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| << | < | > | >> |Pagina 5Come viene aperta una strada nella neve vergine? Un uomo avanza per primo, sudando e imprecando, muove con difficoltà una gamba poi l'altra, e sprofonda ad ogni passo nello spesso manto cedevole. L'uomo è sempre piú lontano e nere buche irregolari segnano il suo cammino. Stanco, si allunga sulla neve, accende una sigaretta e il fumo della machorka si espande lentamente in una piccola nuvola azzurrina sopra la bianca neve scintillante. L'uomo è già andato oltre, ma la nuvoletta resta sospesa là dove si era fermato a riposare: l'aria è quasi immobile. Per aprire una strada si scelgono sempre delle giornate calme, affinché i venti non spazzino via le opere degli uomini. L'uomo sceglie da sé i punti di riferimento nell'infinità nevosa: una roccia, un albero alto, e come il timoniere che conduce la barca lungo il fiume, da un promontorio all'altro, cosí l'uomo sposta il suo corpo attraverso la neve. Sulla pista stretta e labile che ha segnato avanzano, spalla contro spalla, cinque o sei uomini. Tutti posano il piede non nella traccia ma accanto ad essa. Quando raggiungono un punto convenuto in precedenza, fanno dietro front e ritornano sui propri passi, sempre badando a calpestare la neve intatta, là dove l'uomo non ha ancora posato il suo piede. La via è tracciata. Altre persone, e slitte e trattori possono percorrerla. Se si camminasse, passo dopo passo, nella traccia del primo, si otterrebbe un cammino visibile ma stretto e a stento praticabile, un sentiero e non una strada, delle buche nelle quali arrancare ancora piú faticosamente che nella neve vergine. Per il primo la fatica è maggiore che per tutti gli altri e quando non ce la fa piú uno del quintetto di testa passa avanti. Ognuno di quelli che seguono la traccia, anche il piú piccolo, il piú debole, deve posare il piede su di un lembo di neve vergine e non nella traccia di un altro. Quanto ai trattori e ai cavalli, non sono per gli scrittori, ma per i lettori. [1956]. Po snegu, in «Znamja», 1989, n. 6. | << | < | > | >> |Pagina 7Da Naumov, il conducente di cavalli, si giocava a carte. I sorveglianti di turno non mettevano mai il naso nella baracca dei cavallanti, ritenendo a giusta ragione che il compito principale spettante loro fosse la sorveglianza dei condannati in base all'articolo 58. E di regola i cavalli non venivano affidati ai controrivoluzionari. I capi, piú sensibili al lato pratico, avevano un bel recriminare a mezza voce che in questo modo li si privava dei lavoratori piú capaci e coscienziosi: al riguardo il regolamento parlava chiaro e non ammetteva eccezioni. In una parola, dai cavallanti era il posto piú sicuro e li i blatnye, i malavitosi, si ritrovavano ogni notte per i loro duelli a carte. Nell'angolo destro della baracca, sul tavolaccio di sotto, erano state stese variopinte coperte imbottite. Appesa al palo d'angolo con del fil di ferro, ardeva una kolymka, la piccola lampada a vapori di benzina di fattura artigianale. Una scatola di conserva, tre-quattro tubicini di rame infilati nel coperchio ed ecco il marchingegno bell'e pronto. Per accendere la lampada, sul coperchio venivano messi due-tre pezzetti di brace incandescente, la benzina si riscaldava, il vapore saliva su per i tubicini e il gas, acceso da un fiammifero, cominciava ad ardere. Sulle coperte era stato sistemato un sudicio cuscino di piume ai lati del quale avevano preso posto i due compari, uno di fronte all'altro, le gambe ripiegate al modo dei Buriati, nella classica posa di questi duelli carcerari. Sul cuscino c'era un mazzo di carte nuovo. Non si trattava di carte ordinarie, ma di un particolare manufatto che i maestri specializzati sapevano fabbricare con rapidità incredibile. Per la loro fabbricazione occorre della carta (un libro qualsiasi), un pezzo di pane (per masticarlo e farlo filtrare attraverso uno straccio, ottenendo l'amido che serve ad incollare tra loro i fogli), un pezzo di matita copiativa (che funge da inchiostro tipografico) e un coltello (per ritagliare le sagome traforate dei semi e le carte stesse). Le carte in questione erano state appena ritagliate da un volumetto di Victor Hugo che qualcuno aveva dimenticato il giorno prima nell'ufficio del lager. Pagine resistenti, spesse, non era stato necessario incollare piú fogli insieme, come si faceva quando la carta era sottile. E si era trovato anche il lapis. Non era cosí facile perché in lager, durante le perquisizioni, le matite copiative venivano inesorabilmente requisite. E anche al controllo dei pacchi da casa. Si cercava in questo modo di impedire la fabbricazione di documenti e timbri falsi (tra i detenuti c'erano parecchi artisti del ramo), ma anche di stroncare alla base qualsiasi possibile concorrenza al monopolio statale delle carte da gioco. Dalle matite copiative si ricavava una sorta di inchiostro e con esso, mediante le sagome traforate, venivano riprodotti sulle carte i piú svariati rabeschi: donne, fanti, dieci d'ogni risma e seme... I semi erano tutti dello stesso colore, ma al giocatore andava benissimo cosí. Per contrassegnare il fante di picche, ad esempio, bastava il seme di picche ai due angoli opposti della carta. Disposizione e forma dei segni sono le stesse da secoli e l'acquisizione dell'abilità necessaria a fabbricare con le proprie mani un mazzo di carte rientra nel programma di formazione di ogni giovane «cavaliere» della malavita, di ogni blatnoj degno di questo nome. Il mazzo di carte nuove di zecca era dunque posato sul cuscino e uno dei giocatori ci tamburellava sopra con una mano non particolarmente pulita, ma dalle dita bianche, sottili, digiune d'ogni lavoro manuale. L'unghia del mignolo era di lunghezza spropositata: anche questo era indizio certo di sciccheria malavitosa, al pari delle capsule d'oro, in realtà di bronzo, che ricoprivano denti perfettamente sani. Tra i prigionieri si incontravano perfino degli specialisti in materia: s'erano dati da sé la patente di meccanici-dentisti, e rimediavano dei bei guadagni fabbricando le capsule, articolo del quale c'era sempre richiesta. Per quanto riguarda le unghie, l'uso di dipingerle si sarebbe senz'altro radicato nel giro dei malavitosi se solo fosse stato possibile trovare dello smalto in ambito carcerario. L'unghia gialla e levigata scintillava come una pietra preziosa. Il titolare dell'unghia si passava la mano sinistra nei capelli, biondi, unti e appiccicosi, ma dal taglio accuratissimo e molto corto. La fronte bassa, senza una sola ruga, i cespuglietti giallastri delle sopracciglia, la boccuccia dal labbro superiore sporgente, erano tutti elementi che conferivano alla sua fisionomia una qualità essenziale per un ladro: la banalità. Aveva una faccia di cui non era possibile ricordarsi. Non appena vista, la si dimenticava subito, ogni tratto svaniva, al punto da non poterla riconoscere a un nuovo incontro. Era Sėvočka, il famoso esperto dei tre giochi di carte classici, terc, tos e bura, l'ispirato esegeta delle mille regole di gioco che, in una battaglia degna di questo nome, dovevano essere assolutamente rispettate senza deroghe. Di Sėvočka dicevano che «eseguiva alla perfezione», vale a dire che dimostrava le capacità e la destrezza del baro. E lo era, naturalmente; per i ladri un gioco «onesto» è precisamente un gioco basato sull'inganno: sta poi a te sorvegliare il tuo avversario e prenderlo in castagna, è un tuo diritto, anche tu devi sapere imbrogliare, devi saper contendere all'avversario una vincita dubbia. Si giocava sempre in due: uno contro uno. Nessun maestro dell'arte si abbassava a partecipare a giochi di gruppo tipo l' očko. Non si aveva timore di sedersi di fronte a un quotato «esecutore» - come succede anche per gli scacchi, un vero combattente cerca sempre l'avversario piú forte. L'avversario di Sėvočka era Naumov in persona, il caposquadra dei cavallanti. Questo Naumov era il piú vecchio dei due (ma quanti anni poteva avere Sėvočka? venti, trenta, quaranta?), un tipo basso di statura, capelli neri, occhi scuri profondamente infossati e uno sguardo cosí sofferente che se non avessi saputo che era un ladro del Kuban' specializzato in furti ferroviari, l'avrei preso per un pellegrino, un monaco itinerante o un membro della nota setta «Lo sa Iddio», i cui adepti, da decenni, si possono incontrare nei nostri lager. Questa impressione veniva rafforzata dalla crocetta di stagno che Naumov portava appesa al collo con un cordoncino, e che era visibile sotto la camicia sbottonata. Questa piccola croce non era affatto una beffa sacrilega, un capriccio o un'improvvisazione. A quei tempi tutti i malavitosi portavano al collo delle crocette di alluminio: era un segno di riconoscimento del loro ordine, come i tatuaggi.
Negli anni Venti i malavitosi avevano dei berretti a visiera tipo istituto
tecnico, e prima ancora berretti da ufficiale di marina.
