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| << | < | > | >> |Indice13 Dall'Atlantico alla Cina LE ALPI 19 1. Dal mare alla Drava Isole come neri capodogli, 19; In cerca del Grande Inizio, 23; I fanti dell'armata perduta, 27; Valli a capire, gli orsi, 34; Piatto di lumache a Lilliput, 36; In cordata con l'uomo nero, 41. 46 2. Dal Tagliamento al Vajont La casa dalle cento finestre, 46; Due palombari nel fondo del Tempo, 49; "Quella notte che vidi il diavolo", 54. 60 3. Dal Piave all'Adige Il velodromo più lento del mondo, 60; Perché l'acqua si mise a correre, 64; Rape rosse per il "barszcz", 68; Se un violoncello diventa albero, 74; Le cento grappe di frate Lino, 78. 82 4. Dall'Adige all'Inn Quando un rottweiler ha paura, 82; Torniamo piano, nella notte senza Luna, 87; Tortellini a Brennerpass, 91; Il turco aveva ragione, 95. 100 5. Dalle Venoste alla Valtellina Quando Herr Simon scomparve nella neve, 100; Il capolavoro dell'ingegner Donegani, 105; Sul bruco rosso dei ghiacciai, 108; Via di notte, come Tuareg nel deserto, 110; Dove l'Africa finisce, 115. 120 6. Da Chiavenna al Ticino Una fanciulla discinta per dopo cena, 120; L'urlo del mare archeozoico, 123; Una casa piena di vento, 126; Dove le frane diventano paesi, 130. 135 7. Dal Rosa al Bianco Forse nevica in Transilvania, 135; Qualcosa si è staccato lassù, 138; "Les pantalons, les pantalons!", 140; Sembrava il profeta Ezechiele, 142; D'inverno ti seppelliscono in piedi, 147; La meringa gigante, 149; Connaissez-vous Ulysses Borgeat? 153. 156 8. Dal Gran Paradiso a Nizza Il ritorno di fra Dolcino, 156; Il vento soffiò ventun giorni di fila, 161; Una locanda di nome Griselda, 164; Tutti gli aerei la conoscono, 167; Profumo di baguette, 169; E l'orchestra suonò "La gazza ladra", 171. GLI APPENNINI 179 1. Da Savona alla Trebbia Tutto cominciò nel buio, 179; Il rettilineo non accorcia un bel niente, 184; L'ultima trincea di don Luciano, 191; Sulle tracce di Gurcio Tignoso, 198; Persi nella piana ipermercata, 203. 207 2. Dalla Val d'Arda alla Lucchesia La principessa delle balene, 207; Zwanzig Personen in Automobili 212; Il lupo e le signore degli agnelli, 215; Attenti ai Buioni, 220. 226 3. Dall'Abetone alla Romagna Le vacche vadano al piano, 226; L'oro di Felix Pedro, 232; Il boa che uccide i torrenti, 239; Mugugni sul fatal sacello, 243; "I fascisti peggio dei tudòsc", 245. 248 4. Dal Montefeltro ai Sibillini Il cielo si oscura, governo ladr0, 248; Donna in nero con temporale, 253; Hitler, Ginetto e san Severo, 258. 262 5. Dai Monti Reatini al Molise "Immanis horribilisque specus", 262; Ottava rima e ragù, 264; Dove i monti diventano arcipelago, 269; Dispersi nelle Terre di mezzo, 273; Del brutto tempo e dei santi, 276; Vacche lombarde in Terronia, 279; La nostalgia di Carmelina, 284. 287 6. Dal Sannio all'Ofanto Un'onda lunga di alture viola, 287; "Statale 17, sembri esplodere di sole", 290; Sulle ali dello spirito santo, 292; Inno ai cornuti volontari, 296. 302 7. Dagli Alburni al Pollino Praticamente Armageddon, 302; "Sali, la Madonna ti aspetta", 307; Dell'inevitabilità del viaggiare, 310; Dove Nerina si svela una signora, 315. 318 8. Dal Crati a Capo Sud Guida al centro e avanti, 318; Gamberoni verdi sul parabrezza, 321; Il miracolo di Santa Maria Assunta, 325; Nella Bocca del vento, 328; L'ultima dea di pietra, 334; Una birra, una tovaglia, la risacca, 337. |
| << | < | > | >> |Pagina 13Questo libro racconta la più lunga traversata italiana: ottomila chilometri, la stessa distanza che c'è dall'Atlantico alla Cina. Spiega in dettaglio cosa succede dentro l'Arca, la montagna di casa nostra, metaforica zattera con a bordo una ciurma di piccoli grandi eroi della resistenza dei territori. Ero partito per fuggire dal mondo, e invece ho finito per trovare un mondo: a sorpresa, il viaggio è diventato epifania di un'Italia vitale e segreta. Ne ho scritto con rabbia e meraviglia. Meraviglia per la fiabesca bellezza del paesaggio umano e naturale; rabbia per il potere che lo ignora. Come ogni vascello nel mare grosso, la montagna può essere un insopportabile incubatoio di faide, invidie e chiusure. Ma può essere anche il perfetto luogo-rifugio di uomini straordinari, gente capace di opporsi all'insensata monocultura del mondo contemporaneo. Contro questi "giardinieri di Dio" elfi guardiani dei loro microcosmi e garanti dell'equilibrio ambientale della nazione si sono accaniti in tanti: il fascismo, l'assistenzialismo dc, il monopolismo berlusconiano, l'arroganza della giovane sinistra, la grande distribuzione e persino gli alti prelati. Il risultato è che la montagna pur essendo la spina dorsale fisica del paese è totalmente scomparsa, guarda caso con la Resistenza, dalla politica e persino dall'immaginario nazionale. Sia le Alpi sia gli Appennini restano mondi subalterni, privi di autostima e di rappresentanza politica. Oggi, a viaggio finito, so che dietro ogni alluvione, dietro ogni siccità, dietro ogni emergenza climatica, non vi è solo l'effetto serra, ma anche la guerra sistematica del potere contro le periferie più vitali, quelle capaci di tenere vivo il territorio e di impedirne la devastazione finale. Con il passare dei chilometri, il racconto cambia, prende andatura e profondità, diventa più italiano e partigiano. L'iniziale zigzag di superficie, spezzato da sconfinamenti e discontinuità di tempo, acquista unità, scende a quota periscopio, e il diario sui luoghi diventa ricerca di persone. Sull'Appennino, percorso con una gloriosa utilitaria postbellica, il viaggio va definitivamente in immersione ed evita i luoghi rinomati del Baedeker. Le Alpi, catena egemone, perdono il primato; diventano "ouverture" della cavalcata terminale fra i due mari, dentro l'anima del paese. Avvicinandosi al grande faro dell'Aspromonte, succede che l'esplorazione tra i monti scopre un mondo sempre più femminile, sempre più arcano, e diventa incontro con gli dèi in esilio. Dèi partigiani anch'essi, costretti alla macchia dal dilagare del brutto, dell'ignoranza e della volgarità. Lontano dai luoghi della finzione e del frastuono, ho attraversato a volte una soglia invisibile e scoperto luoghi dello spirito: eremi, fonti, santuari, boschi millenari, a volte semplici toponimi. Soprattutto piccole valli, orientate come antenne paraboliche verso un silenzio planetario. In questi spazi la parola il logos sembra riacquistare senso e rigenerarsi come in una cassa armonica. Qui il pensiero si espande naturalmente, e naturalmente incontra il Sacro, se non altro per il bisogno fisico di superare i contrafforti che gli chiudono l'orizzonte. Mi piace pensare che tali luoghi contengano i codici criptati illeggibili ai barbari della resistenza all'annientamento, memorie orali antichissime dei princìpi della vita. Senza questi invisibili rifugi, probabilmente la montagna si sarebbe desertificata da tempo. Non è un caso, credo, che nei labirinti della Cappadocia, miracoloso giardino annidato nel cuore roccioso dell'Anatolia, le genti abbiano nutrito per secoli monaci e anacoreti abbarbicati a chiese rupestri, affinché questi garantissero la continuità del mondo con le loro preghiere. Poiché coltivo l'illusione che grazie a questi luoghi il mondo eviterà la catastrofe, ho pensato fosse giusto non svelarli del tutto. In certi casi, mi sono limitato a dare solo vaghe tracce topografiche. In altri, ho depistato il lettore, imbrogliato le carte o taciuto completamente. Non dico, per esempio, dove abita un boscaiolo che parla con le fonti e dove vive un pastore capace di intessere, con una pianta simile alla rafia, mantelli da pioggia identici a quello dell'uomo del Similaun. A ciascuno il suo viaggio, a ciascuno il suo dialogo con la mappa del paese. Che i politici scendano dai loro elicotteri e imparino a camminare; o l'Italia diverrà in breve una terra di locuste e avremo non una, ma mille banlieues di furore. Le periferie bastonate si vendicano, e la montagna è periferia. La Lega Nord, scesa dalle valli, è stata solo il primo segnale di un malessere. Ne La secessione leggera (1998) ho raccontato lo spaesamento, il mugugno e gli pseudo-miti etnici del Nord, il suo divorzio dalla res publica e dal territorio, segnalato dal collasso delle acque padane. Qui ho cercato l'altra faccia della Luna: l'Italia del buon incontro, aperta e solidale. Dietro la metafora delle montagne che emergono dal mare e navigano come una grande Armada, è uscita talvolta l'immagine di un'Italia dai contorni di leggenda: da qui la scelta di questo strano titolo che unisce senza volerlo tre nessi consonantici in un