municipalità. Produce automobili e camion, e tra le sue proprietà si contano la catena alberghiera Taj Hotels, la Jaguar, la Land Rover, la Daewoo, la Tetley Tea, una casa editrice, una catena di librerie, un famoso marchio di sale iodato e il gigante dei cosmetici, la Lakmé. Il suo slogan pubblicitario potrebbe essere benissimo: «Non potete vivere senza di noi».

In base al Vangelo del Gush-Up, più si ha, più si può avere.

Grazie all'era della Privatizzazione Universale, l'economia indiana ha un tasso di crescita fra i più alti al mondo. Tuttavia, come in ogni brava ex colonia, i minerali costituiscono uno dei principali prodotti di esportazione. I nuovi megagruppi dell'India, la Tata, la Jindal, la Essar, la Reliance, la Sterlite, sono riusciti ad accaparrarsi il controllo del rubinetto da cui sgorga denaro estratto dalle viscere della terra. È un sogno divenuto realtà per gli uomini d'affari: poter vendere qualcosa che non devono comprare.

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L'esercito ha esperienza sufficiente per sapere che un puro intervento coercitivo non basta a mettere in atto e gestire una ristrutturazione sociale nella scala contemplata dai pianificatori dell'India. La guerra contro i poveri è un conto. Ma per il resto di noi (la classe media, i colletti bianchi, gli intellettuali, i personaggi che influenzano l'opinione pubblica) ci vuole l'«orientamento della percezione». E in questo senso dobbiamo prendere in esame l'arte sopraffina della Filantropia Aziendale.

Negli ultimi tempi i principali gruppi minerari si sono dedicati al patrocinio delle attività culturali: film, installazioni artistiche e festival letterari hanno rimpiazzato l'ossessione per i concorsi di bellezza tipica degli ultimi anni dello scorso millennio.

[...]




Ma chi di noi peccatori avrebbe scagliato la prima pietra? Non certo io, che mi mantengo grazie ai diritti d'autore pagati da grandi industrie dell'editoria. Tutti guardiamo Tata Sky, navighiamo in rete con Tata Photon, ci spostiamo a bordo di taxi Tata, alloggiamo presso alberghi Tata, sorseggiamo tè Tata in tazze di porcellana Tata mescolandolo con cucchiaini prodotti dalla Tata Steel. Compriamo libri Tata nelle librerie Tata. Hum Tata ka namak khatey hain: mangiamo il sale della Tata. Siamo sotto assedio.

Se dev'essere la purezza morale il criterio per stabilire chi può scagliare la prima pietra, allora questo diritto spetta unicamente a coloro che sono già stati ridotti al silenzio. A quelli che vivono all'esterno del sistema: i fuorilegge nelle foreste, i contestatori le cui voci non sono mai riportate dalla stampa o i diseredati ligi alle regole, che passano da un tribunale all'altro, offrendo testimonianze e rilasciando deposizioni.

Ma il festival letterario ci ha dato il nostro momento di gloria. È intervenuta Oprah Winfrey. Adoro l'India, ha detto. E voglio tornarci. Ci ha riempiti d'orgoglio.

Questo è solo il lato farsesco dell'arte sopraffina della Filantropia Aziendale.

[...]




Il seguito di questo saggio potrebbe sembrare ad alcuni una critica assai severa. D'altro canto, nella tradizione del rendere onore ai propri avversari, lo si potrebbe leggere come un riconoscimento della lungimiranza, flessibilità, raffinatezza e ferrea determinazione di quanti hanno dedicato la vita a trasformare il mondo un posto adatto al capitalismo.

La loro storia affascinante, che si è offuscata nella memoria deí contemporanei, iniziò negli Stati Uniti al principio del ventesimo secolo, quando la filantropia aziendale, giuridicamente strutturata in fondazioni sovvenzionate, cominciò a sostituire l'attività missionaria nel compito di spianare la strada al capitalismo (e all'imperialismo) e di vigilare sul mantenimento del sistema.

Tra le prime fondazioni nate in America, ci furono la Carnegie Corporation, fondata nel 1911 e finanziata con i profitti delle acciaierie Carnegie, e la fondazione Rockefeller, istituita nel 1914 da J.D. Rockefeller, il padre della Standard Oil Company. I Tata e gli Ambani dell'epoca.

Fra le istituzioni finanziate, fornite di un capitale iniziale o patrocinate dalla fondazione Rockefeller ci sono le Nazioni Unite, la CIA, il Council on Foreign Relations (CFR), il più leggendario museo d'arte moderna di New York e naturalmente il Rockefeller Center di Manhattan (dove fu necessario scalpellare via dalla parete il murale di Diego Rivera perché raffigurava malevolmente capitalisti corrotti e un valoroso Lenin. La Libertà di Espressione si era presa una giornata libera).

Rockefeller fu il primo miliardario d'America e l'uomo più ricco del mondo. Era abolizionista, sostenitore di Abramo Lincoln e astemio. Considerava il proprio denaro un dono di Dio, un'ottima cosa per quanto lo riguardava.