Negli anni Quaranta, in inverno portavano alti colbacchi del Kuban', i gambali
degli stivali rivoltati, e una croce al collo. Di solito la croce era liscia, ma
se capitava loro tra le mani qualche artista, lo costringevano a decorarla,
incidendovi con un ago uno dei
loro soggetti preferiti: un cuore, una carta da gioco, una croce, una
donna nuda... La croce di Naumov era liscia. Pendeva sul suo petto nudo e scuro
nascondendo in parte un tatuaggio bluastro fatto
con punture d'ago: una citazione da Esenin, l'unico poeta riconosciuto e
canonizzato dal mondo criminale:
- Cosa ti giochi? - sibilò fra i denti Sėvočka con infinito disprezzo: un atteggiamento considerato consono al galateo per un buon inizio di partita. - Ecco, 'sti stracci. Questa roba... - disse Naumov battendosi una spalla. - Vada per cinquecento, - rispose Sėvočka, dando la sua valutazione del vestito. Per tutta risposta echeggiò una bordata di elaborate ingiurie, destinate a convincere l'avversario che l'oggetto aveva un valore di gran lunga superiore. Gli spettatori raccolti attorno ai giocatori attendevano pazientemente la fine di questa tradizionale ouverture. Sėvočka non fu da meno e imprecò in modo ancor piú violento, abbassando il prezzo. Alla fine il vestito fu valutato mille rubli. Da parte sua, Sėvočka mise sul piatto alcuni maglioni usati. Dopo che i maglioni furono a loro volta valutati e subito gettati sulla coperta, Sėvočka mischiò le carte. Io e Garkunov, un ex ingegnere tessile, spaccavamo la legna per la baracca di Naumov. Era il nostro lavoro notturno, dopo una giornata al giacimento, ogni sera dovevamo segare e spaccare legna da ardere per le ventiquattr'ore successive. Ci rifugiavamo nella baracca dei cavallanti subito dopo il pasto serale, perché là faceva piú caldo che nella nostra. Una volta terminato il lavoro, il dneval'nyj di Naumov, il «piantone» addetto ai servizi, ci versava nelle gamelle della broda fredda - gli avanzi dell'unico piatto, sempre lo stesso, che nel menú della mensa veniva definito galuki, «gnocchi ucraini», e ci dava un pezzo di pane ciascuno. Ci sedevamo per terra da qualche parte, in un angolo, e mangiavamo rapidamente quello che avevamo guadagnato. Mangiavamo nella piú completa oscurità: le lampade a benzina illuminavano solo il campo da gioco, ma, come hanno potuto comprovare senza tema di smentita i veterani della galera, «il cucchiaio difficilmente manca la bocca». Ora seguivamo anche noi il gioco di Sėvočka e Naumov. Naumov aveva già perduto i suoi quattro stracci. La giacca e i pantaloni erano stati spostati sulla coperta accanto a Sėvočka. Si stavano giocando il cuscino. L'unghia di Sėvočka tracciava nell'aria complicati arabeschi. Le carte gli sparivano tra le mani per riapparire subito dopo. Naumov era in maglietta: la sua camicia di satin era andata a fare compagnia ai calzoni. Mani premurose gli avevano appoggiato sulle spalle un giubbotto imbottito, ma lui l'aveva gettato a terra con un brusco movimento delle spalle. All'improvviso si fece silenzio. Sėvočka grattava lentamente il cuscino con l'unghia. - Mi gioco la coperta, - disse Naumov con voce roca. - Duecento, - rispose Sėvočka con tono indifferente. - Mille, puttana che non sei altro! - strillò Naumov. - Per che cosa? Per questa roba! Č una porcheria, una merda! - scandí Sėvočka. - Vada per trecento, ma solo perché sei tu. La battaglia continuò. Secondo le regole, il combattimento non poteva terminare finché l'avversario aveva ancora qualcosa da mettere sul piatto. - Mi gioco i valenki! - No, quelli no, non ci sto con la roba dello Stato! - disse Sėvočka con un tono che non ammetteva repliche. Per pochi rubli Naumov puntò e perse un asciugamano ucraino con dei galletti a punto croce e un portasigarette con sopra inciso il profilo di Gogol'. Sulle sue guance scure cominciarono a delinearsi vistose chiazze rossastre. - Sulla parola, - disse con tono accattivante. - Ci mancava solo questo! - replicò vivacemente Sėvočka e protese la mano all'indietro: immediatamente tra le sue dita apparve una sigaretta di machorka accesa. Sėvočka aspirò con avidità il fumo e cominciò a tossire. - Cosa vuoi che me ne faccia della tua parola? Di nuovi convogli in arrivo non ce ne sono: dove pensi di trovare qualcosa? Dalle guardie, forse? Secondo il zakon, la legge non scritta dei ladri, non si era tenuti a giocare «sulla parola», cioè a credito, ma Sėvočka non voleva offendere Naumov togliendogli l'ultima opportunità di riguadagnare almeno qualcosa. - Cento, - disse lentamente. - E ti dò un'ora di tempo per restituirli. - Dammi una carta -. Naumov si aggiustò la crocetta e tornò a sedersi. Recuperò la coperta, il cuscino, i calzoni, poi perse di nuovo tutto quanto. - Ci vorrebbe del čifir', - disse Sėvočka sistemando le cose che aveva vinto in una grande valigia di compensato. - Aspetto qui. - Ragazzi, preparatelo, - disse Naumov. Si tratta di una straordinaria bevanda del Nord, un tè molto forte preparato dall'infusione di cinquanta o piú grammi di tè in un recipiente di piccole dimensioni. E estremamente amaro e si beve a piccoli sorsi mangiando del pesce salato. Toglie completamente il sonno e per questo è tanto apprezzata dai blatnye, i malavitosi, e dagli autisti del Nord nei loro lunghi viaggi. Il čifir' dovrebbe avere un effetto catastrofico sul cuore, ma ho conosciuto diversi «cifiristi» di lungo corso che lo sopportavano praticamente senza conseguenze. Sėvočka ne bevve un sorso dal boccale che gli porsero. Lo sguardo nero e pesante di Naumov passava in rassegna gli astanti. I capelli gli si erano tutti arruffati. Lo sguardo arrivò fino a me e si fermò. Un'idea sembrò balenargli nel cervello. - Tu, vieni un po' avanti. Mi portai sotto la luce. - Togliti il giaccone. Ormai tutti avevano capito cosa aveva in mente e seguivano con interesse il tentativo di Naumov. Sotto il giaccone avevo solo della biancheria passata dallo Stato: la casacca che mi avevano dato due anni prima era fuori uso da un bel po'. Mi rivestii. Vieni avanti tu, adesso, - disse Naumov indicando Garkunov con il dito. Garkunov si tolse il giaccone. Il viso gli si era fatto livido. Sotto una sudicia casacca indossava un maglione di lana, l'ultimo regalo della moglie prima di essere avviato alla sua lontana destinazione, e io sapevo quanto Garkunov ci tenesse: lo lavava ai bagni, se lo faceva asciugare addosso, non se ne separava un solo istante, per timore che i compagni glielo rubassero. - Su, toglitelo un po'! - disse Naumov. Sėvočka faceva cenni di approvazione con il dito: i capi di lana erano molto apprezzati. Se avesse fatto lavare quel bel maglioncino e l'avesse fatto ripulire dai pidocchi con una passata di vapore bollente, avrebbe potuto indossarlo lui stesso: aveva un disegno che non gli dispiaceva. - No, non me lo tolgo, - disse Garkunov con voce rauca. - Dovrete tirarmi via anche la pelle... Gli si buttarono addosso e lo rovesciarono per terra. - Morde, - gridò qualcuno. Garkunov si rialzò lentamente pulendosi con la manica il viso insanguinato. E in quell'istante Saka, il piantone di Naumov, quello stesso Saka che un'ora prima ci aveva versato «una buona minestrina» per la legna tagliata, si piegò leggermente all'indietro ed estrasse qualcosa dal gambale. Quindi protese il braccio verso Garkunov e Garkunov diede in un singulto e cominciò ad accasciarsi su un fianco. - Non potevate fare in un altro modo, no!? - gridò Sėvočka. Alla luce vacillante della lampada a benzina si vedeva il viso di Garkunov farsi terreo. Saka allargò le braccia del morto, lacerò la casacca e sfilò il maglione dalla testa. Il maglione era rosso e le macchie di sangue quasi non si vedevano. Sėvočka, maneggiandolo con cautela per non sporcarsi le dita, lo ripose nella valigia di compensato. La partita era finita e io potevo andarmene. Ora dovevo cercarmi un altro socio per spaccare la legna. 1956. Na predstavku, in «Junost'», 1988, n. 10. | << | < | > | >> |Pagina 23Quella sera, arrotolando il suo metro a nastro, il sorvegliante annunciò a Dugaev che il giorno dopo il suo lavoro sarebbe stato misurato a parte. Il caposquadra, che era lí vicino e aveva appena chiesto al sorvegliante di fargli grazia di «una decina di metri cubi fino a dopodomani», tacque bruscamente e fissò lo sguardo sulla stella della sera che si vedeva brillare dietro la sommità tondeggiante della montagna. Il naparnik di Dugaev, che si chiamava Baranov e aveva appena finito di aiutare il sorvegliante a misurare il lavoro fatto, afferrò la pala e si mise d'impegno a ripulire uno scavo già perfettamente pulito. Dugaev aveva ventitre anni e tutto quello che vedeva e sentiva qui, piú che spaventarlo non finiva mai di stupirlo. La squadra si riuní per l'appello, restituí gli attrezzi e tornò alla baracca. La giornata era stata pesante. Alla mensa, senza neanche sedersi, Dugaev sorbí direttamente dalla scodella una porzione di minestra di grano mondato, acquosa e fredda. Il pane della giornata veniva distribuito al mattino e lui aveva già da tempo mangiato la sua razione. Aveva voglia di fumare. Si guardò attorno, valutando attentamente la situazione: a chi avrebbe potuto chiedere un tiro? In piedi accanto alla finestra, Baranov stava raccogliendo in un pezzetto di carta appoggiato sul davanzale le briciole di machorka che scuoteva dalla borsa del tabacco rivoltata. Le radunò con cura, arrotolò una sigarettina sottile e la porse a Dugaev: - Fuma, lasciamene un po', - gli propose. Dugaev si meravigliò: lui e Baranov, anche se lavoravano in coppia, non erano amici. Del resto nessun legame d'amicizia può nascere con la fame, il freddo e l'insonnia e, malgrado la giovane età, Dugaev comprendeva perfettamente quanto fosse falso il proverbio secondo il quale la vera amicizia si riconosce nella disgrazia e nel bisogno. Perché ciò accada, perché l'amicizia si dimostri tale bisogna che