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| << | < | > | >> |IndiceVITA DI UNA DONNA LICENZIOSA 9 CAPITOLO PRIMO 11 CAPITOLO SECONDO 39 CAPITOLO TERZO 63 CAPITOLO QUARTO 87 CAPITOLO QUINTO 109 CAPITOLO SESTO 129 Note 153 POSTFAZIONE di Ivan Morris 175 |
| << | < | > | >> |Pagina 11«Una bella donna è un'ascia che tronca la vita» dicevano gli antichi. È naturale che prima o poi il corpo sfiorisca e diventi secco come legna da ardere. Molti sono però gli stolti che si lasciano travolgere dal turbine delle passioni e si consumano anzitempo fino a morirne. Questa specie di uomini, purtroppo, è dura a estinguersi. Dovendo recarmi a Saga, a occidente della capitale, il giorno dell'uomo del primo mese, mi accingevo ad attraversare il fiume Mumezu, dalle correnti profumate di petali di fiori, un inequivocabile annuncio dell'imminente primavera, quando incontrai due uomini. Il primo era di bell'aspetto, vestito all'ultima moda, ma come logorato nel fisico e con il volto pallido, alterato dalle passioni amorose: si capiva che gli rimanevano ben poche speranze, e che sarebbe probabilmente morto prima del padre. «Non posso proprio lamentarmi. L'unica cosa che vorrei è che il liquido dell'amplesso non si estinguesse mai, come la corrente di questo fiume» disse. Al che l'amico, stupito, rispose: «Io invece vorrei che ci fosse un paese assolutamente privo di donne. Andrei subito ad abitarvi, se esistesse, così la mia vita, che tanto mi è preziosa, durerebbe più a lungo e potrei contemplare a mio agio le cose di questo mondo che incessantemente mutano e si trasformano». Quei due uomini esprimevano opinioni contrastanti sulla vita e sulla morte, ma che la vita sia breve o lunga dipende solo dal destino: camminando e discorrendo con passione parevano inseguire, incantati, un sogno non ancora svanito. La strada si trasformò in un sentiero serpeggiante alle falde di un monte e finalmente, dopo aver implacabilmente calpestato piantine di hófu e cardi selvatici appena spuntati, giungemmo all'ombroso versante settentrionale di una montagna solitaria. Davanti a noi si stendeva un boschetto di pini femmina in mezzo a cui s'intravedeva un recinto di lespedeze secche e una capanna la cui porta era difesa da una cortina di esili bambù intrecciati, con una apertura per lasciar passare il cane. Avvicinandoci, notammo che la capanna era quasi completamente ricavata da un anfratto naturale della roccia con la semplice aggiunta di un tetto di rampicanti ancora cosparso di foglie d'edera del passato autunno. Sulla sinistra, sotto un salice, un tubo di bambù convogliava con fresco rintocco la limpida acqua di un piccolo ruscello. Mi stavo chiedendo chi fosse mai il santo eremita che viveva in un simile luogo quando mi accorsi, con stupore, che si trattava di una donna, ormai consunta dagli anni, i capelli bianchi come brina pettinati alti sul capo in tre ciocche rigonfie, gli occhi velati come l'ombra della luna al suo svanire, e con una vecchia veste dalle maniche non molto ampie, di colore azzurro con crisantemi bianchi a otto petali, un obi corniolo di Palazzo di media lunghezza allacciato sul davanti: nell'insieme un abbigliamento ancora elegante e grazioso. Su una sporgenza, davanti a quella che sembrava la stanza da letto, era appesa una tavoletta di legno bagnato con la scritta: «Romitaggio di una libertina». La vecchia somigliava in qualche modo a quel tipo d'incenso chiamato hatsune,che lascia una persistente fragranza anche dopo aver finito di ardere. Provai una così viva curiosità che il cuore, potendo, mi avrebbe preceduto volando là dentro attraverso la finestra. Ero ancora fermo sulla soglia quando quei due, con modi disinvolti e senza neppur chiedere permesso, entrarono nella capanna. Vedendoli la vecchia sorrise. «Siete dunque tornati! Perché mai voi che siete ancora giovani sacrificate gli inebrianti piaceri del mondo per venire a trovare una vecchia? Siete come il vento sonoro quando visita alberi secchi. Le mie orecchie sono tarde a sentire, la mia lingua è pesante a parlare. Sono già trascorsi sette anni da quando mi sono rifugiata qui, lontano