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Giovedì 15 settembre 2005 - Ventotto giorni dopo il primo omicidio
Stazione ferroviaria di Nordenham, 145 chilometri a ovest di Amburgo
Fabel non poté fare a meno di cogliere una certa ironia nel fatto che la stazione ferroviaria di Nordenham fosse un capolinea. Il loro viaggio terminava lì, e non solo in quel senso. Non c'era via di scampo. I fari delle auto della polizia, disposte l'una accanto all'altra al di là dei binari, illuminavano il marciapiede quasi fosse la ribalta di un teatro. Un attimo cristallizzato. Affilato, lucente e duro come un diamante. Persino l'intonaco colorato di quella stazione costruita nel primo Novecento appariva totalmente sbiancato: i contorni dell'edificio erano definiti con la nettezza innaturale di un disegno architettonico o di uno sfondo teatrale su cui si proiettavano le gigantesche ombre delle due persone che si trovavano sul marciapiede, l'una in piedi, l'altra costretta in ginocchio. Nulla, però, era più affilato o lucente dell'intenso e inquieto scintillio della lama impugnata dalla figura che stava in piedi alle spalle dell'uomo inginocchiato. Fabel passò furiosamente in rassegna le mille possibili soluzioni di quella vicenda. Ora, qualsiasi parola da lui pronunciata, qualsiasi azione da lui intrapresa, avrebbe comportato conseguenze irrevocabili, avrebbe innescato una catena di eventi. E una delle conseguenze più plausibili era la morte di più di una persona. La testa gli doleva per il peso della responsabilità. Nonostante la stagione, l'aria notturna che aspirava con la bocca gli sembrava inconsistente, asettica e, quando la espelleva, formava dei fantasmi grigiastri, come se giungendo in quel luogo, in quel paesaggio piatto, fossero saliti sensibilmente di quota. Pareva addirittura troppo rarefatta per poter trasportare il suono, se si eccettuava il respiro disperato, quasi singhiozzante, dell'uomo inginocchiato. Fabel guardò colleghi e sottoposti, rigidamente bloccati e tesi nella posizione di sparo, sull'orlo della decisione di uccidere. Maria fu quella a cui prestò più attenzione: il viso esangue, gli scintillanti e glaciali occhi azzurri, le ossa e le articolazioni che risaltavano sotto la pelle tirata delle sue mani strette intorno al calcio della SIG-Sauer automatica. Fabel mosse la testa in modo quasi impercettibile, nella speranza che la sua squadra interpretasse il cenno come un invito a mantenere la calma. Fissò lo sguardo sull'individuo al centro della scena crudamente illuminata. Fabel e la sua squadra avevano sgobbato per quasi un mese nel tentativo di dare un nome, un'identità, all'assassino. E avevano scoperto che era un uomo dai molti nomi: lo pseudonimo che lui stesso si era dato per condurre la sua perversa crociata era "Franz il Rosso"; i media, entusiasticamente determinati a diffondere il più possibile la paura e l'ansia, lo avevano ribattezzato "il parrucchiere di Amburgo". Ora, però, Fabel conosceva anche il suo vero nome. Davanti a Franz il Rosso, rivolto nella sua stessa direzione, c'era l'uomo di mezza età che lui aveva costretto in ginocchio. Franz il Rosso lo teneva per i capelli grigi, tirandogli indietro la testa a esporre la gola nuda e bianca. Più in alto, al di sopra dell'espressione terrorizzata, la fronte dell'ostaggio presentava un taglio profondo e diritto, lungo quanto l'ampiezza delle sopracciglia, appena sotto l'attaccatura dei capelli, che sembrava allargarsi sempre di più per via della trazione esercitata da Franz il Rosso. Un fiotto di sangue ricadde sul volto dell'uomo inginocchiato, che lanciò un acutissimo grido animalesco. Intanto, la lama tenuta da Franz il Rosso lungo il fianco continuava a scintillare maligna nella notte. "Per carità di Dio, Fabel..." La voce dell'uomo inginocchiato era