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| << | < | > | >> |IndiceANALIZZARE I FILM 9 Analizzare un film 9 Il taglio e la taglia 14 Esplorare il film 22 Oltre il testo 26 La narrazione cinematografica 29 La grande sintagmatica della colonna visiva 33 Spazio e tempo 40 Il punto di vista 43 Sistema del racconto 43 La narrazione classica 46 Racconti moderni, racconti postmoderni 50 Oltre il racconto 55 L'inquadratura 58 Inquadrare nello spazio 59 La composizione dell'inquadratura 61 L'ambiente 64 I soggetti 68 L'illuminazione e il colore 74 L'atto di inquadrare 86 L'organizzazione dello spazio filmico 93 L'inquadratura mobile 102 Inquadrare nel tempo 105 Il piano-sequenza 107 Oltre l'inquadratura, oltre l'immagine 110 Il montaggio 110 La messa in serie 116 Il montaggio nel cinema classico 121 Forme di discontinuità 125 Oltre il montaggio: dalla polivisione al morphing 129 Figure dello sguardo 129 Il cinema e la pulsione scopica 130 Visione e narrazione 133 Le dinamiche dello sguardo 134 Forme della soggettività 137 Altri sguardi 139 Lo sguardo in macchina 141 Oltre lo sguardo 141 Dall'immagine-azione all'immagine-tempo 144 La crisi dell'occhio postmoderno 146 Il sonoro 146 L'analisi del suono 149 La relazione suono/immagine 155 Il "luogo" del suono 157 Il tempo del suono 159 La voce 163 Il punto d'ascolto 166 Il suono e il suo oltre 169 Il continente dei testi 169 Punti di attracco 171 Forme di attracco 173 Jean Doucher: Vertigo e il suspense esoterico 174 Robin Wood: Vertigo e le regole del desiderio maschile 176 Tania Modleski: Vertigo e il problema dell'identificazione 180 Chris Marker: Vertigo e la spirale del tempo 181 Laurent Fievet: Vertigo e le vertigini cromatiche 183 Jean-Pierre Esquenazi: Vertigo come parafrasi di Hollywood 184 Charles Barr: Vertigo e le forme dello sguardo 185 Oltre l'analisi, un fare metodico 189 Note al testo 195 Bibliografia 205 Indice dei film |
| << | < | > | >> |Pagina 91. Analizzare un film1.1 IL TAGLIO E LA TAGLIA Immaginiamo di trovarci nel bel mezzo di una passeggiata all'aria aperta, nei pressi di un torrente che scorre in una vallata. Quel luogo ci offre una gran quantità di stimoli sensoriali di diversa natura: le luci, le ombre, i colori, i tipi diversi di vegetazione, i gesti e l'abbigliamento delle persone che incrociamo, la sensazione di calore nell'aria, il rumore dell'acqua, il cinguettio degli uccelli, le voci di bambini in lontananza. Nel nostro distratto girovagare entriamo in contatto con questi e con tanti altri elementi, che identifichiamo però solo in modo parziale: se da un lato possiamo riconoscere ogni singolo elemento nella sua consistenza, in quanto si tratta di fenomeni noti alla nostra esperienza, dall'altro questa eterogeneità ci viene incontro come un blocco unico e apparentemente irriducibile. Durante la passeggiata, luci, colori, odori, suoni si combinano in un insieme compatto, un insieme che nell'istante in cui ci investe ha qualcosa di unico e irripetibile, perché perennemente destinato a cambiare: nelle successive passeggiate, infatti, i singoli fenomeni si combineranno per i nostri sensi in maniera di volta in volta differente. Pensiamo ora a quando guardiamo un film o leggiamo un romanzo. Anche in questo caso ci troviamo, per molti versi, davanti a un paesaggio disseminato di componenti di varia natura, che possiamo riconoscere nella loro singolarità e possiamo anche cogliere come un tutto apparentemente omogeneo, dall'architettura impenetrabile. Un film, per esempio, si fonda su una varietà di elementi che si combinano insieme: scenografie e ambienti, attori che vi agiscono, luci, colori, inquadrature dotate di certi tagli e certe angolazioni, voci, musiche, rumori ecc. Dalla nostra posizione di spettatori più o meno smaliziati siamo certamente in grado di rilevare le caratteristiche di alcuni di questi elementi – apprezzando per esempio la musica scelta per accompagnare determinate immagini, o i toni cromatici di alcune inquadrature, o un particolare effetto di montaggio ecc.: nondimeno, quando guardiamo un film, abbiamo la sensazione di percepire un flusso ininterrotto di immagini e suoni la cui struttura interna ci sfugge. Inoltre, se è vero che un film presenta una pluralità di componenti riscontrabili anche in altri film o più in generale in altri testi (strutture narrative ricorrenti, scelte