|
|
| << | < | > | >> |IndicePrefazione IX PARTE PRIMA - Il problema: tante storie parallele o una storia unitaria? 1. Tra diffusionismo e determinismo biologico 3 1.1 Evoluzione biologica ed evoluzione culturale 3 1.2 Breve storia di un dibattito 6 2. L'emergere di una storia unitaria del Vecchio Mondo 15 2.1 Le prime civiltà urbane 15 2.2 La scrittura 23 2.3 Dai Balcani alla Mongolia 27 2.4 L'antica civiltà cinese 32 3. Vecchio e Nuovo Mondo 39 3.1 Il grande laboratorio del neoevoluzionismo 39 3.2 Miti, eresie e fantastoria 41 3.3 Elementi culturali comuni 45 3.4 Le spedizioni dei Vichinghi in America 49 3.5 Nell'antichità era possibile attraversare l'Atlantico? 53 4. Possibili tracce di antichi contatti transoceanici 57 4.1 Fonti americane 57 4.2 Galline che attraversano gli oceani 61 4.3 Altri dati biologici 63 4.4 Tracce archeologiche 66 PARTE SECONDA - Un contributo alla soluzione: l'origine di uno strano errore 5. Un tracollo culturale 73 5.1 Dalla fede nel progresso alla moda dei collassi 73 5.2 Gli avvenimenti del 146-145 a.C. 77 5.3 Il collasso culturale 89 5.4 Il restringersi degli orizzonti geografici 100 6. La geografia matematica e le dimensioni della Terra 113 6.1 Il sorgere della geografia matematica 113 6.2 Eratostene di Cirene 116 6.3 Il metodo della misura di Eratostene 119 6.4 Ipparco e i suoi contributi alla geografia 124 7. Studiando Tolomeo si impara qualcosa su Eratostene 133 7.1 I trattati geografici dopo il collasso 133 7.2 Le coordinate riportate da Tolomeo 138 7.3 Il doppio errore di Tolomeo e il valore dello stadio 142 7.4 La misura di Eratostene riconsiderata 145 8. Perché il mondo si restrinse 155 8.1 Il rimpicciolimento della Terra 155 8.2 L'origine dell'errore di Tolomeo 159 8.3 Si cercano le antiche «Isole Fortunate»... 169 8.4 ... e ci si trova in America 174 8.5 Altre due conferme 179 8.6 Si ritrova anche Tule 185 8.7 Si spiega una catena di errori 191 9. Il ricordo nelle fonti classiche 195 9.1 La rotta occidentale per le Indie 195 9.2 Il continente oltre l'Atlantico nelle trattazioni geografiche 199 9.3 Il continente oltre l'Atlantico nelle fonti letterarie 210 10. Questioni chiuse e problemi aperti 219 10.1 Il risultato 219 10.2 Plausibili conseguenze 222 10.3 Problemi aperti e congetture 225 10.4 Verso la fine del determinismo biologico? 227 POSTFAZIONE 11. Obiezioni e risposte 231 11.1 Obiezioni di carattere ideologico 231 11.2 Altre obiezioni che non entrano nel merito degli argomenti esposti 234 11.3 Obiezioni che affrontano temi geografici 237 Appendice A. Le coordinate delle città del campione 245 Appendice B. La misura di Eratostene e il suo errore 251 Indice delle opere e dei passi citati 255 Abbreviazioni bibliografiche 265 Indice dei nomi 277 |
| << | < | > | >> |Pagina IXIn questo libro si fa qualche luce su un problema generale di grande rilievo risolvendone uno molto particolare.
Il problema generale riguarda i caratteri della storia: le diverse civiltà
si sono evolute separatamente, seguendo leggi universali che hanno determinato
le stesse fasi di sviluppo verso
strutture sociali di complessità via via crescente, oppure la storia
dell'umanità è un'unica vicenda connessa, che ha conosciuto
evoluzioni e involuzioni? Eventi come la nascita dell'agricoltura
e dell'allevamento, la scoperta della metallurgia, della ceramica,
della tessitura e della ruota, l'invenzione della scrittura, la costituzione di
città e Stati si sono ripetuti più volte indipendentemente in quanto sviluppi
naturali, determinati cioè dal nostro
corredo genetico e da caratteristiche generali dell'ambiente, oppure sono eventi
irripetibili che hanno caratterizzato quel particolare percorso, tra gli
infiniti possibili e i tanti realmente seguiti, che ha portato alla civiltà
attualmente dominante?
La prima parte del libro illustra brevemente la storia del dibattito teorico su questi problemi e mostra come gli sviluppi recenti dell'archeologia, rendendo sempre più chiara la fitta rete di relazioni che ha collegato sin da tempi antichissimi molti dei popoli del Vecchio Mondo, non permettano più di considerare indipendenti i loro sviluppi culturali.