dalle avversità del mondo. Quando sbocciano i fiori di susino capisco che è primavera, quando il verde delle montagne scompare sotto il manto bianco della neve capisco che è tornato l'inverno. Non accade mai che qualcuno venga a trovarmi. Perché voi siete venuti?». «Perché siamo travolti e torturati dalle passioni amorose senza esser riusciti a conoscerne l'autentico volto. Una persona ci ha parlato di te e ci ha insegnato la strada per raggiungerti. Narraci, te ne supplichiamo, la tua vita di un tempo». Così dicendo l'uomo trasse una borraccetta di bambù e una tazza laccata d'oro e, versatevi del sake, la porse con gesto risoluto alla vecchia. Il liquore sortì il suo effetto perché ben presto lei prese a cantare antiche canzoni d'amore, accompagnandosi abilmente con le corde di uno strumento. Poi incominciò a narrare episodi della sua vita libertina. «Io non sono di umili natali. Mia madre non era nobile, ma mio padre discendeva da un dignitario della corte dell'imperatore Go Hanazono. Purtroppo la mia famiglia, travolta dalle vicissitudini di questo mondo, decadde a tal punto che non avevamo quasi più di che vivere. Io avevo lineamenti gentili ed ero di leggiadro aspetto, così potei entrare a far parte del seguito di una dama e stabilirmi a corte. Lì ammirai e appresi costumi eleganti e raffinati. Se fossi rimasta a corte non mi sarebbe accaduto nulla di male, come purtroppo poi accadde. Compiuti gli undici anni, agli inizi dell'estate presi infatti a provare strani turbamenti, e non mi appagavo più di come mi acconciavano i capelli, e volevo pettinarmeli gonfi e laccati con la nuca nuda, oppure a coda di cavallo trattenuta da un nastro invisibile, foggia che divenne poi di moda. In quell'epoca incominciai anche ad abbigliarmi con lo sfarzo di una bambola, con kimoni di seta dai motivi del tipo a tinte di Palazzo, allora molto in voga. I nobili a quel tempo si dedicavano alla poesia e al gioco del kemari con modi e intenti a tal punto libertini che, vedendoli e ascoltandoli, provavo un profondo turbamento e finii per desiderare io stessa l'amore, così m'abbandonai alle passioni. Ricevetti allora innumerevoli lettere d'amore, tutte scritte in tono terribilmente ardito, [...] | << | < | > | >> |Pagina 87In quei tempi anche i più miseri abitanti delle città e persino delle campagne, volendo imitare nei matrimoni lo sfarzo della gente nobile e ricca, ostentavano un lusso che non corrispondeva alle loro possibilità reali, e ambivano a un corredo con vesti e suppellettili stupende. Ma queste usanze dimostravano soltanto che non si riconoscevano più i limiti della propria condizione. Le madri, poi, con scarso buon senso, si mostravano fiere delle loro comunissime figlie e insegnavano loro, fin dall'età più tenera, a truccarsi e a curarsi scrupolosamente, per cui la loro pelle diveniva di grana più sottile, il loro corpo più liscio e bello, e così ben presto riuscivano ad attrarre l'attenzione della gente. Era quindi facile che, incantate dai pettegolezzi sulle compagnie teatrali oppure dalle scene maliziose di qualche kyògen, si sentissero infinitamente turbate e indulgessero in pensieri non del tutto casti. Il che si rispecchiava, ovviamente, nel loro abbigliamento e pretendevano di portare un obi lungo un to e due shaku, benché fosse così difficile da annodare. Mentre una volta la lunghezza di un obi femminile era fissata a sei shaku e cinque sun, in quei tempi non c'erano più limiti e ci si poteva sbizzarrire con gli obi più lunghi e appariscenti. Anche le stoffe a stemmi delle vesti a maniche non troppo ampie erano mutate: si coprivano le macchie bianche della seta crespata color fiore di ciliegio con bellissimi fili di cento colori, in modo che sembrasse, almeno da lontano, una raffinata tintura; il che veniva a costare cinque monete d'oro. Il mondo diveniva così preda del lusso più sfrenato. A quel tempo accadde che nel quartiere di Shitateramachi si radunasse una gran folla per ascoltare la lettura della Cronaca del Daibutsu del tempio Tòdaiji di Nara. In quell'occasione vidi, tra le misere maniche, una donna che aveva da tempo