il suo saldo fondamento sia stato posto prima che la situazione, le condizioni di vita siano arrivate a quel limite estremo al di là del quale nell'uomo non resta piú niente di umano e c'è solo diffidenza, rabbia e menzogna. Dugaev ricordava bene il detto del Nord, i tre comandamenti del detenuto: non fidarsi di nessuno, non temere nessuno e non chiedere niente a nessuno... Dugaev aspirò avidamente il fumo dolciastro della machorka e si senti girare la testa. - Divento sempre piú debole, - disse. Baranov restò in silenzio. Dugaev ritornò alla baracca, si coricò e chiuse gli occhi. Negli ultimi tempi faticava a dormire, glielo impediva la fame. I suoi sogni erano particolarmente tormentosi - grosse pagnotte e dense minestre fumanti... Anche quella sera Dugaev tardò ad assopirsi ma una mezz'ora prima della levata era già lí con gli occhi spalancati. La squadra si avviò al lavoro. Giunti sul posto, tutti si dispersero tra i vari scavi. - Tu aspetta, - disse il caposquadra a Dugaev. - Oggi il lavoro te l'assegna il sorvegliante. Dugaev si sedette per terra. Era già a tal punto estenuato che qualsiasi cambiamento nella sua sorte lo lasciava del tutto indifferente. Sferragliarono le prime carriole sulle passerelle, le pale stridettero contro la roccia. - Vieni qui, - disse il sorvegliante a Dugaev. - Ecco il tuo posto -. Misurò la cubatura da scavare e ci mise per segno una scheggia di quarzo. - Fin qui, - disse. - L'addetto ti sistemerà un'asse fino alla passerella principale. Scarica dove scaricano gli altri. Eccoti la pala, il piccone, la leva e la carriola. Datti da fare. Dugaev si mise docilmente al lavoro. «Tanto meglio», pensava. In questo modo nessuno dei compagni di squadra avrebbe brontolato perché lavorava male. Loro erano contadini da sempre e non erano tenuti a rendersi conto che Dugaev era un novellino, che subito dopo la scuola era andato all'università passando direttamente dai banchi universitari a quel fronte di cava. Ognuno per sé. Non erano tenuti a capire che lui già da molto tempo era esausto e affamato, e che non era capace di rubare: il saper rubare, in tutte le sue forme - era questa la piú importante virtú del Nord, a cominciare dal pane del vicino fino alle migliaia di rubli di premio ai capintesta per risultati mai raggiunti e inesistenti. Non importava a nessuno che Dugaev non fosse in grado di sopportare una giornata lavorativa di sedici ore. Spingere la carriola, vuotarla, picconare, spingere di nuovo, scaricare di nuovo, picconare, picconare ancora e ancora. Dopo la pausa per il pasto, il sorvegliante venne a dare un'occhiata al lavoro fatto da Dugaev e se ne andò senza dir niente... Dugaev riprese a picconare, a caricare e spingere... Era ancora molto lontano dalla scheggia di quarzo. Il sorvegliante ritornò la sera. Srotolò il metro a nastro e misurò il lavoro di Dugaev. - Venticinque per cento, - disse e guardò Dugaev. - Venticinque per cento. Mi hai sentito? - Ho sentito, - rispose Dugaev. Quella cifra l'aveva lasciato di stucco. Il lavoro era cosí faticoso, la pala raccoglieva cosí poco materiale, ed era cosí difficile alzare il piccone. Il venticinque per cento della norma, ovvero della quota giornaliera di lavoro, gli sembrava molto elevata. Aveva i muscoli intorpiditi, braccia spalle e testa gli dolevano terribilmente per lo sforzo alla carriola. Da lungo tempo non sentiva piú la fame. Mangiava solo perché vedeva gli altri mangiare, qualcosa di indefinito glielo suggeriva: «Bisogna mangiare», ma lo faceva controvoglia. La sera, Dugaev fu chiamato a presentarsi davanti all'inquirente. Rispose a quattro domande: nome, cognome, articolo del codice, durata della pena. Quattro domande che vengono poste al prigioniero almeno trenta volte al giorno. Poi Dugaev andò a dormire. Il giorno dopo tornò a lavorare con la squadra, sempre in coppia con Baranov, e la notte successiva vennero a prenderlo di nuovo i soldati e lo fecero passare dietro le stalle dei cavalli: lo condussero nella foresta per uno stretto sentiero, fino a un'alta palizzata, sormontata da filo di ferro spinato, che sbarrava quasi completamente l'imboccatura di una piccola gola, dalla quale nel silenzio della notte i dormienti sentivano talvolta provenire un lontano rombo di trattori. E quando capi di cosa si trattava, Dugaev rimpianse di aver lavorato, di aver tanto patito per niente anche quel giorno, quel suo ultimo giorno. [1955]. Odinočnyj zamer, in «Junost'», 1988, n. 10. | << | < | > | >> |Pagina 41Quando arrivammo, tutti e quattro, al fiume Duskan'ja, eravamo cosí contenti che quasi non scambiavamo parola. Il nostro unico timore era che quella trasferta fosse dovuta a un equivoco o allo scherzo malvagio di qualcuno, e che ci avrebbero fatti ritornare nelle sinistre trincee di pietra del giacimento, sommerse dall'acqua ghiacciata del disgelo. Le galosce di gomma in dotazione non potevano certo riparare dal freddo i nostri piedi ripetutamente congelati. Seguivamo le tracce di un trattore simili a quelle di un animale antidiluviano, ma la pista si interruppe presto e fu per un vecchio sentiero calpestato, appena visibile, che giungemmo fino a un capanno di tronchi nel quale erano state praticate due aperture come finestre; la porta era appesa a un unico cardine, un pezzo di pneumatico fissato con qualche chiodo. La piccola porta aveva un'enorme maniglia di legno che ricordava quelle di certi ristoranti delle grandi città. All'interno c'erano delle lettiere di tronchi grezzi e sul suolo di terra battuta era rovesciato un barattolo da conserva annerito dal fumo. Dietro la casetta coperta di muschio c'erano molti altri barattoli tutti gialli e arrugginiti simili al primo. L'izba apparteneva al servizio di prospezione mineraria; da anni non ci aveva piú abitato nessuno. Noi dovevamo stabilirci lí e diboscare un'area nella foresta: ci eravamo portati seghe e scuri. Per la prima volta avevamo ricevuto direttamente, nelle nostre mani, le razioni alimentari che ci spettavano. Io avevo un prezioso sacchetto pieno di granaglie, zucchero, pesce e grassi vari. Il sacchetto era stato stretto in piú punti con dei pezzetti di corda e sembrava un salsicciotto. Zucchero in polvere e granaglie di due tipi - cruschello d'orzo e magar. Anche Savel'ev aveva un sacchetto come il mio; Ivan Ivanovič ne aveva addirittura due, con vistose impunture che tradivano la mano maschile. Il quarto - Fedja čapov - da vero incosciente si era riempito di granaglie direttamente le tasche del giubbotto e aveva fatto su lo zucchero in una pezza da piedi. La tasca interna del giubbotto era stata staccata da tempo per farne una borsa da tabacco dove egli riponeva con cura le cicche rimediate in giro. Le razioni per dieci giorni facevano spavento: non osavamo pensare che avremmo dovuto dividere il tutto in trenta parti se volevamo avere colazione, pranzo e cena, e in venti per due pasti al giorno. Di pane ne avevamo portato per due giorni soltanto: poi ci avrebbe pensato il «caporale»; infatti neanche un piccolo gruppo di lavoratori come il nostro è concepibile senza sorveglianza. Non ci importava niente di sapere chi fosse. Ci era stato detto che in attesa del suo arrivo avremmo dovuto sistemare l'alloggio. Ne avevamo tutti quanti abbastanza del vitto che distribuivano al campo, dove ogni volta ci veniva quasi da piangere alla vista dei grandi bidoni di zinco pieni di minestra, che venivano trasportati dentro le baracche appesi a dei bastoni. Eravamo pronti a piangere per la paura che la minestra fosse troppo acquosa. E quando accadeva il miracolo e la minestra era densa, non ci potevamo credere e, pieni di gioia, la sorbivamo piano piano. Ma anche dopo una minestra densa, nello stomaco cosí riscaldato restava un dolore sordo: facevamo la fame da troppo tempo. Tutti i sentimenti umani - l'amore, l'amicizia, l'invidia, l'altruismo, la carità, la sete di gloria, l'onestà - ci avevano abbandonato insieme alla carne perduta durante il prolungato digiuno. In quell'insignificante strato di tessuto muscolare che ci restava ancora attaccato alle ossa e che ancora ci dava la forza per mangiare, muoverci, respirare e perfino spaccare la legna, caricare con il badile pietre e sabbia sulle carriole e spingerle, quelle carriole, lungo l'interminabile via di carreggio di un giacimento d'oro - lungo la stretta passerella di legno che porta all'apparecchiatura di lavaggio - in quello strato di muscoli c'era ormai solo rabbia, il piú persistente dei sentimenti umani. Io e Savel'ev avevamo deciso che ci saremmo preparati da mangiare ognuno per conto proprio. Per un detenuto, cucinarsi il cibo è un piacere tutto particolare: è un incomparabile godimento prepararlo per se stessi, con le proprie mani, e poi mangiarselo, anche se risulta peggiore di quello che avrebbe potuto uscire dalle mani esperte di un cuciniere; le nostre nozioni culinarie erano nulle, inadeguate perfino per una semplice minestra o una kaa. Nonostante ciò, io e Savel'ev - dopo aver radunato un'intera batteria di barattoli da conserva e averli ripuliti passandoli sul fuoco del falò - ci dedicammo a mettere a mollo e far cuocere questo e quello, imparando l'uno dall'altro. Ivan Ivanovič e Fedja, invece, avevano messo in comune le loro provviste. Fedja aveva rovesciato le tasche, controllando accuratamente le cuciture ed estraendone ogni granello con le sue unghie sudice e spezzate. Eravamo tutti e quattro perfettamente pronti a un viaggio nell'avvenire, celeste o terreno che fosse. Sapevamo tutto quello che c'era da sapere sulle norme nutritive stabilite dalla scienza, e sulle tabelle di equivalenza dei prodotti alimentari, dalle quali risulta che un secchio d'acqua calda può sostituire per valore calorico cento grammi di burro. Avevamo imparato la rassegnazione, avevamo disimparato a stupirci. Non c'erano rimasti né orgoglio, né egoismo, né amor proprio; e