La convinzione, oggi condivisa da quasi tutti gli studiosi, della totale
assenza di contatti precolombiani tra l'America e gli altri continenti,
combinata con l'impressionante serie di elementi
culturali condivisi dalle civiltà americane ed eurasiatiche, è quindi divenuta
di fatto il principale fondamento dell'idea che le civiltà umane avrebbero
seguito tutte indipendentemente lo stesso
modello di sviluppo: un'idea che ricorda da vicino, per la verità, la teoria
paleoantropologica, oggi completamente screditata,
che concepiva l'evoluzione biologica verso
Homo sapiens
come un percorso lineare e progressivo. D'altra parte gli eterodossi che
hanno sostenuto l'esistenza di antichi contatti transoceanici hanno usato molti
argomenti di varia forza, alcuni dei quali raggiungono un elevato grado di
plausibilità, ma non hanno mai esibito
una prova della loro tesi accettata dalla comunità degli studiosi.
Nella seconda parte il problema è affrontato con uno strumento nuovo, tratto dalla storia della geografia matematica. Claudio Tolomeo, nel II secolo d.C., assegnò alla Terra dimensioni decisamente minori di quelle che erano state determinate (con notevole accuratezza, come vedremo) da Eratostene quattro secoli prima. Ricostruendo l'origine di questo strano e drastico rimpicciolimento del mondo si sono ottenuti risultati inaspettati. In primo luogo l'errore sulle dimensioni della Terra si è rivelato conseguenza di un restringersi degli orizzonti geografici che è un aspetto di un generale collasso culturale, per lo più ignorato, avvenuto a metà del II secolo a.C. Si tratta in realtà di uno spartiacque nella storia del mondo mediterraneo, essenziale sia per capire aspetti fondamentali dei nostri rapporti con la cosiddetta «cultura classica» sia come caso esemplare di una categoria di eventi che nella storia di lungo periodo possono considerarsi frequenti.
In secondo luogo, usando precisi argomenti quantitativi, si è
scoperto che all'origine dell'errore di Tolomeo vi era il fraintendimento di
dati geografici, risalenti a Ipparco, che riguardavano
località americane di cui in epoca imperiale non si conosceva
più l'esistenza e che erano stati interpretati come relativi a luoghi del
Vecchio Mondo. Si ottiene in questo modo una dimostrazione degli antichi
contatti tra i continenti che rimette in discussione il possibile grado di
interdipendenza delle diverse civiltà
e, sottraendo il principale fondamento alla teoria delle evoluzioni storiche
parallele determinate da rigide leggi universali, apre
la possibilità di restituire anche alla storia umana quelle caratteristiche di
impredicibilità e casualità che sono oggi assodate
per l'evoluzione biologica.
Sono ben consapevole di sostenere una tesi finora considerata eterodossa dall'opinione compatta degli accademici e screditata dalla popolarità che gode in un variegato ambiente di dilettanti, a volte perspicaci ma spesso fantasiosi. È evidente, d'altra parte, che se non si vuole bloccare il progresso delle conoscenze una tesi non può essere rifiutata in quanto «già screditata», se emergono argomenti nuovi a suo sostegno. | << | < | > | >> |Pagina 31.1 Evoluzione biologica ed evoluzione culturale Un tempo l'evoluzione biologica che ha dato origine all'uomo era concepita come un progresso lineare verso una crescente perfezione, culminante nel moderno Homo sapiens. Riproponiamo una famosa illustrazione, ormai diffusa soprattutto in versioni caricaturali, che illustra bene questa idea. Si trattava dell'estensione al livello biologico di uno schema di sviluppo progressivo che è ancora in genere accettato nell'ambito della storiografia. Al cacciatore-raccoglitore subentrerebbero fatalmente il pastore e l'agricoltore; lo sviluppo dell'agricoltura porterebbe poi alla formazione di città e Stati; l'avvento di queste istituzioni si accompagnerebbe all'introduzione della scrittura e dell'«alta cultura»; l'evoluzione approderebbe poi ineluttabilmente, attraverso fasi successive, alla civiltà attuale, caratterizzata da capitalismo, democrazia parlamentare, conoscenze scientifiche e tecnologia raffinata. Torneremo più volte sulla parziale analogia tra sviluppi culturali ed evoluzione biologica, non perché debbano necessariamente seguire le stesse leggi, ma soprattutto perché gli studi dei due fenomeni hanno subito i medesimi condizionamenti ideologici, cosicché le teorie elaborate nei due casi hanno finito spesso per assomigliarsi ben più di quanto si assomiglino i fenomeni studiati. Oggi l'idea di un progresso lineare, del quale noi stessi rappresenteremmo il culmine, non ha più alcun credito tra i biologi: il modello attualmente accettato dell'evoluzione degli ominidi è «a cespuglio», con diverse specie discendenti da un ceppo comune e a lungo coesistenti che hanno esplorato direzioni alternative di sviluppo. La circostanza che una di queste specie sia infine riuscita a prevalere su tutte le altre, eliminandole e dando origine alla cultura umana, è considerata uno dei tanti eventi irripetibili e impredicibili della storia della vita e non un fine predeterminato. Lo schema dell'evoluzione lineare è stato molto resistente, e lo è ancora, nel caso della storiografia. Accettando tale schema dello sviluppo storico si può ritenere che ogni cultura abbia un «livello» determinato dal punto in cui si trova lungo una «scala naturale». Un chiaro esempio di tale atteggiamento è fornito da uno dei maggiori storici novecenteschi dell'antichità: Moses Finley. Nei suoi influenti studi sull'economia antica, Finley argomenta infatti le sue tesi primitiviste, secondo le quali l'economia del mondo classico sarebbe stata appunto «primitiva», osservando che vari concetti e strumenti economici e finanziari attuali mancavano nelle civiltà greca e romana: sottolinea, per esempio, che a quei tempi non esisteva la professione di agente immobiliare e che non è possibile tradurre il termine broker né in greco antico né in latino. Con un criterio analogo la cultura eschimese, non avendo sviluppato l'agricoltura, deve essere giudicata «primitiva», indipendentemente dal livello di sofisticazione raggiunto dalle tecniche di caccia e di pesca che hanno permesso agli Eschimesi di procacciarsi il cibo in ambienti nei quali l'agricoltura è ovviamente impossibile. Allo stesso modo, la circostanza che molti popoli non si siano dotati delle nostre istituzioni di democrazia parlamentare può essere considerata una prova del loro «ritardo» lungo una strada che sarà comunque inevitabilmente percorsa. Anche gli scienziati che cercano vita intelligente extraterrestre si basano implicitamente sulla stessa convinzione, estendendola all'intero universo. La ricerca è infatti effettuata con l'ausilio di radiotelescopi, dando per scontato che eventuali alieni «intelligenti», in quanto tali, certamente debbono avere sviluppato, come noi, una tecnologia in grado di emettere segnali radio. Obiettando che con tale criterio Archimede non dovrebbe essere incluso tra le forme di vita intelligente, si riceverebbe probabilmente la risposta che solo un intervallo di pochi millenni separa lo stadio di sviluppo della civiltà ellenistica da quello che inevitabilmente porta a inventare la radio. L'idea che in altri mondi potrebbero essere avvenute evoluzioni in direzioni per noi del tutto inimmaginabili sembra appunto una possibilità raramente immaginata. La presunta ineluttabile evoluzione progressiva è in realtà ampiamente smentita dai ripetuti collassi che hanno portato alla disgregazione di civiltà e in particolare dai collassi culturali, sui quali torneremo. Ma se si ha fede nell'inevitabilità del progresso è difficile riconoscerli e si tende a minimizzarne comunque la portata, ritenendoli solo momentanee battute d'arresto. | << | < | > | >> |Pagina 393.1 Il grande laboratorio del neoevoluzionismo Se si prescinde dal continente americano, la tesi neoevoluzionista degli sviluppi indipendenti e paralleli delle civiltà è chiaramente insostenibile. Da una parte, infatti, i progressi dell'archeologia rendono sempre più evidente che le civiltà che hanno seguito un percorso analogo, giungendo successivamente all'agricoltura, alla rivoluzione dei prodotti secondari, alla scrittura, alla civiltà urbana e allo Stato non erano affatto indipendenti, ma erano legate tra loro sin da tempi antichissimi da una fitta rete di relazioni; dall'altra sappiamo di molte popolazioni (nell'Africa subsahariana, in Siberia, in Australia e in Oceania) rimaste sostanzialmente estranee a tutti questi sviluppi, che non hanno conosciuto né la rivoluzione neolitica né quella urbana, né invenzioni come la ruota. Il caso della ruota permette di illustrare un fenomeno generale. La sua invenzione è una delle tante di cui si può documentare che è avvenuta una sola volta. Nessuno dei popoli ai quali non è arrivata per diffusione vi è giunto indipendentemente; l'Africa subsahariana e l'Australia l'hanno conosciuta solo quando vi è stata introdotta dagli arabi o dagli europei. Eppure oggi ci appare così semplice e naturale da far immaginare che possa essere stata concepita indipendentemente numerose volte. Credo che la ragione profonda di questa opinione diffusa, contraddetta dalla storia, sia la stessa che rende in realtà estremamente difficili invenzioni così innovative. Non è infatti facile immaginare un mondo senza ruote se si è abituati a vederle dall'infanzia, anche se è ancora più difficile pensarle in un mondo in cui non esistono ancora. La ruota appare in genere una banale applicazione del rotolamento che può essere osservato in natura, dimenticando che il suo uso richiede in realtà un complesso sistema, senza alcuna analogia in natura che, unendo in modo allo stesso tempo stabile ma non rigido parti sconnesse, riesca a trasformare il moto di rotolamento nel moto traslatorio del carro. Se qualcuno volesse usare la mancata invenzione della ruota per sostenere, per esempio, una presunta inferiorità intellettuale degli aborigeni australiani, potremmo rovesciare il suo ragionamento sostenendo l'inferiorità di tutte le culture che non sono riuscite a inventare il boomerang. Sembra in effetti che in assenza di scambi le culture tenderebbero a divaricarsi «a cespuglio», come avviene alle specie biologiche. È però anche vero che non tutte le culture si sono evolute allo stesso modo. Alcune si sono sviluppate in modo più complesso: non certo quelle prodotte da presunte etnie «superiori», ma semplicemente quelle che hanno potuto beneficiare di più scambi. La Tasmania illustra questo punto con particolare chiarezza. La sua popolazione, vissuta per circa diecimila anni in un completo isolamento che ne avrebbe dovuto fare un oggetto