formali simili, ruoli e generi che si ripetono ecc.), è anche vero che lo fa in una forma costantemente nuova. Proprio come il percorso della nostra passeggiata, allora, un film si rivela essere qualcosa di estremamente eterogeneo e sfuggente, frammentato e allo stesso tempo compatto, unico e allo stesso tempo ripetibile: come ricorda Roland Barthes (1971, p. 40), al quale dobbiamo l'utile paragone di cui ci siamo serviti, un testo, proprio come una passeggiata lungo un torrente, si presenta come una combinatoria unica, il cui valore risiede proprio nella sua costante differenza. All'interno di un quadro tanto complesso, il nostro grado di percezione e il nostro livello di orientamento nel film possono dipendere evidentemente dal modo in cui decidiamo di guardarlo. La posizione che assumiamo quando andiamo al cinema, quella che possiamo definire come la più comune e naturale, è una posizione fondata su una visione in certo senso "distratta", una visione, cioè, interessata perlopiù al susseguirsi degli eventi e alle loro implicazioni (psicologia dei personaggi, prevedibilità degli accadimenti ecc.). Un simile modo di guardare tende a soddisfare il nostro desiderio di perderci dentro la finzione, portandoci a esperire il film come totalità più che come intreccio di dati diversi: potremmo parlare in proposito di uno sguardo "sintetico". Al contrario, se proviamo a cogliere la rete di elementi sulla quale si costruisce il film, se interroghiamo il film per capirne la logica profonda, se adottiamo al contempo un punto di vista ravvicinato per osservare singoli aspetti e un punto di vista più globale per integrare quegli aspetti nella "macchina" del film, allora il nostro sguardo si fa più analitico. L'atteggiamento analitico è quello che tendiamo ad assumere quando miriamo alla conoscenza più approfondita di un determinato fenomeno. Possiamo pensare un po' a ciò che accade quando assistiamo a un gioco di cui non conosciamo le regole: immaginiamo, per esempio, di seguire per la prima volta una partita di baseball. Dagli spalti dove sediamo possiamo osservare gli atleti di due squadre diverse che si affrontano sul campo, eseguendo tutta una serie di movimenti e di azioni di cui non conosciamo il significato e di cui non riusciamo a capire subito la logica. Possiamo accontentarci di seguire questo insieme un po' confuso di movimenti assistendo alla partita con uno sguardo "superficiale", osservando i giocatori che si avvicendano sul campo, sorprendendoci per l'uso di strane mazze e guantoni ecc. Oppure possiamo essere interessati a entrare un po' di più nel meccanismo della partita, cercando di comprendere attraverso ciò che vediamo i principi interni che fondano quello sport, le sue regole. Per fare questo saremo portati istintivamente a concentrarci su quello che succede in campo, passando da una visione passiva a una più vigile, una visione attenta. Dove orientiamo la nostra attenzione? Una delle tante ipotesi potrebbe essere osservare il comportamento di alcuni atleti che ricoprono ruoli visibilmente diversi (il lanciatore, il battitore, i giocatori nei pressi delle basi ecc.) e focalizzare la nostra attenzione su ogni singolo ruolo al fine di riconoscere elementi di regolarità o di variazione. Potremmo chiederci per esempio: cosa succede quando il battitore colpisce la palla? E cosa, invece, quando non la colpisce? Questa modalità di visione, questa visione tecnica, ci può aiutare a raggiungere una maggiore conoscenza di ciò che prima ci sembrava un insieme indistinto di azioni. Ma, una volta individuata l'esistenza di alcune regole generali e riconosciuti i disegni tattici di fondo, saremo probabilmente tentati di collocarli all'interno della partita, per valutare il modo in cui i singoli elementi si combinano nella competizione particolare che stiamo seguendo: a una visione tecnica avremo allora affiancato una visione interpretativa. L'adozione di una simile posizione articolata può aiutarci ad avere una conoscenza più approfondita del funzionamento di quella partita, una conoscenza in certo modo oggettiva: e tuttavia la nostra interpretazione resterà profondamente soggettiva, potendo ampiamente discostarsi dall'interpretazione di un altro osservatore (esperienza peraltro assai frequente quando si commenta l'esito di una partita). Lo sguardo analitico sul film chiama in causa proprio