gelosia e passione ci sembravano concetti marziani, futili per giunta. Era molto piú importante imparare a riabbottonarsi i pantaloni in inverno, con il gelo: cosa tutt'altro che facile, ho visto uomini adulti piangere per questo. Capivamo che la morte non era per niente peggiore della vita e non temevamo né l'una né l'altra. Eravamo pervasi da una grande indifferenza. Sapevamo che dipendeva da noi mettere fine a quella vita, anche il giorno dopo se l'avessimo voluto; e talora eravamo risoluti a farlo, ma ogni volta ci si metteva di mezzo una di quelle inezie di cui è fatta la vita. Vuoi perché quel giorno avevano deciso di autorizzare il larėk - e allo spaccio si poteva acquistare un chilo di pane a titolo di gratifica straordinaria - e sarebbe stata semplicemente un'idiozia suicidarsi proprio in un giorno cosí speciale, vuoi perché il «piantone» della baracca vicina, per disobbligarsi di un vecchio debito, aveva promesso di darti da fumare proprio quella sera. Avevamo compreso che la vita, anche la piú sventurata, consiste in un alternarsi di gioie e dolori, di momenti felici e momenti disgraziati, e che non bisogna averne paura anche se ci sono piú dolori che gioie. Eravamo disciplinati, obbedivamo alle autorità. Capivamo che verità e menzogna sono sorelle germane e che al mondo esistono migliaia di verità... Ci consideravamo quasi dei santi, pensando di aver espiato, con quegli anni di lager, tutti i nostri peccati. Avevamo imparato a conoscere gli uomini, a prevedere le loro azioni, a intuirle. Avevamo compreso - ed era la cosa piú importante - che la nostra conoscenza degli uomini non ci sarebbe stata di nessuna utilità nella vita. A cosa mi serviva capire, indovinare, prevedere le azioni di un altro uomo? Non potevo comunque cambiare il mio modo di comportarmi, neanche nei suoi riguardi; non avrei certo denunciato un altro detenuto, qualsiasi cosa avesse fatto. Non mi sarei certo messo a correre dietro al posto di caposquadra che ti dà la possibilità di sopravvivere, perché non c'è niente di peggio nel lager che imporre la propria volontà (o quella di chiunque) a un altro uomo, a un detenuto come te. Non avrei brigato per farmi delle conoscenze utili, non mi sarei messo a «ungere». E cosa ci guadagnavo a sapere che Ivanov era un mascalzone, Petrov una spia e Zaslavskij un falso testimone? L'impossibilità di ricorrere a determinati tipi di «armi» ci rendeva deboli nei confronti di certi nostri vicini di tavolaccio e di baracca. Avevamo imparato ad accontentarci di poco e a gioire per un niente. Avevamo compreso anche un altro fatto stupefacente: agli occhi dello Stato e dei suoi rappresentanti, un uomo fisicamente forte è migliore, proprio migliore, piú morale e piú prezioso di un uomo debole, vale a dire di un uomo che non ce la fa a tirar su dallo scavo venti metri cubi di materiale per turno di lavoro. Il primo è piú morale del secondo: egli realizza la sua «percentuale», adempie cioè il suo principale dovere nei confronti dello Stato e della società, e per questo motivo viene rispettato da tutti. Gli si chiede consiglio e si tien conto del suo parere, lo si invita a conferenze e riunioni i cui argomenti non hanno molto a che vedere con i problemi di chi deve spalare della terra pesante e scivolosa fuori da fosse bagnate e sdrucciolevoli. Grazie alla sua superiorità fisica, quell'uomo diventa una forza morale quando si devono risolvere gli innumerevoli problemi quotidiani della vita del lager. Beninteso, è una forza morale fintanto che è una forza fisica. L'aforisma di Paolo I: «In Russia è illustre soltanto colui con il quale parlo e fintantoché gli parlo» aveva trovato una sua inattesa nuova espressione sui fronti di scavo dell'Estremo Nord. Nei primi mesi della sua vita in miniera, Ivan Ivanovič era stato uno «sgobbone», un rabotjaga «d'assalto». E non riusciva a capire perché, adesso che si era indebolito per la fame, tutti avessero incominciato a picchiarlo; senza molto impegno, cosí, di passaggio, magari senza fargli troppo male, ma lo picchiavano tutti: il piantone, il barbiere, il ripartitore di manodopera, il caposquadra, il soldato della scorta. E, oltre ai superiori, lo picchiavano anche i malavitosi. Ivan Ivanovič era felice di essere stato scelto per questo lavoro nella foresta. Fedja čapov, un adolescente originario dell'Altaj, era diventato un dochodjaga, un «morituro» prima degli altri perché il suo organismo quasi infantile non si era ancora fatto forte a sufficienza. Per questo motivo, Fedja aveva resistito forse due settimane meno degli altri e si era indebolito piú rapidamente. Era l'unico figlio di una vedova, condannato per macellazione illegale di bestiame: aveva sgozzato la sola pecora che possedevano. Queste macellazioni erano proibite dalla legge. Fedja si era preso dieci anni, e l'affannoso lavoro sul fronte di estrazione, cosí diverso da quello della campagna, era per lui particolarmente faticoso. Ammirava la vita libera dei malavitosi al giacimento, ma c'era qualcosa nella sua natura che gli impediva di legarsi a dei ladri. Questo suo sano principio contadino, l'amore innato, e non l'avversione, per il lavoro, in qualche modo lo aiutavano. Era il piú giovane del gruppo e si era subito attaccato al piú anziano, e positivo, Ivan Ivanovič. Savel'ev era uno studente dell'istituto di telecomunicazioni di Mosca, mio «compaesano» alla prigione di Butyrki. Sconvolto per tutto quello che vedeva, dalla sua cella aveva scritto una lettera alla Guida del partito, poiché come membro fedele del komsomol era convinto che Lui fosse tenuto all'oscuro di certi fatti. Il suo caso personale era assolutamente inconsistente: corrispondenza con la propria fidanzata, dove la sola prova dell'«agitazione e propaganda» (articolo 58.10) erano appunto le lettere tra i due; l'«organizzazione» (articolo 58.11) contava due soli componenti, loro. Tutto questo veniva riportato con la massima serietà dai verbali degli interrogatori. Comunque era convinzione comune che, sia pure tenendo conto delle misure in vigore all'epoca, la cosa si sarebbe risolta, per male che andasse, con una condanna alla ssylka, la «relegazione». Poco dopo l'invio della lettera, in una delle «giornate di istanze» previste dal regolamento carcerario, Savel'ev fu chiamato in corridoio e gli fecero firmare una ricevuta di notifica. Il procuratore generale gli comunicava che si sarebbe personalmente occupato del suo caso. Dopo di che, convocarono Savel'ev una sola volta, per consegnargli il verdetto dell'Oso, la Commissione speciale: dieci anni di lager. Nel lager Savel'ev doplyl, «toccò il fondo», molto presto. Non sarebbe mai riuscito a farsi una ragione di quella funesta giustizia sommaria. Non si può dire che io e lui fossimo amici, semplicemente ci piaceva parlare di Mosca: ricordare le sue vie, i monumenti e la Moscova, velata da un sottile strato di nafta dai riflessi madreperlacei. Né Leningrado, né Kiev, né Odessa hanno tra i loro abitanti ammiratori cosí esperti e innamorati della propria città quali eravamo noi. Potevamo parlare di Mosca all'infinito. Sistemammo nell'izba la stufa di ferro che ci eravamo portati e, benché fosse estate, l'accendemmo. L'aria tiepida e secca esalava un aroma particolare, meraviglioso. Ognuno di noi era abituato a respirare l'odore rancido di vestiti portati troppo a lungo e impregnati di sudore - e per fortuna le lacrime non hanno odore. Su consiglio di Ivan Ivanovič ci togliemmo casacche e mutande e le interrammo per la notte, ogni capo separatamente, lasciando che ne sporgesse fuori un piccolo lembo. Era un sistema popolare per l'eliminazione dei pidocchi, contro i quali alla miniera eravamo del tutto impotenti. E in effetti al mattino i pidocchi si erano tutti concentrati sui lembi degli indumenti. In quei luoghi il terreno, benché ricoperto da uno strato perennemente gelato, d'estate diventava comunque abbastanza soffice da consentire un'operazione come quella che avevamo fatto con la nostra biancheria. Naturalmente era pur sempre il terreno di queste parti, piú pietre che terra. Ma anche su questo suolo sassoso e gelato crescevano fitte foreste di enormi larici: di alcuni di questi colossi tre uomini a braccia larghe non sarebbero arrivati a cingere il tronco; tale era la forza vitale degli alberi e il grande edificante esempio offertoci dalla natura. I pidocchi li distruggemmo avvicinando la biancheria a un tizzone ardente del falò. Ma, ahimè, tutto l'elaborato procedimento non aveva eliminato i lendini e quel giorno stesso facemmo bollire a lungo, con accanimento, la nostra biancheria nei grossi barattoli da conserva. E stavolta la disinfestazione riuscí. In seguito imparammo a conoscere le meravigliose virtú della terra, quando cominciammo a catturare topi, corvi, gabbiani e scoiattoli. La carne di qualsiasi animale perde il sentore di selvatico se preventivamente la si interra. Badavamo a far sí che il fuoco restasse sempre acceso, poiché avevamo solo pochi fiammiferi, custoditi da Ivan Ivanovič. Egli aveva avvolto con la massima cura quei preziosi fiammiferi in un pezzetto di tela catramata e alcuni stracci. Ogni sera approntavamo il fuoco per la notte, mettendo l'uno accanto all'altro due tizzoni che ardevano lentamente, alimentando la brace, senza spegnersi e senza fare fiamma. Se fossero stati tre, si sarebbero consumati rapidamente. Io e Savel'ev conoscevamo questa legge fisica dai banchi di scuola, mentre Ivan Ivanovič e Fedja l'avevano imparata in casa da piccoli. La mattina soffiavamo sulla brace ravvivandola, divampava un fuoco giallo e noi aggiungevamo un ciocco piú grosso e il focolare riprendeva lena... Avevo suddiviso le mie granaglie in dieci parti, ma il risultato era troppo spaventoso. Nutrire cinquemila persone con cinque pani era stata probabilmente un'operazione piú facile e semplice che, per un detenuto, suddividere