privilegiato di studio per i seguaci del neoevoluzionismo, invece di evolversi verso società di complessità crescente, come previsto dalle teorie di tali studiosi, si è trasformata infatti nella direzione opposta, approdando alla cultura materiale più semplice nota sul pianeta. Rimane un solo forte pilastro a sostegno del neoevoluzionismo (e quindi, implicitamente, del determinismo biologico): il confronto tra Vecchio e Nuovo Mondo. Non solo, infatti, nella Mesoamerica, proprio come in Eurasia, sono apparsi allevamento e agricoltura, ceramica, tessitura e metallurgia, città, scrittura, sacerdoti e Stati, ma, come vedremo, anche molti specifici prodotti culturali eguali fin nei dettagli a quelli elaborati nel Vecchio Mondo. Poiché nulla di tutto ciò poteva essere conosciuto dai cacciatori del paleolitico che, attraversando l'istmo che oggi è sostituito dallo stretto di Bering, avevano iniziato a popolare le Americhe, il Nuovo Mondo è stato usato come un gigantesco laboratorio in cui si dimostrerebbe la presenza di leggi universali che governano l'evoluzione di tutte le società umane in un'unica direzione. L'argomento è naturalmente basato sul presupposto (spesso assunto implicitamente come ovvio, come abbiamo visto fare a Bagley e Cooper) che gli oceani abbiano costituito una barriera invalicabile, assicurando l'assoluto isolamento culturale del continente americano. | << | < | > | >> |Pagina 46Alcuni esempi, se non possono convincere gli isolazionisti, possono però mostrare fino a che punto deve essere spinto il determinismo biologico per accettare l'isolamento culturale del continente americano.Molti studiosi ritengono che l'idea della scrittura, in quanto «naturale», sia scaturita indipendentemente dalla mente di uomini appartenenti a civiltà diverse e lontane. Chi è convinto che sia «naturale» registrare informazioni in forma durevole, deve però ammettere che quello di «scrivere», cioè di tracciare segni su un supporto, non sia l'unico modo per farlo. Per esempio l'idea di usare cordicelle annodate probabilmente non sarebbe venuta in mente a chi non avesse mai sentito parlare dei quipu usati nell'antico Perù. Ma qualora si riconoscesse come pratica naturale anche «scrivere», si deve ammettere che depositare un inchiostro su fogli ottenuti intrecciando fibre vegetali non è certo l'unica possibilità; essendo abituati ai libri dall'infanzia, se non avessimo saputo delle tavolette mesopotamiche, probabilmente non avremmo pensato all'alternativa di cuocere argilla incisa, né ci è facile immaginare altre possibilità mai realizzate. Ma anche se si ammette che sia «naturale» scrivere con inchiostro su fogli ottenuti da fibre vegetali, non è necessario raccoglierli in libri: si potrebbero usare rotoli o altro. Il fatto che in America centrale si usassero libri in tutto simili al «codex» di epoca romana può quindi far riflettere. I Maya giocavano alla palla e ai dadi. Questi giochi sembrano probabilmente troppo «naturali» (almeno a chi li ha sempre praticati, o quanto meno ne ha sempre sentito parlare) per costituire indizi di diffusione, ma un gioco da tavola come il patolli, praticato con varianti in tutte le culture mesoamericane, è sembrato a qualche studioso troppo simile all'indiano pachisi per essere sorto indipendentemente. Anche in questo caso, tuttavia, altri hanno spiegato la somiglianza con il piccolo numero di possibilità con cui, a loro parere, sarebbe possibile ideare un gioco da tavola. La metallurgia può sembrare «naturale», anche se pare che nel Vecchio Mondo si sia diffusa senza essere reinventata indipendentemente due volte. Ma la stretta corrispondenza tra una serie di particolari tecniche usate in America e nell'Eurasia, inclusa quella della «cera persa», secondo qualche studioso è difficilmente spiegabile senza un processo di diffusione. Sono stati compilati lunghi elenchi di prodotti culturali di ogni genere che, essendo comuni al Vecchio e al Nuovo Mondo, possono suggerire un fenomeno di diffusione. Nel caso di elaborazioni teoriche, il giudizio sull'origine delle coincidenze dipende dalla posizione filosofica di chi giudica. Per un matematico di indirizzo neoplatonico (come è, spesso inconsapevolmente, la maggioranza dei matematici contemporanei) la presenza dello zero nella cultura Maya non è particolarmente significativa: mostra semplicemente che gli intellettuali di quella civiltà avevano «scoperto» un ente che avrebbe comunque una sua realtà, indipendente dagli eventuali scopritori. A chi invece ritiene che lo zero, come tutti i concetti matematici, sia un prodotto della cultura umana, la sua presenza in Mesoamerica può apparire più plausibilmente l'effetto di un fenomeno di diffusione. La seconda opinione è confortata dal fatto che nel resto del mondo lo zero è certamente nato una volta sola, in Mesopotamia, da dove si è diffuso in tutte le culture che l'hanno adottato successivamente. È chiaro che la soluzione, in un senso o nell'altro, del problema dell'origine dello zero dei Maya avrebbe un'importante ricaduta sull'antico problema della realtà degli oggetti matematici. Per alcuni prodotti tecnologici l'ipotesi della diffusione raccoglie un maggior numero di consensi. A molti, per esempio, appare poco plausibile che in Mesoamerica siano stati reinventati indipendentemente sigilli cilindrici eguali a quelli