tesa e stridula per il terrore. "Mi aiuti... La prego... Fabel, mi aiuti..." Fabel ignorò quelle implorazioni e tenne lo sguardo puntato come una torcia elettrica su Franz il Rosso. Il commissario aveva una mano alzata; pareva volesse fermare il traffico. "Tranquillo, Franz... Sta' tranquillo. Non ho intenzione di partecipare a questa pantomima. Nessuno, qui, ne ha voglia. Non reciteremo la parte che tu ci vuoi assegnare. Questa volta la storia non si ripeterà." Franz il Rosso scoppiò in una cinica risata. La mano che impugnava il coltello ebbe un fremito, e la lama scintillò nuovamente, fulminea. "Credi onestamente che io possa lasciar perdere? Questo bastardo..." Diede un altro strattone alla chioma dell'ostaggio, che strillò di nuovo, da dietro il velo del suo stesso sangue. "Questo bastardo ha tradito me e tutto quello per cui abbiamo vissuto. Pensava che la mia morte gli avrebbe concesso una nuova vita. Proprio come gli altri." "Questa è pura fantasia..." disse Fabel. "Non era la tua morte." "Ah, no? E come mai, allora, hai cominciato a dubitare delle tue convinzioni quando ancora mi stavi cercando? La morte non esiste; c'è soltanto la memoria. La sola differenza tra me e tutti gli altri sta nel fatto che a me è stato concesso di ricordare, come in una stanza dalle pareti di vetro. Io ricordo tutto." Tacque, e il breve silenzio fu rotto soltanto dal rumore lontano di un'automobile che percorreva nella notte le vie di Nordenham, fuori dalla stazione, in un altro universo. "La storia, invece, si ripete. È così che funziona. Ha ripetuto me, per esempio... Tu sei così fiero di aver studiato la storia, in gioventù, ma sei sicuro di averla davvero compresa? Noi tutti... non siamo che variazioni su un unico tema. Quel che è stato, sarà. Chi è esistito, continuerà a tornare. Per sempre. La storia è un susseguirsi di nuovi inizi. La storia si fa, non si disfa." "E allora prendi in pugno la tua storia", disse Fabel. "Cambia le cose. Arrenditi. Stavolta la storia non si ripeterà. Stanotte non morirà nessuno." Franz il Rosso sorrise. Un sorriso scintillante, duro e freddo come la lama che aveva in mano. "Davvero? Lo vedremo, caro commissario." La lama si mosse luccicando verso l'alto, verso la gola dell'uomo inginocchiato. Risuonò un grido. E poi il rumore di uno sparo. | << | < | > | >> |Pagina 93Ore 20.50 - Pöseldorf, AmburgoFabel era sfinito. Quella giornata di rientro al lavoro, preannunciatasi blanda, si era trasformata in un macigno inamovibile e inevitabile piazzato sulla sua strada. Si sentiva come se lo sforzo compiuto per aggirarla avesse risucchiato ogni luce dal giorno e ogni energia dal suo corpo. Susanne aveva preso appuntamento per cena con un'amica, e in quella prima sera dopo la breve vacanza Fabel si ritrovò da solo. Prima di lasciare il Präsidium, aveva telefonato a sua figlia Gabi, che abitava con la madre, per chiederle se avesse tempo e voglia di uscire con lui a mangiare qualcosa, lei pero aveva già altri impegni. Gabi gli domandò della vacanza, e chiacchierarono un po'. Si accordarono per incontrarsi di lì a qualche giorno. In genere, parlando con la figlia – che aveva qualcosa dell'allegria incurante tipica di suo zio Lex –, Fabel finiva per rasserenarsi, ma quella sera l'impossibilità di incontrarla ebbe come unico effetto quello di peggiorargli ulteriormente l'umore. Non aveva voglia di cucinare e sentiva il bisogno di essere circondato da un po' di gente, perciò decise di tornare a casa a darsi una rinfrescata, per poi uscire a mangiare qualcosa. Fabel abitava nello stesso posto da sette anni. A Pöseldorf, nel quartiere di Rotherbaum, a un isolato di distanza dalla Milchstrasse, in quella che era diventata la zona più alla moda di Amburgo. Il suo appartamento era un attico ricavato in un sontuoso edificio di fine