perfetto endecasillabo. Questa traversata sovraccarica di luoghi minori è un approfondimento di due grandi viaggi compiuti per "la Repubblica" sulle Alpi e sugli Appennini. Fatti rispettivamente nel 2003 e nel 2006, sono stati una base d'indagine forte e mi hanno consentito di entrare nella parte segreta del paese. Senza le opportunità offertemi dal mio giornale, difficilmente avrei potuto applicare lo stetoscopio a questi luoghi senza voce, nascosti fra le vertebre della lunga schiena nazionale. Oggi più di ieri sono convinto che compito dei media sia anche raccontare le terre del silenzio. | << | < | > | >> |Pagina 31Parto per Gorizia, il buio mi inghiotte, sulla strada qualche locanda, casermette della polizia di frontiera. C'è passaggio di clandestini prostitute, pare e gli sloveni fanno pattuglie miste con gli italiani."Vai a Gorizia? E che ci vai a fare?" mi chiede un avventore al bar. "Gorizia, che mortorio, che noia, non succede niente. Bisogna essere matti per abitare là." Θ una tiritera che conosco. Per i triestini Gorizia è Venezia Giulia, per i friulani è Friuli, per gli sloveni semplicemente roba loro. Gorizia, di chi sia nessun lo sa. Per averla, scatenammo sei offensive; ora i turisti non si fermano nemmeno per darle un'occhiata. Vanno direttamente a Nova Gorica, la città gemella inventata da Tito per fronteggiare il capitalismo. Lì sì che c'è vita, ti dicono tutti. Gioventù. Casinò, spogliarelliste, musica fino all'alba. Un bel non luogo mangiasoldi perfetto per gli italiani. Santa. Maledetta. Italianissima. Slava. Delizia. Inferno. Altare. Città delle rose. Corona di spine. Ogni volta che ci vado, mi chiedo cosa sia veramente Gorizia, inondata di retorica, strangolata per mezzo secolo da un confine assurdo, luogo-simbolo conquistato a prezzo di sofferenze atroci e poi quasi sparito dalla geografia del paese. Successe che nel '18 venne a galla la verità: il contado goriziano era quasi tutto sloveno, e per giunta comunista. Così la provincia di Gorizia, appena conquistata, fu prima cancellata dalle mappe amministrative e poi ridotta a un moncherino fra Udine e Trieste per occultare la presenza slava. Un giorno a Gorizia mi capitò di assistere a una messa dei reduci della Decima Mas fascista, battutisi fino all'ultimo su quei monti contro l'avanzata partigiana. Uno di loro ammise di aver scoperto solo nel '45 che lì intorno si parlasse sloveno. "Non ne sapevamo nulla," disse. "Ma come?" pensai: non parlavano da soli, molti dei nomi della Grande guerra? Luoghi come Kolovrat, Zagora, Podgora, non bastavano a capire? Oltre la stretta dell'Isonzo, in mezzo alle montagne, oltre il fronte che non c'è più, Caporetto è già Oriente. Terra di racconti foschi: fanciulle rapite dai turchi, amanti infelici, il camoscio bianco e maledetto dalle corna d'oro, i titani, e un unico tempo felice, quello del mitico re Matjas. Il Museo della Grande guerra è solo l'ultimo anello di una cupa catena di eventi. La rassegna fotografica è esemplarmente cruda. Facce barbute da mujaheddin, mutilazioni, occhi febbrili di soldati nella neve. Cannoni enormi tirati a braccia su per i prati, migliaia di feriti che aspettano il treno, italiani falcidiati dai gas. Un po' di verità, su un confine inondato di retorica, mausolei e monumenti alla vittoria. "Il 29 luglio quando c'era il grano / è nata una bambina con una rosa in mano / ...le ragazzette l'amor non sanno fare / ma noi ragazzi glielo farem sentire / la sera dopo cena quando si va a dormire!" | << | < | > | >> |Pagina 108Sul bruco rosso dei ghiacciaiIl trenino svizzero lo riconosci prima dall'odore. Non emana quell'amalgama stagionato di piscio, diserbante e sudore che regna nelle nostre stazioni. Se lo avvicini a occhi chiusi, fiuti sapone di Marsiglia, legno di abete, cioccolata espresso. Solo dopo questa degustazione olfattiva è lecito aprire gli occhi. Eccolo. Il bruco rosso squillante che dalla valle dell'Inn mi porterà sui ghiacciai del Bernina, lungo la linea più alta d'Europa, saldando a nord Trentino-Alto Adige e Lombardia con un bypass in terra straniera. La motrice aspetta ronfando sul binario 2. Porta la scritta ladina "Viafer retica", ha sul muso lo spartineve e lo scudo con lo stemma lucente dei Grigioni. Stazione di Scuol, Bassa Engadina, poco oltre gli ultimi