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| << | < | > | >> |Pagina 131) Tutte le mattine passavo davanti a un negozio di cassette e di dischi: in una delle due vetrine, era in mostra un'arpa che non era in vendita. Serviva per richiamare l'attenzione della gente. Io un po' guardavo l'arpa e un po' la giovane commessa che sorrideva. Sono trascorsi circa trent'anni da allora, e forse è meglio che mi occupi di un passato meno remoto, sebbene, alla mia età i fatti più vicini siano i più lontani. Ci sarà una ragione.A sessant'anni, alle soglie della pensione, avrei fatto volentieri a meno del caso Azimont. Sia ben chiaro: le mie responsabilità, al commissariato di Pubblica Sicurezza, erano modeste, erano sempre state insignificanti. Io stesso ero insignificante, e così da quando ero nato, il 10 giugno del 1940. Quel giorno fu dichiarata una guerra, e il mio compleanno diventò una data storica, certo non per mio merito o per mia colpa. Grondavo e grondo anonimato da tutte le parti, ero e sono la materia oscura della nostra galassia. Mi chiamo Mario Rossi, in una Italia popolata per metà dai Rossi e per l'altra metà dai Bianchi, dai Colombo e dagli Esposito. Sono ragioniere, e sono non so più se l'aiutante, l'assistente o il segretario del dottor Pietro Benincasa. Il dottor Pietro Benincasa è il dirigente del commissariato Duomo, e tutto ciò che di storto accade in città, da un assassinio efferato allo scandalo suscitato da una nobildonna, appartiene alla sua giurisdizione. Il commissario è sulla quarantina, di esigua statura, ma supplisce con un paio di baffi neri e folti. Gode di raccomandazioni, e, nei limiti del possibile, cerca di non disturbare nessuno, di essere amico di tutti. Spera di essere promosso questore. È un opportunista, così l'affare Azimont finì soprattutto per infastidirlo. Si andava a toccare gente di alto bordo, di quella che con un soffio ti fa trasferire a Termini Imerese, e Benincasa era terrorizzato all'idea di fare un passo falso. Tranne il caso Azimont, non vi erano mai stati grossi impicci da sbrogliare: la città era tranquilla, scioperi e cortei in misura normale, la giusta dose di furti, di scippi e di rapine, le battone che battevano i viali della periferia sotto la pioggia battente. E i drogati che si facevano. Pioveva. Anche questa era ordinaria amministrazione. Il Chiaraviglio, nei tratti in cui è ancora scoperto, è sempre gonfio, in ebollizione, un piccolo fiume che pretende di imporsi con le spume e con i mulinelli. Amo e detesto questa città, in cui venni a vivere (non per mia scelta) parecchi anni fa. Buon Dio, bella non è: cemento, asfalto, pietre e acqua, acqua quanta ne vuoi, sono uno spettacolo deprimente. Anche i monumenti più celebrati — il Duomo, il Teatro, il Castello, la chiesa di Santa Liberata, la statua di Tommaso Hasting (operaio) — non è che siano meravigliosi. Domina lo stile del Piermarini: sobrio, austero, senza fronzoli. Uno stile affaristico, che non ammette voli di fantasia. La gente è convinta e finisce per convincerti che questo è il migliore dei mondi possibili. È una metropoli, ti spiegano, la capitale morale. Non so quanta ce ne sia di moralità, non so proprio. Un paio di settimane prima che esplodesse il caso Azimont, disponemmo una retata di puttane in zona Idroscalo. L'Idroscalo, per chi non lo sapesse, è un laghetto artificiale, un invaso d'acqua (acqua! sempre acqua!), dove, non so quanto tempo fa, gli idrovolanti effettuavano il decollo e la discesa. Poi, scomparsi gli idrovolanti, è rimasto il bacino, a uso, d'estate, dei bagnanti indigenti nonché delle zanzare, e, d'inverno, dei malintenzionati e delle donnine. Le donnine, tra le fratte, le frasche e i cespugli, trovano i posti dove nascondersi. Di far l'amore tra gli sterpi non mi è mai capitato, forse non è un gran che, ma non tutti si possono permettere il Regis Divina Porta, e una camporella è meglio di niente. Dicevo che ordinammo una retata di puttane, e, con mio sbalordimento, quando passammo a identificare le sante donne, saltò fuori che una di queste era una professoressa universitaria. Con tanto di cattedra di chimica biologica. Non era verosimile, di storie così bastava e avanzava Bella di giorno del regista Luis Buñuel. Pensai a un furto di documenti, a un altro pasticcio, a quello che vi pare. Nel mio immaginario, chi occupa una cattedra vola alto, non va