Ottocento. La grande villa era stata ambiziosamente suddivisa in tre raffinati appartamenti, ma siccome la congiuntura economica tedesca, a quei tempi, non corrispondeva alle aspettative dei costruttori, e i prezzi delle case, ad Amburgo, erano precipitati, Fabel aveva intravisto l'opportunità di acquistare l'attico, invece di prenderlo in affitto. Aveva spesso pensato all'ironia della situazione: si era trovato ad abitare in quell'appartamento bellissimo e perfettamente situato solo perché il suo matrimonio e l'economia tedesca erano entrati in crisi quasi simultaneamente. Nonostante il crollo dei prezzi, però, il commissario si era potuto permettere, a Pöseldorf, soltanto quel piccolo attico, che pure, secondo lui, compensava il poco spazio con l'ubicazione privilegiata. Ristrutturando l'edificio, i costruttori avevano sfruttato le occasioni panoramiche offerte dal luogo e avevano creato, sul lato che affacciava su Magdalenestrasse e sul verde Alsterpark in riva allo specchio d'acqua dell'Aussenalster, ampie vetrate che andavano praticamente dal pavimento al soffitto. Dalle finestre di casa, Fabel vedeva i traghetti rossi e bianchi che attraversavano l'Alster e, nelle giornate limpide, riusciva a scorgere le sfarzose ville bianche e la scintillante cupola turchese della moschea iraniana dello Schöne Aussicht, sulla riva più lontana del fiume. Andava alla perfezione, per lui. Era il suo spazio personale. Ma ora che la relazione con Susanne aveva assunto una certa stabilità, tutto era in procinto di cambiare. Stava cominciando una nuova fase della vita. Forse addirittura una vita totalmente nuova. Aveva proposto a Susanne di trasferirsi da lui, ma l'appartamento di Pöseldorf era chiaramente troppo piccolo per abitarci in due. Quello di Susanne, invece, era piuttosto grande, però lei era in affitto, e Fabel, una volta entrato nella classe dei proprietari di casa, non aveva più voglia di tornare a pagare affitti. Avevano deciso, perciò, di mettere insieme le loro risorse e di comprare una casa. L'economia tedesca stava uscendo da otto anni di declino, e se avessero messo in vendita l'appartamento di Fabel avrebbero di certo spuntato un buon prezzo; in alternativa, avrebbero potuto darlo in affitto, e aggiungendo i loro stipendi sarebbero probabilmente riusciti a prendere qualcosa di abbastanza decente e di non troppo lontano dal centro. Tutto sembrava a posto, tutto ormai deciso, ed era stato proprio lui a proporle di convivere, eppure ogni volta che pensava alla prospettiva di abbandonare la sua piccola tana di Pöseldorf, con quella bellissima vista, Fabel sentiva un tuffo al cuore. All'inizio era stata lei a mostrarsi restia. Lui sapeva che Susanne usciva da una pessima relazione con un partner prepotente che aveva fatto a pezzi la sua autostima. Come conseguenza, lei era diventata estremamente sensibile alla propria indipendenza. Fabel non era riuscito a sapere altro. Susanne era in genere una persona aperta e sincera, ma evidentemente non era ancora pronta a dirgli più di tanto. Quella parte del suo passato era ignota a Fabel e a chiunque altro. Ciononostante, l'idea della convivenza aveva a poco a poco cominciato a sorriderle, e a quel punto era lei quella più impegnata nelle ricerche di un nuovo appartamento da condividere. Fabel parcheggiò nello spazio riservato a lui e agli altri condomini e si infilò in casa. Si fece una doccia veloce, indossò una camicia, pantaloni neri, una giacca inglese leggera e usci di nuovo, a piedi, diretto in Milchstrasse. Pöseldorf era stato, un tempo, il quartiere povero di Amburgo, e conservava almeno in parte una strana atmosfera da paesino nel cuore di una grande città. A partire dagli anni Sessanta, però, era diventato sempre più chic, e aveva cominciato ad accogliere una popolazione il cui reddito