Copertina
Autore Marino Ruzzenenti
Titolo Shoah. Le colpe degli italiani
Edizionemanifestolibri, Roma, 2011, La nuova talpa , pag. 200, cop.fle., dim. 14,3x21x1,5 cm , Isbn 978-88-7285-678-9
PrefazioneMoni Ovadia, Brunetto Salvarani
LettoreGiovanna Bacci, 2011
Classe storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 1920 , paesi: Italia: 1940 , storia criminale , shoah
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Indice


Prefazione                                                      7
di Moni Ovadia

Premessa                                                        11

I parte                                                         13
La gestazione cattolica delle leggi antisemite del 1938.
Il caso di Mario Bendiscioli

II parte                                                        81
I fascisti italiani protagonisti della distruzione degli ebrei.
Il caso della capitale della Rsi

Epilogo                                                         159

Postfazione                                                     195
di Brunetto Salvarani



 

 

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Pagina 7

Prefazione
di Moni Ovadia



Questo è un libro importante, che pone questioni rischiose e delicate, e per questa ragione ritengo che necessiti di alcune premesse non eludibili.

La prima premessa riguarda un equivoco assai diffuso e di rilevanza generale. I rappresentanti istituzionali di una nazione pensano quasi sempre che minimizzare le responsabilità delle classi dirigenti che hanno governato quella nazione nelle epoche tragiche della sua storia, sia un modo per difenderne la moralità, il valore intrinseco e risparmiarle un giudizio che ne sminuirebbe il ruolo e l'autorità nel consesso delle Nazioni.

Se, dall'ambito molto generale, cominciamo a limitare l'oggetto dell'indagine a un periodo storico circoscritto ma particolarmente significativo per la nostra storia recente, ovvero il secondo conflitto mondiale, possiamo facilmente verificare che la quasi totalità dei governi e delle istituzioni nazionali che si sono macchiati di crimini contro l'umanità, di maggiore o minore rilevanza, hanno cercato di negarli, di sminuirne la portata o di giustificarli. Lo hanno fatto l'Italia, l'Austria, il Giappone, per citare solo i più noti. L'Italia, per fermarci al cortile di casa, ha visto le principali istituzioni di governo, di maggioranza e non solo, mettere in atto ogni forma di propaganda, di omissione o di sottovalutazione e di disinformacia allo scopo di fare passare per oro colato il luogo comune degli "Italiani brava gente". Luogo comune trito e menzognero, come questo studio di Marino Ruzzenenti mostra con accurata documentazione e come ha già mirabilmente raccontato il professor Del Boca nel suo libro omonimo. Naturalmente in Italia ci sono state, e ci sono, tantissime brave persone, ma questo non è in nessuna misura attribuibile alle istituzioni tout court, né allora, né ora.

Il fascismo italiano si macchiò in proprio, in solido con i nazisti tedeschi e con i cattolicissimi Ustascia croati, di atroci crimini, primo fra tutti il genocidio dei libici in Cirenaica. Il fascismo fu un regime totalitario e assassino, razzista e infame che espresse l'apice di questa sua vocazione nella criminale stagione della RSI. Benito Mussolini fu un criminale di guerra, un traditore della peggiore risma con il suo popolo e persino con i suoi camerati, e segnatamente con gli ebrei. La monarchia sabauda fu pienamente e vigliaccamente prona e consenziente verso i crimini fascisti.

Tutte le principali istituzioni furono complici della persecuzione degli ebrei, nella migliore delle ipotesi tacquero. Il miserabile esempio di servilismo della quasi totalità dei professori universitari di fronte al regime e all'espulsione che questo decretò dei loro colleghi ebrei è paradigmatico. Per sapere che sarebbe stato possibile agire diversamente, anche in misura radicale, non è difficile, oggi, informarsi sui fulgidi esempi della piccola Bulgaria e della piccola Danimarca.

La seconda premessa riguarda le responsabilità del Vaticano, delle sue gerarchie e di moltissimi cattolici nei confronti della persecuzione antisemita. Questa seconda premessa necessita a sua volta di una premessa ulteriore: vi furono religiose e religiosi cattolici, preti e monache che si spesero e rischiarono la vita per proteggere e salvare gli ebrei perseguitati. Non solo. Vi furono anche alti prelati che fecero altrettanto. Basti per tutti il nome di Angelo Roncalli, allora presule in Turchia e che in seguito sarebbe stato Papa Giovanni XXIII. Lo stesso Pio XII ordinò di aprire i conventi per accogliere gli ebrei perseguitati. Detto questo possiamo assumere come coordinate di riferimento per il nostro discorso, una riflessione del premio Nobel per la Letteratura, Imre Kertész, ebreo ungherese deportato da fanciullo ad Auschwitz e la dichiarazione solenne del 1995 del Sinodo dei vescovi tedeschi sulla shoà. Kertész sottopone al nostro giudizio questa innegabile evidenza: tutti gli aguzzini nazisti ebbero educazione cristiana o cattolica. I vescovi cattolici tedeschi nel cinquantesimo anniversario della caduta dei cancelli di Auschwitz dichiararono: i cattolici tedeschi durante lo sterminio nazista furono, nel migliore dei casi, indifferenti, più spesso complici.

Fatte queste premesse, il libro di Marino Ruzzenenti critica autorevolmente, sulla base di una vasta e approfondita analisi di fonti documentali, la tesi ufficiale del Vaticano secondo la quale l'antiebraismo e l'antigiudaismo tradizionale cattolico furono altro rispetto all'antisemitismo biologico e sterminatore dei nazisti, e che non solo furono altro, ma addirittura lo contrastarono, svolgendo un ruolo di attenuazione della tragica deriva antisemita virulenta che il fascismo avrebbe imboccato senza la provvidenziale canalizzazione dell'odio per gli ebrei nel contesto del "ragionevole" antiebraismo cattolico.

Questa posizione "farisaica" e "prudenziale" costituisce a mio modesto parere un grande vulnus per la Chiesa Cattolica. Uno dei risultati marginali ma indicativi di questo atteggiamento è il fatto che ancora oggi due prestigiosissime istituzioni come l'Università Cattolica degli Studi di Milano e un grande Ospedale di Roma siano intestate a Padre Agostino Gemelli, uno dei più feroci e spietati antisemiti di tutto il Novecento in Italia.

L'altro vulnus che la Chiesa cattolica si autoinfligge ad opera di quelle gerarchie che hanno scelto la via "farisaica" è la improponibile giustificazione del silenzio di Papa Pacelli di fronte allo sterminio degli ebrei. La prova che si poteva agire con ben altri esiti l'ha data il metropolita della Chiesa Cristiana Ortodossa bulgara. Il metropolita Stefan, tuonando minacciosamente contro i nazisti e denunciando il loro progetto di deportazione degli ebrei, contribuì in modo decisivo a salvare 48000 cittadini bulgari, esseri umani colpevoli solo di essere quello che erano. Da ultimo, non si può dimenticare che, anche alla fine del conflitto, la Chiesa di Papa Pacelli protesse nelle chiese e nei conventi i peggiori criminali nazisti e ne organizzò la fuga nei paesi delle disponibili dittature fasciste sudamericane, sottraendoli così alla giustizia.

La tesi di questa opera, che condivido pienamente, è che l'antigiudaismo e l'antiebraismo cattolico e cristiano siano in diretta e inscindibile relazione con l'antisemitismo nazista e che, senza l'intossicazione dell'odio verso gli ebrei provocato da secoli e secoli di una evangelizzazione pervertita che ha fomentato l'odio invece dell'amore, lo stermino degli ebrei non avrebbe potuto essere perpetrato con la ferocia e la vastità che conosciamo. Personalmente mi auguro che il libro di Marino Ruzzenenti inauguri una stagione di studi coraggiosi che portino al pieno riconoscimento delle responsabilità, riconoscimento che solo potrà garantire un futuro migliore e più degno a istituzioni e nazioni. Lo dimostra il caso dell'odierna Germania che si è confrontata con il massimo rigore con il proprio passato e che per questo è una delle nazioni più affidabili sul piano della credibilità democratica. La sua cultura e la sua economia sono accolte e rispettate con particolare favore proprio nei luoghi e nei paesi che più duramente conobbero l'orrore nazista.

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Premessa



Ad oltre 65 anni di distanza dalla tragedia della Shoah gli italiani devono ancora percorrere molta strada nella conoscenza di quanto realmente accadde nel nostro Paese, dei processi di lungo periodo che portarono a quell'esito orribile, delle responsabilità del cattolicesimo e delle colpe del fascismo.

In questo saggio si intende discutere di questo, analizzando in profondità due pagine inedite, ma altamente significative di quella vicenda.

Innanzitutto si indaga sul ruolo che svolse il cattolicesimo italiano, attraverso la figura chiave dell'intellettuale Mario Bendiscioli, nella gestazione delle leggi antisemite del 1938.

In secondo luogo, considerando il caso altamente rappresentativo della capitale della Rsi, si documenta come i fascisti della Repubblica sociale furono protagonisti di primo piano, spesso in competizione con gli stessi tedeschi, nella caccia agli ebrei e nel loro invio allo sterminio.