in trenta porzioni la sua provvista per dieci giorni. Le razioni, le tessere erano sempre per dieci giorni. Sul «continente» era suonata già da tempo la ritirata per i vari «cicli di lavoro continuativo», della durata di cinque, dieci giorni, ma qui il sistema decimale era radicato molto piú saldamente. Nessuno, qui, considerava festiva la domenica; e i giorni di riposo per i detenuti, introdotti parecchio tempo dopo la nostra trasferta forestale, erano tre al mese, ad arbitrio dei dirigenti locali, cui era consentito di farli coincidere d'estate con giornate di forte pioggia e d'inverno con giornate particolarmente fredde. Rimisi quindi insieme tutte le mie granaglie, non riuscendo a sopportare quel nuovo tormento. Chiesi a Ivan Ivanovič e a Fedja di prendermi in società con loro e consegnai tutte le mie vettovaglie alla dispensa comune. Savel'ev segui il mio esempio. Dopo averci ragionato, prendemmo di comune accordo una saggia decisione: cucinare due volte al giorno, perché per tre pasti quotidiani non c'erano decisamente viveri a sufficienza. - Ci metteremo a raccogliere bacche e funghi, - disse Ivan Ivanovič. - E a dar la caccia a topi e uccelli. E un giorno o due su dieci mangeremo solo pane. - Ma se digiuniamo un giorno o due prima che arrivino i rifornimenti, - fece Savel'ev, - poi come faremo a trattenerci dal mangiare piú del dovuto quando ci saranno le razioni? Decidemmo di mangiare due volte al giorno comunque e, se proprio era indispensabile, di allungare la minestra. Qui non ci poteva derubare nessuno, avevamo ricevuto tutte le razioni che ci spettavano fino all'ultima; qui non c'erano cucinieri ubriaconi, magazzinieri disonesti e sorveglianti avidi - ladri che vi strappavano di mano i prodotti migliori -, in una parola, non c'era tutta quella pletora di «capi» che si mangiavano anche la parte dei detenuti e li spogliavano di ogni cosa senza nessun controllo, senza nessun timore, senza nessuna vergogna. Avevamo ricevuto integralmente la nostra razione di «grassi», sotto forma di una piccola palla di grasso idrogenato; la nostra dose di zucchero in polvere - piú esigua della quantità di polvere d'oro che poteva restare sul fondo della mia bacinella al giacimento; e un pane vischioso e appiccicaticcio alla cui cottura avevano atteso i grandi e incomparabili maestri della «giunta sul peso», specialisti nel far mangiare anche i capintesta dei panifici; e cereali con una ventina di denominazioni, mai sentite in vita nostra: magar, tritello di frumento - tutto era troppo misterioso. E terribile. Il pesce, che in base alle misteriose tabelle di equivalenza poteva sostituire la carne, consisteva di qualche rugginosa aringa, ed era destinato a compensare l'accresciuto dispendio di proteine. Ma ahimè, anche se integre e complete, queste razioni non erano sufficienti a nutrirci, a saziarci davvero. Avremmo avuto bisogno di una quantità tre o quattro volte maggiore: i nostri organismi soffrivano la fame da troppo tempo. Allora non arrivavamo a capire le cose piú semplici. Credevamo a norme e tabelle e ignoravamo quello che è evidente per chiunque lavori in cucina, e cioè che è piú facile cucinare per venti persone che per quattro. Una cosa soltanto ci sembrava assolutamente chiara: che le provviste non erano sufficienti. E questo, piú che spaventarci, ci stupiva. Comunque fosse, dovevamo cominciare a lavorare, a tracciare un varco in quella tajga sconvolta dalle tempeste. Al Nord gli alberi muoiono distesi, come gli uomini. Le loro enormi radici scoperte assomigliano agli artigli di giganteschi uccelli da preda aggrappati alla roccia. Dai ciclopici artigli conficcati nel terreno si protendevano verso il basso, verso lo strato permanentemente gelato, con mille piccoli tentacoli, germogli biancastri ricoperti da una tiepida scorza marrone. Ogni estate il gelo arretrava leggermente e le radici-tentacoli, sottili come capelli, si infilavano in ogni palmo di terra scongelata e ci si impiantavano. I larici raggiungono la maturità in trecento anni: innalzano lentamente il proprio corpo pesante e possente su radici deboli che si diramano lontano nel terreno sassoso. Una bufera violenta poteva rovesciare a terra con facilità questi alberi dai piedi malfermi. I larici cadevano supini, la chioma tutta da una parte, e morivano distesi su una spessa e morbida coltre di muschio color verde smeraldo o rosa acceso. Solo gli alberi nani, contorti e ripiegati su se stessi, estenuati dai continui contorcimenti per seguire il sole, il calore, resistevano tenaci, solitari, uno lontano dall'altro. Essi lottavano da cosí tanto tempo, con tanto accanimento, per la vita, che il loro legno martoriato e deforme non poteva servire piú a niente. Il corto tronco nodoso, coperto di orribili escrescenze simili a stecche applicate a chissà quali fratture, non era utilizzabile come legname da costruzione nemmeno al Nord, pur cosí poco esigente in fatto di materiali. Questi alberi nodosi non potevano neanche essere impiegati come legna da ardere: la loro resistenza alla scure era tale da sfiancare chiunque. Si vendicavano cosí su tutti per la loro vita storpiata dal Nord. Il nostro compito consisteva nel praticare un varco e ci mettemmo coraggiosamente all'opera. Dal sorgere del sole al suo tramonto non facevamo che abbattere gli alberi, segarli per il lungo e sistemarli in cataste. Avevamo dimenticato ogni altra cosa, volevamo restare qui il piú possibile, le miniere d'oro ci facevano paura. Ma le cataste di legname crescevano troppo lentamente e, alla fine della seconda giornata di intenso lavoro, apparve chiaro che quel che avevamo fatto non era sufficiente ma altresí che non avevamo la forza di fare di piú. Ivan Ivanovič si fabbricò una specie di metro di legno misurando cinque spanne su di un giovane larice di una decina d'anni che avevamo appena abbattuto. Quella sera arrivò il caporale. Misurò il nostro lavoro con il suo bastone graduato e scosse la testa. Avevamo fatto il dieci per cento della norma! Ivan Ivanovič si mise a dimostrargli questo e quello e a prendere anche lui misure, ma il caporale restò irremovibile. Borbottava qualcosa a proposito di «cubatura reale» e «metri lineari»: tutti discorsi che andavano al di là della nostra comprensione. Solo una cosa era certa: ci avrebbero fatti tornare al lager, avremmo di nuovo varcato il portone sormontato dall'immutabile iscrizione governativa: «Il lavoro è una questione d'onore, una questione di gloria, una questione di valore e di eroismo». Dicono che all'ingresso dei lager tedeschi campeggiasse l'antico aforisma, ripreso da Nietzsche: «A ciascuno il suo». Nella sua imitazione di Hitler, Berija l'aveva superato in cinismo. Il lager era un posto in cui ti insegnavano a detestare il lavoro fisico, a detestare il lavoro in generale. Il gruppo piú privilegiato della popolazione carceraria era quello dei blatari, i delinquenti comuni: che fossero loro a considerare il lavoro una questione di eroismo e di valore? Ma non avevamo paura. Al contrario, il fatto che il caporale avesse constatato l'inadeguatezza del nostro lavoro e la pochezza delle nostre qualità fisiche non solo non ci aveva afflitto o spaventato, ma ci aveva arrecato uno straordinario sollievo. Eravamo ormai relitti in balia della corrente, quel che potevamo fare era di doplyt', come dicono in lager, fino a toccare il fondo. Ormai non c'era niente che potesse darci pensiero, ci era facile vivere in potere della volontà altrui. Non ci preoccupavamo neppure di salvaguardare la nostra esistenza, e se dormivamo era sempre in obbedienza a un ordine, al regolamento della giornata del lager. La pace dell'anima che avevamo raggiunto con l'ottundimento dei nostri sensi, ricordava la suprema libertà della caserma di cui fantasticava Lawrence o la non resistenza al male di Tolstoj: una volontà diversa dalla nostra vegliava incessantemente sulla nostra tranquillità spirituale. Da molto tempo eravamo diventati fatalisti, e non facevamo progetti per la nostra vita che andassero oltre il giorno dopo. La cosa piú logica sarebbe stato mangiare tutti i nostri viveri in una volta sola e ritornare al lager, farci i giorni di cella di rigore che ci avrebbero inflitto e poi andare a lavorare alla miniera, ma non l'avevamo fatto. Interferire nel destino, nella volontà degli dèi era una cosa sconveniente, che andava contro i codici di comportamento del lager. Il caporale se ne andò e noi restammo lí a tagliare alberi e a impilare nuove cataste di legna, ma già con una maggiore tranquillità, e una maggiore indifferenza. Ora non discutevamo piú su chi avrebbe preso il fusto dalla parte del colletto e chi dalla parte della chioma durante il trasporto a braccia fino alla catasta, durante il «trasbordo», come dicono i boscaioli. Ci riposavamo con maggior frequenza, ci fermavamo piú spesso a guardare il sole, la foresta, il grande cielo azzurro pallido. Battevamo la fiacca. Quella mattina io e Savel'ev avevamo abbattuto in qualche modo un grande larice nero miracolosamente sopravvissuto al fuoco e alle tempeste. Gettammo la sega direttamente nell'erba, la sega risuonò contro il suolo sassoso, ci sedemmo sul tronco dell'albero abbattuto. - Ecco, - disse Savel'ev, - fantastichiamo un po'. Mettiamo che si resti vivi. Ritorneremo sul continente, invecchieremo rapidamente e diventeremo dei vecchi infermi: avremo delle fitte al cuore, o dei dolori reumatici che non ci daranno pace o dei dolori al petto. Tutto quello che facciamo adesso, il modo in cui viviamo gli anni della nostra giovinezza - le notti insonni, la fame, il lavoro faticoso e prolungato, sono tutte cose che non potranno passare senza conseguenze, anche se dovessimo restare in vita. Ci ammaleremo in continuazione senza conoscere le cause della nostra malattia, passeremo il nostro tempo a gemere andando da un ambulatorio all'altro. Un