a degradarsi all'ombra dei tigli. Chiesi di vedere la mistificatrice. Non era esattamente Catherine Deneuve, però non era da buttare via: alta, magra, efebica, algida, aspra, sulla quarantina; le labbra sottili e i capelli biondi, lisci, divisi in due bande, si addicevano a una donna dell'aristocrazia, occupata da opere di perfidia più che di pietà. L'inganno sarebbe riuscito alla perfezione non fosse stato per la minigonna eccessiva e per le calze a rete. L'esiguo vestiario rivelava l'oggetto sociale della sciagurata. «È un reato sottrarre i documenti altrui e presentarli come propri» dissi severamente. «Si va subito al fresco per un imbroglio così, non lo sai?» Nel mentre esaminavo carta d'identità, passaporto, tessera universitaria, e, con crescente sbigottimento, dovevo ammettere o che le fotografie erano state sostituite a regola d'arte o che di fronte a me sedeva la professoressa Sabrina Lattes. «Cominci col darmi del lei, brav'uomo» lei replicò asciutta. «Non abbiamo mai mangiato pasta e fagioli insieme. Quanto al resto, i documenti sono i miei, e io sono io. Non ho altro da dire.» | << | < | > | >> |Pagina 45RELAZIONE DI CLAUDIO PINELLI, PUBBLICITARIO
(inverno 1996)
1) Stimatissima e Reverendissima Eccellenza Monsignor Azimont, era mia intenzione parlarle della campagna pubblicitaria relativa alla fondazione In Hac Lacrimarum Valle, che lei tanto degnamente presiede. Con vivo compiacimento apprendo che il tema si è allargato, e che non di sola pubblicità si tratta. C'è altro. È allora doveroso che io sottoponga alla sua attenzione ricordi e riflessioni sulla mia attività lavorativa, che un tempo veniva semplicisticamente chiamata "pubblicità", e che adesso viene definita "comunicazione". E la "comunicazione", elevata a scienza, viene insegnata nelle università. O comunicata? Filosofia, lasciamo stare. È bene che io parta da lontano, se non abuso della sua pazienza. La mia era una famiglia perbene, una definizione terrificante, a dispetto del suo significato letterale, perché la felicità del vizio sta nel celarsi dietro l'apparenza della virtù. Così, sin da bambino, imparai che l'apparenza è tutto: mio padre, come funzionario delle imposte, era un tantino corruttibile, e mia madre, come angelo del focolare, era un tantino fissata e un tantino sgualdrina, però bastava che non trapelasse niente di queste vergogne. Ciò che non trapelava era inesistente. Ero molto solo. Eravamo molto soli, io e mia sorella, ed eravamo due ragazzini. Sabrina... Di sicuro lei già sa che mia sorella è poi diventata la professoressa Lattes e suppongo che la conosca anche troppo bene, mentre io ho avuto un destino più volgare. Il fatto è che i miei genitori si separarono, e già che c'erano, separarono anche i figli: Sabrina andò con la mamma, e io con mio padre. Che mi considerava un ingombro e, per giunta, un ingombro costoso. Così, non appena raggiunsi l'età della ragione, il babbo mi spedì a lavorare in una banca, ed ebbi non so se la fortuna o la disgrazia di trovarmi accanto Italo Del Gaudio, neoassunto anche lui. Più vecchio di me di qualche anno e laureato, mentre io mi ero fermato al secondo corso del liceo classico. Qualche anno più tardi, in India ritornò la peste, e si disse che sarebbe arrivata sino a noi. La peste è circondata da una triste fama, e non a caso alcuni grandi romanzi chiudono raccontando micidiali epidemie, a significare che l'uomo non è mai padrone del proprio destino, e che è sempre in agguato un evento contro il quale tutto si infrange. Reclamavano tutti un vaccino. Un vaccino non c'era e non c'è, salvo rimpinzarsi di antibiotici in via preventiva, ma gli antibiotici non sono caramelle, e poi la peste ha le sue stranezze, va e viene e non si capisce perché. Di tempo in tempo sono stati accusati l'aria che respiriamo, la vita sregolata, i topi e le pulci dei topi... quali che siano le cause, un rimedio non esiste, e questa circostanza mi suggerì l'idea di inventarmelo io un preparato, e di venderlo come un antidoto di sicuro effetto. Era ragionevole presumere che la peste sarebbe rimasta in India e che da noi non sarebbe arrivata, così mi sembrò logico contrastare un pericolo immaginario con un farmaco immaginario. A metterla in questi termini, può sembrare un imbroglio; invece è filosofia, e infatti lo spirito del nostro tempo è di sostituire al mondo che c'è un mondo che non c'è.