queste molteplici qualità: se esso si differenzia dallo sguardo "ingenuo" che caratterizza lo spettatore "normale", ciò dipende dal fatto che l'analisi presuppone una visione allo stesso tempo attenta, tecnica e interpretativa. Come abbiamo già rilevato nell'esempio della partita, l'adozione di una simile disposizione non implica alcuna idea astratta di oggettività: l'atteggiamento analitico non consiste cioè in una sorta di "griglia" da calare meccanicamente sul film per farne uscire un distillato semantico che il film conterrebbe e a suo modo nasconderebbe. Al contrario, l'analisi coinvolge decisamente la capacità "inventiva" – nel senso etimologico di inventio – dell'analista, le sue qualità di detective, la sua efficacia nel mettere insieme gli elementi su cui si costruisce il film. In certo senso l'analisi è il risultato di un percorso di tipo indiziario, di un'indagine "poliziesca" sul film (Ginzburg, 1979; Bertetto, 2003). Proprio come un investigatore, l'analista deve quindi valorizzare contemporaneamente la dimensione soggettiva e la dimensione oggettiva del suo lavoro. Da un lato, fare analisi vuol dire mettere in gioco in primo luogo se stessi, in una sorta di corpo a corpo con il film: in che modo il film interroga la mia sensibilità, la mia cultura, la mia cinefilia, la mia comprensione, il cuore e la mente, insomma? D'altro lato, fare analisi vuol dire anche rispettare dei vincoli esterni: è con gli elementi che trovo (latino, invenio) nel film che posso costruire una risposta alle domande che mi pongo; è a partire da un dato oggettivo (cioè intersoggettivamente verificabile), dall'osservazione di caratteri, aspetti, componenti del film, e non semplicemente da un gusto personale, che posso comporre il mio puzzle interpretativo. In questo senso l'analisi non è un esercizio valutativo ma una sorta di esplicazione fondata su delle prove: facendo l'analisi di un testo estetico non arriverò a dire se quel testo è più o meno "bello", ma, piuttosto, a capire le ragioni logiche della sua architettura. Anche l'investigatore, del resto, compie un percorso logico rivolto a dimostrare il suo teorema accusatorio combinando prove raccolte a partire da un'intuizione personale. L'idea dell'analisi come percorso indiziario ne evoca in sostanza il carattere fortemente orientato: ogni analisi presuppone e concretizza una scelta, implica cioè l'adozione di un taglio ben preciso. Quando parliamo del taglio di un'analisi facciamo in realtà riferimento ad almeno due aspetti: dire che un'argomentazione si fonda su un certo taglio, per esempio un taglio culturalista o sociologico o linguistico, vuol dire sottolinearne l'impostazione strutturale e il criterio metodologico; ma vuol dire, al tempo stesso, suggerire che essa privilegia alcuni elementi piuttosto di altri, che rileva nel film certe tracce in quanto più efficaci nella costruzione di quel percorso, che opera una selezione di dati. Il taglio insomma è sia un ritaglio sia il consolidamento di un punto di vista. Inoltre, quando diciamo che il taglio di un'analisi è anche un ritaglio che lascia fuori qualcosa, ci poniamo di fatto un problema di misura: sarebbe impossibile, oltre che insensato, pensare a un'analisi che pretendesse di considerare tutti gli elementi di un film. D'altra parte, come abbiamo ricordato, l'analisi si fonda su una ricognizione attenta dell'oggetto, e necessita di un certo grado di precisione e di dettaglio. Qual è dunque la "giusta" dimensione dell'analisi? Una pagina, dieci pagine, un intero libro? In altri termini, una volta stabilito il taglio che voglio adottare per la mia analisi, quale ne deve essere la taglia? Diciamo subito che non esistono regole di condotta fisse: ci sono analisi penetranti e acute che si risolvono in poche pagine, e analisi dotte e magari documentate ma poco efficaci nel rendere conto della logica della macchina-film, che si dipanano lungo un intero volume. La taglia dell'analisi non è di per sé un indice di maggiore o minore qualità. Piuttosto, il problema della misura non coinvolge soltanto l'entità del discorso analitico, ma entra in gioco già nel momento in cui mi pongo il problema della descrizione del film. Fino a che punto devo spingermi nel descrivere i particolari di una scena, di un'inquadratura o del film nel suo insieme? Da un lato è certo che devo cercare di essere