lavoro al di sopra delle nostre forze ci ha causato delle ferite inguaribili e tutta la nostra vita di vecchi sarà una vita di dolore: un dolore fisico e spirituale, molteplice e infinito. Ma tra questi orribili giorni futuri ce ne saranno anche alcuni in cui respireremo con meno fatica, ci sentiremo quasi ristabiliti e le nostre sofferenze smetteranno di tormentarci. Di giornate cosí non ce ne saranno molte. Corrisponderanno esattamente al numero dei giorni in cui ciascuno di noi sarà riuscito a battere la fiacca nel lager. - E l'onestà del lavoro? - dissi. - Da chi vengono nel lager le esortazioni a lavorare onestamente? Dai peggiori mascalzoni, da quelli che ci bastonano, ci storpiano, mangiano il nostro cibo e costringono degli scheletri viventi a lavorare fino all'ultimo. Č a loro che conviene questa storia del lavoro «onesto». Quanto a crederci davvero, ci credono ancor meno di noi. | << | < | > | >> |Pagina 74Il poeta stava morendo. Le sue grandi mani, rese gonfie dalla fame, con le bianche dita esangui e le unghie sporche, lunghe, cilindriche, erano appoggiate sul petto e non cercavano piú riparo dal freddo. Prima se le ficcava in seno, sul corpo nudo, ma adesso neanche lí c'era abbastanza calore. Le manopole gliele avevano rubate da tempo; per rubare era sufficiente la sfrontatezza, lo facevano in pieno giorno. Un sole elettrico smorto, lordato dalle mosche e ingabbiato in una griglia circolare, era fissato al soffitto, in alto. La luce cadeva sui piedi del poeta: egli era disteso, come in un cassetto, nell'oscura profondità di un giaciglio al piano inferiore dell'ininterrotta teoria di tavolacci a castello. Di tanto in tanto le dita si muovevano, schioccavano come nacchere, tastavano un bottone, un'asola, un buco della giubba imbottita, toglievano granelli di sporcizia e si fermavano di nuovo. Il poeta moriva da cosí tanto tempo che aveva smesso di capire che stava morendo. Talvolta sopraggiungeva qualche pensiero semplice e forte che si apriva un varco a fatica dolorosamente, in modo quasi percettibile, attraverso il cervello - gli avevano rubato il pane che si era messo sotto la testa. E questo pensiero era cosí spaventosamente bruciante da far sí che lui fosse pronto a litigare, insultare, battersi, cercare, perorare le proprie ragioni. Ma non aveva le forze per farlo e il pensiero del pane si affievoliva... E immediatamente cominciava a pensare a qualche altra cosa, al fatto che lui e gli altri dovevano essere trasportati al di là del mare, ma che per qualche motivo il piroscafo era in ritardo ed era un bene trovarsi lí. E con la stessa levità e mutevolezza rivolgevo il pensiero al grosso neo sulla faccia del «piantone» della baracca. Passava la maggior parte del giorno e della notte ripensando agli avvenimenti che gli riempivano la vita laggiú. Le visioni che gli passavano davanti agli occhi non appartenevano all'infanzia, alla giovinezza, ai suoi successi. Per tutta la vita si era affrettato verso qualcosa. Ed era magnifico non doversi affrettare, poter pensare lentamente. E senza affrettarsi pensava alla straordinaria uniformità dei movimenti che precedono la morte, a ciò che i medici avevano capito e descritto prima degli artisti e dei poeti. La facies ippocratica - la maschera dell'uomo prima della morte - è nota a qualsiasi studente della facoltà di medicina. Questa misteriosa uniformità dei movimenti prima della morte aveva dato a Freud lo spunto per le ipotesi piú ardite. L'uniformità, la ripetitività - ecco il terreno obbligato della scienza. Ciò che nella morte è irripetibile, l'hanno cercato non i medici ma i poeti. Era piacevole constatare di essere ancora in grado di pensare. Alla nausea provocata dalla fame si era abituato da molto tempo. Ed era tutto sullo stesso piano: Ippocrate, il piantone con il grosso neo e la propria unghia sporca. La vita entrava in lui e poi ne usciva, e lui stava morendo. Ma la vita tornava a manifestarsi, gli occhi si aprivano, riapparivano i pensieri. Solo i desideri non riapparivano. Viveva da molto tempo in un mondo in cui spesso si doveva far tornare in vita qualcuno con la respirazione artificiale, il glucosio, la canfora, la caffeina. Il morto ritornava a vivere. E perché no? Egli credeva nell'immortalità, nella vera immortalità dell'uomo. Gli veniva spesso da pensare che dal punto di vista biologico non c'era semplicemente nessun motivo perché l'uomo non potesse vivere in eterno... La vecchiaia non era altro che una malattia curabile, e se non fosse stato per quel tragico equivoco, non ancora chiarito fino a quel momento, egli sarebbe potuto vivere in eterno. O almeno fino a quando non si fosse stancato. Ma lui non si era affatto stancato di vivere. Perfino adesso, in quella baracca di transito, in quella tranzitka, come la chiamavano affettuosamente gli abitanti di quaggiú. Essa era la soglia dell'orrore, ma non ancora l'orrore. Al contrario, lí viveva lo spirito della libertà, e tutti lo avvertivano. Davanti c'era il lager, alle spalle la prigione. Era un «mondo in cammino», e il poeta lo capiva. | << | < | > | >> |Pagina 89L'enorme porta a due battenti si aprí e nella baracca di transito entrò l'addetto alla distribuzione del cibo. Rimase fermo, in piedi, nella larga striscia di luce del mattino riflessa dalla neve azzurrina. Duemila occhi lo guardavano da ogni dove: da sotto i tavolacci a castello, in faccia e di lato, e da sopra, dall'alto delle incastellature a quattro piani sulle quali coloro che avevano ancora forze sufficienti si inerpicavano per mezzo di scalette. Quel giorno era giornata di aringhe e dietro al distributore portavano un gigantesco vassoio di compensato incurvato sotto il peso di una montagna di aringhe tagliate in due. Dietro al vassoio avanzava il sorvegliante di turno, con indosso un pellicciotto di montone bianco e splendente come il sole. L'aringa veniva distribuita al mattino, ma non tutti i giorni: un giorno sí e un giorno no, mezza aringa a testa. Quali calcoli di proteine e vitamine fossero stati eseguiti in proposito non era dato sapere e del resto nessuno era interessato a questo genere di scolastica. Il sussurrio di centinaia di persone ripeteva una stessa parola: le code. Qualche saggio dirigente, un uomo che teneva nel debito conto la psicologia dei detenuti, aveva ordinato di distribuire ogni volta o tutte teste di aringhe o tutte code. I rispettivi meriti delle une e delle altre erano stati discussi a piú riprese: le code, dicevano molti, contenevano piú carne, ma le teste, argomentavano altri, davano molta piú soddisfazione. Infatti il processo di inghiottimento si prolungava, intanto che si succhiavano le branchie e si sgranocchiavano le cartilagini. Le aringhe non venivano comunque ripulite, e la cosa era universalmente apprezzata: perché le si mangiava con lische e pelle. Il rimpianto delle teste balenò per un solo istante e sparí: le code erano un dato di fatto. Inoltre il vassoio si avvicinava e con esso il momento piú angoscioso: quanto grosso sarebbe stato il pezzo destinato a te? Perché naturalmente non era possibile cambiarlo, e neanche protestare, tutto era nelle mani della fortuna, una carta soltanto in quella partita giocata contro la fame. La persona che taglia le porzioni di aringa senza metterci attenzione non sempre capisce (o ha semplicemente dimenticato) che dieci grammi in piú o in meno - dieci grammi, o quelli che a occhio sembrano tali - possono generare un dramma, talvolta un dramma sanguinoso. Quanto alle lacrime, non è neanche il caso di parlarne. Le lacrime sono frequenti, non c'è chi non le comprenda, e di coloro che piangono non si ride. Intanto che l'addetto alla distribuzione si avvicina, ognuno ha già avuto il tempo di individuare esattamente il pezzo che gli verrà allungato da quella mano indifferente. Ognuno ha già avuto il tempo di affliggersi, di gioire, di prepararsi a un miracolo o di arrivare ai limiti dello sconforto, nel caso abbia sbagliato i calcoli per la troppa concitazione. Qualcuno chiude brevemente gli occhi, incapace di dominarsi, per aprirli solo nel momento preciso in cui l'addetto lo urta tendendogli la sua razione. Afferrata l'aringa con le dita sporche, l'accarezza, tastandola con un gesto rapido e tenero per capire se gli è toccata una porzione asciutta o succulenta (in realtà le aringhe del mare di Ochotsk non sono mai succulente e anche questo tastare delle dita non è altro che attesa di un miracolo), dopo di che non può trattenersi dal far scorrere rapidamente lo sguardo sulle mani dei vicini, intenti anch'essi a scrutare e brancicare il loro pezzetto di pesce, timorosi di far finire troppo in fretta quella minuscola coda. L'aringa non la si mangia, la si lecca. La si lecca, e la coda sparisce a poco a poco dalle dita. Restano le sole lische, da masticare con precauzione, le si mastica con parsimonia finché si sciolgono e spariscono. Poi si attacca il pane - alla mattina ne vengono dati cinquecento grammi per le ventiquattro ore - se ne rompe un pezzetto minuscolo e lo si mette in bocca. Tutti mangiano il proprio pane seduta stante: cosí nessuno te lo ruba o te lo toglie a forza, del resto neanche avresti la forza di difenderlo. Soltanto, non si deve aver fretta, non si deve mandare giú il pane con dell'acqua, non lo si deve masticare. Va succhiato come una zolletta di zucchero, una caramella. Dopo si può prendere un bicchiere di tè - dell'acqua appena tiepida annerita con una crosta di pane abbrustolito. L'aringa è stata mangiata, il pane è stato mangiato, il tè è stato bevuto. Si avverte immediatamente un senso di calore e non si ha voglia di andare da nessuna parte, si ha voglia di mettersi a letto, ma già bisogna vestirsi, infilarsi il lacero giubbotto imbottito che ti ha fatto da coperta, assicurare con lo spago le suole degli sbrindellati stivali di trapunta d'ovatta, di quelle burki che