Copertina
Autore Massimo Russo
CoautoreVittorio Zambardino
Titolo Eretici digitali
SottotitoloLa rete è in pericolo, Il giornalismo pure. Come salvarsi con un tradimento e 10 tesi
EdizioneApogeo, Milano, 2009 , pag. 242, cop.fle., dim. 13,5x21x1,7 cm , Isbn 978-88-503-2907-6
LettoreCorrado Leonardo, 2010
Classe informatica: reti , informatica: storia , informatica: sociologia , informatica: politica , media , comunicazione
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Indice


Capitolo 1
Dogmi da demolire e media in crisi                            1

A che punto siamo                                             1
Il sogno della rete è in crisi                                2
Informazione come acqua potabile:
    un'emergenza di questo tempo                              4
I dogmi della politica e la voglia di ripristino
    di un controllo sociale stretto                           6
Il controllo sociale danneggiato                              9
I dogmi del giornalismo: il digitale come perdita di realtà  11
La copia non creativa                                        14
Il complesso di Tolomeo: non siamo più soli                  15
I dogmi della rete: la mistica dell'innovazione              18
I dogmi "alti" di due protagonisti:
    apologia e scotomizzazione del conflitto                 20
La ricchezza della rete, o dell'incompleto tableau
    di Yochai Benkler                                        23

Capitolo 2
Internet prima di internet e la mistica dell'innovazione     29

I mezzi, le pratiche, le idee                                29
Grassroots, computer come cellule                            31
Aiuto e condivisione                                         32
L'idea della comunità: l'archetipo di The Well               33
Serendipità e trasgressione, una cultura fondativa           34
America on Line e la metafora del portale                    36
Il concetto di walled garden                                 36
I grandi Bbs italiani: scuola di formazione                  37
La tentazione sempre risorgente del doganiere
    e la fine del web 1.0                                    38
La cultura-Google                                            39
Il web 2.0                                                   41
Cosa significa innovazione                                   43
La cultura dell'innovazione                                  45
I mercati sono conversazioni, i media sono conversazione     46
Il web delle persone                                         49
Una polemica da saltare a pié pari, una cosa
    di cui ricordarsi                                        51
Le ricerche sulla blogosfera: ecolalia dei mezzi             51
La nuova generazione: mezzi carcerari,
    mezzi rivoluzionari                                      54

Capitolo 3
L'ossessione securitaria della politica                      59

Cina e Iran                                                  59
Il modello argentino                                         62
Internet Filtering                                           63
Il reticolo legislativo italiano e il "reato d'opinione"     64
Alcune domande sulla piaga "pedofilia online"                66
In difesa di Google                                          70

Capitolo 4
I nuovi intermediari sono potenti                            73

Follow the money                                             73
L'espunzione del conflitto dal racconto del futuro           73
I signori delle piattaforme                                  77
Una carta dei diritti dei cittadini digitali                 80
Google, paradigma di conoscenza                              85
La ricetta della visibilità                                  86
Google e la censura                                          88
L'arbitro invisibile, il grande re-intermediatore            90
Predica la trasparenza, pratica l'opacità                    92
Il "free" come modello di business                           96
Monopolio e posizione dominante                              97

Capitolo 5
Le piattaforme pubblicitarie sono opache                    103

Ricerca, attenzione e pubblicità                            103
I link sponsorizzati                                        104
L'asta è una scatola nera                                   106
Arbitro, anzi giudice unico                                 108
Il network diffuso. Da AdWords ad AdSense                   110
Nanopublishing: vivere nell'ecosistema
    (a patto di non soffrire di cuore)                      112
Google e i grandi editori, la commoditizzazione
    dei contenuti e dell'attenzione                         115
L'acquisizione di DoubleClick: lo sbarco
    nella pubblicità tradizionale                           117
Il cerchio si chiude: nasce AdPlanner                       121
La vendita dei profili personali agli inserzionisti:
    opt-out e opt-in                                        126

Capitolo 6
Il tubo non è neutrale                                      131

I nuovi gabellieri                                          131
I padroni della catena del valore                           134
Dalle piattaforme ai produttori di contenuti                136
Il controllo dei dispositivi: il caso iPhone                140
L'edicola digitale: Amazon e il Kindle                      144
La neutralità della rete                                    145

Capitolo 7
Privacy: l'habeas data è il nuovo habeas corpus             149

Fuori dal cono di luce                                      149
Un software neutrale per le idee?                           151
Terra di nessuno o terra di una nuova problematicità?
    Pasdaran e Basij della rete...                          152
L'impotenza delle nazioni                                   153
Il mash up dei dati utente                                  156
Deriva securitaria e devastazione della privacy             156
Un incubo illuminato                                        158
Oltre la privacy, il diritto all'esposizione                158
Guardami, sono ciò che sono                                 160

Capitolo 8
L'urlo, il tribuno e l'illusione di un racconto alternativo 163

L'urlo                                                      163
Il "tribuno": la comunicazione autoritaria
    di Beppe Grillo                                         165
L'illusione del racconto alternativo
    o allucinazione di realtà                               166
E allora, dov'è il punto?                                   167
Il ghigno del carisma                                       168

Capitolo 9
Il reboot del giornalismo                                   171

Il digitale accelera la crisi:
    il New York Times è spazzatura                          172
La crisi di un modello di business                          177
L'esaurimento del modello di influenza sociale              180
E da noi?                                                   181
Provare a cambiare: il reboot                               187
Le domande                                                  188
La notizia predigerita                                      190
Le condizioni del cambiamento                               192
Dalla carta al digitale                                     193
    Il New York Times, un unico prodotto                    194
    Il Washington Post: l'integrazione
        dopo una lunga separazione                          197
    Il Guardian e l'integrazione tripolare                  198
    Il Wall Street Journal, un ciclo produttivo
        articolato sulle 24 ore                             199
    Il Daily Telegraph, l'integrazione plastica             200
Crescono testate digitali                                   201
    Drudge Report                                           203
    Huffington Post                                         204
    Politico.com                                            205
    Real Clear Politics                                     205
    FreeRepublic                                            205
    Gawker: le celebrities come forma di lobbying           206
    The Daily Beast                                         206
Gli esperimenti di giornalismo partecipativo e iperlocale   208
L'inchiesta opensource                                      211
Il dibattito sulle notizie a pagamento                      215


Conclusioni                                                 225


Appendice
Dieci tesi. Una proposta di conversazione.
Un progetto aperto                                          229

    La rete è in pericolo, il giornalismo pure:
    come salvarsi con un tradimento                         229
        I neoluddisti, l'agiografia della rete e,
        al centro, il moloch del potere                     230

Ringraziamenti                                              241

 

 

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Capitolo 1
Dogmi da demolire e media in crisi



A che punto siamo

La rete ha prodotto una società divisa, con una parte che la vive e l'altra che la detesta. Non ha senso. Serve una lingua comune per parlarsi. Ma tranquilli: questa non è l'ennesima puntata della soap "giornali & internet". Semmai la questione è: con il digitale abbiamo tutti - vecchi e giovani, colti e meno colti, alti e bassi, destri e sinistri - un destino comune. E non riusciamo a parlarne insieme.

Questo è il nostro obiettivo: parlare con una sola lingua. L'abbiamo lanciato la scorsa primavera in dieci tesi che sono il nostro indice (si veda in Appendice) e che sono riassumibili in un concetto: il digitale è un "nuovo universo" che, appena arrivato, rischia di scomparire. Ingoiato dagli establishment, normato da una politica letteralmente "ignorante", condizionato e riconquistato da vecchi e soprattutto nuovi padroni e doganieri. Potrebbe salvarsi alleandosi con una vecchia tigre: il giornalismo, inteso non come industria ma come pratica e cultura del Racconto.

Abbiamo l'ambizione di parlare a tutti: a chi è fuori e a chi è dentro la rete. A chi dice "non capisco" per dire in realtà "non sono d'accordo". Al cittadino che critica i media a testa bassa - ovviamente quelli che stanno dall'altra parte della politica. Al musicista che si sente derubato e al "pirata" che gli scarica le note senza pagarle, all'utente di Facebook che ha conosciuto l'ultima versione della rete, dove, beato lui, si gira la chiave e il motore parte e allo "smanettone" della prima ora, che ha cominciato con l'auto a manovella e un po' lo guarda con invidia.

Bisogna togliere il racconto di internet ai pionieri. Bisogna insegnare internet all'establishment. È possibile fermare la doppia deriva delle illusioni sui destini magnifici di internet e il delirio repressivo di una politica che non cessa di lanciare allarmi e produrre legislazione di guerra contro la libertà di espressione. Fra utopia e reazione, un'altra strada deve esserci. La rete è l'atmosfera in cui respirano vecchi e nuovi media, in cui l'industria più vitale degli ultimi cinquanta anni, quella digitale, ha ancora molto da costruire. Qui vive la gente di oggi e soprattutto di domani: imparare a parlarne in modo aderente ai fatti, senza enfasi e senza illusioni, è interesse costituito di tutti noi.