oltrepassato l'età del massimo fulgore, di cui non rimanevano più né fiore né profumo, e che oltre tutto aveva un viso cavallino e storto: a osservarla bene, di normale non aveva che le orecchie, perché per il resto era di una bruttezza davvero straordinaria. Però doveva aver avuto la fortuna di nascere in una casa ricca, perché era abbigliata con raffinata eleganza: indossava, a contatto della pelle, una sottoveste di seta candida, una doppia veste di seta violetta, una sopravveste di seta hachijò color iris con i punti nascosti della fodera di seta rossa, un largo obi a righe orizzontali, e inoltre portava tutti i possibili ornamenti di una donna. Un giovane commerciante in stoffe e kimono che mi stava vicino commentò, con competenza, che un abbigliamento di quel genere doveva esserle costato un kan e trecentosettanta monme. "Quanto dispendio al mondo! Con quei soldi si potrebbe comperare una casa di sei o sette locali sul lato sud". "Che eleganza!" diceva invece la gente. Finita la stagione estiva, presi congedo dal padrone e affittai un alloggio vicino al porto di Naniwa, presso Yokobori, ma non vi abitavo quasi mai, perché ero chiamata ora a questo ora a quel matrimonio in qualità di accompagnatrice della sposa. A Osaka la gente amava l'ostentazione più di quanto avrei mai supposto e organizzava matrimoni lussuosi senza preoccuparsi che il loro costo superasse quello messo in preventivo. I genitori della giovane speravano che lo sposo fosse di posizione sociale più elevata della loro, e quelli del giovane si auguravano che i futuri parenti possedessero una casa il cui tetto fosse più alto del loro. E più che del matrimonio vero e proprio ci si preoccupava dei commenti della gente. Si stabiliva così che la famiglia dello sposo avrebbe provveduto alle spese per la nuova casa, e quella della sposa al corredo. Tutte le donne si radunavano in consiglio, ma con opposti pareri; si mettevano a disposizione tutte le risorse della famiglia, e di un patrimonio di cento kan, dieci andavano per la dote in denaro, altri quindici per le spese varie; inoltre bisognava prevedere i doni da inviare durante l'anno, e così si prenotavano i più bei pesci gialli di Tango, i migliori sgombri di Noto e ci si preoccupava dei minimi particolari. Quando poi veniva il turno della figlia minore, pur non potendo organizzarle un matrimonio sfarzoso come quello della sorella, si provvedeva comunque con larghezza, e poi giungeva il turno del fratello più piccolo, e poi bisognava mandare una vestina e una spada per la nascita del primogenito, e poi si dovevano affrontare nuove spese di rappresentanza per i parenti e così finiva che, occupati com'erano, neppure si accorgevano che l'oro e l'argento sparivano a vista d'occhio. Le spese per il matrimonio delle figlie hanno in tal modo rovinato un numero infinito di famiglie. Anche la madre dello sposo ci teneva a ostentare uno sfarzo superiore alle loro possibilità, e permetteva che nel giorno del matrimonio si facesse quello per cui normalmente avrebbe protestato, che ad esempio si sostituisse la lucerna con le candele, che non si coprisse il kotatsu con la coperta di cotone. A causa di ciò lo sposo era indotto a considerare l'arrivo della compagna della sua intera vita quasi come un fuggevole incontro con una cortigiana, e così si dava anch'egli da fare a coprire ciò che non si dovrebbe nascondere e, dimentico dei suoi reali interessi, si affannava stoltamente a mostrarsi il più virile possibile, dicendo di voler fare una bella figura davanti alla sua donna. Prestando la mia opera di accompagnatrice, ebbi occasione di assistere a molti matrimoni e dovetti concludere che, nella maggior parte dei casi, avvenivano non a causa dell'amore, ma per ben più futili motivi. Solo una volta, in una casa di Naka-no-shima, mi accadde di trovare un giovane sposo che non fece mai alcun tentativo di sedurmi, che agì sempre con grande serietà, senza preoccuparsi delle apparenze, e che non aveva preteso alcun festeggiamento neppure per la notte del primo guanciale. Questa casa fu l'unica da me conosciuta in cui le consuetudini riguardanti