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A Bretton Woods, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale decisero che il dollaro americano sarebbe divenuto la valuta di riserva del mondo intero e che, per incrementare la forza di penetrazione del capitale globale, sarebbe stato necessario omologare e standardizzare le procedure commerciali in un mercato aperto. È a tale scopo che, da allora, investono ingenti somme di denaro per promuovere il concetto di «buon governo» (purché siano loro a manovrare i fili), il principio della legalità (a patto di avere voce in capitolo nell'elaborazione delle leggi) e centinaia di progetti contro la corruzione (per ottimizzare il sistema che hanno posto in atto). E così, due tra le organizzazioni meno trasparenti e meno soggette a controlli esterni sulla faccia della terra insistono a esigere dai governi dei paesi più poveri trasparenza e giustificazione del loro operato.

Dato che la Banca Mondiale ha orientato in larga misura la politica economica del Terzo Mondo, costringendo un paese dopo l'altro ad aprire le frontiere alla finanza globale, si può affermare che la filantropia aziendale si è rivelata l'affare più lungimirante di tutti i tempi.

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Molti anni più tardi, questo concetto sgocciolò giù fino alle campagne depauperate del Bangladesh quando Muhammad Yunus e la Grameen Bank offrirono il microcredito ai contadini affamati, con conseguenze disastrose. I poveri del subcontinente vivono da sempre oberati dai debiti, stretti nella morsa spietata dell'usuraio del villaggio: il baniya. Ma la microfinanza ha ricondotto anche questo a una logica aziendale. In India, le società microfinanziarie sono responsabili di centinaia di suicidi: solo nel 2010 si sono tolti la vita in duecento nell'Andhra Pradesh. Di recente, un quotidiano nazionale ha pubblicato il biglietto d'addio lasciato da una ragazza diciottenne costretta con la prepotenza a consegnare le sue ultime centocinquanta rupie, destinate alla retta scolastica, agli incaricati dell'impresa microfinanziaria. Il testo recitava: «Lavorate sodo e guadagnate. Non accettate prestiti».

Si può fare un bel mucchio di soldi con la povertà, e persino aggiudicarsi qualche premio Nobel.

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Per qualsiasi forma di potere politico è cruciale ottenere informazioni al fine di controllare il popolo che governa. Mentre la resistenza alla requisizione delle terre e alla nuova politica economica si diffonde in tutta l'India sulla scia del conflitto aperto scoppiato nelle regioni centrali del paese, il governo indiano, come misura di contenimento, si è imbarcato in un immane progetto di schedatura biometrica, forse uno dei progetti di raccolta dati più ambiziosi e costosi al mondo: il Numero di Identificazione Unico (Unique Identification Number o UID). La gente non ha acqua potabile, non ha servizi igienici, né cibo, né soldi, ma avrà tessere elettorali e numeri UID. Questa iniziativa, gestita da Nandan Nilekani, ex CEO della Infosys, pur dichiarando di voler «offrire un servizio agli indigenti», finirà per convogliare enormi quantità di denaro nelle casse di un'industria informatica un po' in difficoltà. È forse una coincidenza? Digitalizzare un paese con una popolazione così numerosa di illegittimi e di «illeggibili» (in grande maggioranza abitanti delle baraccopoli, ambulanti, Adivasi privi di titoli di proprietà) rischia di criminalizzarla, trasformando gli illegittimi in illegali. L'idea è di realizzare una versione informatica delle recinzioni delle terre comuni nell'Inghilterra del Settecento, assegnando un potere immenso a uno stato di polizia sempre più inflessibile. L'ossessione tecnocratica di Nilekani per le raccolte dati è in sintonia con quella di Bill Gates per gli archivi digitali, gli obiettivi quantificabili in valori numerici e gli «indicatori di progresso», come se a causare la fame nel mondo fosse la mancanza di informazioni e non il colonialismo, l'indebitamento e una politica aziendale distorta e orientata al solo profitto.

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Armate dei loro miliardi, le ONG di questo tipo si sono aperte una strada nel mondo, trasformando potenziali rivoluzionari in attivisti stipendiati, sovvenzionando artisti, intellettuali e registi per distoglierli in modo mellifluo dal fare scelte radicali e spingerli invece nella direzione del multiculturalismo, delle questioni di genere e dello sviluppo comunitario: un discorso che si esprime nel linguaggio della politica identitaria e dei diritti umani.

La trasformazione dell'idea di giustizia nell'industria dei diritti umani è un colpo da maestro messo a segno grazie al ruolo cruciale delle ONG e delle fondazioni. La prospettiva ristretta dei principi umanitari autorizza un'analisi incentrata sulle atrocità, nella quale il contesto più ampio finisce per essere eclissato e le parti in causa (per esempio i maoisti e il governo indiano, o l'esercito di Israele e Hamas) risultano entrambe imputabili di aver violato i diritti dell'umanità. In quest'ottica, l'appropriazione della terra da parte dei gruppi minerari e le annessioni del territorio palestinese attuate da Israele diventano postille quasi prive di rilievo. Questo non significa sostenere che i diritti umani non sono importanti: lo sono, eccome, ma non sono lenti adeguate per osservare e comprendere anche solo remotamente le grandi ingiustizie del mondo in cui viviamo.