"Dentro" e con internet si racconta: dal tè di ieri con le amiche alla rivoluzione di Teheran, tutto è racconto. Invece, la rete non è molte altre cose: un'edicola, un cinema, un modo nuovo per fare vecchia televisione, una piazza dove chiedere al popolo di legittimare poteri assoluti e celebrare processi sommari. E speriamo che non diventi un'autostrada a pedaggio e un bel giardino controllato recintato da alte mura. C'è chi vorrebbe che diventasse un buon posto per la censura. Per tagliare le gambe alla libertà di espressione di massa appena conquistata. O ancora per inventarsi nuove forme di demagogia.

Il guaio è che, mentre si discuteva di internet, di rete, di umanità accresciute e media, il mondo è cambiato. La domanda potrebbe esser questa: siete sicuri che internet sia ciò di cui parlavamo cinque anni fa? La nostra risposta è no. Per certi versi la rete non esiste più. Ma riprendiamo il discorso dall'inizio. Dal sogno della rete, dalla crisi dei media e da tre dogmi da spazzar via per purificare l'aria.


Il sogno della rete è in crisi

Ve lo ricordate il pianeta Vulcano nella vecchia serie di Star Trek? Su Vulcano vive una razza di quasi-umani migliorati. Sì, hanno le orecchie a punta, e quando hanno il loro periodo riproduttivo, una sola volta nella vita, suscitano energie che potrebbero distruggere il mondo. Ma per il resto sono dediti alla logica più pura, al culto del dato scientifico e della più assoluta oggettività. Passioni, desideri violenti, la carne e il sangue delle cose terrene sono loro estranee. Per questo sulle astronavi della Confederazione terrestre del 2200 e oltre sono utilissimi. Perché gli umani vanno ancora e sempre cacciandosi in mille catastrofi, e uno che tenga i nervi a posto e continui a ragionare ci vuole. Nella successiva serie televisiva Star Trek: The Next Generation la logica evoluzione del vulcaniano è Data. È un androide, che ha dentro di sé tutti i dati del sapere umano, può interagire con computer e reti lontane, parlare lingue e, senza troppo coinvolgersi, perfino fare l'amore senza abbandonare la sua condizione di macchina pensante.

Avete mai visto un vulcaniano leggere un giornale? E Data guardare la televisione? Domande stupide: sospettiamo che il vulcaniano sappia già per conto suo tutto quel che accade, il suo discernimento può accedere a qualunque dato e depurarlo di ciò che non è funzionale né logico. Data poi è informazione allo stato puro: è l'informazione che si fa umanità. I media, su Star Trek, non ci sono perché non si intermedia. Nemmeno la rete internet. E nemmeno i videogiochi, robaccia per alienati. Sull'Enterprise non si simula e non si gioca: si vive un'altra vita vera sul ponte ologrammi.

Ora vi chiederete, ma cosa c'entra Star Trek? Star Trek è importante: è l'immagine di una umanità appassionata e forte, tollerante e dolce, multietnica e multietica. Ora sappiamo poi che l'attore che interpretava il signor Hikaru Sulu era gay e ne siamo contenti. I loro nemici, i Klingon, sono i campioni di una cultura medievale ed empia. Totalitaria: i Klingon non hanno informazione perché sono una società di valori e gerarchia, di obbedienza cieca e composta da individui non liberi.

Quella di Star Trek è una "umanità accresciuta" (per dirla con le parole di Giuseppe Granieri) e migliorata dalla tecnologia. Ma totalmente altra dal conflitto. Che invece si presenta di continuo dentro quell'astronave. Non c'è fiction e quindi racconto senza lacerazione e passione, conflitto e contrapposizione. Ma che viene sempre risolto senza la politica: dal genio di uno, dalla logica di un altro, dal coraggio di tutti. Gli ordini – la politica – vengono dal comando centrale – perché un potere c'è ma non si vede – e sono temperati dalla saggezza di questa umanità che ha tutta l'informazione possibile. E sa come dominarla.

Star Trek è l'immaginario di ciò che l'umanità tecnologicamente colta pensa di sé, è il meglio che le possa accadere. È economia dolce della felicità e dell'infinito piacere della (e attraverso la) conoscenza. Umanità forte di una saggezza scaturita da guerre e forse da crisi violente dovute all'avidità umana, tragedie che hanno spinto noi tutti a superare i confini nazionali, a unirci per la prosperità e il benessere. Star Trek ha superato ogni epoca della "scarsità" e dello sfruttamento diretto, quindi anche i "media della scarsità", quelli fatti da pochi addetti e specializzati. Star Trek è il buon esito della globalizzazione.

E ha anche il pregio di essere una saga abbastanza vecchiotta per essere sì conosciuta dai ragazzi, ma amata e compresa anche da chi oggi ha sessanta anni. Da chi sta nell'establishment. Dai giornalisti. Dagli intellettuali. Dai politici. Dagli imprenditori minacciati dalla "pirateria". Ma è soprattutto una buona metafora dell'ideale della rete come il mondo lo ha sognato o temuto negli ultimi vent'anni. Ora la notizia è: il sogno è finito, non si realizzerà, e una realtà ben diversa si annuncia.

Presa da quel sogno, negli ultimi venti anni la rete ha creato l'immagine dei giornalisti-Klingon. Sono cattivi, disonesti, venduti, sleali, ignoranti, pronti a colpire alle spalle, armati di un loro codice di onore ma pronti a qualsiasi operazione politica pur di zittire i loro avversari. Il loro mondo non è quello degli essere umani "normali": dalle loro parti "ignoranza" e "complotto", "servilismo" e "conformismo" sono comandamenti. Ne sono convinti in tanti, dentro e fuori la rete. C'è gente molto potente disposta a dirlo, che lo dice ogni giorno. Tra loro, anche qualche lupo che denuncia acque sporcate da agnelli che bevono a valle. Però questa non è ancora la nostra storia, anche se ci passeremo. Ma, come si è detto, il sogno è finito e l'Enterprise è tornata sulla terra per rimanerci. Non ci sono Klingon, non ci sono Vulcaniani. Ci sono Google, le Telecom, la Cina, l'Unione Europea, i deputati, i pirati diventati deputati e i deputati dediti alla pirateria della libertà altrui. Hanno prima cercato di farla fuori, la rete. Ora è partita la grande colonizzazione. È il momento chiave.


Informazione come acqua potabile: un'emergenza di questo tempo

Anni fa — correvano i tempi dell'entusiasmo delle prime dot.com — un giovane dirigente di un'azienda internet tenne un lungo intervento per dimostrare come la pubblicità degli annunci e dei banner, i riquadri pubblicitari presenti sui siti internet, fosse ormai superata da un agile mix di intrattenimento informativo e pubblicitario. Divertente e utile a guadagnare soldi. Un anziano dirigente della Bbc, un signore abituato a lavorare sulla base di un esoso canone televisivo, si alzò e andò al microfono subito dopo di lui. Si limitò a questo: "Al giovane che è intervenuto prima vorrei dire che, in tempi di alluvione, la risorsa più scarsa e difficile da trovare è l'acqua potabile". Parlava della notizia, distinta dall'interesse dell'industria che, con la pubblicità, paga i giornali.

Se in questi anni c'è un'emergenza che la gente della rete — "la" gente di tutti i giorni, quella che si incontra in metropolitana e allo stadio, gente che aumenta ogni giorno di numero — sente come tormentosa, è la scarsità dell'acqua potabile, acqua potabile dell'informazione "vera", indipendente, critica.

Alcuni, soprattutto quelli che per età non hanno esperienza d'altro, la scambiano con bevande di gusto elementare ma molto speziato. Con l'urlo del tribuno, con la furia iconoclasta, con la teoria della rete come tubo a U, che "almeno un po' di merda la rimanda indietro". Ma dall'America di Obama alla Cina della censura di stato, giù giù fino all'Italia di questi anni, il bisogno-base che milioni di persone stanno manifestando da ormai quindici anni è quello di una informazione forte, vero watchdog del potere. Sete di una informazione che ci restituisca i punti cardinali di un mondo troppo confuso, un mondo nel quale restano ideologie senza bandiere. L'idea prevalente è che il giornalismo attuale non soddisfi questa sete e allo stesso tempo che per farlo sia necessario prendere la parola. Una volta tanto noi italiani non siamo fuori dal mondo o ai suoi margini. Soffriamo come gli altri: il mondo è piatto e lo ha spianato la rete.