esauriente, di non tralasciare particolari importanti, dall'altro so bene che non posso riprodurre in forma verbale una copia perfetta del film. Questa impossibile completezza è legata all'operazione stessa della descrizione, la quale consiste di fatto in una traduzione intersemiotica (cioè nella traduzione di un testo audiovisivo in un testo linguistico). Rispetto alla lingua scritta, il linguaggio cinematografico è caratterizzato da una maggiore eterogeneità compositiva: essendo un oggetto audiovisivo, il film è fatto di componenti visive e di componenti sonore. Più precisamente, dal punto di vista materiale – cioè dal punto di vista delle cosiddette materie dell'espressione, le materie grezze con cui è fatto un film, non ancora modellate da un investimento operato su di esse da una forma – possiamo individuare cinque materie: immagini, scritte, parole, rumori e musica (Metz, 1971). A differenza della scrittura, il film si fonda dunque su una pluralità di componenti fisiche, che per di più stanno tra di loro in una relazione di prevalente simultaneità (mentre scorrono le immagini udiamo musiche, rumori ecc.). Alla difficoltà della traduzione intersemiotica - difficoltà che si riscontra peraltro anche quando descriviamo un quadro, un edificio, una sinfonia ecc. - si aggiunge quindi la difficoltà di rendere conto della complessa strutturazione materiale del film, rompendone l'ordine: per descrivere una scena è necessario enumerare in sequenza elementi – visivi e sonori – che nella scena stessa sono compresenti (Marie, 1975). Come vedremo tra poco parlando delle forme della segmentazione del film, ogni descrizione smonta il suo oggetto per ricostruirlo altrimenti, per cui il livello della descrizione non è un semplice momento tecnico e in certo senso "passivo" – privo cioè di un intervento "inventivo" nel senso cui si faceva cenno dianzi – ma è già a suo modo un passaggio che ci avvia verso l'interpretazione: la descrizione di un film o di una sua parte ne costituisce una prima forma di comprensione. Inoltre, essendo orientata verso l'analisi, la descrizione non ha una forma standard: ora può essere opportuno soffermarsi su singoli aspetti iconici o sonori (l'uso frequente di un certo taglio di inquadratura, una costruzione centrata o al contrario sbilanciata, un suono rarefatto o denso di rumori ecc.), ora sulle relazioni tra le varie componenti (combinazioni audiovisive, forme di montaggio ecc.), ora sulla struttura del racconto ecc. La forma della descrizione dipende dalla chiave di lettura del film e a sua volta la condiziona. In tal senso anche la misura dell'analisi, come già si è detto, non può essere fissa: ciò che conta è che l'analisi si sviluppi secondo un percorso concettuale coerente e capace di rendere conto della logica di fondo che organizza il testo. | << | < | > | >> |Pagina 432.4 SISTEMA DEL RACCONTO2.4.1 La narrazione classica
L'analisi del racconto e delle relazioni fra le parti che lo compongono
porta in superficie la presenza, alla base del film, di una serie di leggi e
di regole organizzative, ovvero l'esistenza di un'architettura narrativa
in cui ogni elemento trova un proprio ruolo specifico, come abbiamo
già avuto modo di vedere a proposito di
Mon Oncle:
un film è il frutto di una serie di scelte – punti di vista, soluzioni
temporali, rapporti fra le unità del racconto ecc. – che si fondono e concorrono
a creare un sistema. Questo sistema fa sì che quando guardiamo un film – in
particolare un film classico, poiché è proprio il cinema classico a magnificare
la coerenza tra tutti gli elementi del film, che producono così un'idea di
grande compattezza narrativa – abbiamo la sensazione che tutto torni,
che tutto quadri, che tutto risponda a leggi precise. Ma come funziona
tale sistema? Per provare a dare una risposta a questa domanda ci riferiremo al
sistema di relazioni individuato da David Bordwell e Kristin
Thompson (2001, pp. 86 ss.), un sistema in cui ogni elemento ha una
sua funzione e istituisce una serie di analogie e differenze, di ripetizioni e
variazioni. L'analisi del film permette proprio di verificare il funzionamento
di tutte queste relazioni all'interno di un racconto. Come
esempio di riferimento useremo
Spartacus
di Kubrick (1960), film storico ambientato nell'antica Roma, che narra le
vicende di uno schiavo, Spartaco, che lotta per la sua libertà.