il matrimonio non erano mutate, mentre nelle altre divennero sempre più miserevoli, al punto che si dovette abolire persino la portantina per la sposa. | << | < | > | >> |Pagina 119A Shijòdori, dalle parti di Shinmachi, viveva una donna che esercitava la professione di medico e aveva appeso sul portone un'insegna con il disegno di due occhi e con la scritta: "Cerusico". La casa aveva delle grate all'entrata e l'interno era vasto e buio. Vi era sempre una gran folla di malati che se ne stavano tutto il giorno seduti contro le pareti perché non avevano il permesso di dormire sdraiati e dovevano anche rinunciare al piacere del sake; passavano il tempo guardando le verdi foglie dell'iris di pietra dei paesaggi in miniatura graziosamente contornati di montagne di sassolini di Nachi. Era inoltre permesso loro di cantare a bassa voce le canzoni di Kakutayù e quella di Sayònosuke, ma non potevano alzarsi, né litigare e dovevano sopportar tutto con pazienza. Nei momenti di malinconia si raccontavano le loro vicende. Una era una venditrice ambulante di Muromachi, che portava le sue stoffe nelle case affittate da gente venuta da altri paesi per trascorrervi un periodo di svago o di convalescenza: se vi trovava un uomo cercava, potendo, di sedurlo e approfittava della sua debolezza per divenirne compagna di bevute di sake e di altre intemperanze. Naturalmente non trascurava i suoi affari e un obi da allacciarsi sul davanti, del valore di nove monete e cinque soldi lo vendeva a quindici monete con il sottinteso beneplacito del compratore. Un'altra lavorava in una merceria di cui era diventata ben presto l'attrazione maggiore: i clienti erano in genere samurai e in alcuni casi veniva mandata con la merce nei loro alloggi. A volte le toccava di vendere ben altro che gli obi nagoyauchi o i cordoni di seta per le spade. C'era anche un'artigiana di una fabbrica di tessuti del tipo a pelle di cerbiatto; non era particolarmente licenziosa e sfacciata, e pur avendo temperamento e bellezza conservava l'aspetto di una donna onesta, dote che doveva attrarre gli uomini poiché venivano di continuo a trovarla di nascosto e le inviavano denaro e vesti di stagione. Le altre erano tutte donne che per aver abusato del proprio corpo erano state contagiate da una brutta malattia: avevano cercato di celarla a lungo curandosi con infusi di china, ma nei tempi di doyó e hassen si faceva più fastidiosa, si aggravava con gli anni e causava umidità agli occhi. Si consolavano raccontandosi a vicenda le loro sventure. Anch'io mi ero rifugiata lì per la stessa ragione, ma nonostante avessi i capelli frettolosamente acconciati, il viso senza cipria, la veste del tipo hayakawaori dal collo tagliato di sbieco, e nonostante mi asciugassi di continuo gli occhi, non ancora peraltro troppo gravemente ammalati, con una pezzuola di seta gialla, a testa lievemente china, potevo ancora attrarre l'attenzione maschile. In quel periodo c'era nella strada del ponte di Gojó un gran negozio di ventagli. Il padrone era una persona un po' strana, che non aveva voluto una moglie con dote e non aveva neppure preso in considerazione una delle tante belle ragazze di Kyòto, ma era giunto a cinquant'anni dissipando grandi ricchezze in libertinaggi, dicendo che per lui il denaro scaturiva come acqua da una sorgente. Costui, non appena mi vide, s'innamorò a tal punto da chiedermi tremando di diventar sua moglie, sebbene non avessi neppure una scatola per pettini né un bauletto di vimini per le vesti. Continuava a pregarmi con grande insistenza, e poiché non acconsentivo si rivolse a un paraninfo e così riuscì a farmi accettare il mastellino rituale della domanda di matrimonio. Quale fortuna può capitare a una donna! Venivo chiamata la Signora della Casa dei Ventagli e spesso mi recavo al negozio in mezzo alle pieghettatrici e la mia figura attirava a tal punto l'attenzione che numerosi uomini mi pagavano, senza discussioni, ventagli di un numero di stecche superiore a quelle richieste, e c'erano persino bonzi che mi spiavano con il pretesto di esaminare ventagli di ringraziamento. Nessuno più voleva