I giornali potranno essere andati in crisi per molti motivi. Perché la pubblicità cala, perché c'è la tv, perché è arrivato chi ha pensato di regalare le notizie, anche su carta, un mondo di notizie per due fermate di metropolitana. Perché la televisione e la sua lion's share pubblicitaria li devasta. Perché scrivono in una lingua che i giovani faticano a capire, perché si occupano troppo di politica. Ma la metafora perfetta della loro crisi è la rete, che è l'immagine stessa del problema: una "società" che cresce e comunica per conto suo e in "luoghi" suoi e che non si trova rappresentata nel racconto del mondo che va in edicola ogni mattina. Lo fa a partire da giornali, televisioni, media di cui non è contenta, che sente insufficienti, ufficialisti, schierati, omissivi, lontani. Un vecchio libro sul "Corporate newspapering" americano si intitolava in modo geniale Leaving the Readers Behind. I giornali (i media) non hanno perso lettori (spettatori). Se li sono lasciati indietro, fuori da se stessi. Non li toccano più. Non è tanto questione di "nativi digitali", per dirla con Rupert Murdoch, anche se il problema esiste. Il punto è che sia gli immigrati che i nativi digitali, per usare parole ormai antiche, sono un pubblico diverso da quello di sempre.

La "preghiera del mattino dell'uomo moderno" (Hegel) non è più da tempo il giornale. Ma il desiderio di "pregare" è aumentato. Proprio mentre la delega che faceva del giornalismo uno dei miti fondativi della democrazia veniva tranquillamente ritirata. All'improvviso l'attore protagonista si è trovato al margine della scena, ma il suo mito sopravvive. E tuttavia è da lui che si attendono le parole più forti. Ancora per poco, però. Non è rimasto molto tempo, perché la crisi è antropologica: non si tornerà all'autorevolezza facendosi pagare per un pezzo di giornale. Si fa un gran parlare di multimedia, ma sarà sempre quello che è raccontato, in qualsiasi forma, a decidere del successo di chi scrive e comunica. E sul successo pesa oggi l'assenza di una cultura che li aiuti a leggere la transizione digitale, che è in sé antropologia e politica.

Questa non è una nostra tesi. È un parere di massa. La nostra tesi è che queste due "forze", cittadini elettronici e giornalismo (non "editoria" e non "giornalisti") possano ancora incontrarsi per trovare insieme il futuro. Ma il tempo è poco, ed è brutto tempo. Per poter vedere chiaramente la strada è necessario mettere da parte tre ordini di dogmi. Quelli prodotti dal potere. I dogmi del giornalismo. Quelli della gente della rete.


I dogmi della politica e la voglia di ripristino di un controllo sociale stretto

La politica americana ha scelto di inserire la rete nel mondo degli anni Novanta, e non mancano le teorie complottistiche sulle ragioni di questo rilascio al pubblico di una tecnologia esclusivamente militare. In realtà a volere quell'operazione e a portarla a termine fu Al Gore, quale vice del presidente Bill Clinton. L'idea che ci fosse bisogno di quelle che all'epoca venivano chiamate information highway, autostrade dell'informazione, per lanciare una lunga fase di sviluppo economico, durata poi dodici anni, era un argomento che veicolava l'enfasi della frontiera. È qualcosa di molto vicino ai temi di Barack Obama, quando parla delle grandi opere infrastrutturali necessarie a rilanciare gli Stati Uniti: un'opportunità di progresso, non un lusso da ricchi – altrimenti perché, nonostante tutte le censure, un regime come la Cina continua a tollerare la presenza della rete?

Tutto il resto del mondo ha subito quella gigantesca operazione. E in particolare ha subito l'aspetto imprevisto, anche per la dirigenza statunitense, la unintended consequence dell'esplosione, prima sconosciuta nella storia, di un grado inedito di pratica della libertà di espressione.

Il disagio per la "natura americana" di internet si trascina ancora nelle polemiche, di fonte soprattutto cinese, iraniana e russa, che mettono in discussione il "controllo yankee" sulla gestione della rete. È stata avanzata più volte la richiesta che il governo mondiale di internet abbia come sede l'Onu. Per più versi un esito non augurabile.

Internet "sa" di America e di globalizzazione. Non solo perché íl suo boom ha dato impulso alla borsa americana sul finire degli anni Novanta e all'inizio del secolo, prima che a quelle di tutto il mondo. Non solo perché l'industria tecnologica degli Stati Uniti ha tratto grande vantaggio dallo sviluppo della rete – ma lo stesso si può dire per i fabbricanti di computer cinesi. Non solo perché se una egemonia culturale è rimasta in terra americana è proprio quella dell'industria della conoscenza che attira talenti, idee e capitali da ogni parte del mondo. Del resto, togliete all'America degli anni Duemila il boom di Google, del web 2.0 e dei social network: cosa rimane? Biotecnologie a parte, la bolla immobiliare, Guantanamo e George W. Bush.

È americana la produzione scientifica che sottende lo sviluppo della rete. L'industria dell'hardware, che beneficia del pieno realizzarsi della legge di Moore, per la quale le prestazioni dei processori raddoppiano ogni diciotto mesi. E negli Stati Uniti è localizzato il W3C (World Wide Web Consortium), organismo di coordinamento e creazione di standard industriali che ispira e regola tutto il mondo del web, dove vengono elaborate le linee guida e i linguaggi che permettono il continuo sviluppo delle nuove applicazioni. In pratica, il posto dove viene disegnata e ridisegnata di continuo l'architettura del web, decise le sue regole tecniche, l'elaborazione di linguaggi sempre nuovi.

Il W3C è diretto da (e a lui deve la sua fondazione) Tim Berners-Lee, l'uomo che disegnò il web. Ogni tanto qualcuno lo identifica come il creatore di internet. Non è così: Berners-Lee ha fatto con internet ciò che il suo Consorzio continua a fare. Un giorno, sulle terre incolte, i boschi e i ruscelli della rete ha realizzato un ordine in forma di disegno che permette agli umani di classificare, conoscere e descrivere il paesaggio.

Ma torniamo alla politica. Non c'è soltanto il fastidio per la cultura, le regole e la governance americana della rete, sempre più in difficoltà a mano a mano che cambia la geopolitica del mondo (questo contrasto "Usa contro tutti" è destinato a riprodursi con la decisione dell'amministrazione Obama di optare per la libertà e neutralità della rete, contro l'idea europea, statalista e controllista, delle "regole" e della regolamentazione, dietro cui si perdono i parlamenti del continente, a cominciare da quello francese). Il già citato Thomas Friedman si è spinto molto oltre con la sua teorizzazione di un mondo piatto, nel creare il quale la rete ha avuto un ruolo fondamentale. Ma oggi descriveremmo, onestamente, il mondo in questo modo? Internet degli anni Novanta – lo vedremo fra qualche pagina – si accompagnava a un'idea universalista, "buona", equa della globalizzazione, il giusto sogno di un mondo che si era appena liberato dall'incubo della guerra fredda, durato quarant'anni. Ma oggi la metafora della rete ha qui la sua crepa maggiore: nei poteri che vi si scontrano, nelle architetture che si contrappongono a quella americana. Nei controlli e nelle censure imposti da ogni stato nazionale. Nei condizionamenti anche moralmente abietti che vengono dettati alle aziende che vogliono investire in alcuni paesi (come nel caso della delazione di Yahoo! ai danni di un blogger dissidente cinese). E quindi...


Il controllo sociale danneggiato

Ai non americani la rete ha fatto da subito una pessima impressione. Anche agli americani, per la verità. I primi ammonimenti sui rischi di terrorismo in rete, sulle "bombe atomiche fabbricate su internet" sono dei primi anni Novanta e provengono proprio dai servizi americani, ossessionati da un terrorismo che avrebbe poi colpito in tutt'altri modi. Sono poi venute la campagna sulle truffe con carta di credito, poi quella sulla pedofilia e l'intera casa degli orrori connessa a questo argomento. Il climax viene raggiunto con la cosiddetta pirateria, intendendo con questo termine (più restrittivo che spregiativo) la pratica di massa dei download attraverso tecnologia p2p. Pirateria? Anche i nativi americani furono definiti selvaggi.

Naturalmente buona parte di questi aspetti negativi ha una sua reale consistenza. Il "male esiste", come si suol dire, ma il racconto del male non è neutro. Il video che un gruppo di adolescenti italiani pubblica online per compiacersi delle sevizie inflitte a un compagno di scuola disabile è un documento eccezionale, che solo grazie a uno strumento portentoso di verità e conoscenza è potuto arrivare fino a noi. Eccezionale perché ci fa conoscere un lato marcio e oscuro della nostra esistenza che forse esiste da sempre. E invece no, la risposta sta nella demonizzazione del mezzo; si veda la reazione di un ministro di allora, che chiese un "filtro" alla cinese.

La demonizzazione assoluta annienta ogni possibilità di accettazione sociale del nuovo e sposta la soluzione di ogni problema sul piano dell'emergenza e dell'ordine pubblico. La paura prende il posto del processo di conoscenza. Per lungo tempo c'è stato chi – anchorman, politico – ha parlato in Italia di "chiusura di internet" e altri attori – aziende televisive e di telecomunicazione – ne hanno a lungo declinato le possibilità d'uso esclusivamente all'interno di uno spazio chiuso, da controllare e, guarda un po', sfruttare per finalità economiche.