Un altro colpo magistrale riguarda i legami delle fondazioni con il movimento femminista. Per quale motivo buona parte delle organizzazioni femministe indiane «ufficiali» mantiene le distanze da iniziative come quella, ad esempio, della Krantikari Adivasi Mahila Sangathan (l'Associazione rivoluzionaria delle donne adivasi), con le sue novantamila iscritte che lottano contro il patriarcato nelle comunità tribali e le migrazioni forzate imposte dalle aziende minerarie nelle foreste del Dandakaranya? Perché l'allontanamento di milioni di donne spogliate della terra che possedevano e coltivavano non è considerato un problema di tipo femminista?

Il distacco del femminismo di stampo liberale dai movimenti popolari di base, antimperialisti e anticapitalisti, non ha avuto inizio con i perfidi piani delle fondazioni. È cominciato con l'incapacità del movimento di adattarsi alla rapida radicalizzazione delle donne avvenuta negli anni Sessanta e Settanta. Le fondazioni si sono dimostrate geniali nel rilevare e sostenere (anche sul piano finanziario) la crescente insofferenza femminile per la brutalità e la mentalità patriarcale delle società tradizionali, ma anche dei presunti leader progressisti a capo delle organizzazioni di sinistra. In un paese come l'India, la linea di demarcazione coincideva inoltre con lo spartiacque tra città e campagna. La maggioranza dei movimenti radicali e anticapitalistí nasceva nelle campagne, dove il patriarcato continuava a governare la vita delle donne. Le attiviste di città che si univano a tali movimenti (quello dei naxaliti, per esempio) erano state influenzate e ispirate dal femminismo occidentale, e il loro percorso verso la liberazione si scontrava spesso con quanto i leader maschi consideravano il loro dovere specifico: integrarsi con «le masse». Molte di quelle attiviste non erano disposte ad aspettare che fosse la «rivoluzione» a porre fine alle oppressioni e alle discriminazioni cui soggiacevano persino da parte dei compagni di lotta. Volevano che la parità tra i sessi rientrasse nel processo rivoluzionario come una priorità assoluta, urgente e non negoziabile, e non si limitasse a una promessa per il post-rivoluzione. Donne intelligenti, arrabbiate e deluse iniziarono a prendere le distanze e a cercare fonti di sostegno e di sussidio alternative. Di conseguenza, verso la fine degli anni Ottanta, più o meno l'epoca in cui i mercati indiani cominciavano ad aprirsi, il femminismo liberale indiano subì una fortissima ONGizzazione. Molte ONG hanno svolto un lavoro fondamentale sull'AIDS, sulla violenza domestica, sui diritti degli omosessuali e delle lavoratrici del sesso. Ma il movimento femminista liberale non è mai stato davvero in prima linea nella contestazione della nuova politica economica, malgrado siano state le donne a soffrirne di più. Manipolando la distribuzione dei finanziamenti, le fondazioni sono riuscite in larga misura a limitare il campo dell'attività politica considerata accettabile. Oggi le direttive in base alle quali le ONG erogano i loro fondi indicano quali questioni siano da ritenersi «femminili» o meno.

Inoltre, la ONGizzazione del movimento delle donne ha fatto sì che il femminismo liberale dei paesi occidentali – quello che riceveva più soldi – diventasse il modello discriminante del femminismo stesso. Come sempre, la lotta si è svolta sul corpo delle donne, per liberarlo dal botox da un lato e dal burka dall'altro. (Ma ci sono anche le vittime della doppia batosta, botox e burka.) Forzare una donna a rinunciare al burka (com'è avvenuto in Francia), anziché creare una situazione che le permetta di scegliere, non equivale a liberarla, ma a spogliarla. È un atto di umiliazione e di imperialismo culturale. Imporre la rinuncia al burka è deplorevole quanto obbligare a usarlo. Il punto non è il burka, ma la costrizione. Affrontare i problemi di genere in una prospettiva simile, avulsa dal contesto sociale, politico ed economico, li trasforma in questioni di identità, in battaglie su abiti e accessori. È questo che nel 2001 ha consentito al governo americano di usare i gruppi femministi liberali come copertura morale per l'invasione dell'Afghanistan. La condizione delle donne afghane sotto i talebani era (ed è tuttora) terribile. Ma bombardarle con gli ordigni al fosforo non è certo d'aiuto.

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Martin Luther King fece i collegamenti proibiti tra capitalismo, imperialismo, razzismo e guerra nel Vietnam. Di conseguenza, dopo che fu assassinato, persino il suo ricordo divenne una pericolosa minaccia all'ordine pubblico. Fondazioni e grandi aziende si misero d'impegno a riconfigurare il suo retaggio in forme compatibili con le logiche di mercato. I promotori del Martin Luther King Jr. Center for Nonviolent Social Change, dotato di un capitale operativo di due milioni di dollari, comprendevano tra gli altri la Ford, la Generai Motors, la Mobil, la Western Electric, la Procter and Gamble, la US Steel e la Monsanto. Il centro amministra tuttora la King Library e l'archivio del Movimento per i diritti civili. Promuove numerosi progetti, alcuni dei quali prevedono «una stretta collaborazione con il ministero della difesa degli Stati Uniti, il Consiglio dei cappellani militari (Armed Forces Chaplains Board) e altri enti». Ha partecipato alla sponsorizzazione della serie di conferenze su Martin Luther King intitolata Il sistema delle libere imprese: un veicolo di mutamento sociale non violento.

