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| << | < | > | >> |IndiceAvvertenza del traduttore 7 L'Angelo dell'abisso 13 Note al testo 505 Appendice Crimine e utopia. L'ultimo romanzo di Ernesto Sabato di Mario Luzi 521 |
| << | < | > | >> |Pagina 11La sera del 5 gennaio, in piedi sulla soglia del caffè all'angolo fra Calle Guido e Calle Junín, Bruno vide arrivare Sabato, e mentre si accingeva a rivolgergli la parola sentì che stava per verificarsi un fatto inspiegabile: pur tenendo lo sguardo fisso verso di lui, Sabato tirò dritto, come se non l'avesse visto. Era la prima volta che succedeva una cosa del genere e, considerando il tipo di rapporto che li univa, Bruno doveva escludere l'idea di un atto deliberato, conseguenza di qualche grave malinteso. Lo seguì con occhi attenti e lo vide attraversare l'incrocio pericoloso senza curarsi affatto delle auto, senza quelle occhiate di lato e le esitazioni tipiche di una persona sveglia e consapevole dei pericoli. La timidezza di Bruno era così accentuata che le occasioni in cui si azzardava a telefonare erano rarissime. Ma, passato parecchio tempo senza che lo incontrasse al caffè La Biela o al Roussillon, e quando seppe dai camerieri che non si era fatto vivo in tutto quel periodo, si decise a chiamare casa sua. «Non si sente bene», gli risposero in modo vago.
«No, per un po' non sarebbe uscito». Bruno sapeva che
Sabato, a volte per mesi, cadeva in quello che lui chiamava
«un pozzo», ma fino a quel momento non si era mai reso
conto che il termine racchiudeva una temibile verità. Cominciò a ricordare
alcuni racconti di Sabato a proposito di
malefici, di un certo Schneider, di sdoppiamenti. Una grande inquietudine si
impadronì a poco a poco del suo spirito,
come se si facesse notte in mezzo a un territorio ignoto e bisognasse orientarsi
con l'aiuto di fievoli luci in lontane capanne di gente sconosciuta, e grazie al
fulgore di un incendio in luoghi remoti e inaccessibili.
All'alba di quella stessa notte fra gli innumerevoli fatti che accadono in una città gigantesca, se ne verificarono tre degni di essere segnalati, in quanto uniti dal vincolo che lega sempre i personaggi di uno stesso dramma, anche se a volte non si conoscono fra loro, e benché uno di loro sia soltanto un ubriaco. Nel vecchio bar Chichin all'angolo tra Avenida Almirante Brown e Calle Pinzón, il proprietario, mentre si accingeva a chiudere il locale, disse all'unico cliente rimasto seduto al bancone: «Dai, Matto, che devo chiudere». Natalicio Barragán si scolò il suo bicchierino di caña quemada e uscì barcollando. Una volta in strada ripeté il miracolo quotidiano di attraversare con distratta serenità il viale, percorso a quell'ora di notte da macchine e autobus impazziti. Poi, come se camminasse sul ponte insicuro di una nave nel mare in tempesta, scese verso la Darsena Sud lungo Calle Brandsen. Arrivato all'Avenida Pedro de Mendoza, ebbe l'impressione che le acque del Riachuelo, laddove vi si riflettevano le luci delle imbarcazioni, fossero arrossate di sangue. Qualcosa lo spinse ad alzare gli occhi finché, al di sopra degli alberi maestri, vide un mostro rossastro che occupava tutto il cielo fino alla foce del Riachuelo, dove si perdeva la sua enorme coda a squame. Si appoggiò alla parete di zinco, abbassò le palpebre e si riposò, turbato. Dopo qualche momento di torbide riflessioni durante il quale le sue idee cercavano di farsi strada in un cervello pieno di rifiuti e di erbacce, le risollevò. E di nuovo, questa volta più nitidamente, vide il drago che copriva il firmamento all'alba, simile a un furibondo serpente fiammeggiante in un abisso d'inchiostro di china. Rimase atterrito. Fortunatamente si avvicinava qualcuno. Un marinaio. «Guardi», gli disse con voce tremante. «Cosa?», domandò l'uomo con quella bonomia che le persone di buon cuore riservano agli ubriachi. «Laggiù». L'uomo rivolse lo sguardo nella direzione che gli veniva indicata. «Cosa», ripeté osservando attentamente. «Quello!» Dopo aver scrutato per un bel po' quella parte di cielo, il marinaio si allontanò sorridendogli con simpatia. Il Matto lo seguì con gli occhi, poi si appoggiò un'altra volta alla parete di zinco, abbassò le palpebre e si mise a riflettere, tremando per la concentrazione. Quando guardò di nuovo, il suo terrore si intensificò: adesso il mostro sprigionava fiamme dalle fauci delle sue sette teste. A quel punto perse i sensi. Quando si risvegliò, sdraiato sul marciapiede, era giorno. I primi operai si dirigevano al lavoro. Faticosamente, senza ricordare in quel momento la visione, il Matto si incamminò verso la sua stanza nel conventillo. Il secondo fatto riguarda il giovane Nacho Izaguirre. Dal buio che gli offrivano gli alberi dell'Avenida del Libertador vide fermarsi una grossa Chevrolet Sport da cui scesero sua sorella Agustina e il signor Rubén Pérez Nassif, presidente dell'agenzia immobiliare Perenás. Erano circa le due di notte. Entrarono in uno dei condomini. Nacho rimase al suo posto di osservazione fino alle quattro, approssimativamente, poi se ne andò in direzione di Belgrano, con ogni probabilità verso casa sua. Camminava con le mani ficcate nelle tasche dei jeans frusti, incurvato e a capo chino.
Nel frattempo, nei sordidi sotterranei di un commissariato di periferia,
dopo aver subìto torture per diversi giorni,
massacrato di botte dentro un sacco, in mezzo a pozze di
sangue e sputi, moriva Marcelo Carranza, di ventitré anni,
accusato di far parte di un gruppo di guerriglieri.
Testimone, testimone impotente, diceva fra sé Bruno mentre si fermava in quel tratto della Costanera Sur dove quindici anni prima Martin gli aveva detto: «Sono già stato qui con Alejandra». Come se il cielo stesso, carico di nubi temporalesche, e il caldo estivo lo avessero condotto in modo inconsapevole e misterioso in quel posto dove non era più tornato da allora. Come se certi sentimenti volessero rinascere da qualche parte nel suo animo, nella forma indiretta in cui sono soliti farlo, attraverso luoghi che ci si sente spinti a visitare senza avere una precisa e chiara consapevolezza di quello che c'è in gioco. Ma perché, si doleva, nulla può rinascere in noi come prima? Perché non siamo più quelli di allora, e nuove dimore sono sorte sulle macerie di quelle che sono state distrutte dalle fiamme e dalla battaglia o che, una volta abbandonate, hanno subìto il passare del tempo, e ora degli esseri che le abitarono sussistono a malapena il ricordo confuso o la leggenda, alla fine spenti o dimenticati per nuove passioni e sventure: la sorte tragica di ragazzi come Nacho, la tortura e la morte di innocenti come Marcelo. Appoggiato al parapetto, mentre ascoltava il ritmico scrosciare del fiume alle sue spalle, Bruno riprese a contemplare Buenos Aires attraverso la bruma, con il profilo dei grattacieli sullo sfondo del cielo al crepuscolo. I gabbiani andavano e venivano, come sempre, con l'atroce indifferenza che hanno le forze della natura. E poteva darsi persino che al tempo in cui Martin gli aveva parlato in quel posto del suo amore per Alejandra, il bambino che gli era passato accanto con la balia fosse proprio Marcelo. E adesso, mentre il corpo di questo ragazzo indifeso e timido, quanto restava del suo corpo, era parte di un blocco di cemento o semplice cenere in qualche forno elettrico, gabbiani identici compivano le stesse ataviche evoluzioni in un cielo simile. E così tutto passava e veniva dimenticato, mentre le acque continuavano a colpire ritmicamente le rive della città anonima. Scrivere almeno per perpetuare qualcosa: un amore, un atto di eroismo come quello di Marcelo, un'estasi. Per accedere all'assoluto. O forse (pensò con la sua solita esitazione, con quell'eccesso di onestà che lo rendeva dubbioso e in definitiva inconcludente), scrivere era necessario per gente come lui, incapace di gesti assoluti dettati dalla passione e dall'eroismo. Infatti, né quel ragazzo che un giorno si era dato fuoco in una piazza di Praga né Ernesto Guevara né Marcelo Carranza avevano sentito il bisogno di scrivere. Per un momento Bruno pensò che forse era l'espediente degli impotenti. Non avranno avuto ragione i giovani che ora ripudiavano la letteratura? Non lo sapeva, le cose erano piuttosto complicate, perché allora, come diceva Sabato, si sarebbero dovute ripudiare la musica e quasi tutta la poesia, dato