ventagli di Mieidò e anche quelli con le pitture yuzen erano ormai antiquati, perciò ne inventai uno con un bel disegno che si mutava in una scenetta segreta da guardare, sorridendo, da soli: così il negozio divenne uno dei più in voga. Nei primi tempi mio marito si mostrava indulgente e fingeva di non vedere quando qualcuno mi sfiorava una mano o mi toccava le natiche. C'era però un bel giovane che veniva ogni giorno a comperare un ventaglio da un bu. Quel che era stato in principio un gioco divenne ben presto una cosa seria e io, da mane a sera, mi rammaricavo in segreto di essermi sposata perdendo così la mia libertà, finché venni scoperta e scacciata. Andai in cerca di quel giovane, ma non riuscii a trovarlo e non potei far altro che dolermi della mia sventatezza. Mi rifugiai allora, come una vagabonda, in una casupola di Oikedòri, vivendo alla giornata, con il ricavato delle mie vesti che andavo vendendo, come un albero che si lasci a poco a poco scorticare. Speravo sempre di trovare una buona sistemazione, purtroppo quasi impossibile perché quel che abbonda a Kyóto, a parte i templi, sono le donne. Ma grazie alla mia esperienza del mondo riuscii ugualmente a trovar lavoro in una filanda di Nishijin e a organizzare segreti, ma non certo entusiasmanti, incontri con uomini nelle notti di Rokusai. Nel quartiere di Kamichòja c'era un uomo che vestiva come un monaco e viveva senza far niente grazie agli affitti che riscuoteva per sette o forse otto case. Ne suddivideva scrupolosamente il ricavato calcolando le varie spese di tutto l'anno, per sake, salse e altri piaceri. Non mangiava che pesce secco e trascorreva il tempo in piacevole ozio. Abitava con una donna e un gatto; quando lei morì, mi assunse al suo servizio con due incarichi: di giorno sarei dovuta andare a prender l'acqua e avrei preparato il tè, e di notte sarebbe bastato che gli massaggiassi i piedi. Non mi si prospettava alcun compito ingrato. Non avevo rivali e, per colmo di fortuna, quel finto bonzo aveva solo quarant'anni. Così, per poter dimenticare la tristezza della notte, il mio cuore di donna escogitò un progetto peccaminoso. Il padrone soleva portare il watabòshi attorno al collo e, d'inverno, non si toglieva mai lo zucchino, impiegava un'ora a scendere le scale, non riusciva a stare in piedi a lungo per cui, intenerita dalle sue condizioni, pensai che era triste invecchiare così e una sera gli annunciai risolutamente: [...] | << | < | > | >> |Pagina 146D'inverno la moltitudine degli alberi dorme e di sera si vede la neve sui rami del ciliegio. Ma presto si concretizza l'attesa del mattino primaverile. Solo gli uomini trascorrono gli anni senza speranza alcuna. Io provavo vergogna ricordando il tempo passato. Desiderando che almeno fossero esaudite le mie preghiere per il mondo futuro, tornai alla capitale e nel giorno dei nomi dei buddha li recitai anch'io, facendo visita ai principali templi. Al ritorno m'imbattei nel tempietto dei cinquecento rakan e, incuriosita, mi avvicinai per osservarli: non so di chi fossero opera, ma tutti avevano un volto diverso l'uno dall'altro; si diceva che ogni fedele riuscisse a ritrovare, fra tanti volti, quello di una persona conosciuta, così incominciai a scrutarli. Il primo su cui si posò il mio sguardo era l'esatta riproduzione di un uomo con cui avevo condiviso il guanciale nel fulgore della mia giovinezza. Guardai con più attenzione e scoprii che il successivo assomigliava a quel Yoshi di Chòjamachi con cui - dipingendoci reciprocamente un neo sul dorso della mano - avevo scambiato solenni promesse al tempo in cui ero ancora cortigiana, e così mi tornarono alla mente vicende del passato. Un altro che se ne stava seduto in un angolo della grotta mi parve il padrone presso cui avevo prestato servizio nella Kyòto superiore, e con cui avevo avuto una relazione così appassionata da non poterla più dimenticare. Al lato opposto ce n'era un altro che mi ricordava, per il suo naso pronunciato, Gohei, con cui avevo vissuto per qualche tempo, e così fui colta da una struggente nostalgia per quei giorni di sincero amore. Proprio di