usati da tempi antichissimi in Medio Oriente. Personalmente mi appare ancora più convincente il caso della ruota. Nel Vecchio Mondo, come abbiamo visto, i veicoli a ruote sono mancati dove non è arrivata la loro diffusione e non sono mai stati reinventati indipendentemente. Tali veicoli erano nati per essere usati con animali da traino, che in America mancavano, e non esistevano nelle civiltà precolombiane. Eppure in Messico sono stati trovati molti modellini di epoca precolombiana di animali montati su ruote. Gli animali sono realizzati in terracotta e l'asse delle ruote è in legno. Interpretati inizialmente come giocattoli, si tratta più probabilmente di oggetti rituali. Sembra un caso tipico di «fossile» culturale, cioè di un residuo proveniente da una cultura in cui esistevano veri veicoli con ruote. Naturalmente chi è convinto che siamo predeterminati geneticamente a concepire, tra tante altre cose, anche veicoli con ruote non accetterà questo genere di «prova» di contatti. Dovrebbe però riuscire a spiegare (preferibilmente evitando idee razziste) perché questa predeterminazione non abbia funzionato nell'Africa subsahariana né in Australia. In ogni caso mi sembra impossibile spiegare i finti raggi delle ruote di alcuni dei modellini precolombiani (come quello a sinistra nella figura 8) senza ipotizzare contatti con culture in cui erano presenti veri veicoli a ruote. Le ruote a raggi, infatti, furono ideate per alleggerire i veicoli e i finti raggi dei modellini, che non hanno alcuna possibile funzione, possono essere spiegati solo come «fossili culturali», ossia come riproduzioni di una struttura funzionale di cui gli artigiani precolombiani dovevano avere avuto notizia. Si possono immaginare naturalmente vari modi per trasmettere attraverso l'oceano l'idea del trasporto su ruote: il più semplice è probabilmente proprio quello di esportare modellini di veicoli a ruote. | << | < | > | >> |Pagina 76In questo capitolo ci occuperemo del tracollo culturale che si verificò nel mondo mediterraneo a metà del II secolo a.C. Si tratta certamente di un caso atipico, poiché si pensa in genere ai collassi come fenomeni di dissoluzione di entità politiche (Tainter aveva ristretto esplicitamente il suo studio a questi fenomeni), mentre nel nostro caso gli avvenimenti politici, consistenti nell'imporsi del dominio di Roma sul mondo mediterraneo, vanno proprio nel verso opposto.Osserviamo però che le rapide diminuzioni di complessità che secondo Tainter caratterizzano i collassi non si accompagnano necessariamente alla dissoluzione di grandi entità politiche, ma possono anche essere causate dai processi di omologazione che in genere caratterizzano il sorgere di tali entità. La situazione attuale ne fornisce un esempio eloquente. Nonostante si affermi spesso stranamente il contrario, la complessità della società umana, comunque la si voglia definire, sta infatti ai nostri tempi rapidamente diminuendo (insieme a quella della biosfera) a causa della globalizzazione, che comporta la drastica diminuzione delle lingue parlate, delle specie vegetali coltivate e dei mestieri esercitati, l'uniformazione dei prodotti su scala planetaria, la scomparsa delle caratteristiche culturali locali, la concentrazione delle conoscenze, in particolare tecnologiche, in una percentuale irrisoria della popolazione e la riduzione di gran parte dell'umanità a una massa priva di competenze e di ruoli sociali significativi. Tornando al II secolo a.C., senza tentare difficilissime valutazioni quantitative di grandezze quali la «complessità» del mondo mediterraneo, ci interesserà soprattutto il tracollo culturale di quegli anni, nella convinzione che si tratti di un fenomeno gravemente sottovalutato, con importanti conseguenze su tutti gli aspetti della vita collettiva. In particolare la soluzione del problema di storia della geografia che affronteremo nei prossimi capitoli era stata finora ostacolata dalla sottovalutazione della cesura culturale che separa Tolomeo dalle sue fonti. | << | < | > | >> |Pagina 1959.1 La rotta occidentale per le Indie I risultati ottenuti nel capitolo precedente ci obbligano a credere che nel II secolo a.C. (se non anche prima) navi provenienti dal Mediterraneo non solo avessero raggiunto i Caraibi, ma ne fossero anche tornate; inoltre che si conoscessero latitudini e longitudini delle nuove terre scoperte e che scienziati come Ipparco le avessero inserite nelle loro trattazioni geografiche. Si deve quindi pensare a viaggi ripetuti, che ben difficilmente avrebbero potuto mancare di raggiungere la terraferma americana. È mai possibile, avrà pensato il lettore, che tutto ciò sia avvenuto senza che se ne parli mai nella letteratura, se non nel criptico linguaggio di numeri riportati da autori che non ne comprendevano più pienamente il significato? È vero che la stragrande maggioranza delle opere ellenistiche è perduta, ma qualche traccia di questi avvenimenti dovrebbe pur essere rimasta nei pochi scritti conservati. In questo capitolo cercheremo di trovarne qualcuna. Naturalmente, data la totale perdita della letteratura punica, dovremo limitarci alle fonti greche (o a quelle, indirette, latine): una limitazione presumibilmente molto severa. Cercheremo innanzitutto tracce dell' idea di navigare verso occidente nell'oceano al di là delle