che neppure queste aiutavano la rivoluzione bramata da quei giovani. Inoltre, i personaggi letterari autentici non erano simulacri fatti di parole: erano costruiti con sangue, illusioni e speranze e angosce autentiche, e in qualche maniera oscura sembrava che aiutassero tutti noi, in mezzo a questa vita caotica, a trovare un senso all'esistenza, o perlomeno un remoto barlume. Ancora una volta nella sua lunga vita Bruno provava il bisogno di scrivere, anche se non riusciva a capire perché ora fosse sorto dall'incontro con Sabato all'angolo fra Calle Junín e Calle Guido. Allo stesso tempo però sperimentava la sua cronica impotenza di fronte all'immensità. L'universo era talmente vasto. Catastrofi e tragedie, amori e abbandoni, speranze e decessi lo facevano apparire incommensurabile. Di che cosa avrebbe dovuto scrivere? Quali fra quegli infiniti avvenimenti erano essenziali? Una volta aveva detto a Martin che in terre lontane potevano verificarsi cataclismi che però non avevano il minimo significato per qualcuno: per quel ragazzo, per Alejandra, per lui stesso. E all'improvviso il semplice canto di un uccello, lo sguardo di un passante o l'arrivo di una lettera sono fatti che esistono davvero, che per quell'essere hanno un'importanza che non ha invece il colera in India. No, non era indifferenza nei confronti del mondo, non era egoismo, perlomeno da parte sua: era qualcosa di più sottile. Che strana condizione, quella dell'essere umano, in cui un fatto così spaventoso è vero. In questo stesso momento, si diceva, bambini innocenti muoiono in Vietnam bruciati dalle bombe al napalm: non era un'infame leggerezza scrivere di pochi individui di un angolo del mondo? Sconsolato, riprese a osservare i gabbiani in cielo. Invece no, si corresse. Qualsiasi racconto delle speranze e delle disgrazie di un solo uomo, di un semplice ragazzo sconosciuto, poteva riguardare l'umanità intera e poteva servire a trovare un senso all'esistenza, e persino a consolare in qualche modo quella madre vietnamita che urlava per il figlio bruciato. Certo, lui era abbastanza onesto da sapere (da temere) che ciò che era in grado di scrivere non avrebbe avuto un simile valore. Ma quel miracolo era possibile, e ad altri sarebbe potuto riuscire ciò che lui non si sentiva capace di fare. O magari sì, chi mai poteva saperlo. Scrivere di certi adolescenti, gli esseri che soffrono di più in questo mondo spietato, i più meritevoli di qualcosa che descrivesse insieme il loro dramma e il senso delle loro sofferenze, se lo avevano. Nacho, Agustina, Marcelo. Ma che sapeva di loro? A malapena intravedeva, fra le ombre, qualche episodio significativo della propria vita, ricordi di quand'era bambino e adolescente, la malinconica rotta dei propri affetti. Del resto, che sapeva davvero non già di Marcelo Carranza o di Nacho Izaguirre ma dello stesso Sabato, uno degli esseri umani sempre presenti nella sua vita? Infinitamente molto ma infinitamente poco. A volte gli sembrava che facesse parte del suo spirito, poteva immaginare quasi in dettaglio le sensazioni che avrebbe provato di fronte a certi avvenimenti. All'improvviso però lo trovava spento, e solo grazie a un fugace luccichio degli occhi aveva modo di sospettare quello che stava succedendo in fondo alla sua anima; ma rimaneva una congettura, una di quelle arrischiate congetture che con tanta disinvoltura facciamo sul segreto universo degli altri. Cosa sapeva Bruno, per esempio, dei reali rapporti di Sabato con quel tipo violento, Nacho Izaguirre, e soprattutto con la sua enigmatica sorella? Quanto ai rapporti con Marcelo, certo, sapeva com'era comparso nella sua vita, attraverso una serie di episodi che sembrano casuali ma, come ripeteva sempre lo stesso Sabato, lo sono solo in apparenza. Tanto che, alla fine, si poteva immaginare che la morte di quel ragazzo in seguito alle torture, il feroce e rancoroso vomito (per dirlo in qualche modo) di Nacho sulla sorella, e il malessere di Sabato non fossero semplicemente legati, ma legati da qualcosa di così potente da costituire di per sé il segreto motivo di una di quelle tragedie che riassumono ciò che può accadere all'umanità intera in tempi come i nostri, o ne sono la metafora. Un romanzo su quella ricerca dell'assoluto, una follia tipica degli adolescenti ma anche di quegli uomini che non vogliono o non possono smettere di esserlo, e che in mezzo al fango e allo sterco lanciano grida disperate o muoiono gettando bombe in qualche angolo dell'universo. Una storia di ragazzi come Marcelo o Nacho, e di un artista che nei reconditi recessi del suo spirito sente agitarsi quelle creature (in parte intraviste fuori di sé, e in parte nelle profondità del suo cuore) che richiedono eternità e assoluto. Affinché il martirio di alcuni non si perda nel tumulto e nel caos ma possa toccare il cuore di altri uomini, per smuoverli e salvarli. Magari di qualcuno come lo stesso Sabato davanti a quel tipo di adolescenti implacabili, dominato, oltre che dalla propria brama di assoluto, dai demoni che continuano a perseguitarlo dai loro antri, personaggi che a volte sono comparsi nei suoi libri ma che si sentono traditi dalla goffaggine o dalla vigliaccheria del loro intermediario; e vergognandosi lui stesso, Sabato, di essere sopravvissuto a quegli esseri capaci di morire o di uccidere per odio o per amore, o per il loro impegno nello sviscerare il significato dell'esistenza. E vergognandosi non solo di essergli sopravvissuto, ma di farlo in modo meschino, con tiepide compensazioni. Con la nausea e la tristezza del successo. Sì, se il suo amico dovesse morire e lui, Bruno, potesse scrivere quella storia. Se non fosse quello che sfortunatamente è: un debole, un abulico, un uomo dalle intenzioni pure e fallimentari. Rivolse di nuovo lo sguardo ai gabbiani nel cielo declinante. Gli scuri profili dei grattacieli in mezzo a bagliori violacei e a cattedrali di fumo e poi, a poco a poco, fra i malinconici viola che annunciano il corteo funebre della notte. L'intera città agonizzava, come qualcuno che in vita era stato rozzamente chiassoso ma che adesso moriva in un silenzio drammatico, solo, concentrato su se stesso, assorto. Via via che avanzava la notte il silenzio si faceva più profondo, come sempre quando si ricevono i messaggeri delle tenebre. E così finì un altro giorno a Buenos Aires, qualcosa di irrecuperabile per sempre, qualcosa che avvicinava un po' di più Bruno alla sua stessa morte. | << | < | > | >> |Pagina 30(Bloccare il tempo all'infanzia, pensava Bruno. Li vedeva raggrupparsi agli angoli delle strade, impegnati in conversazioni ermetiche che per i grandi non hanno alcun senso. A cosa giocavano? Non esistevano più le trottole né la lippa né il nascondino. Dov'erano finite le figurine delle sigarette Dólar? E quelle dei calciatori Bidoglio, Tesorieri o Mutis? In quale segreto paradiso di trottole e aquiloni si trovavano adesso le figurine del Genoa Football Club? Tutto era diverso, ma forse in fondo tutto era uguale. Sarebbero cresciuti, avrebbero nutrito speranze, si sarebbero innamorati, avrebbero lottato ferocemente nella vita, le loro mogli sarebbero ingrassate diventando volgari, loro sarebbero tornati al caffè e al vecchio gruppo di amici, ora canuti, grassi, calvi e scettici, e poi anche i loro figli si sarebbero sposati e alla fine sarebbe venuta l'ora della morte, l'istante solitario in cui si lascia questa terra caotica: soli. Qualcuno, Pavese forse?, aveva detto che era molto triste invecchiare e conoscere il mondo. Fra loro, fra quei vecchi, forse ce ne sarebbe stato uno come lui, come Bruno, e tutto sarebbe ricominciato: quella stessa riflessione, quell'identica malinconia, quel guardare i bambini che giocano su un marciapiede, con innocenza; un bambino come Nacho, che in fondo a un piccolo chiosco osserva lo sconosciuto in modo severo e misterioso, come se una terribile esperienza precoce lo avesse già strappato al mondo dell'infanzia per fargli guardare con rancore il mondo dei grandi. Sì, Bruno sentiva il bisogno di bloccare lo scorrere del tempo. Fermati, disse quasi ingenuamente, cercando di compiere una stravagante magia. Fermati, oh, tempo!, riprese quasi a mormorare, come se la forma poetica potesse ottenere ciò che era negato alle semplici parole. Lascia per sempre quei bambini su quel marciapiede, in quell'universo magico! Non permettere agli uomini e alle loro porcherie di ferirli, di rovinarli. Blocca qui la loro vita. Lascia sussistere per sempre le linee punteggiate della Spedizione nell'Alto Perù. E che il generale José de San Martin non cessi mai di apparire immacolato, nella sua uniforme da parata, l'indice puntato con decisione verso il Cile. Che non sappiano mai che in quel momento marciava, malato, sul dorso di una mula e non su un bel cavallo bianco, con addosso un semplice poncho, curvo e preoccupato. Che rimanga per sempre davanti alla sede del Cabildo il popolo del 1810, ad aspettare sotto la pioggia la Libertà dei Popoli. Che quella rivoluzione sia pura e perfetta, che siano eterni e senza macchia i suoi capi, che non vi siano mai debolezze né tradimenti, che il generale Belgrano non muoia abbandonato e insultato, che Lavalle non faccia fucilare il suo vecchio compagno d'armi né riceva aiuti dagli stranieri. E che il generale José de San Martin non muoia povero e disilluso in una remota città europea, con gli occhi rivolti all'America e appoggiandosi al suo bastone.)