Ciò che emerge pone indubbiamente molti interrogativi inquietanti, in particolare nell'attuale tornante della nostra storia che sembra, "sorprendentemente", mettere a nudo un profondo animus razzista insinuato in tante pieghe della società.

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PRIMA PARTE
LA GESTAZIONE CATTOLICA DELLE LEGGI ANTISEMITE DEL 1938.
IL CASO DI MARIO BENDISCIOLI



La questione del rapporto tra mondo cattolico italiano e antisemitismo rimane ancora tema controverso sul piano storiografico, sia perché gli archivi vaticani del periodo di Pio XII sono in gran parte ancora inaccessibili, sia perché siamo il Paese che ospita il Vaticano, sia perché è in corso la beatificazione dello stesso Pio XII con le conseguenti reazioni del mondo ebraico.

Ad oggi la storiografia cattolica ha cercato in ogni modo di accreditare una sostanziale distinzione tra il tradizionale antigiudaismo cristiano, con motivazioni religiose e che affonda le sue radici nel Medioevo, e l'antisemitismo razzista che all'Italia sarebbe stato imposto dall'alleanza con il nazismo, una sorta di forzatura estranea all'ambiente ed alla cultura del nostro Paese. Tra i due, comunque, non vi sarebbe alcuna continuità bensì una netta cesura, come ribadisce il documento ufficiale della Chiesa cattolica licenziato nel 1998 dalla Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo, "Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah":

Non si può ignorare la differenza che esiste tra l'antisemitismo, basato su teorie contrarie al costante insegnamento della Chiesa circa l'unità del genere umano e l'uguale dignità di tutte le razze e di tutti i popoli, ed i sentimenti di sospetto e di ostilità perduranti da secoli che chiamiamo antigiudaismo, dei quali, purtroppo, anche dei cristiani sono stati colpevoli.

In sostanza, l'antisemitismo viene ridotto solo all'ideologia di "non pochi aderenti al partito nazista [che] mostrarono avversione all'idea di una divina Provvidenza all'opera nelle vicende umane, [e che] diedero pure prova di un preciso odio nei confronti di Dio stesso [giungendo] al rigetto del cristianesimo, e al desiderio di vedere distrutta la Chiesa o per lo meno sottomessa agli interessi dello Stato nazista", ovvero i vari Rosenberg, Himmler, Darrè, Streicher..., il "gruppo di criminali", come avrebbe detto Benedetto XVI; quindi questo antisemitismo, circoscritto al cosiddetto "neopaganesimo nazista", viene espunto in toto dalla cultura cattolica e cristiana e viene caricato in esclusiva di tutta la responsabilità della Shoah

Fu questa ideologia estrema che divenne la base delle misure intraprese, prima per sradicare gli ebrei dalle loro case e poi per sterminarli. La Shoah fu l'opera di un tipico regime moderno neopagano. Il suo antisemitismo aveva le proprie radici fuori del cristianesimo e, nel perseguire i propri scopi, non esitò ad opporsi alla Chiesa perseguitandone pure i membri.

Tralasciando di affrontare qui il tema straordinariamente complesso e problematico del rapporto tra il nazismo e le chiese cristiane, comunque non riducibile allo schema nazismo pagano e anticristiano contro chiese messe a tacere e perseguitate, va rilevato che il documento sorvola del tutto sul caso italiano e su quello dello sterminio degli ebrei croati ad opera dei cattolicissimi ùstascia di Ante Paveliç; per questi casi, certamente, quelle argomentazioni, già di per sé controverse per la stessa Germania, non sembrano avere alcuna valenza.

Tuttavia si dà per scontato che valga anche per l'Italia quell'assunto della netta cesura tra moderno antisemitismo persecutore degli ebrei e tradizionale antigiudaismo cattolico caratterizzato da meri "sentimenti di sospetto e ostilità" verso gli ebrei.

Ciò verrebbe confermato ulteriormente, secondo alcuni, dalla marginalità e dall'estraneità alle posizioni ufficiali del Vaticano di personaggi come Mons. Roberto Benigni o Giovanni Preziosi, pur provenienti dal cattolicesimo italiano, ma paladini di un antisemitismo razzista, fanatico e filo nazista.

Vi furono indubbiamente anche delle adesioni "imbarazzanti" alla campagna avviata dal fascismo con le leggi razziali del 1938, ma vengono giustificate come un generoso tentativo di inoculare un'anima cattolica nell'antisemitismo fascista depotenziandone così gli aspetti più aggressivi e violenti. Si sarebbe ottenuta così la famosa versione italiana "all'acqua di rose" della persecuzione antiebraica, resa celebre dalla formula coniata da Renzo De Felice ed entrata nel senso comune degli "italiani brava gente". Il caso più emblematico, a questo proposito, è indubbiamente quello di Teresio Olivelli. Teresio Olivelli è noto per essere stato dirigente di primo piano del movimento resistenziale cattolico, ispiratore delle brigate Fiamme Verdi, deceduto nel campo di concentramento nazista di Hersbruck il 17 gennaio 1945, medaglia d'oro della Resistenza: per questo suo cursus, oggi, è in corso il processo di beatificazione. Meno noto è il fatto che Olivelli, verso la fine degli anni Trenta, fu protagonista di primo piano dell'interpretazione cattolica del razzismo e dell'antisemitismo fascista, e per questo assurto dal regime ai massimi livelli di responsabilità (Ministero della Demografia e della Razza, Istituto nazionale di cultura fascista, rappresentante dell'Italia nei convegni internazionali con i nazisti sul tema della razza...), dopo aver vinto i Littoriali sulla razza a Trieste nel 1939. L'assunto di fondo di Olivelli era che la razza non era solo un fatto biologico ma anche e soprattutto "espressione spirituale", cosicché "nell'antisemitismo, che è uno dei singoli aspetti del razzismo italiano, si accentua il valore della tradizione come individuatrice della razza. La tradizione ebraica è continuata espressione di antiromanità". Concludeva quindi l'Olivelli, dopo aver ribadito che "la razza italiana si differenzia da tutte le altre razze per la comunità di vincoli di sangue" e per la "continuità di valori e di Istituti che lega la romanità, il cattolicesimo": "Dalle premesse risulta che la concezione cattolica non viene lesa dal razzismo fascista in quanto l'universalità e la libertà dello spirito vi è riaffermata e l'universalità non può che essere rivissuta in una particolare personalità". In Olivelli prevaleva "la convinzione – e anche la speranza – che il razzismo italiano sarebbe stato un razzismo all'italiana cioè di poco conto [sic!]", per cui decise di combattere "nel fascismo stesso, allo scopo di minarne dall'interno e alla radice le pericolose posizioni, specialmente quelle razziste". Non ci interessa qui neppure abbozzare un giudizio sull'efficacia di questo tentativo di "cristianizzare" le leggi del 1938. Anche se ci sembra difficile accogliere la tesi avanzata a sostegno della causa di canonizzazione: "Purtroppo egli non riuscirà nel suo intento, poiché in pochi intellettuali scelgono di seguire questa strada (tra questi, G. Bottai, C. Pellizzi, p. Gemelli). Quella di Olivelli è una intuizione, una scelta 'profetica' in quanto è considerata non realista o addirittura utopistica nel momento in cui la si persegue, ma in seguito, se bene analizzata in tutto il suo intrinseco spessore, non si può non riconoscerne la validità e l'efficacia". Da parte nostra, ci limitiamo ad osservare che l'operazione fu ambivalente e non poche scorie della cultura razzista del regime non potevano non essere veicolate nel mondo cattolico italiano, a partire dalla sostanziale accettazione, salvo la questione dei matrimoni misti, delle odiose discriminazioni nei confronti degli ebrei e del limbo pericoloso in cui gli stessi vennero cacciati.

Tuttavia, anche la vicenda controversa di Olivelli sembrerebbe non inficiare l'assunto fondamentale di un antisemitismo introdotto con le leggi del 1938, fondamentalmente mutuato dall'esterno, imposto dall'alleanza con Hitler ed estraneo alla cultura dominante fino ad allora in Italia, sia di ispirazione cattolica che di matrice fascista.

Insomma si confermerebbe che per il cattolicesimo italiano non valga il giudizio severo espresso dal più autorevole studioso della Shoah, Raul Hilberg, secondo cui il cristianesimo fu levatrice dell'antisemitismo che portò alla distruzione degli ebrei, con una sostanziale continuità tra antigiudaismo tradizionale delle Chiese cristiane e antisemitismo razzista otto-novecentesco. Certo Hilberg non sottovaluta la portata del passaggio nazista alla fase della distruzione, ma prima di affrontare questa fase ripercorre quelle precedenti, sedimentate in oltre un millennio, che videro come protagonista la Chiesa cattolica, e poi quella riformata, segnate dall'ossessione per la "conversione" degli ebrei e quindi, di fronte alla loro irriducibile riottosità, dall'"espulsione" degli stessi dalle società cristiane, attraverso la loro ghettizzazione. Ma soprattutto fondamentale era che attraverso i secoli la Chiesa cattolica e in generale quelle cristiane avessero costruito a livello popolare uno "stereotipo" dell'ebreo, perfido e sanguinario, irriducibilmente diverso e ostile ai cristiani, teso a conquistare il dominio del mondo e a soggiogare la cristianità.