monti della Val Venosta. Architettura alpina fine Ottocento, salottini trasformati in sale d'aspetto, biglietterie ordinate e rassicuranti come farmacie, dépliant allineati dal più grande al più piccolo, epiche gigantografie di stazioni e viadotti. Un manifesto mostra il guardalinee che ogni giorno, alle 4.45, parte dalla stazione di Bergun con il suo solitario carrello. Fuori, prati rasati, cataste di legna, l'autobus che aspetta la coincidenza. Tutto facile, silenzioso, accessibile. A bordo, gitanti con gli zaini e i bastoncini telescopici. Accanto, un anziano che legge la "Neue Zόrcher Zeitung". In fondo, gli scout di una colonia estiva, che discutono l'itinerario sulla carta al 25 mila. Improvvisamente me ne rendo conto: il mio non è un treno. Θ un'icona nazionale. Se non passasse, questa gente andrebbe in crisi di identità. Sui vagoni, gli elvezi banchettano, discutono di politica, sognano, fanno l'amore. La ferrovia è il loro legame ancestrale. L'unico, forse, in questa babele di cantoni e lingue federali. Si parte. Castelli, boschi, cielo blu, neve fresca in quota, ciclisti che spingono sui pedali, traffico stradale quasi zero, l'Inn che spumeggia verso l'Austria. Si va via lisci, senza contraccolpi. La differenza con l'Italia è anche acustica. Non c'è il tu-tun tu-tun. Solo un'andatura senza scossoni, dolce, quasi erotica. Con una voce femminile che in due lingue tedesco e romancio ti sussurra i nomi delle fermate come se ti dicesse: "Seguimi, straniero". Il Canton Grigioni somiglia al Tirolo, ma è meno lezioso, ha meno gerani alle finestre e meno coreografie ammiccanti. Compaiono le sobrie guglie delle chiese protestanti. C'è più austerità, ma anche più comunicativa. Mi prende una curiosa sensazione di tornare a casa anziché partirne. Come finisce l'Alto Adige, l'Italia ricompare nei menu, nelle pizzerie, nei gesti, nella lingua. Finiscono le consonanti dure, comincia la musica del mondo latino. Non più Hauptstrasse, ma "via maistra". Non Schuhmacher ma "calghèr", calzolaio. Samedan, stazione di Samedan. Una scenetta dal finestrino: un treno arriva da Sankt-Moritz, direzione contraria, un carrello su gomma gli si affianca, si ferma accanto alla carrozza postale. Ed è già un colpo al cuore, visto che con la privatizzazione mezza Europa ha tolto questo servizio alla rotaia. I sacchi di corrispondenza vengono deposti con cura sul mezzo a terra che in sessanta secondi finisce il lavoro e passa sull'altro binario per la coincidenza. Ma non basta. Dal medesimo vagone esce una bici amorevolmente protetta da una gualdrappa di plastica con lo stemma delle ferrovie elvetiche. Un addetto la prende, sale sul mio treno, la appende a una rastrelliera verticale con un gancio speciale. La chiude con un lucchetto. Fantastico. Svizzera, resisti. A Pontresina il vagone si riempie di giapponesi in estasi, riparte, punta sul Bernina, il Quattromila più occidentale delle Alpi. L'andatura felpata finisce, ora il treno stride, cigola, si inclina, ritorna sulla sua strada. In curva è impossibile passare da una carrozza all'altra, le curve sono a quarantacinque metri di raggio e l'angolatura fra i vagoni è tale che il predellino si trasforma in trapezio. Non si va oltre i trenta orari, si penetra un terreno minerale quasi andino. Vento, campanacci, pietraie, ghiacciai. Breve sosta sul punto culminante, il ristorante-stazione Ospizio Bernina, metri 2256, dormitorio e acqua corrente. Dicono che d'inverno, con la Luna, sia un posto favoloso. Le ferrovie vi forniranno le slitte per tornare a valle. Tuffo verso Poschiavo, ultimo pezzo di Svizzera prima della frontiera. Il treno scende guardingo per più di mille metri, compie evoluzioni inconcepibili, curve elicoidali tra i larici, incontra alpinisti, fischia, si infratta come un bracconiere. Il controllore spiega che questa linea-simbolo della diversità elvetica l'hanno fatta gli italiani. Tremila uomini in soli tre anni, un record. Gli stessi italiani che oggi smantellano le linee di casa loro, o le lasciano andare in malora per farne binari da rottamare. A Poschiavo i treni non si limitano ad arrivare e partire. Atterrano e decollano, tanto forte è lo scarto di pendenza fra la stazione e l'unico binario che sale. Il nostro convoglio in arrivo dai ghiacciai frena, sembra sbattere