| << | < | > | >> |Pagina 115Messaggio di Jorge LedesmaIl mondo è ancora gambe all'aria. Un motivo in più per essere ottimisti, dato che nessuno ci ha preceduto. Io continuo a fallire con una regolarità che fa ridere. Sono nato scemo e di colpo non so che fare. Senza andare tanto lontano, l'ultima volta mi sono arrampicato nudo su un lampione all'incrocio fra Avenida Corrientes e Calle Suipacha. Pensi un po': un sabato alle cinque di pomeriggio. Mi hanno tenuto al fresco parecchi mesi. Le confesserò una cosa, Sabato: io non volevo venire al mondo, non ho dato alcun segno di volerlo. Stavo così comodo dov'ero che quando mi è toccato uscire ho opposto resistenza, mi sono girato di culo. Però mi hanno tirato fuori lo stesso, con la forza. Sempre con la forza, in nome della cosa migliore. Mi è bastato quello per capire che questo mondo non poteva essere altro che una stronzata. Anche a lei deve essere successo qualcosa di simile. Abbiamo perso, lo so. E adesso ci tocca sopportare senza fare una piega. Siamo due tipi senza peli sulla lingua, cioè due poveri diavoli. Io ho il vantaggio di essere più ignorante di lei. Le scrivo per comunicarle che in previsione della mia morte ho deciso di nominarla mio erede. Non voglio che mi succeda come a Marconi che, una volta morto, nessuno capiva i suoi esperimenti. Ho già messo al corrente la mia famiglia. John Donne: «Nessuno dorme sul carro che lo conduce al patibolo». Lei lo ha ricordato. Fenomenale. Da tempo indago sul celebre rebus aristotelico: bisogna trovare il Principio, e tutto il resto ci sarà dato in sovrappiù. Sabato: IO HO TROVATO IL PRINCIPIO. So come e a che scopo siamo stati fabbricati. Si rende conto di quello che le sto dicendo? Voglio essere asciutto e non abbellire niente. Una teoria deve essere spietata, e si rivolta contro il proprio creatore se questi non tratta anche se stesso con crudeltà. A spingermi a scriverle è il timore che un imprevisto mi faccia portare con me alla Chacarita questa colossale scoperta. Devo prevedere e calcolare, al di fuori di qualsiasi vanità. E non mi faccio troppe illusioni. Rousseau per Voltaire era un energumeno, e Freud per Carrel un tipo pericoloso. Misconosciuto, triste, panoramicamente solo, m'importa solo l'uomo: che non si perda il capo del gomitolo che tanto mi è costato trovare. E che la verità, come un incendio nella foresta, illumini lo spettacolo del leone e della gazzella che si salvano insieme. So perché e a che scopo ci hanno messi in questo casino, e il motivo del nostro successivo annichilimento. Come capirà, ciò presuppone il possesso del CRITERIO per valutare tutte le attività umane. Dio fu una tappa necessaria, che fra cent'anni farà ridere gli studenti, come adesso ridiamo di Tolomeo. Se Kant sostiene che questo non è possibile, è perché lui non ha lottato come noi per tornare dentro. La regolarità asinina con cui percorreva alla stessa ora le stesse strade dimostra il suo rispetto per l'establishment. Era talmente a suo agio in mezzo al caos che lo spiegò, invece di trovare una soluzione. Come si può essere soddisfatti sapendo che ci hanno messo su questo pianeta contro la nostra volontà e che, a tempo debito, una volta schifosamente vecchi, saremo espulsi fra orribili sofferenze senza ricevere né spiegazioni né scuse? E dovremmo lasciarci intimorire da questo individuo solo perché è nato in Germania? Nel frattempo, da milioni di anni a questa parte, malgrado Kant e tutta la scienza e la disintegrazione dell'atomo, l'uomo, proprio come le mosche o le tartarughe, nasce, soffre e muore senza sapere perché. Sabato: a me una cosa del genere non la fanno. Ho fatto un buco e mi sono messo a sbirciare. E inviterò quelli che non si spaventano a spiare l'allucinante spettacolo. Se i miei limiti culturali la fanno sorridere, pensi che Faraday apprese tutto dai libri che rilegava. Le scrivo perché l'ho vista sulla montagna: congelato e pazzo. Ma se un giorno scende e pensa come questi polli quaggiù, diventerà un Sainte-Beuve qualunque e mi farà schifo. Del mio coraggio ha le prove: sono stato capace di arrampicarmi nudo su un lampione, per punirmi della mia vigliaccheria e per dimostrare a me stesso che ero abbastanza forte da ridere di quelli che avrebbero riso di me. Con la differenza che io risi dall'alto. Mi faccia il favore di non morire fino al 1973, data nella quale le invierò il manoscritto definitivo delle mie ricerche. Siamo sulla soglia di una nuova era. Subiremo ogni genere di arbitrarietà, crimini e ingiustizie. Ci saranno nuovi roghi. Sforzo vano. È iniziata l'era della Tecnologia Morale. Come milioni di anni fa, altri occhi si stanno facendo strada fra le ossa dei nostri crani. Che panorama, Sabato! E l'avvenire sarà formidabile per quelli provvisti di un sistema nervoso in grado di sopportarlo! Se la forza antimondo dovesse liquidarmi, lei dovrà dare una forma al tutto e divulgarlo quando arriverà nelle sue mani. | << | < | > | >> |Pagina 123Caro e remoto ragazzo:mi chiedi consigli, ma io non posso darteli con una semplice lettera, e nemmeno con le idee espresse nei miei saggi, che non corrispondono a quello che sono davvero ma a quello che vorrei essere, se non fossi incarnato in questa carogna putrefatta o in via di putrefazione che è il mio corpo. Non posso aiutarti semplicemente con quelle idee, che ondeggiano nel tumulto delle mie narrazioni come boe ancorate a riva e scosse dalla furia della burrasca. Piuttosto potrei aiutarti (e forse l'ho fatto) con la mescolanza di idee e fantasmi vociferanti o taciturni che dalle mie profondità interiori si sono riversati nei romanzi, fantasmi che si odiano o si amano, si aiutano o si distruggono, aiutando e distruggendo anche me. Non mi rifiuto di tenderti la mano che mi chiedi da tanto lontano. Ma quello che posso dirti in una lettera vale ben poco, forse meno dell'incoraggiamento che potrei offrirti con un'occhiata, con un caffè bevuto insieme, con qualche passeggiata nel labirinto di Buenos Aires. Ti scoraggi perché non so chi ti ha detto non so cosa. Ma quell'amico o conoscente (che parola ingannevole!) ti è troppo vicino per giudicarti, è portato a pensare di essere uguale a te perché mangi come lui, oppure, visto che ti sconfessa, di essere in qualche modo superiore a te. È una tentazione comprensibile: se mangi insieme a un uomo che ha scalato l'Himalaya, osservando con aria di sufficienza il modo in cui impugna il coltello, incorri nella tentazione di considerarti uguale o superiore a lui, dimenticando (cercando di dimenticare) che, per esprimere un giudizio del genere, bisogna pensare all'Himalaya, non al pranzo. Dovrai perdonare un'infinità di volte questo tipo di insolenza. A renderti vera giustizia saranno solo esseri eccezionali, dotati di modestia e sensibilità, di lucidità e generosa comprensione. Quando quell'astioso di Sainte-Beuve affermò che mai e poi mai quel pagliaccio di Stendhal sarebbe riuscito a scrivere un capolavoro, Balzac lo contraddisse; ma è naturale: Balzac aveva scritto la Commedia umana, e quel signore un romanzetto di cui non ricordo neanche il titolo. Brahms fu preso in giro da gente simile a Sainte-Beuve. Schumann invece, il meraviglioso Schumann, lo sfortunatissimo Schumann, dichiarò che era nato il musicista del secolo. Il fatto è che per