Colonne d'Ercole e delle possibili motivazioni di un progetto così rischioso. La possibilità teorica di circumnavigare il globo era stata certamente immaginata sin da quando, nel V secolo a.C., ci si era convinti della sfericità della Terra, ma naturalmente una tale idea non poté avere alcuna parvenza di realizzabilità prima che si cominciassero ad avere stime sulle sue dimensioni. Aristotele, che è la fonte più antica che ci abbia trasmesso una stima delle dimensioni della Terra, è anche il primo a suggerire, seppure implicitamente, la possibilità di raggiungere l'Asia navigando verso occidente: Da queste osservazioni [sulle stelle visibili a diverse latitudini] è evidente non solo la forma della Terra, ma anche che è una sfera non troppo grande; altrimenti non si manifesterebbero così velocemente gli effetti di spostamenti così piccoli. Perciò quanti sospettano che la regione delle Colonne d'Ercole sia vicina all'India e che [tra esse] vi sia un unico mare non sembra che pensino cose troppo incredibili. Usando come argomento anche gli elefanti, dicono che la loro specie si trova in ambedue i luoghi estremi, come se ciò accadesse perché gli estremi sono tra loro vicini. Aristotele ribadisce anche nei Meteorologica il concetto che vi è un solo mare a separare le Colonne d'Ercole dall'India (termine che all'epoca, come abbiamo già ricordato, indicava terre che si estendevano a oriente fino all'Oceano Pacifico, come del resto continuò a intendersi fino alla prima età moderna). Nel III secolo a.C. la misura di Eratostene rese possibile valutare con precisione la lunghezza di un'eventuale rotta occidentale per l'Asia, come Eratostene stesso non manca di fare in un passo dei suoi Geographica che è trasmesso da Strabone: Se la grandezza dell'Atlantico non l'impedisse, potremmo navigare dall'Iberia all'India lungo lo stesso parallelo, sulla parte che resta dopo avere sottratto la distanza suddetta [cioè quella occupata dall'ecumene, calcolata in 77.800 stadi], che è più di un terzo dell'intero circolo, se è vero che il parallelo che passa per Atene, lungo il quale ho calcolato la distanza dall'India all'Iberia, è minore di 200.000 stadi. Qui si parla solo di una possibilità teorica, di fatto impedita dall'immensità dell'oceano, ma altrove Strabone accenna a navigatori che avevano realmente tentato l'impresa, anche se avevano finito col desistere e tornare indietro perché sfiniti dalla durata della traversata. L'idea che si possa navigare da Cadice all'India andando verso occidente è riaffermata anche in epoca imperiale (nonostante fosse stata contestata, come vedremo, nel II secolo a.C.). Seneca per esempio scrive:
Qual è infatti la distanza che intercorre tra gli estremi lidi spagnoli e le
coste dell'India? Lo spazio di pochissimi giorni, se la nave è spinta da un
vento favorevole.
La principale motivazione dell'impresa di Cristoforo Colombo era stata la ricerca di una rotta per le «Indie» che evitasse il transito attraverso mari controllati da potenze ostili e l'idea che una tale rotta fosse possibile navigando verso occidente proveniva dalla lettura di fonti antiche. | << | < | > | >> |Pagina 21910.1 Il risultato È giunto il momento di fare il punto sui risultati raggiunti, distinguendo tra quelli certi e quelli solo plausibili, e sui possibili scenari che si aprono. Credo che si debba considerare certa l'affermazione seguente. (A) Nelle fonti di Tolomeo con il nome di Isole Fortunate si intendevano le Piccole Antille, mentre successivamente (in particolare da parte di Tolomeo stesso) queste isole erano state erroneamente identificate con le Canarie.
Poiché il metodo con cui il risultato (A) è stato ottenuto è insolito in
storiografia, vale la pena riepilogare le ragioni che lo
rendono in pratica certo. Da (A), che è compatibile con le nostre
conoscenze storiche e in particolare con il crollo delle conoscenze geografiche
relative all'Oceano Atlantico verificatosi dopo la
distruzione di Cartagine, discendono come conseguenze questi
fatti documentati:
1. Tolomeo attribuisce alle Canarie le latitudini delle Piccole Antille, commettendo un errore enorme: in media circa 15°. 2. Tolomeo assegna all'arcipelago delle Canarie (che si estende soprattutto in direzione est-ovest) l'ampiezza di un solo grado di longitudine e 5,5° di latitudine, cioè con buona approssimazione le dimensioni delle Piccole Antille. 3. Poiché le sue fonti collocavano le Isole Fortunate sul semimeridiano opposto a quello delle località asiatiche più orientali di cui si aveva notizia, l'errata identificazione delle isole porta Tolomeo a dilatare l'ampiezza in longitudine dell'Eurasia, e di conseguenza tutte le differenze di longitudine, di un fattore vicino a 1,4. 4. Dal punto precedente e dalle distanze note lungo i paralleli Tolomeo deduce la misura della Terra di 500 stadi per grado di cerchio massimo, invece di quella di 700 stadi per grado che era stata determinata da Eratostene (e che, con metodi statistici, abbiamo dimostrato avere un errore non superiore a circa il 2%). 5. Tolomeo, contando le longitudini a partire dal meridiano passante per le Isole Fortunate, è indotto dall'errata identificazione delle isole a sbagliare la longitudine di Tule, che nella sua fonte era la longitudine dell'intersezione del circolo polare con la costa orientale della Groenlandia.