Amen.

Una strategia simile fu adottata durante la lotta contro l'apartheid in Sudafrica. Nel 1978 la fondazione Rockefeller organizzò una commissione di studio sulla politica statunitense in merito alla Repubblica Sudafricana. Il resoconto dell'indagine sottolineava in tono preoccupato la crescente influenza dell'Unione Sovietica sull'African National Congress (ANC), e dichiarava che gli interessi strategici e commerciali degli Stati Uniti (vale a dire l'accesso alle risorse minerarie della regione) avrebbero tratto giovamento da un'autentica condivisione del potere politico da parte di tutte le etnie.

Le fondazioni cominciarono a offrire sostegno all'ANC. Ben presto il partito iniziò ad attaccare i movimenti più radicali, tra cui il Black Consciousness Movement di Steve Biko, fino a eliminarli. Quando Nelson Mandela divenne il primo presidente di colore del Sudafrica, fu canonizzato come un santo ancora in vita, non solo grazie alla sua lotta per la libertà e ai ventisette anni trascorsi in prigione, ma anche perché accettò senza condizioni il Washington Consensus. Il socialismo scomparve quindi dal programma dell'ANC. La grande «transizione pacifica» del Sudafrica, tanto apprezzata ed encomiata, avvenne senza riforme fondiarie, richieste di risarcimento, nazionalizzazione delle miniere. Ci furono invece privatizzazioni e progetti di modifiche strutturali. Mandela assegnò la più alta onorificenza civile sudafricana (l'Order of Good Hope, Ordine del capo di Buona Speranza) al generale Suharto, suo vecchio amico e sostenitore, nonché assassino dei comunisti indonesiani. Oggi a governare il Sudafrica è una congrega di ex radicali e sindacalisti alla guida delle loro Mercedes. Ma questo è più che sufficiente a perpetuare la leggenda della Liberazione Nera.

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I giovani studiosi dalit che accettano le borse di studio della fondazione Ford non vanno giudicati con troppa severità. Chi altri offre loro l'opportunità di sfuggire alla cloaca del sistema castale indiano? Parte della responsabilità di questa situazione infamante spetta anche ai comunisti dell'India, le cui figure di spicco per lo più appartengono ancora alle caste alte. Per anni il movimento comunista indiano ha cercato di inserire il concetto delle caste nell'analisi marxista delle classi sociali. Ha fallito miseramente, nella teoria come nella pratica. La spaccatura tra la sinistra e la comunità degli intoccabili risale al dissidio tra il lungimirante leader dalit Bhimrao Ambedkar e S.A. Dange, sindacalista e membro fondatore del Partito comunista indiano. Le disillusioni del dottor Ambedkar iniziarono nel 1928 con lo sciopero degli operai tessili a Mumbai, quando apparve chiaro che malgrado la retorica sulla solidarietà di classe, il partito non aveva nulla da eccepire sull'esclusione dal reparto tessitura degli «intoccabili» (che potevano svolgere solo la mansione meno retribuita della filatura), in quanto per tessere occorreva inumidire i fili con la saliva, e le altre caste consideravano «impura» quella dei Dalit.

In una società in cui i testi sacri dell'induismo sanciscono l'intoccabilità e la disuguaglianza, Ambedkar si rese conto che la lotta a sostegno dei fuoricasta e la battaglia per i diritti civili e sociali erano troppo urgenti per aspettare la promessa rivoluzione comunista. La frattura tra i suoi seguaci e la sinistra ha avuto un prezzo altissimo per entrambi gli schieramenti. La grande maggioranza dei Dalit, la spina dorsale del proletariato indiano, ha finito per riporre le proprie speranze di emancipazione e dignità sociale nel costituzionalismo, nel capitalismo e in partiti politici quali il Bahujan Samaj Party (BSP), che persegue un certo tipo di politica identitaria non priva di importanza, ma nel lungo termine senza sbocco.

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Abbiamo bisogno di armi per fare la guerra? O ci occorrono guerre per creare un mercato agli armamenti? Dopo tutto, le economie dei paesi europei, degli Stati Uniti e di Israele dipendono in larghissima misura dalle rispettive industrie belliche. È l'unico tipo di produzione che non hanno ancora trasferito in Cina.

Nella nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese, l'India finirà per giocare il ruolo già svolto dal Pakistan come alleato degli americani durante gli anni di tensione con la Russia. (E si pensi a ciò che è successo alla Repubblica Pakistana.) Non è difficile verificare che molti dei commentatori politici e degli analisti che enfatizzano il clima ostile tra India e Cina sono riconducibili in modo diretto o indiretto alle fondazioni e ai think-tank indo-americani. Essere un «partner strategico» degli Stati Uniti non significa semplicemente che il capo di stato di quel paese si sente ogni tanto al telefono con il presidente degli USA. Significa collaborazione (e interferenze) a tutti i livelli. Significa ospitare basi dei reparti speciali americani sul suolo dell'India (lo ha confermato di recente alla BBC un comandante del Pentagono.) Significa condividere le informazioni tramite i servizi segreti, modificare le politiche agricole ed energetiche, mettere a disposizione i settori educativo e sanitario agli investimenti internazionali. Significa aprire agli operatori stranieri il commercio al dettaglio. Significa accettare un rapporto squilibrato in cui l'India è stretta nell'abbraccio soffocante di un compagno di ballo che la distruggerà al primo rifiuto di scendere in pista.