ammirare ci vuole nobiltà, anche se sembra paradossale. Per questo è raro che l'artista sia riconosciuto dai suoi contemporanei: quasi sempre sono i posteri a farlo, o perlomeno quella sorta di posteri contemporanei che sono gli stranieri, gente che vive lontano e non sa come ti vesti. Se una cosa del genere è successa a Stendhal e Cervantes, come puoi scoraggiarti per le parole di un semplice conoscente che vive di fianco a casa tua? Quando venne pubblicato il primo tomo dell'opera di Proust (dopo che Gide aveva gettato i manoscritti nel cestino della carta straccia), un certo Henri Ghéon scrisse che l'autore si era «incaponito a fare esattamente il contrario di un'opera d'arte, l'inventario delle sue sensazioni, la rassegna delle sue conoscenze, in quadri successivi, mai d'insieme, mai interi, della mutevolezza dei paesaggi e delle anime». Insomma, quel presuntuoso criticava nientemeno che l'essenza del genio di Proust. Quale Banca della Giustizia Universale risarcirà Brahms per il dolore che provò, che inevitabilmente dovette provare la sera in cui lui stesso suonò il piano nel suo primo concerto per pianoforte e orchestra? Quando lo fischiarono e gli lanciarono dei rifiuti? E non solo Brahms, quanto dolore c'è in una sola e modesta canzone di Discépolo, quanta tristezza accumulata, quanta desolazione. Tuttavia - tanto strana è la condizione umana - non sono solo le persone insignificanti e i falliti a provare questi sentimenti meschini. Non decretò forse Lope de Vega che il Don Chisciotte era il libro più brutto che avesse letto in vita sua? E Goethe, non ignorava poeti degni di nota come lui mentre ne elogiava altri di terza categoria, mettendoli così al di sopra di spiriti che in fondo invidiava? Ma torniamo ai tuoi dubbi. Mi basta leggere uno dei tuoi racconti per sapere che un giorno diventerai importante. Però, sei pronto a soffrire quegli orrori? Mi dici che sei smarrito, esitante e non sai che fare, che io ho l'obbligo di dirti una parola. Una parola! Dovrei tacere, ma potresti interpretare il mio silenzio come atroce indifferenza, oppure dovrei parlarti per giorni interi, o vivere con te per anni, e a volte parlare e a volte tacere o fare quattro passi insieme in silenzio, come quando muore qualcuno a cui vogliamo molto bene e comprendiamo che le parole sono insignificanti o goffamente inefficaci. In quei momenti solo l'arte degli altri artisti ti salva, ti consola e ti aiuta. Ti è utile (che spavento!) solo la sofferenza dei grandi esseri che ti hanno preceduto lungo quel calvario. Allora, oltre al talento e al genio, ti occorreranno altri attributi spirituali: il coraggio per affermare la tua verità, la tenacia per andare avanti, una curiosa mescolanza di fede nelle cose che devi dire e di reiterata sfiducia nelle tue forze, una combinazione di modestia di fronte ai giganti e di insolenza di fronte agli imbecilli, un bisogno d'affetto e il coraggio di stare solo, per sfuggire alla tentazione ma anche al pericolo dei gruppetti, delle gallerie di specchi. In quei momenti ti aiuterà il ricordo di quelli che scrissero in solitudine: su una nave, come Melville; in una foresta, come Hemingway; in un paesino, come Faulkner. Se sei disposto a soffrire, a lacerarti, a sopportare la meschinità e la malevolenza, l'incomprensione e la stupidità, il rancore e l'infinita solitudine, allora, caro B., sei pronto a offrire la tua testimonianza. Però, e questo è il colmo, nessuno potrà garantirti il futuro, un futuro che in ogni caso sarà triste: se fallisci, perché il fallimento, sempre penoso, per l'artista è una vera tragedia; se hai successo, perché il successo è qualcosa di volgare, una somma di malintesi, un palpeggiamento; diventi quella schifezza che prende il nome di uomo pubblico, e a buon diritto (a buon diritto?) un ragazzo, come sei stato tu stesso un tempo, potrà sputarti in faccia. E così dovrai sopportare anche questa ingiustizia, piegare la schiena e continuare a produrre la tua opera, come qualcuno che erige una statua in un porcile. Leggi Pavese: «Aver scritto qualcosa che ti lascia come un fucile sparato, ancora scosso e riarso, vuotato di tutto te stesso, dove non solo hai scaricato tutto quello che sai di te stesso, ma quello che sospetti e supponi, e i sussulti, i fantasmi, l'inconscio - averlo fatto con lunga fatica e tensione, con cautela di giorni e tremori e repentine scoperte e fallimenti e irrigidirsi di tutta la vita su quel punto - accorgersi che tutto questo è come nulla se un segno umano, una parola, una presenza non lo accoglie, lo scalda - e morir di freddo - parlare al deserto - essere solo notte e giorno come un morto». Ma sì, presto sentirai quella parola - come Pavese, ovunque sia, sente adesso la nostra - sentirai l'agognata presenza, l'atteso segno di un essere che da un'altra isola ascolta le tue grida, qualcuno che capirà i tuoi gesti e sarà in grado di decifrare il tuo codice. E allora avrai la forza di andare avanti, e per un momento non sentirai il grugnito dei porci. Sia pure per un istante effimero, sentirai l'eternità. Non so quando, in quale momento di sconforto, Brahms fece risuonare quei corni malinconici che sentiamo nel primo movimento della sua prima sinfonia. Forse non si sentì incoraggiato dalle reazioni, perché gli ci vollero tredici anni (tredici anni!) per tornare su quell'opera. Forse aveva perso la speranza, ricevuto sputi in faccia da qualcuno, sentito risate alle sue spalle, o creduto di cogliere sguardi ambigui. Ma gli squilli di quei corni hanno attraversato il tempo e all'improvviso io e te, oppressi dall'angoscia, li abbiamo sentiti e abbiamo capito che, per dovere verso quell'infelice, dobbiamo rispondere con qualche segno per fargli sapere che è stato compreso. Ora sto male. Domani o fra qualche tempo proseguirò. | << | < | > | >> |Pagina 136Lunedì seraHo avuto una brutta giornata, caro B., mi succedono cose che non posso spiegare, ma proprio per questo nel frattempo tento di aggrapparmi all'universo diurno delle idee. La tentazione dell'universo platonico! Più è grande il tumulto interiore, più sono tremende le pressioni che ci schiacciano, e più abbiamo la tendenza a cercare un ordine nelle idee. Mi è sempre successa una cosa del genere, ma dovrei dire che succede sempre. Pensa al celebre greco armonioso con cui ci hanno riempito la testa alle superiori: è un'invenzione del Settecento e fa parte di quell'arsenale dei luoghi comuni dove troverai anche la flemma dei britannici e il senso della misura dei francesi. Basterebbero le funeree e angosciose tragedie greche per distruggere questa sciocchezza, se non possedessimo prove più filosofiche, e in particolare l'invenzione del platonismo. Ciascuno è in cerca di ciò che non ha, e se Socrate cerca la Ragione è perché ne ha bisogno d'urgenza contro le proprie passioni: sulla sua faccia si leggevano tutti i vizi, ricordi? Socrate inventò la Ragione perché era un insensato, e Platone ripudiò l'arte perché era un poeta. Bei precedenti per questi sostenitori del Principio di Contraddizione! Come vedi, la logica non serve neppure ai suoi inventori. Conosco bene quella tentazione platonica, e non per sentito dire. La patii per la prima volta da adolescente, quando mi ritrovai solo in una realtà sudicia e perversa. Allora scoprii quel paradiso, come qualcuno che si è trascinato in mezzo a un immondezzaio e alla fine trova un lago trasparente dove può ripulirsi. E molti anni dopo a Bruxelles, giovane militante comunista, quando venni a conoscenza degli orrori dello stalinismo mi sembrò che mi si aprisse la terra sotto i piedi. Fuggii a Parigi, dove patii non solo la fame e il freddo ma anche la desolazione, nell'inverno del 1934. Finché incontrai quel portiere dell'École Normale di Rue d'Ulm che mi fece dormire nel suo letto. Ogni notte dovevo entrare da una finestra. In quei giorni rubai un trattato di calcolo infinitesimale nella libreria Gibert, e ricordo ancora il momento in cui, mentre bevevo un caffè caldo, aprii tremante il libro, come chi entra in un silenzioso santuario dopo essere fuggito, sporco e affamato, da una città saccheggiata e devastata dai barbari. Quei teoremi mi sollevarono come delicate infermiere che raccolgono una persona che potrebbe avere la colonna vertebrale spezzata. E a poco a poco iniziai a scorgere, fra le crepe del mio spirito straziato, le belle e