ti sono servite da cuscino per la notte, e bisogna spicciarsi perché il portone è di nuovo spalancato e dietro la recinzione di filo spinato del cortiletto ci sono gli uomini della scorta e i cani... | << | < | > | >> |Pagina 148Gli inservienti mi fecero scendere dalla pedana della bilancia a scala graduata. Le loro mani fredde e vigorose mi impedivano di abbandonarmi sul pavimento. - Quanto? - gridò il medico, intingendo con un colpo secco la penna nel calamaio di sicurezza. - Quarantotto. Mi fecero stendere sulla barella. La mia statura è di centottanta centimetri e il mio peso normale ottanta chili. Il peso delle ossa - che è il quarantadue per cento del peso totale - fa trentadue chili. In quella sera glaciale mi restavano dunque sedici chili, un pud esatto, in tutto: tra pelle, carne, viscere e cervello. Allora non sarei stato in grado di fare questo calcolo, nondimeno comprendevo confusamente che il medico che mi osservava di sottecchi stava facendo proprio qualcosa del genere. Il medico apri la serratura del tavolo, tirò verso di sé il cassetto e ne estrasse con cautela un termometro, poi si chinò su di me e, sempre con la stessa cautela, mi infilò il termometro sotto l'ascella sinistra. Immediatamente uno degli inservienti mi bloccò il braccio sinistro contro il petto e il secondo mi afferrò per il polso destro con tutte e due le mani. Solo piú tardi compresi il senso di quei movimenti ormai collaudati e automatici: in tutto l'ospedale c'era un solo termometro per cento letti. E cosí quel tubetto di vetro aveva assunto un'importanza e un valore ben diversi: lo tenevano da conto come una pietra preziosa. Lo strumento si poteva utilizzare esclusivamente per misurare la temperatura dei malati gravi al momento del ricovero. La temperatura dei malati in via di guarigione la si misurava «al polso» e il cassetto del tavolo veniva aperto solo per i casi dubbi. La pendola sgranò dieci minuti, il medico sfilò cautamente il termometro, le mani degli inservienti allentarono la presa. - Trentaquattro e tre, - disse il medico. - Puoi rispondere? Strizzai gli occhi per dire sí. Economizzavo le forze. Le parole mi venivano fuori a fatica e lentamente: era come se traducessi da una lingua straniera. Avevo dimenticato tutto. Mi ero disabituato a ricordare. Completata che fu la mia cartella clinica, gli inservienti sollevarono con facilità la barella sulla quale mi ero disteso. - Portatelo alla sei, - disse il medico. - Il piú possibile vicino alla stufa. Mi fecero distendere su un topčan, una lettiera di legno, vicino alla stufa. Il sacco era imbottito di rami di pino, gli aghi, erano diventati secchi, si erano staccati e i rami spogli si inarcavano minacciosi sotto la sudicia tela rigata. L'altrettanto sudicio cuscino perdeva il tritume di fieno dell'imbottitura. Una logora coperta di panno con le lettere della parola «piedi» ricamate a grossi punti grigi mi coprí, separandomi dal resto del mondo. I muscoli delle braccia e delle gambe, sottili come pezzi di spago, erano tutti indolenziti e anche le dita congelate non mi davano tregua. Ma la fatica fu piú forte del dolore. Mi rannicchiai a gomitolo, circondandomi le gambe con le braccia, e tirai verso di me le ginocchia sporche, coperte di una pelle a grana grossa come quella dei coccodrilli, puntai il mento contro il petto e mi addormentai. Mi risvegliai dopo parecchie ore. Le mie colazioni, pranzi e cene erano posati per terra accanto al mio giaciglio. Allungai la mano, afferrai la scodella di latta piú vicina e mi misi a mangiare tutto di fila, sbocconcellando di tanto in tanto a pezzettini minuscoli il pane della razione che pure avevano lasciato. I malati distesi sui giacigli vicini mi guardavano divorare il cibo. Non mi domandavano chi ero né da dove venivo: la mia pelle di coccodrillo era abbastanza eloquente. Non mi avrebbero neanche prestato alcuna attenzione ma - lo sapevo per esperienza personale - è impossibile distogliere gli occhi da un uomo che sta mangiando. Divorai tutto il cibo a disposizione. Una sensazione di calore, un delizioso peso sullo stomaco e, di nuovo, il sonno, che stavolta fu breve perché venne un inserviente e mi disse di seguirlo. Mi gettai sulle spalle la vestaglia «di tutti i giorni», che però era anche una sola per tutti i malati del reparto, incredibilmente sporca, bruciacchiata dai mozziconi di sigaretta e intrisa e resa pesante dal sudore delle molte centinaia di persone che l'avevano indossata, infilai i piedi in un paio di enormi pantofole e mi trascinai dietro all'inserviente alla volta del «gabinetto fisioterapico» badando a muovere i piedi lentamente per non perdere le pantofole. Lo stesso giovane medico dell'altra volta era in piedi vicino alla finestra e guardava fuori attraverso il vetro istoriato di brina, ispido di concrezioni ghiacciate. Da un angolo del davanzale pendeva uno straccetto che gocciolava acqua, raccolta goccia a goccia in una scodellina di latta, di quelle per mangiare, che era stata sistemata lí sotto. La stufa di ferro rombava. Mi fermai aggrappardomi con tutte e due le mani all'inserviente. - Continuiamo, - disse il medico. - Ho freddo, - gli risposi a bassa voce. Il cibo che avevo appena mangiato già non mi scaldava più. - Si sieda vicino alla stufa. Dove lavorava quand'era libero? Socchiusi le labbra, mossi la mascella, voleva essere qualcosa come un sorriso. Il medico lo capi e a sua volta mi sorrise. - Mi chiamo Andrej Michajlovič, - disse. - Lei non ha bisogno di cure mediche. Mi si chiuse lo stomaco. - No, - ripeté il medico a voce alta, - non ha bisogno di cure mediche. Ha solo bisogno di nutrirsi e lavarsi. Deve starsene a letto, stare a letto e mangiare. Č vero che i nostri materassi non sono di piuma. Ma nel suo caso non è un gran problema: cambi spesso posizione e non le verranno le piaghe. Resterà a letto per un paio di mesi. E poi sarà già primavera. Il medico ridacchiò. Ero felice, naturalmente. E come no! Due mesi interi! Ma non avevo la forza di manifestare la mia gioia. Me ne restavo lí, aggrappato al mio sgabello, e tacevo. Il medico annotò qualcosa sulla mia cartella clinica. - Vada. Tornai in corsia, e da allora non feci altro che dormire e mangiare. Di lí a una settimana, anche se un po' traballante sulle gambe, potevo già muovermi per la camerata, in corridoio, nelle altre camerate. Cercavo persone che masticassero, che trangugiassero del cibo, guardavo loro in bocca perché piú riposavo, piú la mia fame diventava acuta e cresceva. All'ospedale, come nel lager, non davano mai i cucchiai. Avevamo imparato a fare a meno di forchette e coltelli già ai tempi della detenzione preventiva. Ed eravamo abituati da molto tempo ad assumere il cibo «dal bordo», senza cucchiaio: né la minestra né la kaa erano mai cosí dense da richiedere l'uso del cucchiaio. Il dito, una crosta di pane o la lingua arrivavano a ripulire qualsiasi gavetta o scodella, per quanto fonda. Andavo e cercavo persone intente a masticare. Obbedivo a un'esigenza impellente, irresistibile, qualcosa che Andrej Michajlovič conosceva bene. Una notte l'inserviente mi svegliò. La corsia risuonava dei soliti rumori d'ospedale: ansiti, ronfi, gemiti, colpi di tosse, deliri notturni - tutto si mescolava in un'originale sinfonia di suoni, sempre che suoni del genere possano comporsi in una sinfonia. Comunque, a portarmi con gli occhi bendati in un posto cosí, lo riconoscerei immediatamente - un ospedale di lager. Una lampada sul davanzale della finestra, un piattino di latta con dentro dell'olio - e non grasso di pesce! - e un fumigante stoppino di ovatta ritorta. Probabilmente non era ancora molto tardi, la nostra notte cominciava al segnale di ritirata, alle nove di sera, e noi ci addormentavamo praticamente all'istante, non appena sentivamo i piedi al caldo. - Ti vuole Andrej Michajlovič, - disse l'inserviente. - Ti ci accompagna Kozlik. Il malato soprannominato Kozlik era già lí. Mi avvicinai al lavabo di lamiera stagnata, mi lavai e, tornato in corsia, mi asciugai viso e mani nella federa del guanciale. L'unico grande asciugamani, ricavato da una vecchia fodera di materasso, in dotazione all'intera camerata di trenta persone era disponibile solo al mattino. Andrej Michajlovič viveva all'ospedale, in una delle piccole stanze situate a un'estremità dell'edificio, normalmente utilizzate per la degenza postoperatoria. Bussai alla porta ed entrai. Sul tavolo c'erano dei libri, accatastati di lato, erano anni che non ne prendevo uno in mano. Mi erano ormai estranei, ostili, inutili. Accanto ai libri, una teiera, due boccali di latta e una scodella colma di kaa... - Le andrebbe di fare una partita a domino? - mi chiese Andrej Michajlovič, esaminandomi con simpatia. - Se ha tempo. Io detesto il domino. Č il gioco piú stupido, insensato e noioso del mondo. Perfino la tombola è piú interessante, per non parlare delle carte, di qualsiasi gioco di carte. Meglio di tutto sarebbero stati gli scacchi, o almeno la dama, sbirciai la libreria per vedere se mai ci fosse una scacchiera, ma senza risultato. D'altra parte non potevo certo indisporre Andrej Michajlovič con un rifiuto. Era mio dovere distrarlo, ripagare la bontà con la bontà. Non avevo mai giocato a domino in vita mia, ma ero sicuro che non ci volesse una grande intelligenza per impararne l'arte. E poi sulla tavola c'erano due boccali di tè e una scodella di kaa. E faceva un bel caldo. - Prendiamo il tè, - disse Andrej Michajlovič. - Ecco lo zucchero. Non faccia complimenti. Si mangi questa | << | < | > | >> |Pagina 516Non m'è mai riuscito di capire cos'avesse in cuore l'ingegner Kiselėv. Giovane ingegnere trentenne, pieno d'energia e di voglia di lavorare, non appena completati gli studi era venuto nell'Estremo Nord per farvi tre anni di praticantato obbligatorio. Tra i capi, era uno dei pochi a leggere Pukin, Lermontov, Nekrasov, almeno