Negli anni è emerso anche il ruolo di cassa di risonanza politica svolto da internet. Si prenda il caso della rivolta di Teheran contro i brogli elettorali ai danni del capo dell'opposizione Moussavi, dove il regime ha ricevuto un colpo micidiale, anche se non definitivo, dalla cronaca twitterata degli eventi. Ma dalla protesta di Tien an men del 1989 – dove i messaggi arrivavano in tutto il mondo, attraverso una rete ancora per pochissimi, passando da centro di calcolo a centro di calcolo e ridiffusi dai ricercatori scientifici alla stampa — alla rivolta delle uova nell'ex Jugoslavia di Milosevic, fino alla Birmania dei monaci arrestati e deportati, è possibile identificare un unico filo rosso. Una traiettoria di continuità secondo la quale, dai paesi fondamentalisti fino all'Europa e ai movimenti studenteschi, per oltre quindici anni la rete è stata un punto di allentamento del controllo politico e sociale. Si è posta come un circuito totalmente alternativo, una corrente di pensieri e di scelte che ha aggirato divieti, ridicolizzato i dazi e bypassato il monopolio del sapere, di ogni sapere. Un allentamento inviso agli establishment. Di tutti i poteri e tutti gli establishment: per non parlare solo di regimi fondamentalisti, si potrebbe ricordare la lunga campagna dei servizi di sicurezza americani contro l'uso da parte dei privati degli algoritmi di criptazione della corrispondenza.

Perfino nella repressione la rete è riuscita a produrre novità inedite. Non benvenute, ma novità. In Cina, di fatto il primo "paese internet" al mondo per numero di utenti, ha avuto luogo un fenomeno di controllo e repressione della libertà politica che per numero di addetti coinvolti, di tecnologie impiegate e per "creatività" sviluppata, dovrà essere studiato in futuro. Non si tratta di un coperchio, come per i regimi comunisti degli anni Cinquanta e Sessanta, piuttosto di un "filtro" e di un intervento selettivo, intelligente e mirato di forme dell'espressione sociale. E il filtro degli addetti poggia da un lato sulle tecnologie più raffinate, dall'altro su un'utilizzazione assai creativa della delazione capillare da parte degli stessi utenti. Un grande esperimento di repressione condizionata, visto che non è possibile mettere il coperchio a 1,3 miliardi di individui che hanno imboccato la via dello sviluppo economico. Come ha scritto nel suo blog uno studente italiano in Cina per motivi di studio, "la censura è invisibile, silenziosa, snervante, casuale. Non sai quando colpisce, hai sempre il dubbio di aver sbagliato tu qualcosa, non la 'vedi' e non puoi contestarla".

L'atteggiamento di chiusura e di censura nei confronti della rete non è un'esclusiva della politica italiana. È l'intera politica europea a essere orientata in questo senso, come dimostrano la Francia e perfino la Gran Bretagna, dove negli ultimi quattro anni di governo del Labour sono stati approvati alcuni provvedimenti restrittivi della libertà dei cittadini di comunicare e conoscere. Certo c'è anche la Svezia, dove a fronte di una condanna penale per pirateria fa da contrappeso un'elezione a deputato europeo di un rappresentante degli accusati. Ma la tendenza forte resta quella alla repressione.

Torneremo su questo discorso. Per ora basti questo: tutti gli establishment sono in naturale contrapposizione con l'allentamento del controllo sociale permesso dalla rete.

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Il rapporto tra giornalismo e potere ha molte declinazioni e sarà ripreso più volte in questo saggio. Qui noi lo definiamo in almeno due modi: come componente interna, "personaggio" del racconto giornalistico, e come elemento del paesaggio dei media, forza che fonda l'assetto attuale dei media.

Nel primo caso non c'è racconto se questo non si confronta con il potere: il potere non è soltanto il Mangiafuoco del media. È un "personaggio" del loro racconto, spesso il protagonista, e sempre l'autore. Non è la proprietà dei media che conta, è il potere che declina i racconti del giornalismo.

Il giornalismo come possibilità di servizio civile al proprio pubblico — anche e ancor di più quello dei cittadini e delle persone — si pone come una potenziale e sempre necessaria infrazione alle regole poste dal potere: il giornalismo vero è trasgressione continua: di una legge che vieta, di apparati che controllano, ma anche delle regole di buona educazione dell'establishment. Non tutto è sempre visibile e chiaro, come credono gli urlatori di professione.

Il potere è il tuo personaggio quando sei lettore. Cosa leggi quando leggi? Chi ti parla quando ascolti e guardi? Non è per niente chiaro, perché il potere articola il proprio racconto per enigmi invisibili e immagini semplici: più parla chiaro e al cuore della gente, più il potere è enigmatico. Il blogger che avverte pesantemente la caratteristica di establishment della stampa ufficiale, che non si avvicinerebbe a un telegiornale per non sentirsene sporcato, come pensa poi di costruire la propria "gerarchia informativa"? E quale informazione esiste al di fuori del discorso del potere, quale comprensione è possibile in mezzo ai suoi segnali di fumo? Dal potere non si fugge, bisogna imparare a leggerlo.

Il potere è poi un elemento del paesaggio. Per tornare a Granieri — ma non ce n'eravamo mai allontanati — se parliamo di media e giornali e della possibilità di creare un domani ai modi e ai mezzi che permettono una informazione democratica, civile, consapevole, dobbiamo per prima cosa descrivere correttamente l'oggi. E l'oggi della rete non descrive proprio un domani senza padroni. Gatekeeper e nuovi padroni sono assenti dal narratore della blog generation e della società digitale. Motori di ricerca, Signori dei Database, Società di Telecomunicazioni, Padroni dei Dispositivi non esistono? Perché la sociologia non può farsi sguardo critico e si dedica solo a questa epica della fondazione? In nome del futuro e del suo sereno sviluppo? Anche in Asimov c'era il potere. Il suo era un futuro non sempre luminoso. E non lo è nemmeno il nostro.

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La tentazione sempre risorgente del doganiere e la fine del web 1.0

Ricapitoliamo: con l'introduzione del concetto di portale si realizza il primo caso di forma ideologica del media. Il portale è l'idea di un mezzo supergeneralista o metageneralista: al suo interno i giornali si riducono a "pulsanti", alla pari di altri fornitori di contenuto. Nella mente delle società di telecomunicazione nasce l'idea, mai davvero scomparsa, che nella rete vince chi tiene le chiavi dell'accesso e che il gatekeeper è anche colui che disegna la forma del mezzo, determinando così il modo e il contenuto dell'informazione, oltre che la sua forma fisica. In questo modello, le professionalità specifiche si riducono a una generica capacità di "produzione del contenuto", i giornalisti quindi vengono ribattezzati "produttori di contenuto", gli editori "fornitori di contenuto". Ma in quegli anni di grande confusione "contenuto" era anche vendere camicie o un viaggio,..

E va sottolineata ancora una volta questa tendenza all'annientamento delle professionalità e dei saperi che si manifesta all'interno del modello portale. Non è l'ovvia manifestazione del fenomeno per cui, una volta digitalizzate le conoscenze, ogni elemento di informazione è un oggetto, un mattoncino ricombinabile in un numero "x", grande a piacere, di contesti e contenuti significanti. No: si tratta di un effetto collaterale della digitalizzazione: lo svuotamento di valore dei mattoni e il trasferimento di quei mattoni sul nome e la funzione del servizio che aggrega. Una tendenza forte, che troverà di qui a poco i suoi fortissimi interpreti.

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Il web 2.0

Con il web 2.0 la rete tende ad assumere – staccandosi sempre più dall'idea iniziale di biblioteca – un assetto più simile a quello di un deposito di oggetti che possono comunicare fra loro: parole, immagini ferme e in movimento, suoni. Tutto può comunicare con tutto, ogni oggetto può aderire all'altro. Grazie ai tag, alle parole-marker che vi sono annesse, grazie alla capacità dei motori di ricombinare gli oggetti attingendoli di continuo dal deposito, dalla propria base di dati. Grazie alla sempre maggiore capacità delle macchine di funzionare sulla base di software che permettano loro di comprendere il linguaggio "naturale" degli esseri umani. Se dobbiamo credere agli sviluppi del cosiddetto web semantico, presto vedremo questi oggetti modellarsi sul nostro linguaggio: comprendere il nostro modo di esprimerci e le domande che sapremo rivolger loro e modellare una risposta coerente. Tutto ciò non esisteva ancora dieci anni fa.

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Cosa significa innovazione

Dunque il web è "vivo", cresce, scambia le proprie valute, la società vi prospera. È la somma delle conoscenze di chi vive la rete. La macchina, come ha raccontato nel suo video geniale l'antropologo Michael Wesch [ The Machine is Us/ing Us ] è noi stessi, apprende da noi e cresce di valore alla connessione di ogni nuovo utente. È software che permette aggregazione.