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I pomi della discordia del Kashmir



Nel 2008, una settimana prima di vincere le elezioni, il presidente Obama disse che risolvere la controversia sulla lotta per l'autodeterminazione nel Kashmir (causa di tre guerre tra India e Pakistan dal 1947 a oggi) rientrava nei suoi «obiettivi cruciali». L'India accolse con sbigottimento la sua dichiarazione; da allora, però, Obama non si è quasi più pronunciato in merito.

Ma lunedì 8 novembre 2010, durante la visita al nostro paese, ha dato un'immensa soddisfazione ai suoi ospiti affermando che gli Stati Uniti non interverranno in Kashmir e annunciando il proprio sostegno alla candidatura indiana a un seggio nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Pur parlando con eloquenza delle minacce poste dal terrorismo, non ha detto una parola sulle violazioni dei diritti umani nelle valli kashmire.

La decisione di cambiare idea un'altra volta sul Kashmir è legata a parecchi fattori: l'andamento della guerra in Afghanistan, l'entità dell'aiuto pakistano di cui hanno bisogno gli Stati Uniti e gli eventuali acquisti di aerei da parte del governo indiano nel corso del prossimo inverno. (L'ordine di dieci Boeing C-17 Globemaster III, per un valore di 5,8 miliardi di dollari, potrebbe garantire il silenzio del presidente.) Ma con ogni probabilità, né il disinteresse di Obama, né il suo intervento indurranno gli abitanti del Kashmir a lasciar cadere le pietre che stringono in pugno.

Ero laggiù dieci giorni fa, nella bellissima vallata al confine con il Pakistan, patria di tre grandi civiltà: quella islamica, quella induista e quella buddhista. Un luogo di miti e di storia. Alcuni credono che vi sia morto Gesù; altri che sia stato la meta di Mosè partito alla ricerca della Tribù Perduta. Milioni di pellegrini vanno a pregare al santuario di Hazratbal, dove per pochi giorni all'anno i fedeli possono contemplare un capello del profeta Maometto.

Oggi il Kashmir, stretto tra l'influenza dell'Islam militante afghano e pakistano, gli interessi statunitensi per la regione e il nazionalismo dell'India (sempre più aggressivo e imbevuto di induismo), è considerato una polveriera nucleare. Pattugliato da oltre mezzo milione di soldati, è divenuto la zona più intensamente militarizzata al mondo.

Lungo il tragitto tra il capoluogo, Srinagar, e la mia meta, il piccolo centro produttore di mele di Shopian, nel Sud della valle, l'atmosfera era tesa. Si vedevano gruppetti di militari ai margini della carrozzabile, nei frutteti, nei campi, sui tetti degli edifici e di fronte alle botteghe affacciate sulle minuscole piazze del mercato. Malgrado i vari mesi di coprifuoco, erano tornati in azione i «lanciatori di pietre» che invocano la azadi (la libertà) ispirandosi all'intifada palestinese. Alcuni tratti della strada erano coperti da una tale quantità di quelle pietre che ci sarebbe voluto un SUV per riuscire a superarli.

Per fortuna gli amici con i quali viaggiavo conoscevano percorsi alternativi attraverso vicoli secondari e viottoli all'interno dei villaggi. La lunga deviazione mi ha dato il tempo di ascoltare le loro storie sulla rivolta. Il più giovane della comitiva, ancora un ragazzo, mi ha raccontato che la polizia, dopo aver arrestato tre dei suoi amici sorpresi a lanciare pietre, ha strappato loro le unghie, una per una, da entrambe le mani.

Ormai da tre anni consecutivi, i Kashmiri scendono per le strade a protestare contro quella che considerano un'occupazione violenta del loro territorio da parte dell'India. Ma la ribellione armata al governo indiano, iniziata più di vent'anni fa con il sostegno del Pakistan, è in declino. In base ai dati dell'esercito indiano, i militanti rimasti tuttora attivi nella valle del Kashmir sono meno di cinquecento. La guerra si è lasciata alle spalle settantamila morti e decine di migliaia di mutilati in seguito alle torture. Parecchie altre migliaia di persone sono «scomparse». Oltre duecentomila Kashmiri di religione indù hanno abbandonato la regione. Nonostante il numero degli attivisti sia calato, quello dei soldati indiani non è diminuito.

Ma il dominio militare non va confuso con la vittoria politica. La gente comune, senza altre armi che la propria rabbia, è insorta contro le forze dell'ordine indiane. C'è un'intera generazione di giovani cresciuta in un ginepraio di posti di blocco, bunker, accampamenti militari e centri in cui si svolgono gli interrogatori, assistendo per tutta l'infanzia a inseguimenti, catture e uccisioni: la loro fantasia è infestata da spie, informatori, «killer non identificati», agenti segreti ed elezioni truccate. Quei giovani hanno perso la pazienza e la paura. Con un coraggio al limite della follia, hanno tenuto testa a un esercito armato e si sono ripresi le strade del Kashmir.