I nazisti avevano bisogno di uno stereotipo; gli serviva poter utilizzare un'adeguata rappresentazione degli Ebrei. È dunque carico di conseguenze il fatto che, nel momento in cui Hitler giunse al potere, l'immagine esistesse già, che i tratti del modello fossero già fissati.

Hilberg, inoltre, a sostegno della propria tesi, ricostruisce un confronto dettagliato e minuto tra i diversi provvedimenti antisemiti assunti a partire dal 1933 dai nazisti al potere e le limitazioni imposte agli ebrei dalla Chiesa nel corso dei secoli: ne risulta un impressionante "copia incolla" che lascia poco spazio, in verità, a chi insiste nel negare una sostanziale continuità nelle due "varianti" dell'antisemitismo, quella "religiosa" e quella "ideologica e razzista".

La ricerca che qui si propone sembrerebbe, appunto, delineare un intreccio molto stretto tra l'antisemitismo del fascismo e il cosiddetto "antigiudaismo cattolico", in considerazione anche del peso che aveva la Chiesa con il suo profondo radicamento nel Paese durante il ventennio, in particolare dopo il 1929. Questo intreccio inestricabile emerge, in particolare, scandagliando in profondità il ruolo che ebbe nella gestazione delle leggi antisemite del 1938 un intellettuale cattolico di primo piano, Mario Bendiscioli, espressione di un contesto culturale, quello del cattolicesimo bresciano, in cui all'epoca operavano alcune delle più influenti editrici cattoliche, La Scuola e la Morcelliana, e che esprimeva quel Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, in quegli anni cruciali, 1939-1945, vicesegretario di Stato in Vaticano e stretto collaboratore del Papa Pio XII. Bendiscioli, nato nel 1903 nel Bresciano, negli anni Trenta era già un intellettuale di spicco nel mondo culturale e religioso cattolico nazionale. Animatore, fin dalla fondazione, dell'editrice Morcelliana, sviluppò ricerche e studi sul cattolicesimo e i movimenti religiosi in Europa e in Germania. Amico di monsignor Giovanni Battista Montini, parteciperà alla Resistenza negli ambienti cattolici milanesi e nel dopoguerra dedicherà i suoi studi come docente universitario, prima a Salerno poi a Milano, in particolare al Cinquecento religioso, alla Riforma e alla Controriforma. Dunque un intellettuale autorevole e con vasti collegamenti, come vedremo, con gli ambienti ufficiali della cattolicità del tempo, dal Vaticano all'Università cattolica.


L'ANTISEMITISMO LUOGO COMUNE NELLA CULTURA DOMINANTE DEGLI ANNI TRENTA E ANCHE NEL CATTOLICESIMO BRESCIANO

Diamo innanzitutto uno sguardo all'ambiente in cui Bendiscioli mosse i suoi primi passi, quello del mondo cattolico bresciano e del suo rapporto con la questione ebraica. Ciò che impressiona, quando si entra nel dettaglio, è come vi fosse una così importante mobilitazione degli istituti deputati alla formazione dell'opinione pubblica, per creare un senso comune e un clima di ostilità nei confronti degli ebrei, humus indispensabile al dispiegarsi della tragedia che sarebbe seguita.

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LA POSIZIONE DELLA CHIESA CATTOLICA NEL CONTESTO DELL'ANTISEMITISMO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

Come è noto, nella grande crisi che investì l'Europa agli albori del Novecento, in cui il nazionalismo degenerò in imperialismo, e che portò alla catastrofe delle due guerre mondiali, l'antisemitismo diventò ben presto un luogo comune in settori importanti della cultura laica, mentre riprendeva vigore e virulenza nel mondo cristiano, sia cattolico, che protestante e ortodosso.

La crisi autodistruttiva di quegli anni terribili sollecitava l'individuazione di un "grande colpevole" che stava minando alle fondamenta la civiltà del vecchio continente: il complotto giudaico teso al dominio del mondo e al soggiogamento dei cristiani si presentava come la spiegazione più semplice e "naturale". Lo avrebbe testimoniato il successo irresistibile, in tutti gli ambienti europei, del damoroso falso dei Protocolli dei savi di Sion.

Ebbene, in questo contesto è interessante considerare la posizione della Chiesa cattolica, espressa dalla propria rivista ufficiosa, edita dai gesuiti dal 1850, "La civiltà Cattolica". La rivista aveva il compito di contribuire a diffondere il messaggio del pontefice, e per questo gli articoli venivano preventivamente visionati ed approvati dal segretario di Stato, quando non dallo stesso papa.

Si possono distinguere fondamentalmente tre fasi nella campagna antigiudaica ed antisemita della rivista dei gesuiti: la prima, dell'ultimo scorcio dell'Ottocento; la seconda dei primi decenni del Novecento; la terza, negli anni Trenta in concomitanza con le politiche antisemite dei regimi fascisti o autoritari europei.

La prima fase, a partire dal 1880, si collocava nel quadro di una Chiesa impegnata in uno scontro durissimo con lo Stato moderno, laico e liberale, uscito dall'illuminismo e dalla Rivoluzione francese. È una Chiesa che aveva subito l'indicibile umiliazione della conquista della Roma dei Papi da parte dell'esercito piemontese e che vedeva nella Massoneria il nemico mortale, "massoneria che contava a metà dell'Ottocento in Parlamento ben 300 deputati", come si legge ancora oggi sul sito della rivista.

E l'ispiratore "segreto" della massoneria non poteva che essere il giudaismo: "l'ebreo è sempre ebreo", una "razza" che vuole "la padronanza generale del mondo". Insomma i massoni sono ebrei gli ebrei sono massoni. Ovviamente, nel tratteggiare l'indole malvagia della "razza ebraica", veniva ripresa anche la tradizionale "accusa del sangue", cioè il presunto rito della Pasqua ebraica che avrebbe richiesto per il pane sacro il sangue di un bimbo cristiano appositamente sgozzato. Negli articoli di padre Giuseppe Oreglia di Santo Stefano, uno dei fondatori della rivista, pubblicati tra il 1880 e il 1881, si ritrovavano già tutti i tratti fondamentali dell'ideologia antisemita rielaborati e sistematizzati nei decenni successivi da Drumont o da Maurras: visione cospirazionista della storia; concezione totalitaria e antidemocratica della società, corrotta appunto dalla tabe liberale di matrice giudaico-massonica. Inoltre, ed è il caso di sottolinearlo, lo stesso Oreglia in un articolo del 1880 ipotizzava esplicitamente misure restrittive nei confronti degli ebrei in Europa, come la negazione della cittadinanza, la confisca dei beni e delle proprietà terriere, l'allontanamento dall'insegnamento e dal giornalismo, in buona sostanza i provvedimenti che, mezzo secolo dopo, formeranno il corpo della legislazione antisemita nazista e fascista.

La seconda fase, nei primi decenni del Novecento, era caratterizzata da un nuovo grande nemico che per la Chiesa si affacciava all'orizzonte del mondo contemporaneo: il socialismo e soprattutto il comunismo, vincitore e, quindi, straordinariamente minaccioso dopo la rivoluzione russa del 1917. Cosicché, in un saggio del 1922, La rivoluzione mondiale e gli ebrei, questi ultimi venivano riproposti, in forza della loro indole irriducibile che li portava a dominare il mondo, come gli ispiratori e gli artefici della rivoluzione d'ottobre. Il "bolscevismo" era in sostanza una "creatura ebraica", in omaggio alla visione cospirazionista dell'antisemitismo classico.

La terza fase fu quella più problematica, complessa e inquietante: a questo punto si trattava di passare dalla battaglia delle idee all'attuazione concreta di politiche antiebraiche. La svolta avvenne con la riconciliazione della Chiesa con lo Stato moderno che, per la prima volta, veniva riconosciuto come interlocutore, se non alleato, in particolare laddove si affermavano regimi autoritari e fascisti: era il periodo dei "concordati", prima con l'Italia di Mussolini, "uomo della Provvidenza", nel 1929, poi con la Germania, fresca dell'ascesa al potere di Hitler, nel 1933. Ora, questi governi (ma anche la cristiana e autoritaria Ungheria) erano pronti a passare dalle parole ai fatti, a mettere in atto una politica antisemita capace di produrre effetti pratici. Per la Chiesa si trattava di delineare, dunque, una propria proposta concreta, coerente con i presupposti teorici fino ad allora elaborati. E fu a questo livello che il bresciano Bendiscioli avrebbe svolto un ruolo non certamente di secondo piano.

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GLI ANNI TRENTA: ADESIONE AL REGIME PRESSOCHÉ TOTALITARIA.

A questo punto è utile una digressione sulla casa editrice Morcelliana, nata a Brescia nel 1925 su iniziativa di un gruppo di laici e di sacerdoti, tra i quali Giovanni Battista Montini, il futuro Papa Paolo VI, e Mario Bendiscioli, il maggiore artefice dell'attività pubblicistica della stessa in campo storico e filosofico. Si è già detto delle posizioni dell'Editrice La Scuola di sostanziale adesione al fascismo ed alle sue politiche.