Forse va descritta qui un'altra insufficienza concettuale, la più grande, la più grave. Quella della parola Internet. O della parola rete. È come se parlassimo di "strade" intendendo insieme le mulattiere sterrate dell'Appennino meridionale e le autostrade a otto corsie della California (ma presto dovremmo dire della Cina). È accettabile una simile generalizzazione? No di certo. E allora perché in questo caso si usa? Siamo di fronte a un oggetto che cambia di continuo, mentre le parole restano ferme. Le nostre definizioni non tengono il passo perché abbiamo deificato nella parola "internet" una realtà che non esiste. Ogni volta che dobbiamo spiegarla a persone "non digitali" abbiamo problemi a trovare una metafora per rendere questa caratteristica di esistenza in vita della rete.

Qui saccheggiamo un caro amico, il fisico e matematico Alberto Berretti: "Internet è una rete stupida. Completamente priva di 'intelligenza'. Il suo unico scopo è trasportare pacchetti di dati ('datagrammi') da un punto all'altro della rete, e non è capace di fare bene neanche quello: anzi, non si suppone nemmeno che lo faccia bene, perché il datagramma potrebbe arrivare o potrebbe non arrivare, potrebbe arrivare due volte, e datagrammi spediti in un certo ordine potrebbero arrivare in un altro ordine, e prendendo vie diverse, e tutto ciò non costituirebbe un malfunzionamento, un 'guasto', di internet: sarebbe – anzi è – il suo funzionamento quotidiano".

"Dov'è l'intelligenza? Perché una rete così stupida ha avuto tanto successo? L'intelligenza è tutta sul bordo, su quello che internet unisce: i computer che a essa si collegano (il corsivo è nostro). Perché deve essere così, e perché le eventuali alternative (una rete 'intelligente') sarebbero fallimentari? Mi correggo, sono state fallimentari, c'è un'esperienza pluridecennale in materia. Ci sono due ottime ragioni, una che guarda verso il basso (cosa c'è 'sotto' internet, con che cosa si fa internet) e una che guarda verso l'alto (cosa c'è 'sopra' internet, cosa si fa con internet).

"Internet può utilizzare qualsiasi supporto trasmissivo per far passare i suoi datagrammi: astrae completamente da esso (e questa è la prima ragione). I datagrammi possono passare su fibre ottiche, essere trasportati da piccioni viaggiatori, o comunicati in codice da indiani Navajo, non importa: addirittura possiamo inventarci nuovi metodi per trasmettere dati senza che debba cambiare nulla di come funziona l'internet che ci sta sopra. È evidente quanto questa situazione sia vantaggiosa e porti a risparmi enormi nella gestione della rete (peraltro, è la ragione per cui si parla di internet). [...] Ma la seconda ragione è ancora più importante: se l'intelligenza, le applicazioni dunque, stanno tutte nell' edge, nel bordo della rete, cioè nei computer che vi si collegano, nuove applicazioni possono essere sviluppate, testate, provate, introdotte e messe in opera senza che sia necessario intervenire sulla rete medesima. In altre parole, chiunque (chiunque abbia un minimo di competenza tecnica, sappia programmare e sappia come funziona internet: chiunque abbia studiato un minimo, insomma) può svegliarsi la mattina e inventarsi una nuova applicazione della rete, basata su un nuovo protocollo, scrivere il codice e provarlo. Provate a fare la stessa cosa su altre tipologie di rete: un nuovo canale interattivo sulla tv digitale, un nuovo servizio sulla rete cellulare, o cose del genere: solo l'operatore, con un costo considerevole, può sviluppare e mettere in funzione un nuovo servizio (il corsivo è nostro).

"C'è un vantaggio in tutto ciò? Sì, enorme: l'innovazione.

"Senza questo principio" scrive Berretti "che noi tecnici chiamiamo il principio 'end-to-end', nuove applicazioni della rete non sarebbero mai nate. Internet non è nata per l'email, che è stata un'invenzione successiva venuta dall'uso pratico delle risorse di rete che i primi utenti andavano facendo. Tantomeno internet è nata per il web: il web è nato molto, molto dopo la rete, e inizialmente è stato solo una delle tante applicazioni, e non la più importante; il web l'ha 'inventato' uno specifico personaggio (Tim Berners-Lee), e la sua invenzione ha avuto successo dopo che è stata realizzata e messa alla prova nella pratica: avrebbe potuto non avere successo, come altre simili applicazioni (come il Gopher). (...)". Fin qui Berretti.


La cultura dell'innovazione

Chiaro, no? Sul bordo ci sono gli umani, non le macchine. Chiunque sappia farlo, può svegliarsi una mattina e provare un nuovo software che "fa" una cosa diversa, perché la rete, stupida, permette di farlo. Non è l'insieme di protocolli matematici che permette alla rete di sconvolgere la cultura. Sono le applicazioni che l'intelligenza umana produce, la sua visione delle cose, le soluzioni nuove a problemi vecchi, o nuovi problemi e nuove soluzioni, lavorando al bordo dell'intelligenza. Soluzioni nuove a problemi nuovi: Google. La necessità di cercare in modo efficiente attraverso grandi masse di dati proprio il dato giusto.

Non è un caso che in alcuni tribunali statunitensi si sia sostenuto che al codice andrebbe riconosciuta l'applicazione del Primo emendamento, cioè quello che riguarda la libertà di espressione: Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances ("Il Congresso non può fare leggi rispetto a un principio religioso, e non può proibire la libera professione dello stesso: o limitare la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea, e di fare petizioni al governo per riparazione di torti").

Scrivere codice significa scrivere istruzioni in un linguaggio leggibile dalle macchine ed è una attività destinata ad avere conseguenze sull'organizzazione della vita delle persone. Ha a che fare con la vita umana, con la creazione del pensiero umano. Si pensa il mondo e lo si "discute" scrivendo le proprie idee e facendole agire dalla macchina. Si applica dunque a questa attività l'emendamento che protegge il free speech, la libertà di parola. Quindi tutto è "scrittura" – anche le applicazioni: dal disegno dei siti all'aggregazione, da un messenger alla posta, dal modo di organizzare l'informazione dentro Google ai social network –, tutto è pensiero. È possibile leggerne contro luce la trama dei rapporti umani, la "cultura" che vi è connessa, come cerca di fare sempre il giornalismo. Ma è possibile farlo – ed è ipotizzabile capirlo – se accanto agli aoristi e al periodo ipotetico il "critico della rete" ha capito qual è il linguaggio umano e il fenomeno sociale che sta osservando. La "tecnologia" non esiste: è pensiero umano espresso in linguaggi diversi. Anche la matematica, per certi versi, è questo. Se si condivide questo concetto e resta chiaro che la rete "abilita" chi abbia la preparazione a costruire "nuovi mondi", se si intuisce che la rete è uno spazio non-vuoto ma libero, ridisegnabile a piacere, ci appare molto più chiaro come sia nato da circa vent'anni un "movimento" che produce avanzamento continuo e costante, in parte legato all'industria del software e quindi a driver puramente economici, in parte libero e autodiretto. Dal monitor dei geek di ogni parte del mondo vengono nuove proposte che vogliono cambiare il mondo. Riscriverlo, riformularlo in informazione pura. D'Alembert abita in Silicon Valley, e ciò che chiamiamo "internet" è un fenomeno sociale, economico e conoscitivo molto più ampio, destinato a non arrestarsi con le crisi economiche, in un certo senso il portato più profondo della globalizzazione – un ingegnere di Bangalore e un gruppo di tecnici di Shanghai possono quanto e più di una struttura tecnica europea ben pagata e "umanistica".

Ecco perché internet, cioè il digitale, non è "tecnica" ma una cultura. La cultura del nostro tempo. Non un contenuto.

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Capitolo 3
L'ossessione securitaria della politica



Come si diceva nel primo capitolo, non è questione di ignoranza. L'uguaglianza tra internet e pericolo è stata eretta a sistema molto presto. L'operazione-paura è nata con la rete e la accompagna, vero riflesso di un establishment — sia a livello dei singoli paesi che internazionali — che tende a chiudere la ferita di internet in modo conservatore. E anche se non mancano esempi di folclore locale meritevole di attenzione, come qualche deputata ex soubrette che ha sposato una campagna di isteria dove si mettono sullo stesso piano l'atto di scaricare un film e l'adescamento di minori, occorre iniziare a ragionare di questo fenomeno in termini geografici più larghi. Non sarà una campagna indignata a farlo sparire, perché si rifà a un complesso molto forte e radicato, a un vero tema della cultura di questi anni: la Paura. A giudicare da come vanno le cose, è più probabile che vincano loro, i censori e i professionisti dell'inquietudine. Ma vanno presi molto sul serio. Perché stanno già vincendo, e perché una rete irregimentata non serve più a nessuno. Tantomeno all'attività di libera espressione e al giornalismo critico. Anzi, la Paura è racconto. Racconto della rete. E del suo rigetto da parte di un intero establishment.