Ogni elemento del sistema narrativo di un film è dotato innanzitutto di una o più funzioni. All'inizio del film di Kubrick, il fatto che il protagonista stacchi a morsi il piede di una guardia romana è un gesto che ricopre molteplici funzioni: ci indica che Spartaco è un ribelle, ma permette anche che venga comprato da Batiato, l'allenatore di gladiatori, perché, come si vede poco dopo, questi sceglie i futuri combattenti sulla base della condizione dei loro denti. Riguardo a Batiato, inoltre, il fatto che egli sia corpulento è un altro elemento con più funzioni: permette alla protagonista femminile, la schiava Varinia, di fuggire dal suo carro senza poter essere raggiunta; è un elemento di somiglianza fisica con il senatore Gracco (durante un colloquio si troveranno d'accordo nel criticare le persone troppo magre), con il quale Batiato stringerà una piccola alleanza personale per fare dispetto a Crasso, l'antagonista di Spartaco. L'adeguato riconoscimento delle peculiarità di una funzione può essere garantito da una lettura di tipo comparativo: restando sull'esempio appena ricordato, sarebbe stato lo stesso se Batiato fosse stato magro? Che tipo di cambiamenti avrebbe apportato al racconto e alla relazione fra i personaggi una sua diversa corporatura? Un modo di rilevare le funzioni di un elemento è anche quello di considerarne la motivazione: per esempio, il fatto che Spartaco uccida il suo allenatore Marcello è motivato dalle continue prepotenze che il protagonista ha dovuto subire. Ma il concetto di motivazione non spiega solo le ragioni delle azioni dei personaggi, e un avvenimento potrà anche essere motivato dal punto di vista storico, culturale, sociale: la crocifissione di Spartaco e dei suoi uomini alla fine del film è motivata dal fatto che nel I secolo a.C. questi tipi di condanne erano molto diffuse. Gli elementi del film dotati di funzioni e motivazioni entrano anche in un sistema di analogie e di ripetizioni, che ci permettono di ricordare e di riconoscere i luoghi e i personaggi ogni volta che riappaiono. La ripetizione può riguardare qualsiasi elemento, dai dialoghi alla musica, dalle azioni ai movimenti della mdp, e ciascuna ripetizione darà forma a un motivo. In un film come Spartacus è possibile rilevare un'estesa presenza di analogie e ripetizioni, e quindi di motivi. Possiamo per esempio notare il ripetersi del rapporto vecchio/giovane nel legame tra il senatore Crasso e il suo allievo Glabro e tra il senatore Gracco e il suo allievo Giulio Cesare. Queste due coppie sono per molti versi speculari, e si confronteranno in più punti del film (sia Crasso che Gracco cercheranno di soffiarsi i reciproci allievi e di portarli dalla propria parte). Simili analogie sollecitano da parte nostra un'attenzione di tipo comparativo, inducendoci a confrontare due o più personaggi, luoghi o eventi. Per esempio, nella seconda parte del film, sia Spartaco che Crasso tengono un discorso ai loro uomini preparandoli alla battaglia. I due discorsi sono spezzettati e messi insieme secondo la pratica del montaggio alternato, per cui vediamo prima Spartaco che parla, poi Crasso, poi di nuovo Spartaco, quasi si trattasse di un unico discorso. Qui l'accostamento tra il leader dei romani e il leader degli schiavi accentua la loro contrapposizione. Il riconoscimento del sistema di analogie e di ripetizioni è spesso di grande aiuto per comprendere il funzionamento del film. L'analisi può permettere anche di evidenziare il ruolo che ciascun elemento ricopre nella creazione delle analogie e delle ripetizioni. La musica, in particolare, è certamente un elemento privilegiato in questo senso: ogni volta che Spartaco si incontra con la sua amata Varinia, per esempio, la colonna sonora dà spazio allo stesso motivo musicale. Ma il sistema di un film non si compone di sole ripetizioni, bensì anche di differenze e variazioni. L'esigenza di avere variazioni e cambiamenti è facilmente comprensibile: i personaggi si devono distinguere, gli ambienti si devono delineare, e questo significa che, nonostante i motivi possano essere ripetuti, emergeranno sempre delle variazioni. In Spartacus il protagonista affronta due importanti duelli mortali, all'inizio e alla fine del film. L'analogia tra i duelli sta