contro il Bernina Express in attesa di partire per Coira, poi devia al millimetro, quasi deraglia, gli si allinea accanto, si ferma. Il capodeposito, Mario Costa, mi porta a vedere l'officina. E così pulita che sembra una clinica, con la motrice Gem 44 appena rimessa a nuovo, nell'aria odore di grasso e vernice. "Per questa valle la ferrovia è tutto," racconta. "E io, senza, sarei dovuto emigrare." Si parla lombardo duro, ma non è Lombardia. Θ ancora un mondo ordinato e rispettoso delle istituzioni. Sento di entrare in una Padania possibile, diversa da quella della Lega, capace di federalismo responsabile, non furbescamente chiusa a difesa dei propri orticelli o prona di fronte agli uomini della provvidenza. Ma quel trenino rosso fuoco simbolo lucidato della cosa pubblica che mi infonde speranza scivolando verso la frontiera e il capolinea di Tirano mi toglie anche ogni possibilità di fuga. Ora non posso più dire: "Qui sono tedeschi, hanno l'autodisciplina nel Dna". No, sono latini come noi. Non abbiamo più alibi. | << | < | > | >> |Pagina 183Ormai era chiaro. Dovevo tornare, navigare sull'Appennino, ancora più in profondità di quanto avessi fatto sulle Alpi. Il tunnel della Bologna-Firenze mi appariva sempre più una dantesca allegoria. Il simbolo di un paese dove le grandi reti restavano cieche rispetto al territorio. Anche l'autostrada, a pensarci, era un tunnel che impediva di vedere intorno, un imbuto che si intasava risucchiando la vita dai capillari circostanti senza irrorarli di nulla. Dovevo ripartire da zero, con il mezzo di trasporto più lento che ci fosse.Cominciai a raccogliere notizie, letture, indirizzi. Una montagna di annotazioni, che riportai a poco a poco su una carta d'Italia da cui avevo sforbiciato le Alpi. Lentamente il viaggio si formava, riempiva la mia fantasia e i miei sogni come l'ombra della gigantesca rana pescatrice che avevo visto nella pancia della montagna. Pensai a un sidecar tedesco, poi a una vecchia, rivoluzionaria Deux Chevaux. Volevo che l'Italia fosse il mio Afghanistan, un pezzo di Via della Seta. Poi ripensai alle Topolino che avevo incontrato sul Passo Spluga nella mia scorribanda alpina. Erano simpatiche e italiane: se ne avessi trovata una, mi avrebbe facilitato gli approcci.
Dopo anni di bicicletta sapevo che i mezzi lenti non sono solo
un modo per vedere di più, ma anche un filtro per selezionare gli
incontri. Difficile che un arrogante o un idiota si soffermi a scambiare due
chiacchiere con il conducente di un'utilitaria o di una bicicletta. Quella è
gente che semmai si irrita, odia la lentezza per
sprezzo o per segreta invidia; dunque viene svelata all'istante dal
macinino che la esaspera con la sua andatura. Utilitarie e biciclette attirano
solo i simpatici, i bambini, i matti, i solitari e i vecchi
originali dalla memoria di ferro, che sono proprio le persone con
cui vale la pena fermarsi sulla strada della vita.
Il rettilineo non accorcia un bel niente Θ un attimo. Come infilo la chiavetta a forma di chiodo nella toppa dell'accensione, la Calabria diventa lontana come la Patagonia. E l'Aspromonte, capolinea del viaggio, si trasforma in un infuocato purgatorio, perso nei miasmi della distanza. Ce la farò? Non accendo nemmeno il motore. Guardo le spiagge roventi della Riviera di Ponente, le prime luci dei ristoranti, le donne tirreniche, le palme, le agavi, e mi chiedo come ho fatto a cacciarmi in un guaio simile. Fare gli Appennini per le strade minori è già una follia. Gli Appennini non finiscono mai. Ma farli con una Topolino del 1953 è un delirio. Θ la sera della vigilia domani si sale al Grande Inizio, Cadibona e la capretta meccanica è appena arrivata nel parcheggio di un hotel insieme al proprietario, un bolognese simpatico con una barba corta da sottufficiale di cavalleria; uno che all'auto un po' ci somiglia. Si chiama Roberto Righi e mi guarda con invidia. Vorrebbe partire anche lui, ma non ha tempo abbastanza, il lavoro non glielo permette. Conosce la Reisefieber, la febbre da viaggio che mi divora da settimane, da quando ho preso la decisione di partire. Non lo sfiora che possa avere dei dubbi. Certamente ignora quali pazzeschi saliscendi ho in mente di fare. Sessantamila metri in su e in giù, più o meno. Sette volte l'Everest. Ho un bel dire a me