Cina e Iran

Il complesso paura-censura avvolge il mondo come la rete Internet. Si fa presto a dire che "noi siamo diversi dai cinesi". Se si va nel concreto, ci si convince che i cinesi pestano solo più forte sui tasti dello stesso strumento musicale. Ma lo fanno con una loro genialità che domina l'ambiente, ne stabilisce i confini, ne setta gli standard, lavora a una vera e propria cultura del controllo sociale, cui si rifanno, in modo nemmeno così nascosto, anche regimi che pretendono di essere profondamente diversi da quello di Pechino.

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Il reticolo legislativo italiano e il "reato d'opinione"

Nonostante la continua – fin dagli anni Novanta – attività di legiferazione in materia, è come se il bisogno di normare la rete soffrisse in questo paese di una bulimia inesauribile. Fin dagli anni dei governi di centrosinistra, si è discusso di norme che prevedessero il filtraggio dei contenuti. Su questo punto è meglio esser chiari: non c'è nella sinistra italiana un'idea chiara di cosa sia la libertà della rete: per alcuni chi scarica contenuti coperti da diritti è un pirata (magari per la paura di perdere il sostegno di qualche produttore cinematografico), per altri la rete è un potenziale deposito di violenza (come se il problema non fosse nella ricerca di quei contenuti), altri ancora invocano qui e subito la censura. A uno dei più autorevoli fra loro, per fortuna in quel momento all'opposizione, è scappato in un disegno di legge – corretto solo in seguito alle proteste ricevute – un obbligo di registrazione dei blog che è parente molto vicino di quello iraniano.

E gli altri? Le altre forze politiche? Non occorre ricordare ai nostri lettori il capolavoro ideologico compiuto dal senatore D'Alfa nel febbraio del 2009, per fortuna corretto a seguito di una forte campagna stampa e dell'impegno di alcuni rappresentanti di entrambi gli schieramenti che in seguito hanno anche fondato un "Intergruppo parlamentare 2.0" che nei primi mesi della sua attività non sembra aver prodotto tuttavia grandi risultati. Il capolavoro insisteva ancora una volta su un principio derivato dal codice penale, quello dell'istigazione a delinquere, per applicarlo alla rete. Abbiamo già ribadito la nostra avversione all'idea che internet sia uno spazio a parte, non normabile e non intangibile, ma applicare l'istigazione a delinquere a forme di espressione umana che attengono al campo delle opinioni e del pensiero, porta fatalmente alla fattispecie del reato d'opinione. Una figura giuridica che con il crescere della vita democratica avrebbe dovuto scomparire, ma che invece assume sempre più forza nel paese.

Nel periodo tra l'approvazione dell'emendamento D'Alia e la sua cancellazione (aprile 2009) c'è stata la grande opportunità di ascoltare le posizioni di singoli rappresentanti politici in materia. E non è stato sorprendente che perfino tra i più avvertiti vi sia l'idea che "vanno repressi i comportamenti proposti". Nemmeno la Democrazia Cristiana al governo si era sognata di punire chi urlava in piazza "lo Stato borghese si abbatte, non si cambia", e non certo per collusione con il terrorismo, ma per semplice distinzione giuridica (e di buon senso) che parole e atti sono elementi differenti.

L'Italia è all'avanguardia planetaria della riscoperta del reato d'opinione. Che ha una data molto precisa: l'11 settembre del 2001, punto in cui paura e repressione del pensiero si coniugano nella Guantanamo culturale cui ha voluto soccombere il pensiero politico occidentale – di gran parte dei paesi occidentali – di fronte alla rete. Terrorismo, reclutamenti di Al Qaeda, pedofilia, nazismo e antisemitismo, cannibalismo e via delirando. È stato creato un clima culturale di ricatto e paura nel quale la sola perorazione della libertà di espressione ha provocato, in sedi ufficiali e da parte di parlamentari italiani, l'accusa di complicità con i pedofili. Preveniamo le possibili obiezioni e ci permettiamo di fornire una interpretazione più politica: il personale politico vecchio e nuovo manca della capacità di leggere al di là della trama degli interessi minacciati e di trovare soluzioni che non siano esclusivamente quella del divieto e della punizione.

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In Italia assistiamo a progetti di legge che parlano di sicurezza per i minori, e che in realtà si occupano di diritti d'autore. Nel "decreto-intercettazioni" – testo profondamente lesivo della libertà di esercizio del mestiere di giornalista – si introduce un articolo che con il pretesto del diritto di rettifica espone il blogger a qualsiasi intimidazione (e su questo c'è stata una significativa manifestazione a Roma il 14 luglio 2009, primo caso di mobilitazione di blogger "nel mondo reale" e sul terreno della politica).

Ma non basta: il reticolo legislativo italiano che, pensando di dare risposta a singoli problemi, si stringe invece attorno al libero uso della rete per creare un'atmosfera avvelenata, serve in modo molto trasparente interessi costituiti. Si veda la costituzione presso la Presidenza del Consiglio del Comitato tecnico contro la pirateria digitale e multimediale. Al suo interno, se non nella forma della consultazione, non viene prevista in alcuna forma la presenza degli utenti o di componenti culturali che possano mettere in discussione la "definizione" del problema da affrontare – si potrebbe cominciare dal nome stesso, pirateria: che cos'è pirateria?). Il comitato e le leggi del reticolo sono l'immagine di un establishment che si protegge con la repressione fondando sulla profonda e mancata comprensione dei fenomeni. Non sono interessati a capire la società digitale. Vogliono cancellarla dal loro orizzonte e da quello degli italiani.

Abbiamo proposto una internet senza regole? Rispondiamo con le parole di Sergio Maistrello, autore con cui concordiamo: "Parto dalla conclusione, perché vorrei che questa fosse più chiara che mai: internet non ha nessun bisogno di nuove leggi. La rete non è un luogo altro: fa parte della nostra vita sociale, che è già ampiamente regolata da norme e sanzioni. Sbaglia, per ignoranza o per malafede, chi definisce internet un far west senza regole. Disperde energie chi si batte per replicare previsioni che già esistono e che potrebbero semplicemente applicate senza ricorrere alla demagogia e senza moltiplicare l'entropia legislativa. Perde un'opportunità di onorare la nostra democrazia chi si intestardisce a sostenere regolamenti destinati per banale evidenza tecnologica a non sortire effetto alcuno, quando non addirittura a far danni" [ link ]

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Secondo alcuni osservatori, come Luca De Biase, la risposta al sovraccarico di informazione nascerà dal compimento del passaggio dalla situazione attuale all'economia postindustriale della conoscenza, di cui la rete è incubatore naturale. Sostiene De Biase [ link ] che "c'è una spinta molto forte di natura finanziaria e iperconsumistica che cerca di imporre una strategia della disattenzione (...). Essa sfrutta i meccanismi della reiterazione ossessiva dei messaggi per determinare nelle persone una sorta di sospensione del giudizio critico in favore di un automatismo della risposta allo stimolo. Su queste risposte meccaniche si basa una politica di marketing e di consumo".

Poiché nell'economia dell'abbondanza di informazione la risorsa più scarsa è proprio l'attenzione, e ragionare ne richiede di più che agire d'impulso, il sovraccarico di informazione gioca a favore di chi inquina il sistema e ripete ossessivamente ai cittadini il suo impulso ad agire. Si tratti dell'acquisto di pannolini o della scelta elettorale, drammatizzazione, urgenza, ansia, stimolo parossistico non contribuiscono mai a decisioni ponderate dei cittadini. Si agisce piuttosto – sostiene De Biase – con la prima cosa che viene in mente. Decisioni che di rado sono sagge. Come il brodo biopolitico nel quale siamo immersi testimonia quotidianamente. Fino a qui, dunque, è difficile dargli torto.

Eppure l'abbondanza di conoscenza disponibile dovrebbe poter permettere un esito diverso. L'innovazione, secondo i suoi apologeti, conterrebbe già in sé anche le possibili premesse di un esito positivo. Secondo De Biase, l'economia della conoscenza nella sua realizzazione implica "una grande trasformazione nelle forme della proprietà, dell'organizzazione produttiva, del rapporto tra pubblico e privato. Cambiano il concetto di scarsità, che non si applica più soltanto ai mezzi, ma anche alle molteplici dimensioni della relazione umana: fiducia, attenzione, comprensione. Il prezzo si determina tanto nella conversazione quanto nella contrattazione. L'elaborazione di una visione diviene la questione strategica dell'azienda, il laboratorio di ricerca — con l'incertezza dei suoi risultati — entra a far parte integrante del processo produttivo, la tecnologia cessa di essere il limite del possibile per trasformarsi nel suo costante superamento. Il design diventa progettazione e racconto, i media diventano distribuzione e conversazione, gli autori diventano generatori di valore e di motivi di connessione tra le persone. I fruitori e i produttori tendono in molti casi a coincidere. E la complessità prende il posto della linearità: perché nella smaterializzazione della produzione, la cultura diventa il luogo dell'economia, molto più di quanto non lo sia la fabbrica, il mercato o l'ufficio".