severe torri dell'universo platonico. Rimasi in quel fortino del silenzio per parecchio tempo. Finché un giorno mi ritrovai ad ascoltare (non a sentire, ma ad ascoltare, ad ascoltare ansioso) il rumore degli uomini, là fuori. Cominciavo a sentire la nostalgia del sangue e della sporcizia, perché solo così riusciamo a sentire la vita. E cosa potrebbe rimpiazzare la vita, malgrado la sua sofferenza e la sua finitezza? In quanti si suicidarono nei campi di concentramento? Siamo fatti così, passiamo da un estremo all'altro. E in questo periodo amaro della mia esistenza, in varie occasioni sono stato tentato di nuovo da quel territorio assoluto, e non ho mai potuto vedere un osservatorio astronomico senza provare nostalgia per l'ordine e la purezza. E anche se non ho disertato la battaglia con i miei mostri, anche se non ho ceduto alla tentazione di tornare in un osservatorio, come un guerriero che entra in convento, a volte, vergognandomi, l'ho fatto rifugiandomi nelle idee: a metà strada tra il furore del sangue e il convento. | << | < | > | >> |Pagina 140C'è una reiterata dialettica fra la vita e l'arte, fra la verità e l'artificio. Una manifestazione dell'enantiodromia di Eraclito: nel mondo dello spirito ogni cosa va verso il proprio contrario. E quando la letteratura diventa pericolosamente letteraria, quando i grandi scrittori vengono soppiantati da manipolatori di vocaboli, quando la grande magia diventa un numero da music-hall, sorge un impulso vitale che la salva dalla morte. Ogni volta che Bisanzio minaccia di cancellare l'arte con un eccesso di sofisticazione, sono i barbari a correre in suo aiuto: quelli della periferia, come Hemingway e Faulkner, o gli autoctoni, come Céline, mostri che fanno il loro ingresso a cavallo, con le lance insanguinate, nei saloni dove marchesi incipriati ballano il minuetto.No. Come avrei potuto commettere le inesattezze contenute in quell'intervista? Non ho rifiutato il rinnovamento dell'arte, ho detto che dobbiamo stare in guardia contro diversi errori, e soprattutto contro l'aggettivo qualificativo «nuovo», quello che probabilmente porta con sé il maggior numero di semantemi falsi. Nell'arte non si ha progresso nel senso in cui ciò avviene per la scienza. La matematica odierna è superiore a quella di Pitagora, ma la scultura non è «migliore» di quella di Ramsete II. Proust fa la caricatura di una donna così progredita da ritenere Debussy migliore di Beethoven, semplicemente perché era venuto dopo. Nell'arte non si ha progresso ma piuttosto cicli, cicli che rispondono a una concezione del mondo e dell'esistenza. Gli egizi non scolpivano monumentali statue geometriche perché incapaci di opere naturalistiche, come dimostrano le figure di schiavi scoperte nelle tombe; il fatto è che per loro «la vera realtà» era l'aldilà, dove il tempo non esiste, e ciò che più somiglia all'eternità è la ieratica geometria. Immagina il momento in cui Piero della Francesca introduce la proporzione e la prospettiva: non si tratta di un «progresso» rispetto all'arte religiosa: non è nient'altro che la manifestazione della mentalità borghese, per la quale «la vera realtà» è quella di questo mondo, la mentalità di gente che crede più in una cambiale che in una messa, più in un ingegnere che in un teologo. Di qui il pericolo della parola «avanguardia» nell'arte, soprattutto quando la si applica a problemi rigorosamente formali. Che senso ha affermare che la scultura naturalistica dei greci costituisce un progresso rispetto a quelle statue geometriche? Al contrario, nell'arte di solito succede che l'antico risulta all'improvviso rivoluzionario, come è accaduto con l'arte nera o polinesiana nell'Europa ipercivilizzata. Attenzione, dunque, al feticismo del «nuovo». Ogni cultura ha un peculiare senso della realtà e, all'interno di quel ciclo culturale, anche ogni artista. Il nuovo per Kafka non è ciò che John Dos Passos considerava nuovo. Ogni artista deve cercare e scoprire il proprio strumento personale, quello che gli consente di esprimere davvero la propria verità, la propria visione del mondo. E sebbene inevitabilmente ogni arte si costruisca su quella che l'ha preceduta, se l'artista è autentico farà ciò che gli appartiene, a volte con un accanimento quasi ridicolo agli occhi di coloro che seguono le mode. Non farti il sangue amaro: è qualcosa che vale per i vestiti o le acconciature, non per i romanzi o le cattedrali. Inoltre, succede che è più facile notare le novità nell'aspetto esteriore, motivo per cui fece più impressione John Dos Passos che Kafka. Ma, come ti dicevo, è l'intera opera di K. a costituire un nuovo linguaggio. Già ai tempi del romanticismo tedesco vi fu un teologo, un certo Schleiermacher, per il quale l'intuizione dell'insieme era preliminare allo studio delle parti: più o meno ciò che sostengono ora gli strutturalisti. È la totalità che conferisce un nuovo senso a ogni frase e persino a ogni parola. Qualcuno ha osservato che quando Baudelaire scrive: «Da un'altra parte, molto lontano da qui!», un vocabolo come «qui» sfugge alla sua banalità nella prospettiva che Baudelaire ha della condizione terrena dell'uomo; il segno vuoto, apparentemente privo di vocazione poetica, viene valorizzato dall'aura stilistica dell'intera opera. Quanto a K., basta pensare agli infiniti riflessi metafisici e teologici che fa sprigionare da una parola così logora come «processo», un cliché da procuratori... Dunque, non è che io non accetti le novità: non accetto le mistificazioni, che non è la stessa cosa. Inoltre, mi capita di sopportare ogni giorno di meno la frivolezza nell'arte, soprattutto quando la si mischia con la Rivoluzione. (Fai caso, per inciso, che le parole nascono di solito con una maiuscola, la triste esperienza le riduce alla minuscola e alla fine si ritrovano fra virgolette.) Che una donna sia alla moda, è naturale; che lo sia un artista è abominevole. Guarda quello che succede nella scultura. Salvo drammatiche eccezioni, è diventata un'arte d'élite nel senso peggiore del termine, una specie di ironico rococò simile a quello che spadroneggiava nei saloni del Seicento. Vale a dire che, lungi dall'essere un'arte d'avanguardia, è un'arte di retroguardia. E, come succede sempre in queste situazioni, un'arte minore: serve a divertire, a passare un po' di tempo, fra le strizzate d'occhio di coloro che sono ben informati. In quei saloni si riunivano signori stanchi della vita, per spettegolare e prendere in giro tutto. Si elaboravano acrostici ingegnosi, epigrammi e giochi di parole, parodie dell' Eneide, veniva proposto un tema e bisognava comporre versi. Una volta furono scritti ventisette sonetti sulla (ipotetica) morte di un pappagallo. Attività che stanno alla grande arte come i fuochi d'artificio all'incendio di un orfanotrofio. Musique de table, niente che potesse disturbare la digestione. La serietà veniva ridicolizzata e l'ingegno aveva la meglio sulla genialità, che è sempre di cattivo gusto. Mentre i poveracci morivano di fame o venivano torturati nelle segrete, un'arte di quell'indole può essere considerata solo una perversione dello spirito, marciume decadente. In difesa di quella genia, comunque, bisogna dire che non si ritenevano paladini della rivoluzione imminente. Anche in questo avevano buon gusto, cosa che non si può dire oggi di quelli che si comportano come loro. Qui a Buenos Aires, senza andare tanto lontano, giovani che pretendono di essere rivoluzionari (o almeno, lo pretendevano un tempo: è probabile che ora abbiano già un buon impiego e si siano decorosamente sposati) hanno accolto con entusiasmo il progetto di un romanzo che si sarebbe potuto leggere dall'inizio alla fine o dalla fine all'inizio. Parlano delle masse e dei quartieri degradati, ma come quei marchesi sono snob marci e decadenti. All'ultima Biennale di Venezia qualcuno ha esposto un mongoloide su una sedia sopra una pedana. Quando si arriva a simili estremi, si capisce che la nostra civiltà eterna sta crollando. [...] Forse in questo modo non sarai uno scrittore della tua stagione, ma sarai un artista del tuo Tempo, dell'apocalisse di cui dovrai dare in qualche modo la tua testimonianza, per salvarti l'anima. Il romanzo si situa fra l'inizio dei tempi moderni e la loro fine, e scorre parallelamente alla crescente profanazione (che parola significativa!) della creatura umana, allo