A partire da aprile del 2010, quando i militari hanno ucciso tre civili poi spacciati per «terroristi», un gran numero di lanciatori di pietre con il volto coperto, per lo più studenti, ha costretto la vita del Kashmir a una brusca battuta d'arresto. Il governo indiano ha contrattaccato con i proiettili, il coprifuoco e la censura. Solo negli ultimi mesi hanno perso la vita centoundici persone, in gran parte adolescenti; ci sono stati più di tremila feriti e sono finiti in carcere mille Kashmiri.

Eppure i giovani continuano a farsi avanti e a scagliare pietre. A quanto pare non hanno leader e non appartengono a partiti politici. Rappresentano se stessi. A un tratto il secondo esercito permanente al mondo non sa bene come reagire. Il governo indiano non sa con chi negoziare. E molti cittadini dell'India si rendono lentamente conto di essersi sorbiti decenni di bugie. All'improvviso il consenso sul Kashmir, un tempo solido, sembra vacillare.

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Nel dibattito senza fine sul caso dell'attacco al parlamento, questo aspetto, forse il più significativo di tutti, è passato sotto un completo silenzio da parte di ogni schieramento ideologico: sinistra, destra, nazionalisti dell'Hindutva, laici, sediziosi, cinici, contestatori. Perché?

Forse fu davvero il JeM a pianificare l'attentato. Praveen Swami, probabilmente il più noto esperto di «terrorismo» nel mondo dei media indiani, che sembra avere a disposizione invidiabili informatori nella polizia e nei servizi segreti, ha citato la testimonianza rilasciata nel 2003 dall'ex capo dei servizi segreti pakistani (Inter-Services Intelligence o ISI), il tenente generale Javed Ashraf Qazi, e il saggio scritto nel 2004 dallo studioso pakistano Muhammad Amir Rana, che attribuiscono al JeM la responsabilità del raid al parlamento. (È commovente questa fiducia nel responsabile di un'organizzazione che ha il mandato di destabilizzare l'India.) La sua analisi, peraltro, non spiega quali prove esistessero nel 2001, quando fu mobilitato l'esercito.

Ammettiamo per ipotesi che il mandante dell'attentato fosse il JeM. Forse era coinvolto anche l'ISI. Non c'è bisogno di fingere che il governo pakistano non organizzi manovre clandestine nel Kashmir. (Manovre simili a quelle che l'India organizza nel Belucistan e in certe zone del Pakistan. Negli anni Settanta, non dimentichiamolo, l'esercito indiano addestrò il Mukti Bahini nel Pakistan orientale. E negli anni Ottanta addestrò sei diversi gruppi militanti tamil dello Sri Lanka, compreso quello delle Tigri Tamil.)

È un losco scenario dovunque si guardi.

A cosa avrebbe portato una guerra con il Pakistan allora e a cosa porterebbe oggi? (A parte causare un enorme numero di vittime. E rimpinguare il conto in banca a qualche commerciante d'armi.) I falchi della politica indiana continuano a sostenere che l'unico sistema per «risolvere il problema alla radice» è «la caccia all'uomo» e la «distruzione» dei «campi dei terroristi» in Pakistan. Sul serio? Sarebbe interessante verificare quanti degli esperti di tattica e strategia che si esprimono in termini così aggressivi dagli schermi dei nostri televisori abbiano interessi nell'industria degli armamenti e dei mezzi di difesa. Non hanno nemmeno bisogno che scoppi un conflitto. Basta che si mantenga un clima favorevole alla guerra, in cui gli investimenti pubblici negli apparati bellici rimangano in continua crescita. L'idea della caccia all'uomo è ancora più stupida e patetica di quello che sembra a prima vista. Cosa si dovrebbe bombardare? Pochi singoli individui? Gli edifici dove alloggiano e le loro vettovaglie? O la loro ideologia? Guardate com'è finita la «caccia all'uomo» organizzata in Afghanistan dal governo degli Stati Uniti. E notate come una «griglia di sicurezza» di mezzo milione di soldati non sia riuscita a sottomettere la popolazione inerme del Kashmir. Per di più, cosa dovrebbe fare l'India? Spingersi oltreconfine per sganciare bombe su un paese (dotato di armi nucleari) in rapida dissoluzione verso il caos? I nostri guerrafondai professionisti se la godono un mondo a schernire quella che considerano la disintegrazione del Pakistan. Ma chiunque abbia una conoscenza anche rudimentale della storia e della geografia è in grado di capire che il collasso del Pakistan (in un guazzabuglio malavitoso di fanatici religiosi nichilisti e dissennati) non è motivo di gioia per nessuno.