Per alcuni mesi riuscii a vendere cartine di bicarbonato a peso d'oro,
finché fui diffidato dai carabinieri e licenziato dalla banca. La mia vera colpa
era aver agito artigianalmente, in solitudine: se al posto mio vi fosse stata
una multinazionale, non ci sarebbe stato niente da eccepire. Vuole sapere che
cavolo c'entrava la banca con le mie cartine di bicarbonato? Vede, attingendo
alla cassa affidata alle mie cure, mi ero accordato un prestito di una
certa entità, prestito che non era stato autorizzato e che
io non avrei mai rimborsato; perciò venni rispedito, a calci nel culo, a quel
padre che, sempre a calci nel culo, mi
aveva mandato in banca. Papà, sconvolto dalla mia disonestà, si indignò e mi
disse: «Idiota... almeno tu avessi fregato qualche miliardo. Anche per rubare ci
vuole talento.» Aveva sempre pensato che io fossi un cretino.
2) Dopo molto tempo, ritrovai mia madre e mia sorella. Trascorsi due o tre mesi con loro, poi preferii andarmene per conto mio. Mia madre era distrutta dai tranquillanti e dagli psicofarmaci, e in tutte le sue affermazioni era sconcertante. Era ossessionata dal mondo arabo, e, in genere, dal mondo musulmano: prevedeva una guerra totale tra Paesi poveri e Paesi ricchi, invocava ogni possibile rimedio per scongiurare questa sciagura, e soprattutto per difendere la nostra tradizione cristiana. «Voi non capite» ripeteva, «è uno scontro di religioni, di civiltà, di culture, e, se non ci muoveremo tempestivamente, saremo presto islamizzati. Dovremo accettare la legge coranica, che lapida le adultere e taglia la mano ai ladri.» La legge coranica era l'unico aspetto inquietante, con quelle regole nella mia famiglia saremmo stati fottuti. Ogni tanto mia madre gridava: «Si esponga il crocifisso in tutti i luoghi pubblici!», e i vicini, a sentire le sue urla, si spaventavano, e chiedevano che cosa stesse succedendo. Rincuoravamo i vicini, e alla vecchia nevrastenica allungavamo calmanti, ipnotici, sedativi... una volta mia sorella si sbagliò, e le fece inghiottire un farmaco che era di mio padre, uno specifico contro l'atrofia della prostata: non vi furono conseguenze negative, anzi osservammo un effetto euforizzante. Mamma rise per due giorni. Mia sorella. La mia sorellina. Era diventata una creatura meravigliosa, splendente, e, parola d'onore, stentavo a riconoscere in lei la ragazzina un po' sdrucita con la quale mi ero fatto coraggio tanti anni prima. Mio padre era stato promosso ispettore delle dogane, e partiva; mia madre aveva perso la testa per un neuropsichiatra, e partiva anche lei. Restavamo noi due, con pochi soldi e con poca roba da mangiare in casa. Ciò nonostante eravamo felici o, meglio, volevamo essere felici, e, in mancanza delle cose che aiutano a riempire il tempo, fabbricavamo sogni. Il nostro passatempo o forse il nostro gioco preferito? Non lo indovinerà mai, Eccellenza. Accendevamo la radio cercando un po' di musica, e se la ricerca era fortunata, ballavamo. C'era da impazzire, se azzeccavamo Moon River di Henry Mancini. Monsignore, non mi fraintenda. La prego. Le ho già detto che eravamo due ragazzini, e, abbracciandoci, stringendoci, muovendoci corpo contro corpo, chiedevamo, io a lei e lei a me, l'affetto e la sicurezza che i nostri genitori ci negavano. Poi fummo separati, privati anche dell'illusorio conforto propiziato da Henry Mancini. E, quando Sabrina, oramai donna, riapparve, ne fui abbagliato: alta, magra, altera, quasi irraggiungibile. I lunghi capelli sciolti le ricadevano sulla schiena. Sapevo che aveva studiato, e che, nel suo