spaventoso processo di demitizzazione del mondo. Per questo motivo sono sterili i tentativi di giudicare il romanzo odierno in termini strettamente formali: bisogna situarlo nel quadro dell'impressionante crisi totale dell'uomo, in funzione di quella gigantesca curva che inizia con il cristianesimo. Senza il cristianesimo, infatti, non sarebbe esistita la coscienza infelice, e senza la tecnica che caratterizza i tempi moderni non ci sarebbero state né desacralizzazione né insicurezza cosmica né solitudine né alienazione. In questo modo l'Europa ha iniettato l'inquietudine psicologica e metafisica nel racconto leggendario o nella semplice avventura epica, per produrre un genere nuovo (adesso dobbiamo proprio usare questo aggettivo) destinato a rivelare un territorio fantastico: la coscienza dell'uomo. Jaspers ha detto che i grandi drammaturghi greci offrivano un sapere tragico, che non si limitava a emozionare gli spettatori ma li trasformava, e in quel modo diventavano educatori del loro popolo. In seguito però, sostiene, quel sapere tragico mutò in fenomeno estetico, e sia il poeta sia il suo uditorio abbandonarono il profondo atteggiamento primitivo per offrire immagini esangui. Questo non è vero, perché un'opera come Il processo non è meno profonda dell' Edipo re. È vero, invece, per l'arte che in tutti i momenti di perfezionamento divenne una semplice manifestazione di estetismo e bizantinismo. È alla luce di questa teoria che devi giudicare la letteratura del nostro continente. Alla prossima, ti abbraccio. | << | < | > | >> |Pagina 163«Aspetta, questa è solo la prima parte della mia teoria. Ciò che l'uomo comune sperimenta nei sogni, gli individui fuori della norma lo vivono nei loro stati di trance: i veggenti, i pazzi, gli artisti e i mistici. Nelle crisi di follia l'anima subisce una trasformazione simile, se non identica, a quella che subisce ogni essere umano nel momento in cui si addormenta: esce dal corpo ed entra in un'altra realtà. Non hai mai riflettuto sull'espressione "essere fuori di sé"? O su parole come alienazione o allucinazione, eh? Ogni volta che ho visto un pazzo furioso ho avuto la spaventosa sensazione che stesse passando attraverso sofferenze infernali. Adesso però capisco che la sua anima si trova già nel suo inferno. I suoi movimenti feroci, le sue sofferenze, i gesti e gli atteggiamenti da belva braccata da orrendi pericoli, gli apparenti deliri, non sono altro che l'esperienza diretta e attuale dell'inferno. I pazzi stanno soffrendo da svegli ciò che noi soffriamo nei nostri peggiori incubi. In qualche caso, questa discesa negli antri infernali può essere solo transitoria. È ciò che succede agli indemoniati. Pensa all'intuizione di quelle antiche culture».«Gli ottentotti?» «Esseri che solamente dopo complesse operazioni, che solo alcuni iniziati erano in grado di portare a termine, tornavano alla vita normale, come se si svegliassero da un incubo atroce». «Se la tua teoria è corretta, non capisco perché non ci sia gente che vede anche il paradiso». «Ma certo, scema. Non hai mai fatto sogni beatifici? E non hai mai visto nei manicomi quei matti pacifici, sorridenti, che non fanno del male a una mosca? Adesso sta' a sentire quello che ti dico. Questa allucinazione può anche essere provocata in modo volontario. I mistici. I poeti: "Je dis qu'il faut être voyant, se faire voyant!"» «Bene, se non c'è Codovilla, che venga almeno qualcuno a demistificare». «Ecco, ci manca solo che scendi fino agli ultimi gradini del positivismo. E poi ridi del povero Arrambide. In fondo, credo che voi due siate fatti della stessa stoffa». S. si irritò e si alzò per andarsene. «No, questo no. Adesso non puoi lasciarmi in sospeso». «E va bene. Come ti dicevo, alcuni individui possono ottenere quella separazione o allucinazione in modo volontario. Ci si può aiutare con la tensione e il digiuno, con la tenacia del proprio intento, oltre che, naturalmente, con le doti innate, con l'ispirazione divina o demoniaca. È ciò che ottengono i grandi mistici. L'estasi. Come vedi, il linguaggio inganna soltanto gli idioti. Ex-tasi. Collocarsi fuori di sé, uscire dal proprio corpo, situarsi nella pura eternità. Gli yogi, per esempio. Che muoiono a se stessi per rinascere in un altro territorio, liberandosi del carcere temporale. E gli artisti. Le cose che dice Platone non sono diverse da ciò che pensavano gli antichi: il poeta, ispirato dai demoni, ripete parole che non pronuncerebbe mai se fosse in sé e descrive visioni di luoghi soprannaturali, proprio come il mistico. In quello stato, come ti dicevo, l'anima possiede una percezione diversa da quella normale, e si cancellano i confini fra l'oggetto e il soggetto, fra il reale e l'immaginario, fra il passato e il futuro. E così, persone ignoranti durante le visioni hanno pronunciato parole di lingue che non conoscevano, e una ragazza dalla vita innocente come Emily Brontë ha scritto un libro terribile. Come avrebbe potuto descrivere altrimenti un'anima come quella di Heathcliff, che si è consegnata alle potenze infernali? Il disincarnarsi dell'anima dell'artista nel momento della sua ispirazione spiegherebbe anche il carattere profetico che raggiunge in certi momenti, sia pure nella forma enigmatica, simbolica o ambigua dei sogni. In parte, per l'indole oscura di quel continente, che forse la nostra anima intravede come attraverso un vetro sporco, perché il disincarnarsi è imperfetto. In parte, perché la nostra coscienza razionale forse non è adatta a descrivere un universo non governato dalla logica quotidiana, né dal principio di causalità. E anche perché l'uomo non sembra in grado di sopportare le visioni infernali. È semplicemente una questione di istinto di conservazione». «Di chi?» «Del corpo. Come dicevo, nel sonno o nei momenti d'ispirazione non siamo completamente disincarnati. E l'istinto di conservazione fisica ci protegge con delle maschere, come le tute d'amianto di chi deve farsi strada tra le fiamme. Ci protegge con maschere e simboli». Beba lo guardava. Lo guardava con ironia o con affetto? Forse con quel misto di ironia e affetto con cui le madri guardano i figli fantasiosi che giocano con tesori o cani invisibili. «A cosa stai pensando?», domandò S. con diffidenza. «A niente, scemo. Pensavo e basta», rispose lei con la stessa espressione. «Bene, proseguo. I teologi hanno ragionato sull'inferno, e a volte ne hanno dimostrato l'esistenza nel modo in cui si dimostra un teorema. Ma solo i grandi poeti ci hanno rivelato la verità dicendo quello che avevano visto. Capisci? Quello che hanno visto davvero. Pensa: Blake, Milton, Dante, Rimbaud, Lautréamont, Sade, Strindberg, Dostoevskij, Hölderlin, Kafka. Chi è tanto arrogante da mettere in dubbio la testimonianza di questi martiri?» La guardò quasi con severità, come se ne chiedesse conto a lei. «Sono quelli che sognano per gli altri. Sono condannati, intendimi bene, CONDANNATI!», urlò quasi, «a rivelare gli inferi». Tacque e per un po' vi fu silenzio. Poi, come se parlasse fra sé, aggiunse: «Non so dove ho letto che Dante non avrebbe fatto altro che esprimere idee e sentimenti della sua epoca, i pregiudizi teologici in voga, le superstizioni che aleggiavano nell'aria. In tal modo sarebbe, semplicemente, l'espressione della coscienza e dell'incoscienza di una cultura. Chissà che non ci sia un po' di verità in questo. Ma non nel senso che pretendono quei sociologi dell'orrore. Io credo che Dante abbia visto. Come tutti i grandi poeti vide ciò che i poveracci presagiscono in modo meno preciso. La gente che lo vedeva camminare per le strade di Ravenna, taciturno e magro, commentava sottovoce con sacro timore: ecco quello che è stato all'inferno. Lo sapevi? Parole testuali. Non si trattava di una metafora: quelli credevano che Dante fosse stato all'inferno. E non si sbagliavano. Si sbagliano questi furboni, questi individui che si credono intelligenti». | << | < | > | >> |Pagina 207«Lasciamo perdere questo argomento, Silvia. Preferisco parlare dell'altra questione rimasta in sospeso durante la riunione. È vero che il marxismo ci azzecca su certi aspetti sociali e politici di questa società. Ma ce ne sono altri che oppongono resistenza».