Chi — senza alcuna ironia — non vorrebbe vivere in un mondo così? Una sorta di giardino dell'Eden della conoscenza in cui il potere ha solo il volto della virtù e i conflitti non sono contemplati. È sul come arrivarci che l'analisi di De Biase è molto meno convincente. L'ecosistema della conoscenza, afferma, ce la può fare perché è sostenibile. "(...) L'ecosistema della conoscenza vive in modo sano se coltiva l'infodiversità, se i messaggi deboli e non urlati non sono continuamente cancellati dalla violenza dei predatori che puntano tutto sulla strategia della disattenzione. Se gli esperti, gli scienziati, gli artisti non sono costretti a trasformarsi in comunicatori con l'altoparlante sempre acceso solo per farsi notare. Se l'ecosistema trova il giusto spazio per tutti, senza selezionare a priori soltanto quelli che sanno occupare il palcoscenico. La coda lunga dei contenuti che un ecosistema sano della conoscenza può far vivere può essere valorizzata soprattutto nel caso che tra i gruppi sociali che generano informazione sussista una relazione di simbiosi, non solo di caccia e di lotta per la sopravvivenza. La simbiosi si mostra nei casi in cui la relazione tra due specie è tale che ciascuna non vive senza l'altra. In un certo senso, un grande motore di ricerca sul web non vive senza una'grandissima quantità di piccoli siti interessanti per poche persone; e questi non vivono senza che un grande motore di ricerca consenta a poche o tante persone di trovarli. Analogamente, nel nuovo contesto della rete, gli autori, il pubblico attivo, gli editori, i gestori delle piattaforme di distribuzione e di accesso sono potenzialmente specie simbiotiche: nessuna di queste 'specie' vive bene se non trovando il modo di servire le altre. Se una di queste specie tende a dominare parassitariamente l'ecosistema, se vive alle spalle delle altre mettendole in una condizione di silenzio, che nel mondo dell'informazione equivale all'estinzione, l'infodiversità sparisce e l'ecosistema dell'informazione si impoverisce. In particolare, gli editori simbiotici sono servitori del pubblico più che conquistatori di target: la rete ha bisogno di editori che facciano da filtro nella quantità di informazioni disponibili, seguendo una linea interpretativa trasparente e riconoscibile. Mentre i gestori di piattaforme servono simbioticamente gli editori, il pubblico attivo e gli autori ne favoriscono l'infodiversità senza tentare di controllarla".


I signori delle piattaforme

In sostanza, parafrasando e sintetizzando De Biase, in questo circolo virtuoso della conoscenza la simbiosi tra diverse specie consentirebbe sviluppo e spazio per tutti.

Ma non è così. E ciò per tre motivi:

a. la fortissima asimmetria nei rapporti di forza e nel numero dei soggetti in gioco;

b. la diversa natura nel dna costitutivo delle specie che partecipano alla partita;

c. la scarsità della risorsa fondamentale, dell'ossigeno al quale tutti aspirano.

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Google e la censura

In alcuni casi è stato dimostrato come Google filtri i risultati dell'algoritmo per renderli più o meno conformi ai propri fini. È accaduto in Cina, dove per compiacere il regime i risultati di alcune ricerche vengono addomesticati. Su Blogoscoped è possibile trovare ancora alcune immagini, realizzate a partire dal 2006, che paragonano i risultati che si ottengono attraverso la versione americana e quella cinese di Google. Cercando il nome del movimento filosofico religioso Falun Gong, posto fuorilegge dalle autorità, si ottengono le versioni di regime sui rischi che l'aderire alla setta comporta, mentre solo l'anno scorso, in occasione delle Olimpiadi a Pechino, è terminato l'oscuramento nei confronti dell'organizzazione Human rights watch, che si batte per il rispetto dei diritti umani. Malgrado Sergey Brin, uno dei fondatori del motore, abbia riconosciuto due anni fa [ link ] che l'autocensura in Cina messa in atto dalla società sia stata negativa, la pratica continua. Sulla possibilità di chiedere alle autorità cinesi di rimuovere i blocchi imposti alla società per operare nel paese, l'amministratore delegato di Google Eric Schmidt ha dichiarato: "Sarebbe arrogante per noi entrare in un paese in cui abbiamo appena iniziato a lavorare e spiegare a quel paese come bisogna comportarsi" [ link ]. Tuttavia oggi, nella maggior parte dei casi, quando una fetta dei risultati è censurata, a fondo pagina appare un avviso in corsivo che almeno lo notifica all'utente: "In adempimento a quanto previsto da leggi e regolamenti locali" si legge, "alcuni risultati della ricerca non appaiono".

Esistono diversi sistemi per censurare i risultati di una ricerca online. A volte alcuni url sono rimossi completamente dall'indice. È il caso, per esempio, delle 2,5 milioni di pagine dei notiziari della Bbc: se si testa la ricerca su Google.cn si ottengono zero risultati. Altre volte Google agisce sul ranking, ovvero sul posizionamento in classifica, oppure rimuove tutti i risultati legati a una specifica parola chiave, come accade per una ricerca con i termini "massacri di piazza Tien an men". Spesso i risultati sono oscurati solo su Google.cn, e dunque sarebbero raggiungibili qualora ricercati attraverso la versione internazionale del motore, Google.com. Ma in questo caso sono le zelanti autorità del paese a completare l'opera, rendendo Google.com irraggiungibile ai 180 milioni di compatrioti che navigano il webv [ link ]. C'è da dire che non è solo Google a comportarsi così: malgrado le reiterate promesse di cambiare registro, anche Yahoo! e Microsoft filtrano i propri risultati per compiacere le autorità.

Abbiamo visto dunque che, su richiesta di un governo non democratico, Google accetta di modificare i risultati naturali del proprio algoritmo. Ma questo non accade solo in Cina. Avviene anche in Europa, per adempiere alle richieste di poteri esecutivi democraticamente eletti come quello francese e quello tedesco [ link ]. Sia in Francia che in Germania, infatti, esistono prove di siti oscurati da Google su richiesta delle autorità locali. Nella maggior parte dei casi si tratta di siti classificati come neonazisti o pedopornografici. Ma quel che interessa qui non è la correttezza o meno della scelta di censurarli, quanto il fatto stesso che ciò possa accadere. In effetti, secondo alcuni osservatori indipendenti, le pagine oscurate da Google in diverse zone geografiche e per diverse motivazioni, ammontano ad alcune centinaia di milioni. Il punto è che la censura digitale è silenziosa, pulita, educata, e scandalizza meno di quella fisica. Come nota Philipp Lenssen, non vedremo nessuno accendere fiammiferi o bruciare libri per le strade. La parcellizzazione del lavoro e le tecnologie rendono possibile – attraverso una combinazione di atti che singolarmente presi non sarebbero disdicevoli – arrivare al risultato di rimuovere dalla memoria di un paese documenti, testi, foto, video, che in alcuni casi possono essere costati il carcere o l'esilio a chi li ha realizzati. E, per la prima volta nella storia, ciò può avvenire senza che vi sia un responsabile fisicamente raggiungibile dalle popolazioni colpite dalla sua condotta, e senza che il suo comportamento sia scrutinabile o comunque posto sotto la giurisdizione di un potere che abbia ottenuto la delega popolare a tutelare leggi e libertà. Basta girare un quarto di vite a Mountain View per far sparire la realtà a Roma o a Singapore. E, ancora più sottilmente, spesso questa condotta non è nemmeno identificabile con certezza.

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Abbiamo raccontato come Google sia il paradigma stesso della realtà per nove utenti di internet su dieci in Italia. Abbiamo visto come abbia la leadership assoluta del mercato pubblicitario a performance, come intermedi tecnicamente attraverso AdSense e DoubleClick più della meta degli annunci globali della rete. Abbiamo spiegato come le informazioni messe a disposizione dalla società agli utenti di questi servizi, siano essi inserzionisti o editori, sono opache e comunque unilaterali, ovvero non certificate da terze parti. Abbiamo ripercorso il meccanismo di formazione del prezzo nell'asta e ci siamo resi conto di come esso sia influenzato da parametri qualitativi e da altri elementi di esclusivo appannaggio di Google. Abbiamo notato inoltre come nel ranking attribuito da Google alla visibilità dei siti attraverso la ricerca naturale esistano brusche e improvvise variazioni, e come queste si possano tradurre nella vita o nella morte di un modello economico. Venendo all'Italia, abbiamo notato come il 40% del fatturato della pubblicità digitale sia oggi in mano a Google. Abbiamo letto come gli stessi fondatori di Google, Brin e Page, nella loro tesi di dottorato, avessero affermato che mescolare ricerca e pubblicità potesse essere particolarmente pericoloso per gli utenti, tanto da consigliare la realizzazione di un motore slegato da un modello di business, incardinato all'interno di una realtà accademica.