stesso che tutto questo ha un senso, che siamo nel 2006, l'anno in cui la Topolino compie settant'anni (il primo modello è contemporaneo alla conquista mussoliniana dell'Etiopia), e che è cosa buona e giusta fare un viaggio italiano con un'auto italiana. Italianissima, anzi, come la littorina, la divisa dei carabinieri o il profumo del ragù. Il meglio del meglio. Un'auto simpatica, priva di arroganza, capace di risvegliare ricordi, curiosità e nostalgie; perfetta per propiziare incontri. Un mezzo lento, ideale per provocare gli italiani divorati dalla fretta, adattissimo a un viaggio di montagna. Nonostante tutto questo, la sproporzione fra il trabiccolo e l'immensità del paese mi schianta già prima di partire. La guardo, la annuso. Sa di ferriere e praterie. Ha mille anni, non cinquantatré. Apro il cofano: non c'è dentro niente. Pistoni, benzina e basta. Elettronica zero. La portiera si apre controvento. Sotto il sedile del passeggero c'è una grossa spugna che non so a cosa serve. Le marce non sono sincronizzate, la ventilazione è una fessura che si apre a scatto sulle due fiancate del muso, la freccia non si spegne a curva finita. Il cambio è una sbarra diagonale lunga ottanta centimetri; il contrario del freno a mano, che è una leva cortissima e scomodissima all'altezza dei piedi. Una zeppa micidiale, dal gioco minimo. Devo imparare da zero cose come taccopunta, doppia debraiata, partenza da fermo in salita. Se fossi in bici, partirei con meno preoccupazioni. Come se non bastasse, si chiama Nerina ed è blu. Valla a capire. Dev'essere una vecchia zia stizzosa e intrattabile. "Ma no," ride il Righi quando glielo dico, "l'ha battezzata così un tedesco che l'ha avuta negli anni sessanta e l'aveva dipinta di nero. Io l'ho riportata al colore originale, ma non potevo più cambiarle il nome; porta male." Sorride con malizia: "Comunque non è affatto una vecchia zia. Θ una vivandiera partigiana, una donna di bocca buona. Arrampicatrice implacabile. Nervosetta, dispettosa, perfino aggressiva. E poi, se abbassi la capote e sai tenerla ben bene su di giri, ah, d'estate è una meraviglia". Proviamo a fare un giretto insieme, nel traffico asfissiante della Riviera. Il cambio si ribella, mettere la seconda senza grattare è quasi impossibile. Devo farmi l'orecchio; soprattutto devo ficcarmi in testa che non ho fra le mani un'auto, è un'altra cosa. Devo faticare più di un camionista. Spingere, premere, afferrare, tirare, girare con forza. Nerina non è un corridore di gran fondo. Θ un lagunare che striscia sui gomiti con il coltello fra i denti. E poi ha un rumore tutto suo. Se il treno ha un sound sincopato e la bici un ritmo binario e frusciante, la Topolino ha un moto muscolare, aritmico, a strattoni. Morde le salite con una voce rauca, persino autoritaria, da contralto. Domani si parte, con regole di ferro. Niente città. Niente pianure. Niente guide rosse, verdi o blu ai monumenti. Niente ristoranti o alberghi a tre stelle. Soprattutto, niente rettilinei. Non c'è nessun mistero in fondo a un rettilineo. Il rettilineo non accorcia un bel niente: ti mangia la vita, è un interminabile nulla, una condanna come la galera. La nostra invece è una storia di paracarri e tornanti. Un viaggio tatto di curve, nella pancia del paese. Migliaia di curve. A falcata lunga o di culo basso, spigolose o rotonde, non importa. Un viaggio di uomini e incontri. Una pista cheyenne incollata alla spina dorsale del paese. E allora sì che non esiste auto migliore di questa. La più simile al mulo che trovi sul mercato. In assenza di guide è sufficiente una buona carta. Basta fidarsi dei nomi, e l'Appennino ne ha di favolosi. Doppi, come Castelpizzuto, Buonalbergo, Rupecanina, Castelsaraceno, Girifalco o Papasìdero. Allarmanti, come Latronico, Timpa del Demonio, Passo della Femmina Morta, Gole dell'Infernaccio. Evocativi: Alpe della Luna e Alpe delle Tre Potenze, Gole del Sagittario, un monte detto Libro Aperto e un altro Sasso Tignoso. Enigmatici: Cozzo Gummario, Bacugno, Roghudi. Sperduti: San Pellegrino, Badia di Moscheta, Petrella Tifernina. Vuoi mettere con Brescia Ovest, Cavenago o Sasso Marconi, muti, afoni, spenti, con l'anima rubata da svincoli e tangenziali? Questo è un viaggio topografico a caccia di toponimi. Lavoro perfetto per una Topolino. Chi