medio era tutt'altro che scarso. L'impeccabile immagine di ricchezza così acquisita era poi stata rafforzata dal successo di persone come la stilista Jil Sander, il cui impero aveva avuto origine proprio lì, in un piccolo atelier con boutique. La Milchstrasse era il cuore del quartiere: una via stretta affollata di enoteche, locali jazz, negozietti e ristoranti. Fabel impiegò non più di cinque minuti per raggiungere il suo bar preferito. Lo trovò già così pieno che dovette farsi largo a fatica tra la calca di clienti a ridosso del bancone per raggiungere la zona rialzata del locale e sedersi a un tavolino d'angolo ancora libero, di spalle a una parete di mattoni a vista. Non appena si fu accomodato si sentì improvvisamente molto stanco. E vecchio. La giornata di lavoro gli era costata uno sforzo incredibile, e ora faticava a tenere il ritmo. Tentò di farsi venire un po' di appetito. Scacciò dalla mente l'immagine della testa scalpata di Hans-Joachirn Hauser, ma a questa subentrò stranamente la fotografia post mortem di una bella e giovanissima ragazza dagli alti zigomi da slava che era stata privata del nome e della dignità da trafficanti di esseri umani e della vita da un signor Nessuno grassoccio e calvo. Fabel concordava con Maria più di quanto fosse disposto ad ammettere: sarebbe piaciuto anche a lui permetterle di dare un seguito alle indagini sul caso di Olga X, per individuare i criminali che l'avevano costretta alla prostituzione offrendole un'illusoria vita nuova. Quell'iniziativa, però, non rientrava tra i compiti della squadra omicidi. | << | < | > | >> |Pagina 192Ore 11.45 - Schanzenviertel, AmburgoLa stanza era pervasa da un forte e dolcissimo profumo d'incenso. Le tende erano chiuse e l'ambiente era illuminato dalla tenue e tremula luce di una ventina di candele. Beate Brandt sedeva a occhi chiusi con una mano posata sulla fronte e l'altra sul petto del suo cliente. I capelli lunghi le ricadevano sulle spalle, proprio come quando aveva diciotto anni. Il fascino smagliante e sensuale con cui un tempo stregava il cuore degli uomini, però, era già svanito da una decina d'anni. Ora i capelli erano più grigi che neri, e alla luminosità di un tempo era subentrata una certa ruvida secchezza. Allo stesso modo si era appannata anche la sua bruna bellezza, che lei aveva ereditato dalla madre italiana. Il fisico ben formato e la finezza dei tratti erano immutati, ma la pelle che li avvolgeva era screpolata e grinzosa e faceva l'effetto di un bellissimo dipinto conservato con poca cura. "Respiri profondamente..." disse al cliente, a cui lei attribuiva un'età prossima a quella di suo figlio. Il giovane era disteso supino, con gli occhi chiusi. "Stiamo viaggiando a ritroso, stiamo tornando in un tempo che è al di là della vita, ma precede la morte. Solo quando avremo fatto i conti con la vita passata potremo esperire la rinascita." Beate esercitò una leggera pressione sulla fronte del ragazzo. Aveva le dita coperte di grossi anelli, alcuni dei quali caratterizzati da simboli astrologici. Il giovane aveva una pelle chiarissima e priva di irregolarità. Lei confrontò la perfetta levigatezza della sua fronte con le rughe sul dorso della propria mano e con le proprie dita un tempo affusolate. Perché, pensò, i nostri corpi invecchiano, mentre noi, nel profondo, continuiamo a sentirci esattamente come quando eravamo giovani? "Prosegua a ritroso..." disse con una voce che era poco più di un sussurro, "torni alla sua infanzia... Se ne ricorda? E di lì ancora più indietro, sempre di più..." Beate aveva sempre fatto fatica a sbarcare il lunario. O, più precisamente, aveva sempre fatto fatica a sbarcare il lunario mantenendo al contempo un basso profilo. L'idea di diventare una piccola capitalista le era sempre risultata odiosa, anche se mai