«Oppongono resistenza?» Silvia spinse in avanti la sua testa da saracena. «Certo: l'arte, i sogni, il mito, lo spirito religioso». Timidamente (era stranissimo il contrasto fra la Silvia audace della riunione, ironica, brillante, e questa del parco) lei sostenne che l'ateismo marxista era politico più che teologico. Non si proponeva come obiettivo la morte di Dio ma la distruzione del capitalismo. Aveva criticato la religione nella misura in cui questa costituiva un ostacolo per la rivoluzione. S. la guardava con mansueta incredulità. Perché, non era d'accordo? «Sappiamo che la Chiesa ha appoggiato lo sfruttamento. Ti dicevo prima della Bibbia in Africa. Io però non parlo dell'atteggiamento politico della Chiesa ma di un'altra cosa, dello spirito religioso. Marx era veramente ateo, credeva veramente che la religione fosse un sopruso. Né più né meno che gli scientisti». Poi rise. «La televisione è l'oppio dei popoli. Questo è l'aforisma veritiero. Ma non arrabbiarti. Provo ammirazione per Marx; insieme a Kierkegaard ha iniziato la rivendicazione dell'uomo concreto. Adesso però mi riferisco alla sua fede nella scienza, che, come vedi, ci ha portato a un altro tipo di alienazione. È lì che mi allontano dalla sua teoria. E la stessa cosa mi succede con marxisti di alto livello, come Kosík. In fondo sono razionalisti». «Ma la ragione dialettica non è la semplice ragione di una volta». «Dialettica o no, rimane astratta. E poi vogliono svelare tutto, spiegare tutto. Non mi riferisco, è chiaro, a coloro che "spiegano" Shakespeare con l'accumulazione primitiva del capitale. Quella è una barzelletta». Si sedette e rimase assorto per un po'. Poi proseguì: «Guarda cos'è successo con il mito. Quelli dell'Enciclopedia se la ridevano: pure menzogne, pura e semplice mistificazione. E, per inciso, lì c'è la radice della confusione attuale: demistificare è lo stesso che demitizzare. Gli uomini di scienza ridevano a crepapelle. Tu non hai conosciuto quella gente come me, che ho lavorato fianco a fianco con dei premi Nobel in grandi centri di ricerca. Ma c'è un caso che mi sembra patetico. Quello di Lévy-Bruhl. Lo conosci?» «No. Mi sono fermata a Lévi-Strauss. Sono parenti?» «No. Quello di cui ti parlo ha la y greca. Iniziò a scrivere un trattato per dimostrare il progresso dalla mentalità primitiva alla coscienza scientifica. Sai cosa accadde a quel poveretto? Invecchiò cercando di fornire questa dimostrazione. Ma era onesto e finì per confessare la sua sconfitta, ammettendo che la famosa mentalità "primitiva" non è uno stadio inferiore dell'umanità. E che negli uomini del giorno d'oggi sussistono entrambe le mentalità. Che orrore, vero? Considera che la mentalità "positiva" (l'aggettivo mi fa ridere, non posso evitarlo) ha inoculato in Occidente l'idea che la cultura scientifica sia superiore a quella, diciamo, dei polinesiani. Che te ne pare? E che la scienza sia superiore all'arte, ovviamente. Quando ho abbandonato la fisica, il professor Houssay mi ha tolto il saluto, lo sapevi?» «No». «Secondo il pensiero illuminista, l'umanità progrediva nella misura in cui si allontanava dallo stadio mitopoietico. Nel 1820 lo affermò in modo solenne un cretino, Thomas Love Peacock: un poeta del nostro tempo è un barbaro in una comunità civile. Che te ne pare?» Silvia era dubbiosa. «Le ricerche del povero Lévy-Bruhl hanno rivelato fino a che punto quella pretesa fosse fuori luogo, oltre che assurda e arrogante. È accaduto quello che doveva accadere: espulso dal pensiero, il mito si è rifugiato nell'arte, che in tal modo è diventata una profanazione del mito, ma allo stesso tempo una sua rivendicazione. E questo dimostra due cose: primo, che è imbattibile, che è una necessità profonda dell'uomo. Secondo, che l'arte ci salverà dall'alienazione totale, dalla brutale separazione fra il pensiero magico e il pensiero logico. L'uomo è una sintesi di tutto questo. Perciò il romanzo, che ha un piede da un lato e uno dall'altro, è forse l'attività capace di esprimere meglio l'essere totale». S. si chinò e sistemò alcuni sassi formando una R. «Qualche tempo fa un critico tedesco mi ha domandato perché noi latinoamericani abbiamo grandi romanzieri ma non grandi filosofi. Perché siamo dei barbari, gli ho risposto, perché noi, fortunatamente, ci siamo salvati dalla grande scissione razionalista. Così come si sono salvati i russi, gli scandinavi, gli spagnoli, i popoli periferici. Se vuole la nostra Weltanschauung, gli ho detto, deve cercarla nei nostri romanzi, non nel nostro pensiero puro». Riposizionò i sassi formando un quadrato. «Mi riferisco ai romanzi totali, certo, non alle semplici narrazioni. Dall'Europa, naturalmente, vengono a dirci che nei romanzi non devono esserci idee. Gli oggettivisti. Mio Dio! L'essere umano è il centro di qualsiasi narrazione (non esistono romanzi incentrati su tavoli o gasteropodi), quindi l'obiezione è sciocca. Ezra Pound disse che non possiamo permetterci il lusso di ignorare le idee filosofiche e teologiche di Dante, né di sorvolare sui passi del suo romanzo o poema metafisico in cui sono esposte con maggiore chiarezza. E non sono legittime solo le idee incarnate, ma anche le purissime idee platoniche. Non sono forse uomini quelli che ci sono arrivati? Allora non si potrebbe scrivere un romanzo che avesse Platone per protagonista, a meno di liquidare buona parte del suo spirito. Il romanzo odierno, almeno nelle sue espressioni più ambiziose, deve tentare la descrizione totale dell'uomo, dai suoi deliri alla sua logica. Quale legge mosaica lo proibisce? Chi detiene il Regolamento assoluto che stabilisce come deve essere un romanzo? Tout les écarts lui appartiennent, disse Valéry disgustato e con aria di rimprovero. Credeva di demolire il romanzo e in realtà non faceva altro che elogiarlo. Bel razionalista! E ti parlo di romanzi perché non c'è niente di più ibrido. In effetti bisognerebbe inventare un'arte che mischi le idee pure con il ballo, le urla con la geometria. Qualcosa che si compia in uno spazio ermetico e sacro, un rituale nel quale i gesti siano uniti al pensiero più puro, e i discorsi filosofici alle danze dei guerrieri zulù. Una combinazione di Kant con Hieronymus Bosch, di Picasso con Einstein, di Rilke con Gengis Khan. Finché non saremo capaci di un'espressione così completa, difendiamo almeno il diritto di scrivere romanzi mostruosi». S. dispose un'altra volta i sassolini in modo da formare una R. «Solo nell'arte si rivela la realtà, e intendo tutta la realtà. E ci vengono a dire che questa mitizzazione dell'arte è reazionaria, antiquata, settecentesca, tipica dei romantici. Certo. Il genio protoromantico di Vico aveva già visto chiaramente quello che altri filosofi non sono riusciti a capire neanche molto tempo dopo. Fu lui a iniziare quanto avrebbero fatto in seguito Jung e, paradossalmente, dato che provenivano dallo scientismo, Lévy-Bruhl e Freud. Le idee del romanticismo tedesco vennero dimenticate o disprezzate da quella cultura pretenziosa. Allora bisogna riportarle alla luce. Schopenhauer disse che in certi momenti la reazione è progresso, e il progresso reazione. O forse fu Nietzsche, sviluppando una frase di Schopenhauer, non ricordo bene. Oggi il progresso consiste nel riprendere quella vecchia idea. I filosofi romantici tedeschi furono i primi, dopo Vico, a vedere le cose con chiarezza. E intuirono persino l'idea di struttura. Un'idea giusta, che gli uomini di scienza però avevano gettato via. Guarda». Le mostrò un sassolino. «La mentalità scientifica funziona così: questo sasso è feldspato, e il feldspato si scompone in molecole, le molecole a loro volta in atomi e via dicendo. Dal complesso al semplice, dalla totalità alle parti. Analisi, scomposizione. È andata così». Silvia lo guardò. «Non mi riferisco al progresso tecnico. Certo, finché si tratta di sassi o atomi, la cosa funziona. Ti parlo della sventura che ha comportato supporre che lo stesso metodo potesse essere usato anche per l'uomo. Un uomo non è un sasso, non si può scomporlo in fegato, occhi, pancreas, metacarpi. È una totalità, una struttura nella quale le singole parti non hanno senso senza il tutto, dove ogni organo influisce sugli altri e gli altri su quello. Hai problemi di fegato e gli occhi ti diventano gialli. Come possono esserci specialisti degli occhi? La scienza ha scisso tutto. E la scissione più grave è quella del corpo dall'anima. Un tempo, se non avevi un ascesso o non ti eri rotto una gamba non eri malato, eri un malade imaginaire». S. rimise