ha detto che in Italia non c'è più terra incognita? Provate a infilarvi in Val Quaderna, a pochi chilometri da Bologna. Vi perderete. Sentirete un vuoto ansiogeno da altopiano iranico. Avete mai sentito nominare la Val Sillaro e la Valle Sallustra, che stanno lì accanto? Non provate a dire di sì, perché non vi crederei. Gli Appennini sono deserti e sconosciuti. Li scopri solo se un ingorgo ti espelle dall'autostrada. Soltanto allora ti capita di scoprirne l'infinito e affascinante labirinto. E se spegni il motore, senti un immenso silenzio di cicale, torrenti e lucciole. Altro che Alpi. Quando fate la E45 da Ravenna a Perugia, nulla vi dice che a Sàrsina, a pochi metri da voi, nel santuario con il collare di san Vicinio, si spalanca l'abisso di un mondo popolato di dèi e oscure dee madri molto più antichi di Roma. I ladri, si dice, rubano meglio vicino alle questure: per motivo analogo i posti più misteriosi stanno spesso accanto alle grandi strade, totalmente ignorati dal flusso che le percorre. Un giorno mi è bastato uscire di poco dalla A25 Roma-Pescara per scoprire l'incanto di Santa Maria in Valle Porclaneta. O per trovare frate Osvaldo, solitario custode di polverosi manoscritti nell'abazia di Valleverde a Celano. Ma se per simili meraviglie basta un giorno, cosa mi svelerà un viaggio lungo un mese? "Vai a vedere la Via Flaminia Minor," mi hanno scritto da Bologna, "con il suo crinale eroso a picco su calanchi argillosi, il Passo della Badessa o la piccola valle del rio Centonara, dove il silenzio fa quasi paura, dove fioriscono orchidee, giunchiglie, tulipani selvatici, e poi ancora ginestre, sulle, scille, anemoni e altri fiori dimenticati. Analoghi, invitanti suggerimenti mi arrivavano alla vigilia della partenza. Decine di lettere dalle mie vedette sul territorio, indirizzi annotati lungo tutta la Penisola. Stelle, una terrazza a mare, un chinotto freddo, sul tavolo la carta uno a un milione con il piano del viaggio. E da due mesi che ci appiccico meticolosamente, sugli spazi laterali, rettangoli su misura con le indicazioni dei luoghi e delle persone da incontrare. Un viaggio comincia sempre così: con un affascinante inventario, un gran disordine da dove poi scegliere la strada in leggerezza. Ma già la mappa, da sola, svela l'arcano di questo mondo fuori rotta. Cose come: il caravanserraglio di San Martino di Paravango, sulla via del sale fra Tirreno e Piemonte. O il santuario della dea Vacuna, nel Reatino, dove ogni anno un toro vien fatto inginocchiare sul sagrato e un aratro segna il solco in linea retta dall'estremo orizzonte. Il Righi apre la mappa come una fisarmonica, la stende sul tavolo, ammutolisce, si tormenta la barba. E come se scoprisse un altro pianeta. Gli svelo i segreti del viaggio, e insieme navighiamo dalle inspiegabili mummie cinesi seicentesche nel museo di Ferentillo, in Umbria, alle terribili storie partigiane raccolte dall'attrice Roberta Biagiarelli nelle valli del Piacentino. Ogni curiosità, un cerchietto giallo e una didascalia appiccicata lateralmente alla Penisola. Ecco il Monte Fumaiolo con le sorgenti del Tevere, rubato alla Toscana e annesso dal Duce alla "sua" provincia di Forlì come legame imperituro con Roma. Ecco, in fondo a destra, il tunnel di Balvano, dove nel '44 un treno a vapore troppo pieno non ce la fece a superare la galleria in salita e, anziché arretrare, spinse le macchine al massimo e asfissiò i passeggeri con l'ossido di carbonio. C'è di tutto, tranne i luoghi famosi e i grandi centri, che eviterò meticolosamente. Niente Assisi, l'Aquila, Perugia. Niente Foligno e niente Cosenza. Rovistiamo in questa pazzesca carta uno a un milione come sugli scaffali di una vecchia drogheria. Sulle valli lunghe dell'Emilia, la casa di Vasco Rossi e quella di Enzo Biagi. Nelle Marche, la piazza di Jesi, dove nacque in un memorabile parto in pubblico Federico II di Svevia. In basso a destra, una fattoria abruzzese dove il pecorino si fa con il caglio di maiale. Verso il lato tirrenico, i rami dimenticati della Via Francigena e il monumento all'Appennino a Villa Demidoff, sopra Firenze. A est di Napoli, le Forche Caudine, dove gli indomabili Sanniti bastonarono le legioni di Roma. Ormai il Righi si è perduto, naviga in ottovolante, vola sopra l'ultimo rifugio di