Tuttavia, nella "vulgata" che dal dopoguerra si è imposta come autorappresentazione del mondo cattolico bresciano nel periodo di cui ci occupiamo, la Morcelliana è sempre stata indicata come editrice in qualche modo "antifascista", capace di mantenere comunque un distacco dal regime.

Certo, la seconda metà degli anni Trenta fu un periodo in cui i fascismi sembravano trionfanti quasi in tutta Europa, comunque erano unanimemente omaggiati, dall'America alla Gran Bretagna. L'Era fascista appariva come l'unico orizzonte di una storia di lunga durata, mentre guardando oggi a quel periodo la prospettiva viene spesso ingannata dagli esiti del 1945. Ma negli anni Trenta gli schieramenti non erano così ben tratteggiati, di "liberatori paladini della democrazia" se ne scorgevano assai pochi nei governi e negli intellettuali occidentali.

È nota l'ammirazione di Churcill per il duce italiano, ma anche lo "stesso Roosevelt, in presenza di giornalisti, parlò di Mussolini e di Stalin come di fratelli di sangue".

In realtà "negli anni tra il 1933 e il 1937 intellettuali e politici sulle due sponde dell'oceano ebbero la sensazione che le politiche economiche fasciste e newdealiste avessero dei caratteri comuni".

Un altro dato che si tende a dimenticare è che l'America degli anni Trenta, era l'America della segregazione razziale, della selezione "attitudinale" degli immigrati in arrivo, dell'eugenetica, e che per questo riscuoteva l'ammirazione dei nazisti:

Ancora dopo la conquista del potere da parte del nazismo, gli ideologi e "scienziati" della razza continuano a ribadire: "Anche la Germania ha molto da imparare dalle misure dei nord-americani: essi sanno il fatto loro". È da aggiungere che non siamo in presenza di un rapporto a senso unico. Dopo l'avvento di Hitler al potere, sono i seguaci più radicali del movimento eugenetico americano a guardare come ad un modello al Terzo Reich, dove non poche volte si recano in viaggi di studio e di pellegrinaggio ideologico.

D'altro canto, Hitler, già nel suo Mein Kampf del 1926, aveva guardato agli Usa come ad un esempio da imitare:

C'è oggi uno Stato in cui si notano già le premesse di un'idea superiore: e non è la nostra meravigliosa repubblica tedesca, ma l'Unione Americana, dove si cerca di ragionare. L'Unione Americana non accetta gli individui cattivi dell'immigrazione, e rifiuta comunemente ad alcune razze la concessione della cittadinanza; e con ciò presagisce principi ancora fragili d'una idea che è tipica della concezione nazionale dello Stato.

L'eugenetica, del resto, considerata a ragione un ascendente "scientifico" del razzismo moderno, non nacque con Hitler in Germania, o con il fascismo in Italia. L'inventore" dell'eugenetica fu uno scienziato inglese, cugino di Charles Darwin, Francis Galton, che operò a cavallo tra Ottocento e Novecento e che in un opuscolo scritto già nel 1869 aveva esortato a considerare il matrimonio come un'occasione per promuovere una razza migliore:

Proprio come è facile [...] ottenere con un'attenta selezione una razza permanente di cani o cavalli dotati di particolari caratteristiche nella corsa, o in altri aspetti, sarebbe anche certamente possibile produrre una razza di persone altamente dotate, grazie a matrimoni assennati, nel giro di alcune generazioni consecutive.

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Nel 1928 vi era stato uno "scontro in Vaticano sull'antisemitismo", provocato dallo scritto Pax super Israel pubblicato dall'associazione dericale "Amici di Israel". In quello scritto si chiedeva alla Chiesa cattolica di non parlare più di "popolo deicida", di astenersi da accuse sommarie nei confronti degli ebrei, in primo luogo dall'accusa del sangue, ovvero del presunto impiego da parte degli ebrei del sangue di bambini cristiani per il pane pasquale, infine di cancellare la parte della preghiera del venerdì santo sui "perfidi giudei" rinunciando totalmente al concetto di "conversione". La controversia meritò le attenzioni del Sant'Uffizio che respinse tutte le istanze degli "Amici di Israel". Ma di particolare interesse sono le motivazioni con cui Pio XI volle personalmente intervenire nella questione, partecipando al terzo ed ultimo gradino del procedimento. Di norma nei resoconti si trova semplicemente trascritta l'approvazione del pontefice, ma in questo caso il verbale è dettagliato, perché la questione era particolarmente grave e meritevole di precisazioni volute dallo stesso Papa. Il Papa pretese che non ci si limitasse alla conferma della liturgia del venerdì santo ed al semplice ritiro della proposta del Comitato degli Amici di Israel, ma che la stessa proposta venisse "condannata in maniera esplicita dalla Chiesa", convenendo anche "nella decisione di sciogliere il Comitato stesso". La ricostruzione è particolarmente interessante, perché proprio il decreto di scioglimento del 22 marzo 1928 viene spesso citato, insieme ad altri atti di Pio XI, per avvalorare la sua netta condanna dell'antisemitismo e la sua presunta vicinanza al popolo ebraico:

... la Sede Apostolica protesse il medesimo popolo [ebraico] contro le ingiuste vessazioni e, come riprova tutti gli odii e le animosità tra i popoli, così massimamente condanna l'odio contro un popolo già eletto da Dio, quell'odio che oggi volgarmente suole designarsi col nome di "antisemitismo".

La formulazione, peraltro, non era casuale, perché si evitò volutamente di condannare "qualsiasi forma di antisemitismo", espressione quest'ultima che, oltre all'antisemitismo razziale, avrebbe compreso anche l'antisemitismo teologico considerato ecclesialmente legittimo e necessario. Perché non vi fossero equivoci interpretativi Padre Enrico Rosa, editore de "La civiltà Cattolica", venne incaricato dal Papa di scrivere un saggio sulla vicenda. Questo saggio

potrebbe essere addirittura letto come un commento non ufficiale del pontefice alla questione. Padre Rosa specificava che quella condannata dal decreto era una forma di antisemitismo, ovvero l'antisemitismo "nella sua forma e nello spirito anticristiano": si trattava dell'antisemitismo razziale che nasceva dall' "impeto o passione di partito" o da "interessi materiali", e che il decreto aveva a ragione condannato. Ma la Chiesa, continuava Rosa, doveva tutelarsi "con eguale diligenza, dall'altro estremo non meno pericoloso e anche più seducente sotto l'aspetto del bene", ovvero quello dell'amicizia con gli ebrei, in cui era caduta appunto l'associazione Amici di Israele. Il "pericolo giudaico" non doveva assolutamente essere sottovalutato. A partire dall'emancipazione degli ebrei all'inizio del XIX secolo, questi erano diventati "baldanzosi e potenti". Essi dominavano, continuava l'articolo, gran parte della vita economica; nel commercio, nell'industria e nella finanza avevano addirittura un "prepotere dittatoriale" e avevano potuto sviluppare un' "egemonia in molte parti della vita pubblica". [...] Enrico Rosa imputava genericamente agli ebrei di essere stati registi occulti di tutte le rivoluzioni, dalla Rivoluzione francese del 1789 alla Rivoluzione d'ottobre del 1917. [...] "...essi primeggiano ai più grossi impieghi, ai più alti posti, massime dell'industria, dell'alta banca, della diplomazia, e più ancora delle sette occulte macchinanti la loro egemonia mondiale". In tal modo veniva evocato lo spettro del complotto internazionale giudaico-massone-bolscevico.

Cosicché appare davvero arduo distinguere le argomentazioni di questo presunto antisemitismo ecclesiale, che si autodefinirebbe buono, proprio della Chiesa cattolica, da quelle utilizzate dall'antisemitismo "razziale". La sovrapposizione, al di là delle intenzioni proclamate, è pressoché totale.

E in effetti, anche per questo la Chiesa fu costretta in diverse occasioni ad intervenire per tentare, soprattutto nei confronti del nazismo al potere, di tener distinte le proprie posizioni dall'ondata aggressiva di razzismo e di antisemitismo che stava dilagando in Europa.

Come è stato recentemente ricostruito sulle carte in particolare del cardinale Eugenio Pacelli, futuro Papa, allora Segretario di Stato in Vaticano, inizialmente si cercò di giungere ad un accordo con Hitler, in nome del comune anticomunismo: "Hitler è il primo e unico uomo di Stato che parla pubblicamente contro i bolsceviki. Finora era stato unicamente il Papa", annotava Eugenio Pacelli dopo l'Udienza con Pio Xl, il 4 marzo 1933, pochi giorni prima che in Germania si compisse la presa del potere da parte dei nazisti.