La presenza statunitense in Afghanistan e in Iraq e il ruolo ufficiale del Pakistan come gregario dell'America nella guerra al terrorismo attirano sulla regione l'interesse dei media. Per lo meno il resto dell'umanità è consapevole del pericolo annidato da quelle parti. Meno compresa e più complicata da interpretare è la pericolosa atmosfera che si sta diffondendo sempre più nella nuova superpotenza prediletta del pianeta. L'economia indiana è in notevole difficoltà. L'avidità ambiziosa e aggressiva innescata dalla liberalizzazione economica nella neonata classe media si va trasformando rapidamente in una frustrazione altrettanto aggressiva. Il decollo dell'economia è andato in stallo subito dopo la partenza. L'euforia sta cedendo il passo al panico.

[...]




Ma questo genere di politica antiquata è piuttosto in crisi. A uscire provata dagli ultimi mesi turbolenti non è solo l'immagine dei partiti principali, ma la politica stessa, l'idea di politica così come la conosciamo. Che si tratti di corruzione, di prezzi in aumento oppure degli stupri e delle violenze sulle donne (un fenomeno sempre più diffuso), i nuovi ceti medi emergenti continuano a salire sulle barricate. Li si può prendere di mira con gli idranti o caricare con i lathi, ma non è possibile sparare loro addosso, né ucciderli e imprigionarli a migliaia come si fa con i poveri, come si è fatto e si continua a fare con i Dalit, gli Adivasi, i musulmani, i Kashmiri, i Naga e gli abitanti del Manipur. I partiti politici tradizionali sanno che, per evitare un completo tracollo, l'aggressività della classe media va dirottata e incanalata. Sanno che devono collaborare gli uni con gli altri per ricondurre la politica nel suo alveo originario. A questo scopo, esiste forse un sistema più efficace di un'esplosione di violenza contro qualche minoranza? (In quale altro modo laici e comunalisti possono continuare a recitare íl loro ruolo?) E magari si potrebbe persino ricorrere a una piccola guerra che ci permetta di ricominciare a giocare ai Falchi e alle Colombe.

C'è forse una soluzione migliore del rimettere in auge la vecchia, fidata e sperimentata arena politica che è il Kashmir? L'impiccagione di Afzal Guru, l'impudenza e il tempismo con cui è stata orchestrata, sono deliberati. L'esecuzione ha riportato nelle strade del Kashmir la politica e la rabbia.

L'India spera di gestire le difficoltà con il solito miscuglio di forza bruta e machiavellismo venefico e manipolatorio, finalizzato ad aizzare i cittadini gli uni contro gli altri. Il conflitto in Kashmir è presentato al mondo come la battaglia tra una democrazia laica e aperta da un lato e l'islamismo radicale dall'altro. E allora come dovremmo interpretare il fatto che il Mufti Bashiruddin, il cosiddetto Gran Mufti del Kashmir (la più alta autorità religiosa del paese, una carica che tra parentesi non ha nessuno spessore legale), responsabile di aver pronunciato i più abominevoli discorsi carichi d'odio e di aver emesso fatwa dopo fatwa, facendo apparire il Kashmir come una società wahabita, monolitica e diabolica, è in realtà un funzionario nominato dal governo? Arresteranno i ragazzini che scrivono su Facebook, ma lui resterà sempre al sicuro. Come dovremmo interpretare il fatto che le autorità indiane distolgono lo sguardo quando il denaro proveniente dall'Arabia Saudita (il più fedele alleato degli Stati Uniti) si riversa nelle madrase del Kashmir? Che differenza c'è con quanto ha combinato la CIA in Afghanistan parecchi anni fa? I risultati di quella storia deplorevole sono stati Osama bin Laden, al-Qaeda e i talebani, oltre alla strage degli abitanti dell'Afghanistan e del Pakistan. Questa faccenda che razza di incubo scatenerà?

La vecchia arena politica del Kashmir non sarà così facile da tenere sotto controllo. Per di più è radioattiva. Il Pakistan ha da poco testato un missile nucleare a corto raggio per difendersi dalle minacce di uno «scenario in evoluzione». E la polizia del Kashmir ha pubblicato un elenco di «indicazioni di sopravvivenza» da seguire nel caso di conflitto atomico. A parte il suggerimento di costruire rifugi a prova di bomba, attrezzati di servizi igienici e grandi a sufficienza per ospitare una famiglia per due settimane, la lista consigliava: «Durante un attacco nucleare, gli automobilisti dovrebbero buttarsi fuori dai rispettivi veicoli, in direzione dello scoppio, per evitare di essere schiacciati dalle vetture stesse, che presto si metteranno a sbandare e cappottare». E avvertiva che bisogna «aspettarsi un certo disorientamento iniziale, in quanto l'onda d'urto potrebbe spazzare e trascinare via molti degli aspetti più familiari e di maggior rilievo del paesaggio».

Forse gli aspetti più familiari e di maggior rilievo del paesaggio sono già stati spazzati via.

E forse dovremmo buttarci tutti fuori dalle nostre macchine prima che comincino a cappottare.