quanto quella di lavorare alle dipendenze di qualcun altro. Inoltre, aveva un figlio da mantenere. Aveva fatto del proprio meglio per non fargli mai mancare niente. E, in quanto madre single, non era stato facile. Per giunta, ogni volta che presentava la sua candidatura per un posto di lavoro, doveva sempre temere che qualcuno indagasse troppo a fondo nel suo passato. A un certo punto aveva aperto un piccolo negozio di moda a Schanzenviertel, ma con il passare del tempo era stata costretta a constatare che la sua idea di eleganza era in ritardo di circa dieci anni e non andava di pari passo con quella dei clienti di quel quartiere chic. Dopo la chiusura del negozio, si era dannata per trovare il modo di guadagnarsi da vivere. E alla fine si era inventata quella storia della rinascita. Beate sapeva bene che erano assurdità. Da un lato, nel profondo di sé, era attratta dall'idea della reincarnazione, e la trovava persino plausibile; dall'altro, però, sapeva benissimo che tutta la storia dell'"induzione della rinascita" era un'enorme scemenza. E se lo pensava lei, che l'aveva inventata... Guardò il giovane disteso a terra davanti a lei. Frequentava regolarmente il suo studio da ormai tre mesi. Da quando Hans-Joachim e Günther erano stati assassinati, Beate aveva preso la decisione di non ricevere nuovi clienti. Nessuno sconosciuto. Quelle due morti l'avevano scioccata. Terrorizzata. In fin dei conti, anche se erano vent'anni che non si vedevano, Hans-Joachim abitava a poche vie di distanza da lei. Avrebbe accettato soltanto persone con cui aveva a che fare da qualche tempo. Aveva persino cercato di introdurre una nuova "terapia di gruppo" per poter vedere più di un cliente alla volta, ma, data la natura intima e personale del "trattamento", nessuno si era mostrato entusiasta. L'idea migliore che aveva avuto era stata quella di aprire un sito web per svolgere consulti on-line. Si era persino procurata un programma grazie al quale i clienti, digitando data e luogo di nascita, ricevevano l'abbozzo di una plausibile vita passata. Con pagamento on-line sicuro tramite carta di credito. Nessun rischio, nessuna spesa, solo profitto. Alla base della sua attività c'era un'idea semplicissima, secondo la quale tutti avrebbero già vissuto in precedenza diverse vite, che potevano essere decifrate se solo si riusciva a trovarne la chiave. Ovviamente, vista la crescita esponenziale della popolazione globale, l'idea che ognuno potesse aver avuto una vita precedente diventava statisticamente impossibile. Beate, che aveva studiato matematica applicata all'università di Amburgo, ne era cosciente. Eppure, tanto tempo prima, c'era stato un momento in cui si era dimostrata pronta a sospendere la propria incredulità in nome di una causa superiore. E poi nel mondo c'era tanta gente in cerca di qualcosa che riuscisse a dar senso all'esistenza, di una verità alternativa, di un'altra vita: qualunque cosa potesse offrire una prospettiva meno banale di quella che caratterizzava la loro esistenza quotidiana. Perciò Beate — atea, razionalista, studiosa di matematica — si era reinventata santona new age e aiutava le persone a riscoprire le loro esistenze passate. Aveva imparato i rudimenti dell'ipnosi, anche se dubitava di essere mai riuscita davvero a ipnotizzare qualcuno. Quelli che andavano da lei, più probabilmente, si illudevano di cadere in uno stato ipnotico per poter meglio credere ai loro deliri sulle vite precedenti; per potersi convincere che quelle assurdità fossero qualcosa di più di un semplice miscuglio di fantasia, illusione e reminiscenze di qualche lettura. Per premunirsi, lei parlava di "meditazione guidata", spostando sul cliente la responsabilità dello stato di ipnosi. L'idea originaria, però, aveva un difetto Beate aveva ben presto scoperto che i