Probabilmente non vi fu una strategia organicamente e centralmente elaborata da parte del Vaticano, tuttavia la successione cronologica e logica degli eventi di quella fatale primavera del 1933 ha un suo significato oggettivo difficilmente contestabile, proprio perché quegli eventi furono condivisi, o per lo meno non ostacolati, dalla Segreteria di Stato, anche se la stessa avrebbe direttamente e formalmente gestito solo l'ultimo, il Concordato con la Germania di Hitler: il 23 marzo 1933, il partito del Centro cattolico, presieduto da monsignor Kaas, concedeva il proprio voto, determinante per raggiungere i necessari due terzi, alla Legge sui pieni poteri che permise a Hitler di trasformare il sistema democratico in una dittatura; il 28 marzo 1933, l'episcopato cattolico tedesco revocava la condanna del nazionalsocialismo hitleriano; il 29 marzo il partito nazista pubblicava il famoso proclama contro gli ebrei e il 7 aprile veniva varata la prima legislazione per limitare la presenza degli ebrei negli uffici pubblici; l'8 aprile 1933, si avviarono le trattative tra Santa Sede e Germania per giungere al Concordato siglato il successivo 8 luglio e firmato ufficialmente il 20 luglio.

Ben presto, però, fu chiaro che i rapporti con il nazismo al potere non erano gestibili con la stessa maneggevolezza sperimentata positivamente con l'Italia fascista dopo la Conciliazione del 1929: la sostanziale concordia tra fascismo e Vaticano non fu certamente compromessa dalla controversia del 1931 relativa all'associazionismo cattolico, anche perché Mussolini era perfettamente consapevole dell'influenza diffusa che il cattolicesimo aveva sul popolo italiano.

Ben diverso il quadro che si presentava in Germania: qui il cattolicesimo era minoranza, da secoli in competizione con le chiese riformate, che proprio con l'avvento di Hitler al potere avevano espresso, in alcune componenti, il movimento Deutsche Christen, attivamente schierato con il nuovo regime; qui l'unità e la riscossa del popolo germanico non potevano dunque avvenire nel nome delle religioni storiche, che anzi furono il motivo delle antiche divisioni, ma in nome di una nuova "religiosità" che trascendesse le religioni positive e che desse identità al Volk, cioè la fede nella terra e nel sangue comuni, dunque nell'appartenenza alla razza "ariana". La Chiesa cattolica non poté non percepire questo pericolo, sperimentato, peraltro, sulla propria pelle nella seconda metà dell'Ottocento, durante il Kulturkampf: promosso dal prussiano Bismarck per sostenere la riunificazione nell'Impero tedesco sulla base di una netta separazione tra Stato e chiese, si dispiegò attraverso una lotta durissima ai privilegi, alle istituzioni e alle organizzazioni della Chiesa cattolica, di cui furono limitati pesantemente gli ambiti di azione. Ecco perché, subito dopo, di fronte all'affermarsi di un potere nazista forte e totalitario, la Chiesa cattolica fu costretta in qualche modo a prendere le distanze, per tentare di demarcare e salvaguardare i propri spazi di autonomia soprattutto per la scuola confessionale e per le proprie organizzazioni.

Così, dopo solo un anno, il 14 febbraio del 1934 venne inserito nell'indice dei libri proibiti il testo di Alfred Rosenberg, Il Mito del XX secolo, (non invece il Mein Kampf di Hitler, pure attentamente valutato dallo stesso Sant'Uffizio, ma mai condannato esplicitamente). D'altro canto Eugenio Pacelli, il 14 maggio dello stesso anno, cercò di delimitare i confini e le prerogative della Chiesa dall'invadenza hitleriana, in un Promemoria inviato al Governo tedesco, annotando che una "totalità del regime e dello Stato, che intendesse comprendere anche l'ambito della vita soprannaturale" sarebbe stata assurda e avrebbe rappresentato una "vera mostruosità", come pure erronea "l'assolutizzazione del pensiero razziale, e soprattutto la sua proclamazione come surrogato della religione".

In conclusione per la Chiesa cattolica si trattava di mantenersi in equilibrio su un insidiosissimo crinale: da un canto, confermare il proprio tradizionale antigiudaismo, possibilmente cogliendo l'opportunità di provvedimenti emanati dai nuovi regimi autoritari in grado di riparare i guasti prodotti dall'emancipazione degli ebrei; dall'altro evitare che si realizzasse, in particolare con la Germania nazista, un abbraccio soffocante delle prerogative e dell'autonomia della stessa Chiesa cattolica.

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Alla constatata impossibilità dell'integrazione conseguiva la giustificazione del dilagante antisemitismo, pur lamentandone gli eccessi: "Il movimento antisemita è infatti nella sua essenza una reazione contro l'anormale affermarsi della potenza ebraica, e della nuova forza dell'antisemitismo sono in larga proporzione responsabili gli Ebrei stessi".

Queste argomentazioni, attinte dai luoghi comuni antisemiti e razzisti di cui era pervasa gran parte della cultura europea dei primi decenni del Novecento, permettevano al Belloc di avvalorare la tesi su cui era costruito l'intero saggio:

Questo libro è stato scritto col presupposto che tutte le soluzioni del problema ebraico, diverse dall'ultima [segregazione nel "bene" dello stesso segregato, nda], sono o inattuabili, o moralmente condannevoli; ovvero immorali, e impraticabili assieme. Esso sostiene un accomodamento per cui gli Ebrei dal canto proprio debbono riconoscere la loro individualità nazionale, noi dobbiamo riconoscerla a nostra volta e trattar gli Ebrei senza riserve come elementi stranieri rispettandoli quale una parte della società che non rientra nella nostra.

In concreto, l'unica soluzione possibile ed auspicabile sarebbe stata privare gli ebrei dei diritti di cittadinanza, in sostanza dare corso alle leggi razziali che, l'anno seguente in Germania, quattro anni dopo in Italia, avrebbero avviato quel tragico percorso verso la catastrofe. Occorre, a questo proposito, sottolineare la portata di una simile proposta, contestualizzandola nel periodo storico: considerare gli ebrei stranieri, ma senza patria, significava togliergli qualsiasi cittadinanza, cacciarli nel limbo degli apolidi, privi di nazionalità e quindi di qualsiasi tutela, per di più in un mondo di esasperati nazionalismi ormai tracimati nell'imperialismo, che si apprestavano ad un nuovo conflitto; significava che la condizione degli ebrei, a quel punto, sarebbe stata in realtà molto peggiore di quella di un normale straniero, comunque tutelato e protetto dalla propria nazione di appartenenza; significava trasformare il popolo ebraico in un "vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro", usando l'efficace similitudine manzoniana; significava che, quando il conflitto fosse scoppiato volgendo rapidamente in "guerra totale", quella condizione di "straniero senza patria" sarebbe slittata inevitabilmente in quella di "nemico", come sancirà il 14 novembre 1943, a Verona, il primo (e ultimo) congresso del rinato partito fascista convocato in assemblea costituente della Repubblica sociale italiana, al punto 7 della Carta: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica».

È necessario insistere su questo aspetto, ricorrendo ad un'acuta analisi della Arendt sulla portata devastante della snazionalizzazione degli ebrei, auspicata da Belloc-Bendiscioli, e introdotta dalle leggi razziali del '38, perché ci aiuta a sbarazzarci definitivamente delle formule consolatorie "persecuzione all'«acqua di rose»" o «segregazione amichevole»:

La disgrazia degli individui senza status giuridico non consiste nell'essere privati della vita, della libertà, del perseguimento della felicità, dell'eguaglianza di fronte alla legge e della libertà di opinione (formule intese a risolvere problemi nell'ambito di determinate comunità), ma nel non appartenere più ad alcuna comunità di sorta [...] Solo nei regimi totalitari, nell'ultima fase di un lungo processo, il loro diritto alla vita è minacciato; solo se rimangono perfettamente «superflui», se non si trova chi li «reclami», la loro vita è in pericolo. Anche i nazisti, nella loro opera di sterminio, hanno per prima cosa privato gli ebrei di ogni status giuridico, della cittadinanza di seconda classe, e li hanno isolati dal mondo dei vivi ammassandoli nei ghetti e nei Lager; e, prima di azionare le camere a gas, li hanno offerti al mondo constatando con soddisfazione che nessuno li voleva. In altre parole, è stata creata una condizione di completa assenza di diritti prima di calpestare il diritto alla vita.

Ma ciò che impressiona, nel testo di Belloc, è che venissero considerate, sia pur in linea teorica e per condannarle, anche le alternative che avrebbero comportato la soluzione tramite l'eliminazione degli ebrei.

Due sono le vie che conducono a questo esito desiderabile [del problema ebraico, nda]: l'una mediante l'eliminazione di quanto è estraneo; la seconda mediante la sua segregazione. Altre vie non ci sono. L'eliminazione poi d'un corpo estraneo può avvenire in tre modi. Può assumere una forma nettamente ostile e allora abbiamo l'eliminazione per distruzione. Può assumere una forma pure ostile, ma meno crudele colla eliminazione per espulsione. Può darsi una terza maniera, amichevole questa (ch'è di gran lunga la più comune ne' processi del mondo naturale e della società): l'eliminazione per assorbimento [ma che, come Belloc dimostra in tutto il suo saggio, sarebbe del tutto irrealistica, impraticabile. nda]; [...]