futuro, era prossimo l'insegnamento universitario. Mi sentii quasi in soggezione, e compresi che il disperato abbandono dell'adolescenza non sarebbe ritornato. Mai più. Abbassai gli occhi, rassegnandomi al mutato ruolo cui mi aveva consegnato lo scorrere del tempo, e sorpresi le spalle nude di Sabrina magre e armoniose, non molto diverse da quelle che avevo conosciuto quando eravamo ragazzini, e ballavamo insieme. L'abito estivo era leggero e trasparente. Fu un riflesso condizionato più che un gesto voluto: la accarezzai sul collo. Sorrisi alla mia sorellina. Sorrise anche lei. Le sue labbra erano sottili e un po' perfide, i suoi capelli, lisci e biondi, non avevano nulla in comune con la chioma di una vamp, eppure nel suo sguardo balenò una scintilla maliziosa. Indugiò sotto la mia carezza, alla fine si ritrasse, si smarrì lontano. Annoiata, assente. Forse me ne andai per la indifferenza che avevo creduto di raccogliere. | << | < | > | >> |Pagina 189«C'è un piccolo Stato, in Africa» disse all'improvviso Hasting. Accese un'altra sigaretta, fumava come un arrabbiato. Spiegò: «Quel piccolo Stato è lo Ngatursi, e chi comanda là è un tirannello, Ociana Tumburu. Ociana Tumburu si era offerto di acquistare armi batteriologiche, e io, come lei sa, ero interessato alla mercamorva. Ma adesso quel dannato bastardo ha precisato la sua richiesta: non vuole batteri, vuole virus. Deve avere parlato con qualche scienziato da strapazzo o forse con qualche stregone... ha deciso che soltanto i virus possono scatenare uno sterminio.»«La mercamorva non serve più?» domandai con lieve ironia. «Non serve più» confermò Hasting. «Adesso è il turno dell'influenza. Ociana Tumburu ha saputo della pandemia che nel 1918 fece ventuno milioni di morti in tutto il pianeta... ventuno milioni nel giro di pochi mesi. Tumburu sembra impazzito, reclama alcuni campioni dell'agente patogeno della febbre spagnola.» «E io che c'entro?» eccepii. «Lei è un uomo di scienza, può arrivare dove vuole. Tenga presente che Tumburu paga molto bene... A parte il saldo sulla manifestazione e sul concerto, saldo che non le ho ancora versato, diciamo che lei riceverebbe duecentomila dollari come contropartita di ogni provetta... Le basta?» «Sta scherzando.» «Non scherzo affatto. Non ho mai parlato tanto sul serio.» «È un'offerta generosa... duecentomila dollari in cambio di un lurido virus, magari maritato con un batterio, per esempio con l' haemophilus influentiae... un lurido virus capace di continui mutamenti. Sì, è un'offerta allettante, però io non posso accettare.» Gli spiegai le ragioni del mio rifiuto, che prescindevano completamente dalla difficoltà di isolare in vitro le colture letali. Gli dissi che ero un medico, e che a me spettava non di far morire la gente, ma di farla vivere, il più a lungo possibile. Io non amo le trombonate sulla sacertà dell'arte di Ippocrate, e sono pronto ad ammettere che non tutti i miei colleghi siano degli apostoli – tuttavia vorrei sperare che di Josef Mengele ne sia bastato soltanto uno. Ero e sono consapevole che il genere umano si va moltiplicando con preoccupante rapidità, nondimeno respingo il concetto di eccedenza, perché non saprei chi includere in questo concetto, a meno di ammettere che tutti quanti siamo eccedenti. Dissi di no, che, per quanto mi riguardava, mai e poi mai avrei consegnato germi di qualsiasi specie a Ociana Tumburu o a chiunque altro. Hasting sembrò diventare pazzo di rabbia, e a un punto pensai che avrebbe alzato le mani. Bestemmiò. Maledisse me e tutti i miei morti. Ringhiò che era assurdo