fronte a me ne vidi un altro piuttosto grassoccio, con una spalla scoperta e una veste giallo pallido. Mi chiedevo a chi somigliasse: finalmente scoprii che era il ritratto di Enbei di Kojichò, il mio amante segreto nei giorni di Rokusai, al tempo in cui prestavo servizio a Edo. Sulle rocce, all'interno della grotta, vidi poi una statua dal volto pallido e bello che mi ricordò un avvenente giovane, un attore di Shijò Kawaramachi che, quando lavoravo in una casa da tè, venne un giorno a trovarmi: fui la prima donna che conobbe. Variammo a tal punto la rappresentazione amorosa che il suo fisico ne risentì: si spense come un lampioncino e a soli ventiquattro anni dovetti accompagnarlo al "campo degli uccelli". Aveva il mento piccolo e gli occhi un po' infossati, per questo era impossibile confonderlo. Ne vidi poi un altro con la testa rasa, le guance arrossate e i baffi. Se non fosse stato per quest'ultimo particolare, l'avrei senz'altro scambiato per il bonzo che mi aveva fatto tanto penare quand'ero la sua concubina. Ero preparata a qualsiasi tortura, ma non a quelle che il bonzo m'infliggeva, instancabilmente, per cui divenni piena di artrosi e quasi tubercolotica; ma la vita di ogni essere umano ha un limite e anche il robustissimo bonzo era ormai ridotto in cenere. Ne vidi un altro sotto un albero secco, con un'espressione furba sul volto, rappresentato nell'atto di radersi la sommità della fronte e che sembrava muovere braccia e gambe: assomigliava a un uomo conosciuto in passato, un addetto a un magazzino di riso dei paesi occidentali che mi frequentava quando facevo l'utabikuni e con cui avevo intrecciato legami profondi. Osservando i volti dei cinquecento rakan mi accorsi che non ce n'era uno che non assomigliasse ai miei antichi amanti. Ripensando alla corrente fluttuante da cui mi ero lasciata travolgere, compresi che nulla è più penoso del mestiere di cortigiana. Che fare di quel mio corpo che aveva conosciuto più di diecimila uomini? Provai una profonda vergogna per esser vissuta tanto a lungo. Ero tormentata e oppressa, come se una carrozza infuocata mi passasse sul petto, e calde lacrime mi bagnavano le guance. Dimenticai persino che mi trovavo in un tempio e mi gettai d'impeto a terra. Piangevo senza più ritegno quando sopraggiunsero bonzi in gran numero e, fattimisi intorno, mi dissero: "Il sole sta tramontando", quindi si misero a battere sulla campana. A quel suono tornai in me e riuscii a calmarmi. Allora i bonzi mi chiesero gentilmente: "Perché piangi, vecchia? Hai forse scoperto tra questi rakan un volto che somiglia a tuo figlio o al marito morto?". Ma io provavo troppa vergogna a rispondere, e uscii rapidamente dal portone. Così mi risvegliai dal mio sogno del mondo: di me non sarebbe rimasto che un vuoto nome quando le mie forme si fossero corrotte e le mie ossa divenute cenere in mezzo alle erbe dei campi.
Giunta alle falde del monte Narutaki, non avendo più legami che mi
trattenessero dal salire sulla montagna della bodhi, sciolsi gli ormeggi e
decisi di giungere, attraverso il mare delle passioni, alla sponda della vita.
Stavo già per gettarmi nello stagno, quando una persona che conoscevo mi vide e
mi trattenne. Così mi costruii questa capanna di canne e di foglie di bambù,
dove vivo in fiduciosa attesa della morte e dove, abbandonata la menzogna in cui
sono vissuta, ho finalmente potuto tornare alla verità. Fu per consiglio di
quella venerabile persona che scelsi la via del Buddha. Ho trascorso tutti i
giorni nella recitazione del nenbutsu; solo per l'emozione suscitata in me dalla
vostra inattesa venuta e per il sake che mi ha sconvolto l'animo, ho potuto
narrarvi a lungo la mia breve vita. E le nubi del mio cuore si dissolvono se
penso che tutto questo può avere il valore di una confessione e di un'accusa dei
miei peccati. Sono una donna sola, perché dovrei nascondervi qualcosa? Questo
mio corpo durerà il tempo sufficiente perché il loto del mio cuore si schiuda e
appassisca. Mi sono abbandonata alla corrente, ma il mio cuore non ne è stato
intorbidato».
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