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POSTFAZIONE
Discorso tenuto alla People's University



La mattina del 16 novembre 2011 i poliziotti hanno sgombrato Zuccotti Park, ma oggi la gente è tornata. La polizia dovrebbe saperlo che questa non è una lotta per il territorio. Non combattiamo per il diritto di occupare un parco qui o altrove. Combattiamo per la Giustizia. Giustizia per tutti, e non solo per i cittadini degli Stati Uniti. Dal 17 settembre, il giorno in cui è iniziato il movimento Occupy Wall Street , voi siete riusciti a introdurre nel cuore dell'Impero un nuovo immaginario, un nuovo linguaggio politico. Avete ridato vita al diritto a sognare in un sistema che cerca di ridurre ciascuno di noi a uno zombie costretto da un maleficio a identificare il consumismo dissennato con l'appagamento e la felicità. Per una scrittrice, lasciate che ve lo dica, questo è un risultato straordinario. Non potrò mai ringraziarvi a sufficienza.

Stavamo parlando di giustizia. Nel 2011, mentre noi siamo qui, gli Stati Uniti conducono una guerra di occupazione in Iraq e in Afghanistan. I droni dell'esercito americano uccidono civili in Pakistan e altrove. Squadre della morte e militari statunitensi entrano in Africa a decine di migliaia. E come se investire migliaia di miliardi di dollari dei vostri soldi per gestire l'occupazione dell'Iraq e dell'Afghanistan non fosse già abbastanza, corre voce di una guerra anche contro l'Iran. Fin dai tempi della Grande Depressione, produrre armi ed esportare conflitti sono state risorse cruciali per stimolare l'economia americana. Ancora in anni recenti, sotto l'amministrazione del presidente Obama, gli Stati Uniti hanno concluso un accordo con l'Arabia Saudita per una fornitura di armi del valore di sessanta miliardi di dollari. Sperano di vendere migliaia di bombe antibunker agli Emirati Arabi. Hanno già venduto aerei militari per un ammontare di cinque miliardi di dollari all'India, il mio paese, dove ci sono più indigenti che in tutti i paesi più poveri dell'Africa messi insieme. Le guerre del passato, dai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki al Vietnam, dalla Corea all'America Latina, hanno provocato milioni di vittime, e sono sempre state combattute per salvaguardare «lo stile di vita americano».

Oggi sappiamo che «lo stile di vita americano» (il modello al quale dovrebbe aspirare il resto del mondo) ha concentrato la ricchezza di metà della popolazione nelle mani di quattrocento individui. Ha fatto perdere la casa e il lavoro a migliaia di cittadini mentre il governo tirava fuori dai guai banche e aziende: il solo American International Group (AIG) ha ricevuto centottantadue miliardi di dollari.

Il governo indiano venera la politica economica degli Stati Uniti. Di conseguenza, dopo vent'anni di Libero Mercato, i cento uomini più ricchi del paese possiedono un patrimonio equivalente a un quarto del PIL nazionale, mentre più dell'ottanta per cento degli indiani sopravvive con meno di mezzo dollaro al giorno. Duecentocinquantamila agricoltori, attirati in una spirale di morte, si sono tolti la vita. Definiamo tutto questo progresso, e ormai ci riteniamo una superpotenza. Come voi, siamo ben qualificati per il titolo: abbiamo bombe nucleari e indecorosi livelli di disuguaglianza.

Ma c'è una buona notizia: la gente ne ha abbastanza e non è più disposta a tollerare la situazione. Il movimento Occupy Wall Street si è unito a centinaia d'altre iniziative di resistenza diffuse nel mondo intero, dovunque i più poveri abbiano cominciato a reagire per bloccare l'avanzata delle multinazionali. Avervi dalla nostra parte, vedere il popolo degli Stati Uniti impegnato in questa lotta nel cuore dell'Impero, è un sogno. Non trovo le parole per esprimere l'immenso significato di tutto questo.

Loro (l'uno per cento della popolazione mondiale) sostengono che non abbiamo richieste precise da fare. Forse non sanno che basterebbe la nostra rabbia a distruggerli. Ma ecco alcune idee, qualche spunto «prerivoluzionario», su cui possiamo riflettere insieme.

È ora di dire «stop!» a questo sistema che continua a produrre disuguaglianza.

È ora di dire «alt!» all'illimitata accumulazione di ricchezza e denaro nelle mani di singoli individui e grandi aziende.

Ed ecco quello che noi, stop-pisti e alt-fautori, chiediamo e vogliamo:


1. Porre fine alle proprietà incrociate nel mondo degli affari. Per esempio: chi fabbrica armi non può possedere emittenti televisive; ai gruppi minerari è proibito dirigere quotidiani; alle imprese non è consentito sovvenzionare istituti universitari; le industrie farmaceutiche non possono controllare i fondi della sanità pubblica.

2. Le risorse naturali e i servizi primari (acqua, elettricità, assistenza sanitaria e scuole) non possono essere privatizzati.

3. Tutti hanno diritto a una casa, all'istruzione, alle cure mediche.

4. I figli dei ricchi non possono ereditare il patrimonio dei genitori.


Questa battaglia ha ridestato la nostra immaginazione. A un certo stadio del suo sviluppo, il Capitalismo ha ridimensionato l'idea di giustizia, riducendola al puro ambito dei «diritti umani», per cui il sogno dell'uguaglianza è divenuto blasfemo. Non stiamo lottando per rattoppare un sistema che va rimpiazzato.

In quanto stop-pista e alt-fautrice, rendo omaggio aí vostri sforzi.

Salaam e Zindabad.

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