dare un calcio alla fortuna per salvare la pelle a qualche migliaio di negri di merda. Giurò che non mi avrebbe più dato un soldo, e che a ogni costo mi avrebbe rovinato. Mi sputò addosso, mi agitò i pugni sotto il naso, e alla fine, forse per evitare di trascendere oltre, si allontanò correndo. Sparì nella tenebra, e, poiché a Pietrapertosa non lo vidi più, suppongo che ripartisse subito, in macchina, così come doveva essere arrivato. Non piansi sulla mia vecchiaia oltraggiata, Hasting non era che un miserabile. Mi domandai se la febbre spagnola, all'incirca un secolo prima, era giunta anche tra quelle pietre. Strano. Avrei dovuto preoccuparmi del finanziamento perduto, delle difficoltà che quella carogna di Hasting mi avrebbe creato, e dei dodici cavalli appena comprati e non ancora pagati. Invece il presente, con i suoi nodi aggrovigliati sempre peggio, mi parve niente più che un'ombra, tra le tante lanciate dalla luna sulle pietre, mentre sentii una urgenza lancinante, figurandomi una apparizione dietro le spalle, un mio personale convitato di pietra, venuto a regolare i conti con me, senza che io avessi commesso le malefatte di don Giovanni. Mi voltai a guardare, e, nella calca delle arenarie, in prima fila, livido nella livida luce della luna, credetti di riconoscere mio padre, morto di febbre spagnola avanti che io nascessi. Monsignore, la prego: non dubiti delle mie facoltà mentali (se ne dubitasse a dispetto di questa mia raccomandazione, ebbene, tanto piacere, chi se ne fotte – al principio di questa mia relazione, opportunamente ho premesso che io e lei non simpatizziamo). Mio padre mi concepì sul finire del 1918, e due mesi dopo l'influenza se lo portò via, come se il Cielo avesse decretato di castigarlo, per aver voluto un figlio. Voluto? Questo non lo saprò mai. Mi attardo nel rievocare questi fatti lontani, perché mi preme andare alle radici della mia polemica contro la morte. Di mio padre non ho il benché minimo ricordo, è una congettura, uno spermatozoo che si è smarrito dentro di me, e questa mutilazione in qualche modo ha segnato la mia esistenza, perché ho sempre pensato di essere nato da una donna e da un enigma. Può devastare più gravemente una presenza o un'assenza? A me aveva pesato e, nonostante gli anni, continua a pesare anche adesso l'irrealtà di mio padre, così, insigne Monsignore, non deve stupirla che lo avessi scoperto tra le arenarie di Pietrapertosa. Quel bastardo di Hasting mi aveva parlato della febbre spagnola, senza sapere che quella febbre, per me, era come il biscotto di Proust. Mi guardai intorno. Ero avvolto di solitudine e di silenzio. La notte era diventata blu. Alcuni anni prima era stata in voga una canzone le cui parole dicevano che l'amore è blu, e prima ancora Modugno aveva rotto i coglioni con il suo blu dipinto di blu. Il successo del colore blu è imputabile a ragioni di rima: monosillabo che si accompagna bene con "mai più". | << | < | > | >> |Pagina 2906) Il pericolo più grave è costituito pur sempre dal comunismo e dai comunisti. Dicono che le cose sono cambiate, dopo la scomparsa di Lenin e di Stalin. Citano: la destalinizzazione, Nikita Kruscev, la perestrojka, la glasnost, Michail Gorbacev, lo sfaldamento dell'impero sovietico, e, soprattutto, la caduta del muro di Berlino. È un volgare inganno, e bisogna star bene attenti a non cadere nella trappola: la doppiezza dei bolscevichi non finirà mai, e lei, Monsignore, che in materia ha ottima competenza, sicuramente sarà d'accordo con la mia tesi. Carlo Marx, che pure era un farabutto di rango, ha