6. Ipparco, estendendo la larghezza del mondo conosciuto per
includervi le Piccole Antille, aveva aggiunto 26.000 stadi, lungo il parallelo
di Atene, alla larghezza dell'ecumene calcolata
da Eratostene, come in effetti afferma Plinio in un passo risultato finora
incomprensibile (nel quale confonde la misura dell'ampiezza dell'ecumene con
quella della circonferenza massima della Terra).
Per nessuno dei sei punti precedenti era stata proposta alcuna plausibile spiegazione e in ciascuno di questi casi la verifica ha potuto essere quantitativa e notevolmente accurata. La probabilità che ciò sia accaduto per caso in tutti e sei i punti precedenti è del tutto trascurabile. | << | < | > | >> |Pagina 222Dal punto di vista della storia della scienza il risultato è interessante soprattutto perché il grossolano fraintendimento di Tolomeo e dei suoi immediati predecessori illustra eloquentemente la cesura culturale che li separa dalle loro fonti ellenistiche: una cesura che è stata spesso ignorata o sottovalutata, il cui riconoscimento probabilmente potrebbe far leggere sotto una nuova luce anche l' Almagesto.
Ci si può chiedere come mai il fraintendimento non fosse stato
finora riconosciuto. Eppure, a ben vedere, la confusione tra le Canarie e le
Piccole Antille è pressoché evidente. Tolomeo crede che
le Isole Fortunate siano le Canarie, ma fornisce le coordinate di un
arcipelago la cui estensione, in longitudine e in latitudine, è quella
delle Piccole Antille, la cui latitudine è quella delle Piccole Antille
e la cui longitudine differisce da quella delle Piccole Antille esattamente
quanto occorre per generare il suo errore sistematico sulle
longitudini e sulle dimensioni della Terra. Se ciononostante gli storici della
geografia non hanno finora sospettato che le Isole Fortunate fossero
originariamente le Piccole Antille, credo che la ragione
debba essere individuata in un blocco mentale che faceva escludere a priori ogni
considerazione riguardante il Nuovo Mondo dallo
studio della geografia antica. Si può sperare che se un blocco così
potente sarà rimosso possano emergere molti altri elementi utili.
10.2 Plausibili conseguenze
Con il risultato ricordato nel paragrafo precedente terminano le certezze, ma con argomenti di plausibilità possiamo trarne conseguenze verosimili. Innanzitutto, poiché molti elementi, che abbiamo già ricordato, permettono di individuare in Ipparco il geografo che aveva introdotto le coordinate delle Piccole Antille (da lui dette Isole Fortunate) nell'ambito della geografia matematica ellenistica, dobbiamo ritenere che alla sua epoca navi provenienti dal Mediterraneo non solo fossero giunte ai Caraibi e ne fossero ritornate, ma anche che avessero a bordo personale in grado di effettuare misure di latitudine e di longitudine; l'inserimento delle coordinate delle isole in testi di geografia fa inoltre pensare che i risultati delle misure fossero stati comunicati a scienziati come Ipparco perché fossero utilizzati nel compilare carte a loro volta utili per la navigazione. Non possiamo quindi pensare a un contatto isolato, dovuto a un'unica spedizione partita senza conoscere la destinazione. È indispensabile pensare a traversate oceaniche ripetute nei due sensi. Il fatto che Eratostene non conoscesse ancora le località americane e che Posidonio già le ignorasse di nuovo può dare l'impressione che i contatti siano stati effimeri, concentrati cioè in un arco di tempo molto breve sulla scala della storia di lungo periodo. Molti elementi concorrono però nel suggerire uno scenario completamente diverso. | << | < | > | >> |Pagina 22510.3 Problemi aperti e congettureSe si accettano rispettivamente come certi e plausibili i risultati dei due paragrafi precedenti, si aprono una serie di questioni. Ci si può chiedere in particolare: 1. A quando risalivano i contatti attraverso l'Atlantico? 2. Quali scopi avevano i viaggi?
3. Che entità e conseguenze hanno avuto gli scambi culturali tra
Vecchio e Nuovo Mondo?