La soluzione che si vale della distruzione non è solo abominevole rispetto alla morale ma s'è mostrata insufficiente all'atto pratico. Essa ha costituito la tentazione permanente delle masse popolari irritate nel passato ogni qualvolta il problema ebraico è entrato in una fase acuta: [...] questa soluzione è stata sperimentata tante volte, e tante volte è fallita, lasciando dietro a sé una paurosa eredità di odio da una parte e di vergogna dall'altra. Fu condannata da ogni persona di giudizio, specialmente dai grandi moralisti del Cristianesimo. Rappresenta invero una politica crudele, perché è cieca: un divampare di mera esasperazione, nient'affatto concludente.

La seconda forma d'eliminazione – l'espulsione – quantunque sia teoricamente sostenibile (una comunità possiede infatti il diritto di organizzare la propria vita senza che alcun elemento estraneo avanzi la pretesa di modificarla o possa apportarvi disturbo), è tuttavia in pratica, qualora si consideri il problema in particolare, solo di qualche grado meno odiosa della prima. [...] È impossibile immunizzarla da violenze e malversazioni d'ogni specie. Lascia pertanto dietro di sé un'eredità, se non di ignominia da una parte, certo di rancore dall'altra, non meno intensa che la distruzione. Ciò che da ultimo la condanna è il fatto che non è, né può essere, completa.

Insomma il testo di Belloc, scritto e pubblicato originariamente nel 1922, tradotto da Bendiscioli per l'edizione italiana del 1934, anticipava la sostanza delle leggi razziali del 1938, leggi che secondo il fascismo italiano avrebbero inteso "discriminare, non perseguitare" gli ebrei.

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Il timbro cattolico sulla legislazione antisemita del 1938 venne, infine, apposto nel 1940 anche da un altro illustre esperto della questione ebraica, Hermann De Vries De Heekelingen. De Vries, autorevole biblista cattolico olandese, era stato professore all'Università di Nimega e successivamente presidente del Consiglio del centro internazionale di documentazione sulle organizzazioni politiche. Il suo saggio, Israele. Il suo passato, il suo avvenire, venne utilizzato da padre Barbera nell'aprile del 1937 per elaborare la posizione ufficiale di "Civiltà cattolica" sulla questione ebraica, insieme al fondamentale libro di Belloc, sopra ampiamente citato, e ai saggi di padre Joseph Bonsirven, gesuita e teologo francese, grande studioso dell'ebraismo, collaboratore della rivista dei gesuiti francesi "Etudes". Dunque De Vries era un'autorità del mondo cattolico europeo sulla questione ebraica, ampiamente ripreso ancora aggi da studiosi cattolici contemporanei, ed è di particolare significato che nel 1940 avesse pubblicato un breve saggio dedicato espressamente alla politica antisemita dell'Italia fascista, in cui esplicitamente metteva a confronto le disposizioni delle recenti leggi razziali con le "prescrizioni ecclesiastiche dopo il V secolo":

La legislazione italiana, nel suo assieme, si è ispirata alle prescrizioni della Chiesa nei riguardi degli ebrei. È vero che il Vaticano ha protestato contro uno solo degli articoli della legge per la difesa della razza italiana, ossia quello che si riferisce ai matrimoni misti. Ma la Chiesa e lo Stato si sono trovati d'accordo per accettare un modus vivendi che concilia i dogmi della Chiesa e le necessità dello Stato. Le linee direttrici delle prescrizioni ecclesiastiche dopo il V secolo si ritrovano nelle leggi fasciste.

La Chiesa ha sempre vietato il matrimonio tra ebrei e cattolici. La legge italiana proibisce il matrimonio tra ebrei e Italiani.

La Chiesa è sempre intervenuta presso i sovrani cattolici che ammettevano gli ebrei nella magistratura del loro paese. La legislazione italiana ha allontanato gli ebrei dalla magistratura. La Chiesa ha consigliato di vigilare perché, nella vita pubblica, gli ebrei non riescano ad occupare funzioni che possano dar loro una certa autorità sui cristiani. La legge italiana ha escluso gli ebrei dalle funzioni pubbliche.

La Chiesa non ha mai permesso agli ebrei di far parte del corpo insegnante. L'Italia ha privato dell'insegnamento i professori ed i maestri israeliti.

La Chiesa ha spesso protestato contro l'arricchimento abusivo degli ebrei e il conseguente impoverimento dei cristiani. Anche l'Italia ha preso delle misure adeguate non espropriando gli ebrei, ma imponendo loro delle limitazioni.

La Chiesa ha imposto agli ebrei il marchio della "rotella", ma spesso ha loro permesso di liberarsene quando si sono recati all'estero. L'Italia fa menzione della condizione di ebreo nei documenti ufficiali solo per l'interno, ma non per l'estero.

La Chiesa ha proibito ai cattolici di servire come domestici presso gli ebrei. Anche l'Italia lo ha vietato.

La Chiesa non ha permesso alle donne cristiane di servire come nutrici presso famiglie israeliane ed ha vietato di far allevare i bambini cattolici da nutrici israelite. L'Italia ha adottato le stesse disposizioni.

La Chiesa ha sempre riprovato l'odio verso gli ebrei e le conseguenti persecuzioni. In questo campo anche l'Italia si è comportata da Stato cristiano. L'odio e la persecuzione non si riscontrano per nulla nella legislazione e nei sentimenti del popolo italiano.

Anche il regime sostenne che le leggi del '38 intendevano "soltanto" discriminare gli ebrei, ma non perseguitarli, mentre nei fatti, in quel contesto, non potevano non avere un effetto devastante sulla condizione degli ebrei italiani, come già si è detto e come vedremo meglio nella seconda parte.

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CONSIDERAZIONI E INTERROGATIVI

Provare a trarre qualche considerazione, a questo punto, non è facile, né semplice su di un tema così delicato e controverso.

Si può intravedere un rapporto di causa ed effetto tra la visione del "problema ebraico" e l'ipotesi della cosiddetta "segregazione amichevole" interpretate da Bendiscioli e più in generale dalla Chiesa cattolica da un canto e la distruzione degli ebrei messa in opera dai nazisti e dai fascisti tra il 1941 ed il 1945?

Credo che la risposta sia decisamente no. Non vi è alcun dubbio che la soluzione auspicata del "problema ebraico" per i cattolici non dovesse in alcun modo travalicare i limiti di una sorta di apartheid o di una moderna forma del ghetto medioevale, giuridicamente definita, e riparatoria del "vulnus" dell'emancipazione di inizi Ottocento.

Ma possiamo porci anche un'altra domanda: sarebbe stato possibile mobilitare tante energie, forze, persone, governi collaborazionisti, in Europa nella distruzione degli ebrei decisa dal nazismo, se non vi fosse stata prima per anni una campagna martellante e pervasiva, in cui anche le Chiese cristiane ebbero un ruolo fondamentale, tesa a rappresentare gli ebrei come un corpo irriducibilmente estraneo ed ostile alla civiltà cristiana e occidentale, proiettato per sua intrinseca natura al dominio ed al soggiogamento di questa civiltà?

Qui la risposta è più complessa e controversa e nella seconda parte di questa ricerca porteremo qualche approfondimento. Tuttavia, se non riduciamo la Shoah ad una perversa volontà distruttiva della follia hitleriana o di "un gruppo di criminali", non possiamo non considerare il peso che il pregiudizio antisemita, diffuso e propagandato per decenni nell'Europa del primo Novecento, ebbe oggettivamente nel favorire l'adesione di tante popolazioni al processo di distruzione degli ebrei.

Anche perché credo che storiograficamente non possano esservi più dubbi sul rapporto stretto e in qualche modo consequenziale tra la fase discriminatoria e la fase persecutoria nei confronti degli ebrei, così come furono interpretate e realizzate dal nazismo prima e dal fascismo italiano poi.

Isolati gli ebrei, attraverso le leggi razziali, dal contesto nazionale come stranieri senza patria e quindi potenzialmente ostili, con lo scoppio della guerra, ma soprattutto con il precipitare nella "guerra totale" e col volgere della stessa verso la sconfitta, questi divennero per il nazismo ed il fascismo la "serpe in seno" che non si poteva più tollerare, il nemico più pericoloso, e quindi le "vittime sacrificali" da sopprimere definitivamente.

Si può comprendere come, dopo gli esiti catastrofici dell'antisemitismo avviato con le leggi razziali del 1938, il mondo cattolico italiano sia portato a rimuovere il ruolo che ebbe nella costruzione di quelle leggi e, indirettamente, nella Shoah. Si può riconoscere, in questo caso, che si trattò di un concorso preterintenzionale. Tuttavia sarebbe molto importante che quest'operazione di verità venisse finalmente compiuta senza reticenze. Non si può non convenire, a questo proposito, con l'affermazione impegnativa di una storica cattolica, frequentatrice degli archivi vaticani, Emma Fattorini:

La questione centrale riguarda come e perché l'antigiudaismo cattolico abbia favorito, legittimato e avallato l'antisemitismo.