responsabilità relativamente modeste, perché con i comunisti il problema è genetico. Nascono impastati di invidia e di perfidia, e Giovanni Guareschi aveva ragione a disegnarli con tre narici – la deformità anatomica denunciava la deformità morale.Si parla tanto delle vittime di Mussolini e di Hitler, del fascismo e del nazismo, ma i cento milioni di morti, all'ombra della bandiera rossa, quelli sono tutti sepolti nel dimenticatoio. Sia chiaro, Monsignore: non sto parlando di infelici che hanno ceduto agli stenti, al freddo o alla malattia (il gulag è un altro capitolo dell'epopea comunista), ma di morti ammazzati per effetto del classico colpo alla nuca o di altro insulto, eventualmente con generoso antipasto di supplizi assortiti. In nome della eguaglianza e della giustizia sociale. Alla faccia. I comunisti sono scaltri, sanno mascherarsi, specie quelli di casa nostra. A sentir loro, sono democratici, pacifisti, rispettosi delle libertà e delle idee altrui, tolleranti, disposti al dialogo e al confronto. Travestiti da agnelli, si sono insinuati in ogni ganglio della vita pubblica e controllano l'amministrazione della giustizia, l'università, la scuola, l'editoria, la cultura, la stampa, la televisione, lo spettacolo, forse anche le parrocchie delle località montane. In Italia non c'è un intellettuale che non sia un comunista. Essendosi impadroniti di ogni settore della comunicazione, non smettono di seminare odio e di spargere veleno. E raccontano orribili fandonie alle quali la gente presta fede, purtroppo.
Le menzogne più oscene toccano il comparto dell'economia, dato come perdente
e anzi prossimo al collasso, laddove le più caute rilevazioni statistiche
segnalano un 4,32% di aumento netto del pil, contro un calo del 12,48%
nell'indebitamento pubblico, mentre la produzione industriale è in visibile
crescita e il saldo della bilancia commerciale
largamente eccedentario. A tacere delle cifre sulla occupazione (728.544.= nuovi
occupati nello scorso anno) e della visibile ricchezza delle famiglie:
automobili di seconda mano, telefonini, panettoni e calze griffate. E a tacere
infine dei provvedimenti che il governo si accinge a varare,
nell'intento di... Già: quale intento? Omissis.
7) Non volevo annoiarla, Monsignore. Lei sa come si dice:
amica veritas, sed magis amicus Plato
ovvero
comandare è più dolce che chiavare.
Sono reminiscenze di antiche letture, quando mi consumavo gli occhi sull'
Utopia
di Erasmo da Rotterdam e sull'Elogio della follia di Tomaso
Moro, ma forse sto facendo un po' di casino... benché la
moderna cultura proponga ostentazioni anzi che attribuzioni. Se tu dici:
«Wittgenstein», basta la parola. Che te
ne frega di sapere chi era o chi non era? Comunque, or
sono ventisei anni, chiusi la pagina per sempre, e mi votai
all'azione, custodendo in cuore l'imperativo categorico
che reca
melius est abundare quam deficere.
Ero e sono un malintenzionato: dunque la politica mi apparteneva, mi
appartiene. Omissis.
8) Barzelletta. Per alleggerire. Monsignore, lei sa che cosa fanno cento cinesi stretti in una cabina telefonica? Non lo sa? Diamine! Fanno le pagine gialle. E qual è il colmo per un sindaco? Avere un'intelligenza fuori dal comune. Vogliamo buttarla in politica?
Togliatti, dopo alcuni anni di purgatorio, finalmente
giunge in paradiso, e viene affiancato a San Francesco.
Togliatti è imbarazzato, perplesso, inquieto. Domanda
all'inatteso compagno: «Ma io, accanto a te, che cosa ci
faccio?» E il Santo: «Possibile che tu non capisca? Io predicavo agli uccelli, e
tu ai coglioni.»