Tiziano Terzani fra Bologna e Pistoia, si impenna sui sentieri segreti del Monte Amiata, sbatte quasi sulla rocca della contessa Matilde, svolta all'improvviso nel tunnel abbandonato della ferrovia Spoleto-Norcia, il Gottardo dell'Umbria, capolavoro dimenticato dall'Italia degli autogrill. Fila veloce accanto a eremi, santuari, antri e luoghi di malocchio. Scopre osterie e uliveti. E scoppia dalla voglia di partire. Θ scandaloso quanto poco si nomini l'Appennino. Nei titoli dei giornali compare cinque volte meno rispetto alle Alpi. Della catena dominante si parla continuamente: convegni sulla transumanza degli orsi, sulle regioni a statuto speciale, i dialetti occitani, il post-fordismo del Nordovest pedemontano, la biodiversità nelle Orobiche e i fiumi del Bellunese. Non parliamo dell'Alto Adige e dei suoi maledetti gerani ai balconi. Una pestilenza. Eppure, le Alpi sono solo la cornice esterna del paese. Gli Appennini invece ne sono l'anima, lo stomaco, la colonna vertebrale. E sono lunghi quasi il doppio. Senza di loro, la patria si affloscerebbe come uno Zeppelin senza gas nella pancia. C'è, forse, che le Alpi sono diventate sentinelle della fede ai tempi del Concilio di Trento contro Lutero e guardiane della nazione alla vigilia della Grande guerra. Gli Appennini, invece, non si sono mai fatti reclutare militarmente dagli stati maggiori. Semmai, sono stati nido di resistenze. O meglio lo sono sempre rimasti, dal tempo dei Sanniti, schiacciati per secoli da Roma. Gli Appennini non si sono fatti riempire di ossari, sacrari e campanili-sentinella. Forse, sono semplicemente rimasti ciò che erano anche le Alpi prima che la patria chiamasse. Un universo anarchico, defilato e solidale, custode di diversità mirabolanti. Giorni fa passavo in aereo sulle Alpi. Dal finestrino riconoscevo tutto. Sulle Alpi è impossibile perdersi, hai quei grandi pilastri che ti orientano sempre. Quando volo da Roma a Milano, invece, non riconosco quasi nulla, a parte i laghi. Navigo nell'indistinto, come in un mare in tempesta. Perché? Perché non so collocare Teramo, Macerata o Ascoli su una carta muta d'Italia? Perché i Simbruini, le Mainarde o i Monti della Daunìa annegano in un grande nulla? Dove sono i vertiginosi Alburni? Qual è il Passo della Faticosa, e dove sta il Furlo? E Annibale, dove ha scollinato nella sua marcia su Roma? Ogni volta mi chiedo se quel vuoto che mi inghiotte è solo geografico o è qualcos'altro. Domande a cascata. Come mai gli Alpini non si chiamano Appennini, se legioni di penne nere sono discese da Toscana, Abruzzo, Calabria e persino Sicilia? Per quale ragione non ci hanno insegnato nessuna filastrocca tipo "Ma-con-gran-pe-na-le-re-ca-giù" per orientarci nella principali catena montuosa del paese? Perche questo straordinario terreno grondante storia ha un ruolo subalterno nell'immaginario nazionale? E come mai si è dovuto aspettare fino al 2006 per veder convocati i primi stati generali delle comunità d'Appennino? Θ come se qualcuno avesse paura di quelle montagne, temesse il risveglio dei Sanniti, degli Apuani o dei misteriosi Etruschi. O forse è la nostra anima cattolica, che dopo secoli teme ancora un confronto con le Sibille, o un incontro con i vecchi dèi fauni, centauri, Naiadi in esilio nelle foreste o nelle fiumare del Centro-Sud. Forse c'è qualcosa di non risolto, nell'identità d'Italia.
Attento, mi hanno detto, gli Appennini sono come la ribollita.
C'è dentro di tutto e rischi di perderti, di spezzare l'andatura nella
ricerca dei singoli ingredienti dell'italico minestrone che invece va
mangiato tutto assieme. E allora, per non smarrirti, non hai scelta:
devi seguire i gangli della spina dorsale, non perdere di vista quei
becchi inconfondibili chiamati "Pen" che migliaia di anni fa hanno
dato il nome al tutto e ancora oggi danno il senso al tuo andare.
Monte Pènice, Penna, Pennino, Penne, Pennabilli, Pescopennataro. Li trovi dalla
Liguria al Molise. Sono le boe di una regata transoceanica, i paletti di un
favoloso slalom gigante. Luoghi sacri di cui
è rimasto solo il nome celtico e quel brivido che immancabilmente
ti prende in cima, dove mentre guardi senza fiato l'universo una
voce ti tenta dicendoti: "Ecco, un giorno tutto questo sarà tuo".
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