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SECONDA PARIE
I FASCISTI ITALIANI PROTAGONISTI DELLA DISTRUZIONE DEGLI EBREI.
IL CASO DELLA CAPITALE DELLA RSI



Il mito degli "italiani brava gente", riferito alla persecuzione antiebraica, si fonda su due pilastri: da un canto sulla presunta "innocenza" del cattolicesimo italiano, tema discusso nella prima parte; dall'altro sul fatto che il fascismo italiano, anche quello della Rsi, sarebbe stato marginalmente coinvolto nella distruzione degli ebrei ed in ogni caso contro la propria volontà, obbligato obtorto collo dall'occupante tedesco.

Anche questo pilastro sembra in verità sgretolarsi se si indaga in profondità su un caso, quello della capitale della Repubblica sociale, Brescia, Salò ed il suo territorio, straordinariamente significativo dei comportamenti e delle scelte effettive compiute dal fascismo, in particolare a partire dall'autunno del 1943, con il passaggio dalla persecuzione alla distruzione.


GLI EBREI A BRESCIA NEL 1938: UNA PICCOLA COMUNITÀ PERFETTAMENTE INTEGRATA

Che in terra bresciana vi siano e vi fossero degli ebrei può sorprendere molti, tanto la loro presenza era ed è discreta, "minimale", inavvertibile. Forse anche per questo la storiografia dell'età contemporanea che si è occupata di Brescia ha sempre del tutto ignorato questa "presenza" che, seppur marginale, fu comunque di grande significato. In effetti, in passato, Brescia fu uno dei centri importanti della cultura ebraica in Italia, almeno fino all'espulsione traumatica avvenuta nel 1572, quando la comunità ebraica locale si dissolse senza ritrovare più ragioni e possibilità di ricostituirsi.

Nel periodo rinascimentale gli ebrei bresciani, già presenti sul territorio da secoli, si erano guadagnati uno spazio e un ruolo di assoluto rilievo nella società bresciana, a quei tempi sotto la dominazione della Repubblica Veneta. Le loro attività economiche ruotavano attorno alla produzione siderurgica e al commercio dei manufatti di ferro, al commercio dei panni e alla concessione di denaro a prestito con i banchi dei pegni. Ma fu nella produzione culturale che si distinsero lasciando un patrimonio di assoluto valore. In quel periodo, oltre alla sinagoga, esisteva una scuola rabbinica fra le più importanti a livello nazionale, un cimitero, ed era particolarmente rigogliosa la pubblicazione di libri; "soprattutto l'edizione della Bibbia dei Soncino, con il suo rigore filologico, prova l'esistenza di studiosi con un elevato grado di preparazione". I Soncino furono tra i maggiori tipografi ebrei, anzi "Gershòn Soncino [...] proprio all'estremo del secolo, rimase l'unico stampatore in caratteri ebraici non d'Italia ma di tutto il mondo"; essi operarono tra Brescia e i confini orientali del ducato di Milano (a Soncino si trova una casa-museo che si ritiene sede di una delle loro tipografie), e dopo un breve periodo in cui si rifugiarono a Barco di Orzinuovi sotto la protezione dei nobili bresciani Martinengo, verso la fine del 1400 decisero di emigrare in Turchia dove avrebbero potuto continuare liberamente la loro attività, sottraendosi alla persecuzione che cominciava a colpire gli ebrei, non solo a Brescia.

Infatti la convivenza tra ebrei e cristiani, anche a Brescia, cominciò a diventare difficile probabilmente per diversi fattori: il prestito su pegno sollevava, in particolare nei settori più poveri della società, risentimenti, invidie, maldicenze; questi sentimenti ostili erano aggravati dalla violenta campagna antifeneratizia (contro il prestito a usura) che si scatenò a partire dal 1400 da parte dei frati francescani e domenicani; a ciò si aggiunga l'inasprirsi della posizione tradizionale della Chiesa verso gli ebrei con l'inizio della Controriforma: dopo l'istituzione proprio a Venezia nel 1516 del primo ghetto, papa Paolo IV il 12 luglio 1555 decretò ufficialmente la segregazione degli ebrei in spazi recintati all'interno della città, separazione poi diffusasi in tutta l'Europa cristiana.

A Brescia la reazione contro gli ebrei fu particolarmente violenta e drastica nelle conseguenze, nonostante godessero della protezione di alcune famiglie nobili ed influenti, i Martinengo e i Gambara. Il comune, gli strati borghesi e quelli più poveri della società avevano sempre mantenuto un atteggiamento diffidente nei confronti degli ebrei, visti, appunto, come alleati dei signori feudali. L'ostilità andò via via crescendo, in particolare a causa del prestito ad usura, al quale si contrapposero i nascenti Monti di pietà, caldeggiati soprattutto da Bernardino da Feltre, presente in città con una predica infuocata contro gli ebrei ed i loro protettori nel giorno dell'avvento del 1493; in questo contesto si comprende anche il particolare accanimento dei bresciani nel pretendere che gli ebrei portassero il segno distintivo (una O gialla di tessuto sugli abiti) introdotto nel 1398 dalle autorità venete. Ma la situazione scivolò ben presto lungo una china pericolosa ed irreversibile con la vicenda del "beato" Simonino da Trento.

"In una predica tenuta a Trento al principio del 1475, Bernardino da Feltre 'profetizzò' che, prima della Pasqua, sarebbe venuto alla luce un atto di tremenda malvagità commesso dagli ebrei. Ed infatti la domenica di Pasqua, 26 marzo, gli ebrei videro galleggiare in un canale di scolo presso una delle loro case il cadavere accoltellato di un bambino cristiano di poco più di due anni, Simone Underdorben. I maggiorenti ebrei furono subito messi in prigione quali sospetti di infanticidio; respinsero ogni accusa, facendo il nome del cristiano che presumibilmente aveva commesso il delitto dietro istigazione altrui. Sotto la tortura, alla fine un ebreo di ottanta anni cedette e 'confessò'. I primi otto ebrei furono così giustiziati tre mesi dopo il delitto". Successivamente altri cinque ebrei furono bruciati sul rogo e gli ultimi sopravissuti della piccola comunità ebraica di Trento (30 persone appartenenti a tre famiglie di origine askenazita) furono cacciati e i loro beni incamerati.

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I FASCISTI DELLA RSI: "AGLI EBREI CI PENSIAMO NOI!". INIZIA LA DEPORTAZIONE PER LO STERMINIO

Come si è detto, per un mese i tedeschi non mossero un dito contro gli ebrei bresciani. Eppure, ad esempio la famiglia Dalla Volta, di cui era stato comunicato ai nazisti l'indirizzo preciso fin dal 3 novembre, risiedeva a non più di 300 metri dal Comando germanico. Questa famiglia, come altri ebrei, per ragioni diverse, non era riuscita a mettersi in salvo prima del tragico 1° dicembre 1943, quando con sorprendente tempestività iniziò a Brescia la caccia all'ebreo da parte delle polizie della Rsi. Il questore Manlio Candrilli era evidentemente già allenato, con gli elenchi sulla sua scrivania (gli stessi consegnati un mese prima ai tedeschi), con "sei squadre di polizia comandate al rastrellamento", pronto a far scattare la trappola, prima che gli ultimi ebrei rimasti potessero sfuggirgli. L'ordine era stato emanato soltanto il giorno prima, il 30 novembre, con la famosa ordinanza di polizia n. 5 firmata da Guido Buffarini Guidi, ministro dell'Interno della Rsi. Questa disponeva che:

Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni mobili e immobili devono essere sottoposti a immediato sequestro in attesa di essere confiscati nell'interesse della Rsi, [...] Siano pertanto concentrati gli ebrei in campo di concentramento provinciale, in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati.

Il quotidiano locale, in prima pagina, dopo aver riportato integralmente l'ordinanza di polizia, così commentava, il giorno dopo, l'inizio della partecipazione diretta ed attiva dei fascisti della Rsi allo sterminio degli ebrei:

L'odierna ordinanza di polizia relativa ai giudei verrà accolta con vivissima soddisfazione da tutti quegli italiani (e sono senza dubbio i migliori) cui non è sfuggita l'azione sovvertitrice svolta dagli stessi giudei contro l'unità e l'onore della nostra Patria. Alla testa dei mormoratori e dei filo-anglosassoni che sino ad oggi attesero ed attendono la completa invasione dell'Italia da parte degli inglesi e degli americani, stanno i giudei. Alla testa degli antifascisti che nei 45 giorni della turpe carnevalata badogliana capeggiarono il movimento persecutorio e iconoclasta, fornendo indicazioni e informazioni, furono i giudei. Alla testa delle organizzazioni di cui il nemico si serve per avere notizie di quanto avviene in casa nostra, allo scopo di sinistramente deformarle nella sua propaganda o di rendere più feroce e brutale la sua offensiva bellica contro l'Italia, furono e sono ancora i giudei. Alla testa degli ispiratori di ogni indisciplina che incida sulla economia e sull'ordine interno, dagli imboscamenti delle merci alle speculazioni del mercato nero, dal pietismo verso lo spietato nemico al favoreggiamento dei ribelli furono e sono sempre, con le parole e con l'esempio, i giudei. Alla testa di coloro i quali in Italia difendono l'idea liberaldemocratica, e costituiscono tra noi la più schietta rappresentanza del nemico che sfascia le nostre città, uccide le nostre donne, i nostri bambini e i nostri vecchi, furono e sono, costantemente, i giudei. L'odierna ordinanza ripara le debolezze di un passato che, con la sua generosità, ha contribuito ad aggravare la crisi culminata col tradimento, e compie un atto di giustizia che è, nel tempo stesso, un inderogabile dovere di difesa.