clienti, dopo aver saputo della loro "vita passata", se ne andavano felici... e con ciò svaniva la fonte di guadagno. Si era resa conto di dover aggiungere qualcosa alla "terapia": qualcosa che permettesse di prolungare la durata del trattamento. Era stato allora che aveva concepito l'idea del sito web e la teoria della "rinascita integrale". Il principio fondamentale era il seguente: per giungere alla "completezza", occorreva svelare tutte le proprie vite precedenti, per poi collegarle alla propria esistenza presente ed esperire così una "rinascita" grazie alla quale si diventava persone "integrali", lasciandosi alle spalle tutto il passato per ricominciare da capo. Una vera vita nuova. A Beate non sfuggiva l'ironia della situazione. In quella stanza del suo appartamento, lei straparlava di reincarnazione e rinascita con un gergo inventato che mescolava paccottiglia new age con deliri pseudo-psicologici. Come gli altri membri del vecchio gruppo, si era del tutto reinventata, creando una distanza incolmabile tra sé e ciò che era stata. A differenza degli altri, però, lei aveva voluto tenere il profilo più basso possibile. Mentre alcuni ex compagni si erano evidentemente sentiti immuni dallo smascheramento, lei aveva optato per l'anonimato. | << | < | > | >> |Pagina 29712
Domenica 11 settembre 2005 – Ventiquattro giorni dopo il primo omicidio
Mezzanotte - Altona, Amburgo
Il pubblico diventava a ogni spettacolo meno numeroso. La riduzione più sensibile degli spettatori paganti si era verificata negli anni Ottanta e Novanta, quando sulla scena era arrivata una nuova generazione di artisti. Lo Schlager – che era la forma leggerissima e melensa assunta dalla musica pop in Germania – era sempre esistito, e la sua scialba presenza era addirittura di aiuto per cantanti come Cornelius: la completa mancanza di contenuti che caratterizzava questo tipo di musica non faceva che mettere in evidenza la profondità intellettuale del cantautore. Poi, però, erano arrivati il punk, e dopo il rap, che avevano dato voce alla disillusione di una nuova generazione apolitica. E, infine, naturalmente, c'era stata l'onda irresistibile delle importazioni dall'Inghilterra e dall'America. Ognuno di questi fattori aveva contribuito a emarginare Cornelius e altri come lui, allontanandoli dalle luci della ribalta e dalle scalette radiofoniche. Comunque Cornelius aveva sempre avuto il pubblico dei suoi concerti: l'assiduo e fedele nucleo di seguaci che era invecchiato e maturato con lui. Il Muro, però, era caduto, e la Germania si era riunificata. Certe canzoni di protesta erano ormai superflue. I testi troppo politici risultavano fuori luogo. Cornelius, ora, si esibiva in cantine e centri civici per uditori di una cinquantina di persone. Altri artisti della sua generazione avevano semplicemente smesso di suonare in pubblico e si limitavano a vendere i vecchi dischi, come anche lui faceva, attraverso i rispettivi siti web. Ma lui aveva anche bisogno del pubblico, benché poco numeroso, e si era sempre molto impegnato per preparare gli spettacoli, anche quando i fan gli davano la nausea per come cercavano di compensare la carenza numerica con un entusiasmo eccessivo. Quando guardava quei gruppetti di teste dai capelli grigi o sempre più radi e quelle facce grasse o rovinate non poteva fare a meno di ripercorrere i deprimenti ricordi della loro giovinezza. Quella sera c'era la solita gente. Cornelius rise, scherzò e cantò, suonando le stesse canzoni con la chitarra che usava da quasi quarant'anni. Il concerto si teneva nella cantina di una vecchia birreria situata tra due dei canali che percorrono Amburgo come una trama che tenga insieme il tessuto cittadino. Gli spettatori erano tutti seduti su panche di legno disposte lungo delle tavolate e sorridevano con aria ebete