nel fatto che entrambi coinvolgono Spartaco e alcuni suoi cari amici. Ma c'è anche una grande differenza: nel primo duello il gigante Draba risparmia la vita del protagonista preferendo la morte, nel secondo Spartaco uccide il suo amico Antonino per sollevarlo da una sorte ben più atroce, la crocifissione. Le differenze spesso possono acuirsi fino a produrre un effetto di opposizione: in vari passaggi di Spartacus, al sogno di libertà e di fine della schiavitù del protagonista sono contrapposti i desideri tirannici del patrizio Crasso, che sogna di controllare Roma svuotandola del potere democratico. Questa antitesi si trasforma anche in un'opposizione spaziale: agli spazi aperti, simbolo di libertà, in cui si accampano Spartaco e la sua gente, si contrappongono la chiusura e il rigore geometrico del senato romano. Così il viaggio di Spartaco – dalla Tracia, dove è nato, a Capua, dalle pendici del Vesuvio a Brindisi, e poi verso Roma – si configura non solo come percorso fisico, ma anche come percorso simbolico verso la libertà, un percorso che culmina con la crocifissione finale dello stesso Spartaco. | << | < | > | >> |Pagina 1073.3 OITRE L'INQUADRATURA, OLTRE L'IMMAGINE
A conclusione del nostro percorso possiamo ritornare nuovamente là
dove avevamo cominciato, ovvero a quella funzione di snodo tra visibile e
invisibile presente nell'idea stessa dell'atto di inquadrare, a quella
capacità dell'immagine filmica di evocare qualcosa che non c'è ma che
tuttavia in certo senso vive ugualmente nello spazio dell'inquadratura.
Se il fuori campo è una delle forme più evidenti di questa particolare
capacità di rinvio della messa in quadro, l'immagine cinematografica
può alludere a un "oltre" anche per mezzo di altri elementi, non meno
problematici del fuori campo. Il lavoro dell'inquadratura, infatti, non
si esaurisce unicamente sul piano della rappresentazione e della narrazione, ma
può essere analizzato anche dal punto di vista della presenza
dell'immagine: una presenza che può palesarsi perfino solo in un dettaglio, o in
una parte apparentemente insignificante della composizione,
una presenza che ci tocca nel profondo. L'importanza di questo livello
sfuggente si coglie ancora di più se pensiamo che, di un qualunque film
che vediamo, a imprimersi di più nella nostra memoria di spettatori
non sono tanto la storia o le motivazioni dei personaggi, quanto proprio certe
immagini, certe "figure". Philippe Dubois ha proposto in
questo senso un modello di analisi figurale del film, una pratica che si
concentra in modo particolare sull'inquadratura per esplorarne quei livelli che,
piuttosto che generare effetti di senso, mettono alla prova le
sensazioni dello spettatore: il Figurale costituirebbe un processo «instabile,
sempre in divenire», qualcosa che proviene dall'interno dell'immagine e che «è
sempre al lavoro nel corpo stesso dell'immagine» (2004, p. 143). Un modo
attraverso cui può manifestarsi la dimensione
figurale può essere, per Dubois, la presenza di immagini folgoranti che
per la loro bellezza provocano in noi un certo stupore, o la presenza di
dettagli – per esempio oggetti che assumono una forza che va oltre la
loro funzione narrativa, come in tutto il cinema di Hitchcock – oppure,
ancora, la presenza di trasgressioni visive che determinano una lacerazione
dell'immagine, dando corpo a forme non figurative, come avviene in certe prove
del cinema sperimentale (per esempio nei film dipinti direttamente su pellicola
di Len Lye). L'idea che il quadro non sia solo rappresentazione ma anche
presenza è evidente in un film come
History
di Ernie Gehr (1970), in cui, per una quarantina di minuti, si assiste alla
proiezione sullo schermo nero di un'emulsione granulosa, che
sposta l'attenzione sulla materia stessa del film, sulla celluloide e la grana
della pellicola. In questo caso l'inquadratura non racconta nulla, ma
mostra tutta la materialità del supporto filmico, tutta la sua presenza
figurale. Questa natura sfuggente del contenuto dell'immagine, che può
manifestarsi sotto molteplici forme, è fondamentale per l'impostazione
di un corretto lavoro di analisi, che deve sempre tenere presente l'idea
di una non completa chiusura dell'inquadratura, di una sua inesauribile apertura
su un oltre.