Curiosamente, undici anni dopo, l'idea che un motore di ricerca per la rete sia una faccenda troppo seria e importante per lasciarla a una società privata è la stessa conclusione alla quale giunge anche Cory Doctorow, scrittore e futurologo canadese, in un commento per il Guardian [ link ]: "La ricerca", scrive Doctorow, "è l'inizio e la fine di internet (...) I motori di ricerca accumulano catalogazioni complete dei nostri interessi, dei nostri amori, delle nostre speranze e delle nostre aspirazioni. La nostra relazione con essi è intima quanto quella con i nostri amanti, i nostri confessori, i nostri terapisti". Il posizionawento, aggiunge Doctorow, è la questione centrale: "Avere un cattivo posizionamento da parte di un motore ti rende irrilevante, fallito, invisibile. Inoltre i motori spesso fanno sparire siti per la violazione di regole non pubbliche e invisibili. Molti di questi siti sono spammer, (...) ma non c'è da meravigliarsi: ogni ecosistema complesso ha i propri parassiti". Il posizionamento è una faccenda troppo importante, argomenta lo scrittore, perché a qualcuno non venga voglia di provare qualsiasi cosa per stare in cima. Di qui, anche ammesso che vogliano agire correttamente, il potere di vita e di morte sulla visibilità conferito ai motori. "Ma è un'idea terribile", prosegue Doctorow, "conferire tutto questo potere a una sola azienda, anche a una divertente, attenta ai propri utenti e tecnologicamente eccellente come Google". E conclude: "La questione di quel che possiamo o non possiamo vedere quando cerchiamo risposte richiede una soluzione trasparente e partecipata. Non c'è dittatore abbastanza benevolo cui poter conferire il potere di determinare la nostra agenda politica, commerciale, sociale e ideologica. È un potere che deve spettare ai cittadini. Messa in questi termini, la faccenda pare quasi ovvia, se i motori decidono la pubblica agenda, allora dovrebbero essere pubblici. Quel che non è ovvio è come raggiungere un tale obiettivo".

Esserne ereticamente consapevoli è già un primo passo.

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Capitolo 9
Il reboot del giornalismo



Abbiamo visto fin dal primo capitolo come alla rete e al giornalismo siano necessarie tre eresie. Come abbiamo raccontato spiegando il progetto alla base di questo volume, da una parte c'è un establishment dell'informazione che fa grande fatica a capire che deve cambiare registro, strumenti e metodo nel fare il suo lavoro. Dall'altra c'è la difficoltà di chi invece è nativo della rete nel comprendere i conflitti e le asimmetrie che si stanno formando dentro la rete, con rendite nuove e già molto forti. Sullo sfondo c'è la politica, che non capisce o fa finta di non capire, e che quando interviene sui temi della rete o dell'informazione lo fa in modo censorio e comunque poco tutelante della pluralità e delle libertà. Oppure si appropria del meccanismo della rete in favore della demagogia e dell'ascesa di nuovi tribuni. Su tutto ci sono le piattaforme, ovvero i nuovi mediatori del potere economico in rete.

Se queste parallele continuano a non intersecarsi è difficile produrre cambiamento. Il loro incontro, secondo noi, è possibile soltanto attraverso l'eresia [ link ]. In primo luogo dei giornalisti, chiamati a rimettersi in gioco e ad abbandonare rassicuranti e morenti rendite di posizione. Il contenuto, il giornalismo come insieme di criteri del mestiere e di rigore professionale, di capacità di racconto dei meccanismi del potere, va rimesso al centro di un universo digitale del quale non ha più esclusiva di rappresentazione.

Si tratta di realizzare un modello aperto, dove il valore della testata – la credibilità e il rapporto di fiducia con i lettori che essa rappresenta — sia recuperato e presente in ogni frammento dell'informazione. È un mondo che non fa più sconti, che costringe all'eccellenza, che rimette al centro la notizia, che permette di riscoprire il valore del locale, dove i fatti sono più vicini a chi li racconta e a chi li vive, il confronto più serrato. Una realtà in cui i vari atomi digitali di una narrazione — un testo, il video, l'audio, i link — vanno ricomposti in una molecola di senso chiamata storia, che vive nella rete e si confronta dialetticamente con altre voci.

Ciò sta già comportando la nascita di nuove professionalità, come il social media editor (figura presente sia al New York Times sia al Telegraph), incaricate di promuovere i contenuti del giornale all'interno dei grandi social network e di monitorare ciò che vi accade per cogliere i temi che possano diventare occasione di notizia o di campagna da parte del giornale. O di programmatori, sviluppatori di codice che in squadre miste siedono a fianco di giornalisti, quando non lo siano essi stessi, per realizzare prodotti informativi che siano anche vere e proprie applicazioni da far girare in rete.

Di tutto ciò parleremo in questo capitolo, che ha al centro la rifondazione del giornalismo. Ma prima è necessario capire come siamo arrivati fin qui. Come la crisi del settore editoriale — strutturale e non solo congiunturale — abbia cambiato per sempre lo scenario in cui esercitare il mestiere.

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APPENDICE
Dieci tesi. Una proposta di conversazione.
Un progetto aperto



La rete è in pericolo, il giornalismo pure: come salvarsi con un tradimento


            "Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo sul suo tempo per
            percepirne non le luci, ma il buio. Contemporaneo è colui che riceve
            in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo. (...)
            Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui
            che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese,
            ed è per questo inattuale. Ma proprio grazie a questo scarto e questo
            anacronismo è in grado più degli altri di percepire e afferrare il suo
            tempo".

            Giorgio Agamben



I media sono in crisi, ma la rete rischia di sparire come luogo di libera comunicazione. Il giornalismo, che serve per la democrazia, rischia di affondare. La nuova opinione pubblica fa fatica a comprendere i rischi cui è sottoposta la libertà di espressione. Tutta la libertà di espressione, non soltanto quella degli addetti ai lavori. L'esito negativo non è scontato. Ma per cambiare le cose è necessario rileggere i rapporti tra rete e media con un approccio "eretico", che tradisca alcuni dogmi. Una duplice eresia — dei chierici del giornalismo e dei cittadini della rete — che crei il nuovo racconto dei media.


I neoluddisti, l'agiografia della rete e, al centro, il moloch del potere

Tre generi di dogmi hanno urgente bisogno di essere demoliti:

• quelli del potere, che tende a legittimare solo il "racconto" dei media che gli sia mimesi e consenso;

• quelli della corporazione, che scambia il supporto, la carta, con la natura del giornalismo;

• l'apologetica del digitale che preconizza la nascita di una società virtuosa perché tecnologica e si affida alle "piattaforme", raccontando di uno sviluppo senza conflitti e buono in sé.


Noi proponiamo alla conversazione della rete dieci tesi, un progetto aperto.

[...]


III. L'ossessione securitaria della politica e la libertà d'accesso fatta a fette


Il potere politico fatica a comprendere le potenzialità del digitale e vi si accosta solo per regolamentare, troncare, sopire e per costruire una società nella quale la rete sia ridotta a piattaforma-media. L'ossessione securitaria poggia su un racconto della rete che indica solo le sue negatività, i suoi nodi, l'antropologia impazzita che la rete produrrebbe.

È una rappresentazione reazionaria e autoritaria che ha ormai disegni diversi ma molto determinati e chiari: la regolamentazione europea in sede di direttive su Telecom, privacy e protezione dei minori contiene gravi minacce censorie. Il potere ha sempre meno pudore nel parlare di filtri e censure.

Il quadro nazionale è perfino peggiore. Gli epifenomeni di alcuni deputati quando si parla di "pirateria", che ingiustamente riteniamo folcloristici, segnalano una tendenza alla pura e semplice regolamentazione autoritaria della rete. Che coincide in modo quasi perfetto con l'affettamento della libertà d'accesso che le Telecom chiedono alle autorità europee e nazionali (neutralità della rete).

[...]


VII. L'habeas corpus va esteso all'habeas data


I dati personali sono il nuovo habeas corpus violato quotidianamente dalle grandi piattaforme. Anzi, come sostiene il giurista Stefano Rodotà, bisognerebbe arrivare alla definizione di un vero e proprio diritto personale e inviolabile all' habeas data. Pubblicità, e-commerce, portabilità dei dati personali: su questo terreno si ridefiniscono i diritti individuali nella società digitale.

Solo un'informazione non subordinata al potere delle piattaforme può aiutare cittadini, legislatori e portatori di interesse a compiere le scelte in modo consapevole.

[...]


X. La proprietà pubblica del racconto, dei racconti: la libertà della rete


Il potere concepisce il giornalismo come separazione delle persone da se stesse e dalla loro realtà. Il discorso dei media in una democrazia sempre più "difettosa" tende a diventare racconto del potere, costruzione di un immaginario di bisogni omogeneo ai propri fini e omologazione valoriale. È vero, questa ricostruzione risente del "caso italiano", ma è pur vero che l'Italia sta segnando in questo senso un'esperienza di confine, un leading case del racconto mediale alienato.

Sotto questo aspetto la rete è un vero nemico: in quanto luogo/mezzo di esperienze altre, di potenziale costruzione di altri percorsi, di germoglio di altre opinioni pubbliche e private, la rete è una anomalia internazionale, naturale contropotere. I racconti sono eversori del Racconto. Questa è la sfida: difendere la pluralità dei racconti.

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