bevendo birra, mentre lui cantava. Non riusciva neanche più a farli alzare in piedi. Si accorse della presenza di un volto più giovane. Era un uomo poco più che trentenne, in piedi accanto al banco del bar. Era pallido e aveva i capelli scurissimi. Cornelius non ne era certo, ma aveva l'impressione di averlo già incontrato. Concludeva sempre gli spettacoli con la stessa canzone. Era il suo pezzo più classico. Reinhard Mey aveva Über den Wolken, Cornelius Tamm Ewigkeit. Eternità. Alla fine, il pubblico si alzò in piedi e cantò assieme all'artista quel testo che prometteva eternità alla loro generazione. Che prometteva il trionfo. Promesse non mantenute. Si erano tutti arresi alla banalità, alla mediocrità. Anche Cornelius. Al termine del concerto, l'artista si preparò alla solita routine. Era umiliante doversi sedere a un tavolo con una borsa piena di CD da vendere, ma lui si dedicava al compito con lo stesso entusiasmo che aveva imparato a mostrare nei suoi spettacoli. Di solito vendeva al massimo una manciata di copie. D'altra parte, lui predicava a gente già convertita che, in genere, possedeva tutta la sua discografia. Come avrebbero detto i capitalisti, aveva saturato il mercato. Eppure sorrideva e chiacchierava educatamente con quelli che indugiavano nel locale dopo lo spettacolo, parlando con perfetti sconosciuti come se fossero vecchi amici, per via della loro età più o meno simile. Nel profondo, però, l'anima di Cornelius Tamm urlava. Lui era stato la voce di una generazione, aveva dato espressione a un momento molto particolare della storia. Aveva parlato a – e per – milioni di persone che si erano rivoltate contro i peccati dei loro padri e della loro epoca. Ed eccolo lì, ora, con un borsone, a vendere i CD delle sue canzoni in una birreria di Amburgo. Erano quasi le due di notte, ormai, quando sistemò il furgone presso la porta di servizio del locale per caricarvi l'amplificatore e il resto della strumentazione. Così facendo, Cornelius sentì ogni singolo anno dei suoi sessantadue aggiungersi al peso del materiale da spostare. Era piovuto, mentre lui si esibiva, e i ciottoli del cortile sul retro della vecchia birreria luccicavano alla luce della luna. Uno dei baristi lo aiutò a caricare l'amplificatore, gli diede la buona notte e richiuse la porta sul retro, lasciandolo da solo in quel cortile a guardare la luna e i profili argentati dei tetti tutt'intorno. Da qualche parte sulla Ost-West Strasse, passò sfrecciando una sirena. Pensò a Julia che riposava calda, giovane e piena di vita nel loro letto. Gli parve di non aver nulla a che fare con lei. Di non aver nulla a che fare più con nessuno e con niente, ormai. Cornelius Tamm, guardando la luna dal cortile desolato di una vecchia birreria, si sentì terribilmente solo. Sospirando, richiuse i portelloni posteriori del furgone. Ebbe un sobbalzo quando vide il giovane pallido dai capelli scurissimi proprio accanto a sé. "Ciao, Cornelius", lo salutò lo sconosciuto. Il braccio tracciò un arco nell'aria, e Cornelius colse l'ombra fugace e nera di un oggetto lungo, e dall'aria piuttosto pesante, che lo colpì alla guancia. Si udì un rumore come di ossa fratturate, e Cornelius sentì esplodere su un lato del viso un dolore che si propagò giù per il collo. Cadde a terra così rapidamente che il cervello non ebbe neppure il tempo di registrare la caduta. Percepì la sommità arrotondata e umida di un ciottolo contro la guancia ancora sana, e capì che l'umidità non era dovuta alla pioggia, bensì al suo sangue.
"Scusami se ti ho colpito al volto..." L'aggressore era chino su di lui.
"Non potevo colpirti sopra la testa." Cornelius sentì la puntura di un ago
ipodermico nel collo, e in cielo la luce si spense. "Avrei rovinato il tuo
scalpo..."
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