Un altro campo in cui possiamo chiaramente riscontrare una problematizzazione di questa dimensione eccedente dell'inquadratura è quello del cinema digitale: la proliferazione delle immagini di sintesi ha completamente trasformato il concetto di immagine e, di conseguenza, quello di inquadratura; ha considerevolmente stravolto le nozioni di profilmico e di messa in scena, giacché lo spazio visibile non è più quello che si trova davanti alla mdp ma è un luogo virtuale ricreato interamente al computer. Con il digitale, infatti, l'inquadratura perde inevitabilmente quel rapporto con la realtà che da sempre l'aveva contraddistinta, quell' esserci stato dell'attore e dello spazio che in precedenza essa condivideva con la fotografia: con l'ausilio delle nuove tecnologie il lavoro di costruzione dell'immagine finisce per essere più prossimo alla pittura – l'inquadratura diventa come una tela su cui porre forme e colori – che non al cinema. Una nozione che viene in qualche modo messa in discussione, per esempio, è proprio quella di fuori campo, perché, come ha ben rilevato Laurent Jullier, l'immagine di sintesi manca di una sua «zona d'ombra»: all'immagine digitale, così come «alle immagini mediche, alle immagini pornografiche, a quelle delle telecamere di sorveglianza o a quelle del presentatore televisivo – altrettanti dispositivi di informazione – manca questa inscrizione di tutti i possibili nel fuori campo contiguo ai suoi bordi»; essa è un'immagine «orfana dell'interattività simbolica che produce l'immagine di cinema come supporto fantasmatico» (1998, pp. 70-71). Questa nuova frontiera dell'immagine problematizza molti aspetti dell'inquadratura, come la concezione degli ambienti – si pensi alle lugubri atmosfere della campagna completamente ricostruita al computer in Il mistero di Sleepy Hollow di Tim Burton (1999) – o le possibilità dei movimenti della mdp – possiamo ricordare il movimento che segue la traiettoria disegnata da una piuma fluttuante (creata digitalmente) nell'incipit di Forrest Gump di Robert Zemeckis (1994) – o, ancora, le nuove possibilità del piano-sequenza, il quale diviene sempre più complesso e interminabile – come accade in apertura di Omicidio in diretta di Brian De Palma (1998) o nel virtuoso piano-sequenza nelle sale dell'Ermitage di L'arca russa di Alexander Sokurov (2002). Queste variazioni tecnologiche, che sono anche variazioni epistemologiche, non solo condizionano il linguaggio cinematografico, ma influiscono anche in maniera notevole sulle pratiche di analisi, che devono fare i conti con un panorama molto più complesso e variegato e con un nuovo statuto dell'immagine: come vedremo nei prossimi capitoli, l'inquadratura è solo uno degli elementi del linguaggio cinematografico rivoluzionati dal digitale, perché le immagini di sintesi propongono decisi cambiamenti anche in relazione al montaggio, alle forme dello sguardo e al suono. | << | < | > | >> |Pagina 1295. Figure dello sguardo5.1 IL CINEMA E LA PULSIONE SCOPICA L'analisi dello sguardo è un aspetto centrale di quel dialogo con il film che è – lo abbiamo già detto – prima di tutto un dialogo con le immagini. Prima di essere il punto di fuga dell'immaginario, ciò che vediamo sullo schermo è il vero e proprio luogo di incontro di sguardi diversi: sguardi che si collocano tanto dalla parte della produzione quanto dalla parte della destinazione. Infatti, se da un lato la realtà che il cinema ci presenta è sempre una realtà osservata, messa in forma da uno sguardo, dall'altro lato il nostro accesso al film è reso possibile dalla pulsione scopica, dal desiderio di vedere: al cinema lo spettatore – osserva Metz – è onnipercepiente, si identifica con uno sguardo, posizionandosi interamente «dal lato dell'istanza della percezione» (1977, p. 51). Qualunque sia l'argomento oggetto del film, lo sguardo e la pulsione scopica assumono un ruolo determinante. In particolare il film classico – in quanto racconto di personaggi – è tutto impostato su una dialettica di sguardi: è il gioco di sguardi dei personaggi a far procedere la narrazione, a guidare la nostra attenzione e a intrecciarsi a sua volta con altri sguardi. Il punto di vista dei personaggi, infatti, entra in una fitta rete di collegamenti con lo sguardo della mdp e lo sguardo dello spettatore. Il senso di un film e la sua ricchezza espressiva sono direttamente legati alle dinamiche che si stabiliscono tra queste visioni.