9) Siamo ritornati ai comunisti. La crociata contro i rossi è la mia missione. Non considero una sciagura che abbiano ammazzato cento milioni dei loro e dei nostri simili. Non mi piace il modo, ma sia benedetto tutto ciò che serve a sfoltire, e io credo che, tra le possibili eventualità, le epidemie meritino la preferenza. Meglio persino delle guerre, che hanno enormi costi economici, e che, oltre ai morti, regalano mutilati e invalidi, cioè parassiti che mangiano e non producono. Niente è più pulito di una bella epidemia. Nel giro di pochi mesi esaurisce il suo nobile lavoro, con una spesa modestissima, anche per quanto riguarda le onoranze funebri, e infatti è giocoforza ricorrere alle fosse comuni. Soprattutto, se la gente si ammala e poi crepa, non è colpa di nessuno: lo sanno anche i gatti che non esistono gli untori, a meno di considerare tale il misterioso Signore che siede in alto, al di sopra delle stelle. Naturalmente il discorso vale per chi crede in Lui: e chi crede può scegliere tra una preghiera e una bestemmia. Le ho detto una bugia, Monsignore (sono sicuro che non si scandalizzerà: le bugie le dicono tutti, servono per costruire una vita parallela, e, quanto a me, non è un mistero che la mia vita è solo quella parallela). Non è vero che non esistono gli untori e le unzioni – in alcuni casi esistono, eccome! Ero buon amico di Ociana Tumburu, presidente della repubblica di Ngatursi, nel cuore dell'Africa. Come e perché eravamo diventati amici è presto detto... Omissis. Tumburu aveva alcuni conti in sospeso con una tribù confinante. La tribù ribelle e la repubblica di Ngatursi si facevano la guerra o, meglio, la guerriglia: mancava un episodio risolutivo, forse perché una conclusione era impossibile. Tumburu pensò all'arma batteriologica e chiese il mio aiuto. Io chiesi aiuto al professor Saverio Mercadante che, in principio, mi prese in giro – ma Capitani, il mio segretario, ammalò di morva, e per fortuna lo stesso Mercadante gli salvò la pelle. Decisi di mettere lo scienziato spalle al muro, e andai a fargli visita in un luogo lunare dove si era ritirato. Gli rammentai che ero stato il finanziatore e l'organizzatore di una grande manifestazione a beneficio delle sue ricerche (intendo il concerto e la sfilata per l'abolizione della morte), ma non ci fu verso di tirare dalla mia quello stronzo. Mi incazzai di brutto. In compenso imparai tutto sui virus, sui calanchi e su Aldebaran, la rossa. Il comunismo stava contaminando anche le stelle? C'era da rabbrividire. Allora... Omissis. L'epidemia mieteva vittime nella regione dello Ngatursi, si parlò (forse esagerando) di un milione di morti. Si cominciò a temere che il flagello potesse arrivare sino a noi, e si studiarono misure contumaciali. Un poco mi sentivo in imbarazzo, e il mio imbarazzo aumentò quando si seppe che ci aveva lasciato le penne anche il presidente Ociana Tumburu (il suo posto era stato preso da un mezzo selvaggio, ferocissimo, indiziato di aver mangiato carne umana: unico punto del suo programma era l'odio i bianchi). Monsignore, si metta per un momentino al posto mio: mi assalirono molti pensieri molesti, e mi dissi che, se la favola dell'apprendista stregone si stava ripetendo... Prevengo una obiezione. Lei mi chiederà com'è possibile che io, teorico dello sfoltimento demografico, fautore della industrializzazione della morte (e per questa mia concezione aspiro al premio Nobel per la pace), com'è possibile che io mi dia tanta pena a causa di un'influenza che sta decimando una popolazione africana. Scusi: ma chi le ha detto che mi do tanta pena? Credevo fosse evidente che vi sono due specie di morte: quella degli altri (parola d'onore, non me ne può fregare di meno, anzi, più numerosi tolgono il disturbo, meglio è, se poi a schiattare sono i comunisti, è festa grande), e quella mia, alla quale equiparo la dipartita di chi, in un modo o nell'altro, provvede ai cavoli miei. Solo nel secondo caso è tragedia – vera, autentica tragedia.
Quando alcune migliaia di coglioni sfilarono, cantarono e ballarono,
protestando contro la morte, era in
discussione non il fenomeno in generale, unica risorsa per
liquidare le eccedenze, ma la sua forma degenerativa, che
ignobilmente va a colpire chi è ricco, chi è felice, chi sta
bene al mondo. E l'unica ragione, per cui non ho distrutto il professor
Mercadante, è perché spero che le sue
ricerche possano procurarmi venti o trent'anni di vita in
più, naturalmente in ottima salute. Alla faccia dei neri, dei
poveri, dei disabili. E soprattutto dei comunisti. Omissis.
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