Quanto all'epoca dei primi contatti tra le due sponde dell'Atlantico, se si abbandona il terreno solido dei fatti dimostrabili e ci si lascia andare al gioco delle congetture, bisogna ammettere che l'ipotesi che si trattasse di contatti già avviati dai Fenici è attraente. Il loro interesse per la navigazione oceanica è dimostrato dai porti fondati sull'Atlantico, come Cadice, Lixos e Mogador. Sappiamo che erano stati in grado di circumnavigare l'Africa, come gli europei hanno saputo fare solo alla stessa epoca della scoperta dell'America, e non siamo certi che le tecnologie nautiche dei Cartaginesi fossero significativamente migliori di quelle dei loro predecessori Fenici. Abbiamo già osservato, d'altra parte, che l'antico mito delle Isole Fortunate era stato con ogni probabilità originato da notizie su isole tropicali nelle quali il tempo non era scandito dal ciclo delle stagioni (come sembra provato dai versi di Pindaro citati nella nota 38 a p. 169) e notizie di questo tipo potevano essere arrivate ai Greci dell'epoca arcaica dai Fenici, il cui arrivo in Mesoamerica spiegherebbe anche, d'altra parte, le strane statue olmeche di uomini barbuti e baffuti. Ricordiamo infine che Diodoro Siculo sembra attribuire la scoperta delle Isole Fortunate proprio ai Fenici. Se i viaggi tra le due sponde dell'Atlantico continuarono effettivamente per secoli, non bisogna pensare a semplici spedizioni esplorative, ma a rotte commerciali. [...] La dimostrazione che nell'antichità vi siano state interazioni tra Vecchio e Nuovo Mondo non implica certo che le civiltà mesoamericane siano un semplice riflesso di quelle euroasiatiche, come avevano creduto i vecchi esponenti del «diffusionismo colonialista», ma solo che il loro sviluppo ha interagito con quello delle altre civiltà, in modi e con un'intensità che sono tutti da scoprire. Non sappiamo, per esempio, se la scrittura Maya sia sorta del tutto indipendentemente da quelle del Vecchio Mondo o se la diffusione attraverso l'oceano dell'idea di poter scrivere abbia stimolato il sorgere di un sistema radicalmente diverso da tutti i precedenti. Il problema si pone cioè in termini non troppo diversi da quelli in cui è posto per i logogrammi cinesi dell'epoca Shang. Certamente non si potrà però più usare la certezza dell'assoluta indipendenza della scrittura Maya come argomento a favore dell'analoga autonomia dell'invenzione cinese, come avevamo visto fare a più di un linguista. Certo, la constatazione che nell'immenso continente americano la scrittura sia sorta solo nella Mesoamerica, cioè solo là dove è ora dimostrato che vi erano stati contatti con popoli che possedevano questo strumento da millenni, fa sospettare che vi possa essere stata qualche influenza. Il fatto che lo zero, dopo essersi diffuso nel Vecchio Mondo, a partire dalla Mesopotamia, senza essere stato mai reinventato una seconda volta, appaia anch'esso nel Nuovo Mondo proprio e solo nella stessa zona fa sorgere lo stesso sospetto, ma naturalmente i sospetti sono molto lontani dal costituire prove.
Non dobbiamo però pensare che l'eventuale diffusione di
elementi culturali debba essere avvenuta a senso unico, da est a
ovest. Anche le antiche culture americane potrebbero avere influenzato il
Vecchio Mondo, in modi tutti da scoprire.
10.4 Verso la fine del determinismo biologico?
La dimostrazione degli antichi contatti transoceanici è interessante soprattutto perché elimina il principale pilastro a fondamento della teoria dello sviluppo parallelo di tutte le civiltà attraverso le stesse fasi. Se la storia umana consistesse in una serie di evoluzioni parallele, progressive e lineari, rette da leggi definite, allora tutte le culture sarebbero ordinabili secondo una scala universale, ottenuta trasferendo in impliciti giudizi di valore un dato virtualmente cronologico (un po' come si fa parlando di «età mentale» dei ragazzi). Accettando questa tesi sarebbe naturale considerare «primitive» le culture diverse dalla nostra (con inconfessati, ma probabilmente inevitabili, impliciti giudizi razzisti sulle etnie «ritardatarie»). Diviene invece ora concepibile, anche se certamente tutt'altro che dimostrato, che la storia umana, proprio come l'evoluzione biologica, sia il risultato di una serie di eventi impredicibili e largamente casuali, che hanno disegnato particolari percorsi tra i tanti possibili, uno dei quali ha portato alla forma di civiltà alla quale siamo abituati, oggi egemone a livello planetario. In questo caso culture come quella degli aborigeni australiani non dovrebbero essere giudicate più lente di noi nel progredire sull'unica strada della civiltà; potrebbero semplicemente non avere imboccato la nostra stessa strada. Le civiltà diverse della nostra non potrebbero più essere valutate in base a quanti elementi comuni ai nostri posseggano; sarebbero ben più interessanti i caratteri che testimoniano direzioni di sviluppo alternative. Un'altra conseguenza di grande rilievo dell'abbandono di presunte leggi deterministiche regolatrici dello sviluppo storico sarebbe quella di far ritenere potenzialmente irreversibili i collassi culturali. A chi crede all'esistenza di leggi universali di sviluppo della cultura, la tragica fine della scienza antica, per esempio, può sembrare una battuta d'arresto in una direzione di sviluppo che sarebbe stata in ogni caso ripresa in un secondo tempo. Il fatto che nessun'altra civiltà abbia reinventato indipendentemente il metodo scientifico, riapparso solo dove è stato possibile recuperare testi dell'antica scienza, depone però a favore dell'ipotesi che tale metodo avrebbe potuto essere perduto definitivamente, come si può immaginare sia avvenuto in passato per altre conquiste. Se si ritiene che gli strumenti intellettuali oggi a disposizione dell'umanità meritino di essere posseduti anche dai posteri, diviene allora indispensabile conservarne la memoria.
Più in generale, il venir meno di un supposto unico percorso
prestabilito di evoluzione ridarebbe alla storia passata tutta la sua
complessità e all'umanità attuale l'enorme responsabilità di scegliere
liberamente gli sviluppi futuri.
|