Lo sguardo e la pulsione scopica erano d'altronde già alla base del cinema
delle origini e, prima ancora, alla base di quelle forme spettacolari
antecedenti all'avvento del cinematografo (Brunetta, 1997). Come
sottolinea André Gaudreault (1988), è probabilmente in ragione della
pulsione scopica che il cineasta delle origini è giunto alla frammentazione
spaziale di una scena, alternando differenti posizioni della cinepresa: i primi
esempi di
cut-in,
il raccordo sull'asse in piano ravvicinato ottenuto per avanzamento della mdp,
hanno spesso l'obiettivo di rispondere al desiderio spettatoriale di vedere di
più, di vedere meglio.
Un film come il britannico
As Seen through a Telescope
(1900) presenta uno dei più antichi esempi di inquadratura soggettiva: un uomo
scruta la strada con il telescopio e finisce per soffermarsi sulla caviglia di
una signora; dal personaggio che guarda passiamo a un'inquadratura marcata dal
mascherino circolare che riproduce la visione attraverso il telescopio. Secondo
Gaudreault sono proprio simili movimenti del punto
di vista ad avere probabilmente condotto i primi cineasti a sperimentare un
prototipo del montaggio alternato – caratterizzato dall'alternanza «soggetto che
guarda / oggetto guardato» – e a porre in tal modo le
basi di una tecnica di montaggio che sarebbe diventata, come abbiamo
visto nel capitolo precedente, basilare nel linguaggio cinematografico.
Questa alternanza costituisce anche la base della soggettiva, lo strumento più
diretto per rappresentare lo sguardo al cinema, che prevede,
nella sua forma-tipo, due componenti: l'una che raffigura un personaggio che
guarda, l'altra che raffigura ciò che vedono gli occhi del personaggio.
5.2 VISIONE E NARRAZIONE Nel capitolo sulla narrazione abbiamo avuto già modo di affrontare alcune modalità dello sguardo a proposito della differenza fra la nozione di focalizzazione e quella di ocularizzazione. Il sistema di sguardi che costruisce il film, infatti, va ben oltre la gestione del sapere spettatoriale, e arriva a incrociare direttamente aspetti legati alla visione, alla narrazione, all'enunciazione. L'intreccio del visivo e del narrativo, in particolare, rimanda alla doppia valenza del film, a quell'inestricabile legame tra mostrare e raccontare che rende ricco e complesso il linguaggio cinematografico. Una sistematizzazione che tenga conto di questa articolazione del problema dello sguardo è stata proposta tra gli altri da Jacques Aumont (1983, pp. 80-81), il quale ha sottolineato come alla nozione di punto di vista al cinema possono essere atttribuiti almeno quattro diversi significati: 1) il punto di vista è innanzitutto la posizione dalla quale si guarda, ovvero «la posizione della macchina da presa rispetto all'oggetto guardato»; 2) il punto di vista include anche la veduta stessa, in quanto ripresa da una determinata posizione; 3) il punto di vista è sempre riferito al narrativo, «è sempre più o meno rappresentazione di uno sguardo, quello dell'autore o quello del personaggio»; 4) il punto di vista è infine «sovradeterminato da un atteggiamento mentale (intellettuale, morale, politico, ecc.) che manifesta il giudizio del narratore sull'avvenimento».
I quattro punti appena elencati danno un'idea delle possibili aperture
verso le quali ci conduce l'analisi del punto di vista, aperture che obbligano a
considerare la coesistenza tra atto del vedere e atto del narrare.
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