il sassolino al suo posto. Si rialzò e si appoggiò alla balaustra. «Qui sotto c'è il mondo che abbiamo realizzato, il prodotto della scienza. Presto saremo costretti a vivere in gabbie di vetro. Dio mio, com'è possibile che per qualcuno questo rappresenti un ideale». Silvia rifletteva. Poi lui si risedette. «Il mito, come l'arte, è un linguaggio. Esprime un certo tipo di realtà nell'unico modo in cui questa realtà può essere espressa, ed è irriducibile a un altro linguaggio. Ti faccio un esempio semplice: hai appena ascoltato un quartetto di Béla Bartók, esci e qualcuno ti chiede di "spiegarglielo". Certo, nessuno commette una simile sciocchezza. Eppure ci comportiamo così con un mito. O con un'opera letteraria. A me viene chiesto in continuazione di spiegare il Rapporto sui ciechi. La stessa cosa succede con i sogni. La gente vuole sentirsi spiegare i suoi incubi. Ma il sogno esprime una realtà nell'unico modo in cui quella realtà può esprimersi». Rimase assorto. «È curioso», disse poi, «che uno come Kosík riconosca quel ruolo di rivelazione all'arte ma non al mito. Lì viene alla luce un residuo di pensiero illuministico. Quando parla del mito, invece, sostiene più o meno che grazie alla ragione dialettica possiamo passare dalla semplice opinione alla scienza, dal mito alla verità. Lo vedi? Il mito è una sorta di menzogna, una mistificazione. Passando dal pensiero magico al pensiero razionale si "progredisce". La stessa cosa succedeva a Freud, malgrado la sua genialità. Per inciso, mi ha sempre incuriosito un dualismo presente in Freud. Un genio bifronte: da un lato l'intuizione dell'inconscio, delle tenebre, lo apparenta ai romantici, dall'altro la formazione positivista ne fa una specie di dottor Arrambide». «Arrambide?» «No, stavo pensando fra me e me». Ridivenne pensoso e poi proseguì: «La luce contro le tenebre. È inutile, ce l'hanno fisso in testa. Sono sempre stati convinti che le creazioni mitologiche debbano avere un senso intelligibile. E se lo nascondono con immagini fantastiche o simboli, bisogna "smascherarle". È curioso quello che succede con Kosík... Quando leggerai il suo libro ti accorgerai che è un tipo eccezionale. Eppure... Da una parte dice che l'arte è demistificatrice e rivoluzionaria, dato che conduce dalle idee false alla realtà stessa. Però non comprende il mito. Un sogno, per esempio, è sempre una pura verità. Come può mentire? La stessa cosa succede con l'arte, quando è profonda. Una dottrina giuridica può essere una mistificazione, lo strumento usato da una classe privilegiata per perpetuarsi legalmente. Ma come può essere una mistificazione il Don Chisciotte?» Per la prima volta dopo molto tempo, durante il quale era rimasta apparentemente concentrata sul suo interlocutore, riflettendo, Silvia osservò: «D'accordo. Però credo che ci sia anche un po' di verità nel marxismo, quando considera che l'arte non si crea dal nulla ma a partire da un certo tipo di società. In un modo o nell'altro, c'è una relazione fra l'arte e la società. Un'omologia». «Certo. C'è qualche relazione fra l'arte e la società, così come c'è qualche relazione fra un incubo e la vita diurna. Ma questa parola, qualche, dobbiamo esaminarla con la lente d'ingrandimento, perché è lì che nascono tutti gli errori. Siccome Proust era un damerino, vengono a dirti, la sua letteratura è l'espressione putrefatta di una società ingiusta. Capisci? C'è una relazione, ma non deve essere per forza diretta. Può essere inversa, antagonistica, una ribellione. Non un riflesso, il famoso riflesso. Si tratta di un atto creativo con cui l'uomo arricchisce la realtà. Marx stesso affermava che è l'uomo a produrre l'uomo. La qual cosa è opposta al famoso riflesso quanto un calcio in uno specchio. E per questa concezione marxista, come per molte altre, bisogna fare tanto di cappello a Hegel e alla sua idea dell'autocreazione dell'uomo. L'essere che crea se stesso lo fa mediante tutto ciò che il suo spirito oggettivo è capace di fare: da una locomotiva a una poesia. Vieni, prendiamo un caffè». Camminarono fino all'angolo fra Calle Brasil e Calle Defensa. «Durante quella riunione assurda non ho avuto né la calma né la pazienza né la voglia di spiegare tutte queste cose. Inoltre, non devo sostenere un esame davanti a piccoli pedanti come Araujo, che ha scoperto il marxismo ventisette minuti fa in qualche manualetto. Questi rivoluzionari in qualsiasi opera d'arte che provenga dalla classe privilegiata non vedono altro che interessi di classe mascherati. Sono dannosissimi, perché poi c'è gente che s'immagina di confutare Marx confutando queste caricature. Marx ammirava il monarchico Balzac e se la rideva invece di un comunista, un certo Vallès, che aveva scritto un'opera intitolata, mi pare, L'insurgé. E avrebbe disprezzato questa letteratura proletaria che in Russia mettono a ferro e fuoco. Fra questi prodotti e l'opera di quello snob del Sesto Arrondissement che moriva d'amore per le duchesse, non c'è dubbio: a sussistere sarà quel damerino. Perché la creazione artistica nasce da tutto l'essere umano. Capisci? Da tutto, non solo dalla parte cosciente, dalle idee che possono essere sbagliate, e in genere lo sono (persino Aristotele si sbagliò parecchio), ma anche da territori che non vengono modificati dai rapporti economici. Oggi continuano a esserci edipi, come ai tempi di Sofocle. Gli edipi non hanno niente a che vedere con i rapporti economici dei greci. I problemi della vita e della morte, della finitezza, dell'angoscia e della speranza. I limiti della condizione umana, che esistono da quando l'uomo è uomo. Per questo i tragici greci continuano a commuoverci, anche se le strutture sociali in cui nacquero non esistono più». | << | < | > | >> |Pagina 261«Ma è vero che sta scrivendo un romanzo?»«Un romanzo? Sì... no... non so che dirti... Sì, ci sono cose che mi ossessionano, ma è tutto difficilissimo, soffro molto con questa storia e poi...» Dopo qualche passo aggiunse: «Sai cosa accadde nella fisica agli inizi del secolo? Si cominciò a mettere in dubbio tutto. Voglio dire, i principi basilari. Era come un edificio scricchiolante e fu necessario controllarne le fondamenta. E si cominciò a riflettere sulla fisica invece di farla». Si appoggiò al muro e si soffermò un istante a guardare il ristorante basco. «Con il romanzo è successo qualcosa di simile. Bisogna controllarne le basi. Non è un caso, dato che nasce con la civiltà occidentale e continua a seguirne tutta la traiettoria, fino ad arrivare a questo momento di crollo. C'è una crisi del romanzo o un romanzo della crisi? Entrambe le cose. Si studia la sua essenza, la sua missione e il suo valore. Ma tutto questo è stato fatto dal di fuori. Si è avuto qualche tentativo di condurre l'esame dall'interno, ma bisognerebbe andare più a fondo. Un romanzo in cui lo scrittore stesso si metta in gioco». «Però mi sembra di avere letto cose del genere. Non c'è l'autore di Punto contro punto?» «Sì. Ma non parlo di questo, non parlo di inserire uno scrittore nella narrazione. Parlo della possibilità estrema che sia l'autore stesso del romanzo a starci dentro. Ma non come un osservatore, o un cronista, o un testimone». «E come allora?» «Come un personaggio fra gli altri, con le stesse caratteristiche degli altri, che in ogni caso nascono dalla sua anima. Come un individuo impazzito che convivesse con i propri doppi. Ma non per spirito acrobatico, Dio me ne scampi, bensì per vedere se in tal modo possiamo penetrare più addentro in questo grande mistero». Rimase assorto mentre camminava. No, no, la strada era quella. Entrare nelle proprie tenebre.
Era come se ce l'avesse «sulla punta della lingua», e
qualcosa, un divieto enigmatico, un ordine segreto, una potenza sacra e
repressiva, gli impedisse di vederlo con chiarezza. E lo sentiva come una
rivelazione imminente e insieme impossibile. Ma forse il segreto gli sarebbe
stato rivelato via via andando avanti, e forse alla fine sarebbe riuscito a
vederlo alla luce terribile di un sole notturno, una volta terminato quel
viaggio. Guidato dai suoi stessi fantasmi, verso il
continente a cui solo loro potevano guidarlo. E così, con gli
occhi bendati, all'improvviso sentiva che lo spingevano sull'orlo di un abisso
in fondo al quale c'era la soluzione dell'enigma che lo tormentava.
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