a quanto raccontava la scheda a lui intestata in biblioteca. E, soprattutto, era un senzapartito, dunque un uomo che non era venuto nel Grande Nord per controllare chissà cosa conformemente agli ordini ricevuti. Pur non avendo mai incontrato prima dei detenuti lungo il corso della sua vita, Kiselėv superò in ferocia ogni altro aguzzino. Pestando i detenuti personalmente, Kiselėv dava l'esempio ai propri caporali, ai capisquadra, ai soldati della scorta. Neanche dopo il lavoro riusciva a calmarsi e passava da una baracca all'altra in cerca di qualcuno da poter impunemente insultare, percuotere, riempire di botte. Di soggetti adatti ne aveva a disposizione duecento, e tutti facevano al caso suo. Nell'anima di Kiselėv albergava un'oscura, sadica bramosia omicida la quale poté esplicarsi, svilupparsi e crescere nell'atmosfera di dispotico arbitrio e illegalità dell'Estremo Nord. Ma il manrovescio non gli bastava: alla Kolyma erano tanti i cultori di quello sport tra i capi piccoli e grandi, gente a cui prudevano le mani, che non vedevano l'ora di sfogarsi, e che un minuto dopo avevano dimenticato il dente che t'avevano spezzato, il tuo viso pieno di sangue, mentre tu di quel colpo ti saresti ricordato finché campavi. Non gli bastava colpirti, dovevano assestarti un manrovescio e calpestarti, calpestarti con gli stivali ferrati quand'eri a terra, già mezzo morto. Non pochi detenuti ebbero modo di vedere da vicino i ferretti che rinforzavano suole e tacchi degli stivali di Kiselėv. E oggi chi si trova sotto quegli stivali ferrati, chi è crollato nella neve? Zel'fugarov. Č il mio vicino di cuccetta - livello superiore - nello scompartimento ferroviario di quel treno che ci sta portando dritti all'inferno, un ragazzetto diciottenne, di debole costituzione, e con i muscoli sfibrati, prematuramente sfibrati. Il viso del mio vicino è una maschera di sangue e solo dalle sopracciglia, nere e cespugliose riesco a riconoscerlo: Zel'fugarov è un turco, e un falsario. Un falsario condannato in base al 59.12, vivo: non ci crederebbe nessun procuratore, nessun giudice istruttore, poiché lo Stato ha una sola risposta per la falsificazione di denaro ed è la morte. Ma Zel'fugarov al momento del processo era un adolescente di sedici anni. - I nostri erano soldi ben fatti, non si distinguevano per niente da quelli veri, - sussurrava emozionato Zel'fugarov, lasciandosi trascinare dai ricordi nella baracca, che era poi una tenda protetta contro il freddo da una struttura di compensato all'interno del telo catramato: esistono anche invenzioni del genere. Suo padre e sua madre, nonché due suoi zii, erano stati fucilati, ma il ragazzo aveva avuta salva la vita: non per molto comunque, sarebbe morto anche lui in tempi rapidi, lo garantivano gli stivali e i pugni dell'ingegner Kiselėv. Mi chino su Zel'fugarov che sputa i denti rotti nella neve. Il viso gli si sta gonfiando a vista d'occhio. - Si muova, si muova, se la vede Kiselėv sono guai, - mi spinge da dietro Vronskij, ingegnere minerario di Tula, nativo di Tver', ultimo modello dei processi agli specialisti delle miniere, i famosi achtincy. Delatore e canaglia. Inerpicandoci per gli stretti gradini praticati sul fianco della montagna raggiungiamo il nostro posto di lavoro: la discenderia della miniera, scavata seguendo la pendenza, dalla quale è già stato estratto a forza di braccia e corda non poco materiale: le rotaie si perdono da qualche parte in profondità, dove trivellano, scavano e mandano su il minerale. Sia Vronskij che io stesso, e Savčenko, già portalettere a Charbin, e il macchinista di locomotive Krjukov, siamo tutti troppo deboli per lavorare giú in miniera, perché ci venga concesso l'onore di poter accedere a pala e piccone nonché alla razione «rinforzata» che, a quel che dicono, si distingue dalla razione nostra, «di produzione», per via di una kaa supplementare. So bene in cosa consiste la «scala alimentare» del lager, qual è il minaccioso contenuto di queste razioni differenziate usate come incentivi, e non mi lamento. Gli altri, i novellini, dibattono infervorati la fondamentale questione della categoria di vitto che assegneranno loro per la successiva decade: razioni e buoni pasto cambiano ogni dieci giorni. Quale razione? Per meritarci la razione rinforzata siamo troppo deboli, abbiamo i muscoli di braccia e gambe ridotti a esili cordicelle. Ma ci restano ancora i muscoli della schiena e del petto, abbiamo ancora pelle e ossa bastanti, e dunque possiamo farci venire i calli sul petto, agli ordini dell'ingegner Kiselėv. Quei calli li abbiamo tutti e quattro, nonché toppe bianche sul davanti dei giacconi imbottiti, laceri e sporchi, tutte simili, come se indossassimo una stessa divisa di prigionieri. Nella galleria sono posate delle rotaie e noi facciamo scendere il vagoncino legato a una corda, a un canapo: in basso lo riempiono e noi lo tiriamo su. A mani nude sicuramente non ce la faremmo mai, neanche tirando tutti e quattro insieme, contemporaneamente, come le troike di cavalli aggiogate ai carri delle merci a Mosca. Nel lager ognuno tira o a mezzaforza o raddoppiando le forze. Di tirare tutti insieme allo stesso modo non c'è verso. Ma noi abbiamo un meccanismo, quello stesso meccanismo che c'era già nell'antico Egitto e che ha permesso di costruire le piramidi. Le piramidi e non una miniera, una minierina da niente. Č l'argano a cavalli. Soltanto che qui invece dei cavalli, vengono aggiogati degli uomini, cioè noi, e ognuno preme con il petto contro la propria barra, spinge, e il vagoncino sale lentamente verso l'uscita. Quando è fuori, spingiamo il vagoncino fino alla rampa di scarico, lo svuotiamo, lo riportiamo indietro, lo rimettiamo sulle rotaie e lo spingiamo nella gola oscura della galleria. Ognuno di noi ha calli sanguinanti sul petto, pezze rattoppate sul petto: è il marchio della barra dell'argano a cavalli, l'argano egizio. L'ingegner Kiselėv ci sta aspettando, le mani sui fianchi. Controlla che ogni elemento del tiro a quattro sia in posizione. Finita la sigaretta, schiaccia accuratamente il mozzicone con lo stivale, sbriciolandolo contro le pietre, e se ne va. E anche se sappiamo che Kiselėv ha schiacciato apposta a quel modo il mozzicone proprio perché noi non si possa recuperare neanche un briciolo di tabacco - e infatti il sovrintendente ai lavori non poteva non aver visto i nostri occhi febbrili e avidi, le nostre narici di carcerati che inalavano da laggiú il fumo di quella sua sigaretta - anche se lo sappiamo, non possiamo fare a meno di correre tutti e quattro verso la sigaretta massacrata, distrutta, cercando di recuperare almeno un briciolo, una particella minuscola di tabacco, ma naturalmente non ci riesce di trovar niente, non un minuzzolo, non un granellino. E abbiamo tutti le lacrime agli occhi e riprendiamo le nostre posizioni contro le barre consunte dell'argano egizio, contro il tamburo avvolgicavo. Fu Kiselėv, Pavel Dmitrievič Kiselėv, a resuscitare ad Arkagala il carcere di rigore dei tempi del 1938, un carcere scavato nella roccia, nel gelo perenne, un carcere di ghiaccio. D'estate, i detenuti puniti venivano fatti spogliare, rimanendo con la sola biancheria, conformemente alle istruzioni estive del Gulag, e messi in carcere a piedi nudi, senza berretto o guanti. D'inverno, conformemente alle istruzioni invernali, venivano messi dentro vestiti. Per molti detenuti anche una sola notte passata in quel carcere di rigore significò dire addio per sempre alla salute. Si parlava molto di Kiselėv nelle baracche, nelle tende. I pestaggi quotidiani, metodici, micidiali sembravano troppo orribili, intollerabili a molti di coloro che non erano passati per la scuola del 1938. A meravigliare, o colpire, urtare, se si vuole, era il fatto che il caposettore prendesse personalmente parte a quelle quotidiane esecuzioni. Ai soldati di scorta, ai sorveglianti, i prigionieri perdonavano facilmente percosse e spintoni, li perdonavano ai propri capisquadra, ma provavano vergogna per quel caposettore, quell'ingegnere senzapartito. L'attività di Kiselėv suscitava l'indignazione perfino in persone i cui sentimenti erano stati fiaccati dalla prolungata detenzione, che avevano visto di tutto, che avevano imparato quella sovrana indifferenza che il lager sviluppa negli uomini.
Vedere il lager è orribile e nessun uomo al mondo dovrebbe mai
conoscere un simile luogo. L'esperienza del lager è assolutamente
negativa, in ogni suo momento. Non può che peggiorare l'uomo.
Senza alternative. Nel lager ci sono molte cose che l'uomo non dovrebbe mai
vedere. Ma vedere il fondo piú oscuro della vita non
è ancora la cosa peggiore. La cosa peggiore è quando l'uomo comincia a sentire
questo fondo oscuro - e per sempre - come parte della propria vita, quando
informa i propri criteri morali all'esperienza del lager, quando la morale dei
malavitosi viene applicata alla propria vita di «libero». Quando la ragione
dell'uomo non si limita piú a giustificare questi sentimenti del lager, ma si è
ormai messa al loro servizio. Conosco molti intellettuali - e non solo degli
intellettuali - che hanno assunto proprio i criteri malavitosi come confini, di
un'etica segreta che li guida nella loro vita libera. Nella battaglia che ha
opposto queste persone al lager, è stato
il lager a riportare la vittoria. Tra le conseguenze, l'assimilazione
della morale «meglio rubare che chiedere», o la falsa distinzione
che fanno i malavitosi tra razione personale e razione statale, o ancora l'uso
troppo disinvolto di tutto ciò che è proprietà pubblica.
Ci sono svariati esempi di questa corruzione indotta dal lager. Le
frontiere morali, il confine tra bene e male, sono molto importanti per il
detenuto. Costituiscono anzi il problema principale della
sua vita. Se sia rimasto uomo, oppure no.
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