Questo testo chiarisce in modo inequivocabile come il passaggio alla fase della distruzione degli ebrei italiani non fosse semplicemente un'imposizione di Eichmann, ma una scelta autonomamente maturata dal fascismo risorto della Rsi. Fascismo effettivamente di tipo nuovo, non tanto per il presunto taglio sociale della Carta di Verona, rimasto sulla carta appunto, opaco specchietto per le allodole nell'illusione di riconquistare un consenso popolare; quanto per la natura del fascismo di Salò, intriso di frustrazione e fanatismo, di neosquadrismo e di rabbia, disperato, rancoroso e violento nei confronti degli italiani, dimostratisi non all'altezza della missione imperiale, irrimediabilmente deboli, imbelli e, infine, traditori. Ma la tremenda implosione del 25 luglio era insostenibile ed inspiegabile se non come esito di quell'insidiosa opera occulta e sotterranea della tabe ebraica. Chi se non gli ebrei erano i professionisti del tradimento? E in un contesto esasperato di guerra estrema, il nemico interno – "la serpe in seno" – diventava inevitabilmente quello più pericoloso, da schiacciare senza pietà.


ALBERTO DALLA VOLTA, IL GRANDE AMICO DI PRIMO LEVI AD AUSCHWITZ

Cosicché, mentre usciva "Brescia repubblicana" con quel lugubre annuncio, gli uomini del questore Manlio Candrilli catturavano in città Guido Dalla Volta. L'arresto sarebbe stato compiuto dal commissario Ferdinando Pepe, a cui Candrilli si appoggiò per l'attività antiebraica, anche se volle sempre gestirla in prima persona. Il Pepe condusse Guido in questura, per accertamenti. Non vedendolo tornare, il figlio Alberto, si precipitò in questura per offrirsi al posto del padre, ancora illudendosi che si potesse trattare di lavoro forzato, per il quale lui, ventunenne, sarebbe stato più adatto del padre quasi cinquantenne. Ma venne arrestato anche Alberto.

La vicenda dei Dalla Volta merita una speciale narrazione, sia per la sua portata emblematica, sia perché Alberto Dalla Volta è l' Alberto di Se questo è un uomo, l'eroe di Auschwitz, colui che letteralmente salvò la vita a Primo Levi.

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Tragica invece la storia che dobbiamo narrare di Guido e Alberto.

Rinchiusi nel carcere di Brescia, furono trasferiti al campo di Fossoli l'8 febbraio, come, en passant, il Candrilli si premurava di informare il prefetto in una sua nota relativa al sequestro del patrimonio finanziario del Dalla Volta: "Con l'occasione comunico che il Volta in data 8 corrente è stato avviato al campo di concentramento di Carpi (Modena)".

Nel campo di Fossoli trovarono Primo Levi, che vi era giunto da alcuni giorni, il 27 gennaio.

Guido, un uomo affascinante e pieno di dignità [...] divenne presto il capo della loro baracca. Capo, a Fossoli, non aveva nessuna delle connotazioni sinistre del termine Kapo in uso ad Auschwitz, indicava semplicemente una persona che piaceva a tutti e di cui tutti si fidavano, un capo naturale. Alberto possedeva le qualità del padre ed altre ancora. Presto, quando la gioventù e la resistenza fisica avrebbero significato tutto, si sarebbero accese in lui come una luce, e avrebbero salvato il padre finché gli fu possibile. Ma qui, dove la vita scorreva quasi normale, il capo era Guido. Alberto, sempre modesto e tranquillo, non si faceva notare.

Sembra che l'amicizia tra Primo ed Alberto sia nata all'ultimo minuto, nel vagone merci diretto ad Auschwitz. Ma di certo si videro per la prima volta nei lunghi giorni di attesa a Fossoli.

Il 22 febbraio risuonò nel campo l'appello nazista per il convoglio: direzione Auschwitz.

«Wieviel Stück?» chiese l'ufficiale delle SS, «Quanti pezzi?». «Sechshundert-fünfzig Stück» rispose il caporale. Pochissimi tra gli ebrei lì riuniti [però, certamente Alberto, nda] erano in grado di capire quelle parole, ma era impossibile non capire il tono. Con questo primo appello, ancora a Fossolí, erano entrati nel mondo del Lager.

Di quei seicentocinquanta ebrei, partiti da Fossoli il 22 febbraio, di cui facevano parte Primo Levi, i Dalla Volta ed almeno altri 15 ebrei catturati a Brescia da Candrilli, all'arrivo ad Auschwitz, il 26 febbraio 1944, solo 96 maschi e 29 donne - racconta Levi - furono selezionati per il lavoro forzato nell'immensa fabbrica per la gomma sintetica, la Buna, in costruzione in Alta Slesia a 40 km ad ovest di Cracovia, e rinchiusi nel campo di Monowitz - Auschwitz, mentre "tutti gli altri, in numero di più di cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi".

Quelli che per il momento non vennero eliminati, i famosi "centosettantaquattromila" dalle prime tre cifre del numero di matricola, comprendevano oltre a Primo Levi con il numero di matricola 174517, i bresciani Dalla Volta Guido n. 174487, Dalla Volta Alberto n. 174488, Flesh Julius n. 174496, Lenk Felice n. 174515, Lusena Piero n. 174523, Lusena Silvio n. 174524, Nathan Ratti Elia n. 174535. Altri arrestati in provincia di Brescia, invece, sempre ad opera di Candrilli, furono immediatamente mandati alle camere a gas ed ai forni: Arditi Davide, Benghiat Maurizio, Russo Alfredo, Weinberger Malvine. Di altri, non più tornati, non si sa esattamente quando e dove siano deceduti: Hermann Julius Hersch, Jerchan Rivka, Loewy Massimo, Lusena Said, Nathan Assalonne, Sommer Taube. Gli unici che si salvarono furono Dlugacz Giuseppe e Wasser Ruth.

A questo primo gruppo, si aggiunsero Garfinkel Hulda, Gronich Dorotea e Sacerdoti Renzo avviati successivamente a Fossoli da dove partirono per i lager senza ritorno con il convoglio del 5 aprile 1944 e Birò Andrea Mario, arrestato nel settembre 1944 e inviato a Gries (Bolzano) per il lager di Flossemburg, non più ritornato. Reggio Aurelio fu pure inviato a Fossoli il 14 febbraio 1944, ma della sua sorte non si sa nulla. Infine vanno conteggiati anche i fratelli Arturo e Umberto Soliani, di Gardone Riviera, fuggiti a Roma, dove, su segnalazione delle autorità di Brescia, il 4 febbraio 1944 furono arrestati da italiani, inviati prima a Fossoli ed il 16 maggio 1944 ad Auschwitz: Arturo risulta deceduto a Flossemburg nel 1945 ed Umberto a Dachau il 15 marzo 1945. Ma di alcuni di loro torneremo a parlare.

Si può considerare che i numeri nel caso di Brescia, come per il resto dell'Italia, siano piccoli in confronto all'immane sterminio di 6 milioni di ebrei per l'intera Europa. Anche a livello nazionale la Shoah italiana non è quantitativamente paragonabile, ad esempio, a quella polacca (300.000 solo quelli del ghetto di Varsavia). I numeri, peraltro passibili di un continuo aggiornamento, ci parlano di 7.579 persone di razza ebraica, delle 46.656 censite nel 1938, arrestate nella Penisola; di queste 322 morirono e circa 451 scamparono in Italia, mentre tutte le altre furono deportate. In realtà andrebbero aggiunte anche 900-1.000 persone disperse (950 per i calcoli statistici) di cui non si conosce l'identità, mentre dagli ebrei censiti andrebbero sottratti 12.304 emigrati e circa 9.000 fuggiti oltre confine in Svizzera dal 1938 al 1945, ma andrebbero aggiunti anche circa 5.500 rimpatriati da vari paesi: in conclusione sarebbero stati circa 32.307 gli ebrei rimasti nel Paese nel periodo dell'occupazione tedesca e della Rsi contro cui si sarebbe scatenata la caccia da parte delle autorità fasciste e naziste, catturandone circa uno su quattro. Dei 6.806 deportati identificati, 5.969 furono uccisi e solo 837 sopravvissero allo sterminio, anche perché l'88 per cento degli ebrei italiani fu destinato ad Auschwitz e il 94 per cento di essi senza ritorno.

Dunque, il fatto che gli ebrei italiani fossero pochi e di conseguenza relativamente pochi anche quelli sterminati, - non ci stancheremo di ripeterlo - non è un attenuante bensì un aggravante per le responsabilità del fascismo italiano e della Rsi.

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