Copertina
Autore Eric Salerno
Titolo Genocidio in Libia
SottotitoloLe atrocità nascoste dell'avventura coloniale italiana (1911-1931)
Edizionemanifestolibri, Roma, 2005 [1979], Esplorazioni , pag. 150, ill., cop.fle., dim. 145x212x10 mm , Isbn 978-88-7285-389-4
LettoreLuca Vita, 2005
Classe paesi: Libia , storia contemporanea d'Italia , storia: Africa , storia criminale
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Introduzione                              7
Atrocità nascoste                        17
Testimonianze                            27
Bombardamenti e gas                      49
Le «fatiche» del tribunale speciale      65
La deportazione della popolazione        71
El Agheila                               81
Gli esiliati                            105
Un tentativo di bilancio                109
Gheddafi-bis e l'Italia                 113
Cronologia                              131
Bibliografia                            141


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

CONTI CHIUSI, CONTI IN SOSPESO
INTRODUZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE



Italiani brava gente? Oltre un quarto di secolo è trascorso da quando fu pubblicato Genocidio in Libia, una ricerca su alcuni aspetti del colonialismo italiano in Libia. Gli storici di professione, in questi anni, hanno scoperto e divulgato altri particolari (dove modificavano la sostanza degli eventi, sono stati integrati in questa nuova edizione) e una parte della nostra società è stata capace di riconoscere le colpe di quell'Italia, tra Giolitti e Mussolini, anche in Etiopia, Eritrea e Somalia. Ma il mito dell'Italiano Buono, portatore di Civiltà, non è del tutto scomparso. Anzi. Assomiglia, quando viene evocato, alle giustificazioni del presidente americano, George W. Bush, quando giustifica l'invasione dell'Iraq con la necessità di portare la democrazia occidentale tra chi non l'ha mai sperimentata. Assomiglia alle parole dei crociati moderni contro l'Islam, a chi insiste per sottolineare gli aspetti positivi, illuministici del Cristianesimo nella storia dell'Europa dimenticando, e cito soltanto due tragici imperdonabili prodotti della società cristiana, l'Inquisizione e l'Olocausto. Il primo, è vero, appartiene a un lontano passato, il secondo è un pezzo del nostro presente, e pesa su ogni momento della nostra vita. Sei milioni di ebrei, ma anche altri sei milioni tra rom, omosessuali, contestatori che non devono essere dimenticati. Per impedire altri massacri, è necessario capire quelli del passato, riconoscere le colpe di chi ne ha la responsabilità, analizzare come e perché l'uomo si è lasciato andare in quel modo.

Nel primo capitolo di Genocidio in Libia spiegai che a stimolare la mia curiosità, a provocare la ricerca fatta sul terreno tra i superstiti libici dell'avventura coloniale e negli archivi storici del nostro paese, furono le parole con cui Muammar el Gheddafi parlava di atrocità commesse dagli italiani nel periodo che va dal 1911 al 1931. Nei libri usciti fino alla metà degli anni settanta, c'era ben poco che potesse giustificare la portata delle sue accuse. Trovai, quasi per caso, direi per un errore, una distrazione da parte degli archivisti del periodo coloniale, le prime indicazioni e prove dell'uso di gas, l'iprite, contro la popolazione civile libica. Trovai la descrizione dei bombardamenti, degli effetti devastanti dei gas sull'uomo, di come fuggiva la gente del Gebel, la montagna, quando sentiva l'avvicinarsi di un aereo. Trovai particolari, fino ad allora inediti, dei campi di concentramento, e anche dei massacri avvenuti nei primi anni dell'invasione italiana. Non molto, invece, riguardo la deportazione di libici dalla loro terra e il loro esilio in alcune isole italiane.

Gheddafi ha sfruttato, e continua a sfruttare, le vicende di quel periodo per rafforzare l'unità del suo paese, talvolta per ricattare l'Italia, la Germania, l'Occidente e il suo colonialismo, ma questo nulla toglie alle nostre responsabilità. Israele è sovente accusato di sfruttare la memoria dell'Olocausto per rivendicare diritti, per sollecitare una politica favorevole non solo allo Stato ebraico ma ai suoi governi, buoni o cattivi che siano, ma sarebbe un errore per questo cercare di sminuire le responsabilità della Germania, della Francia di Vichy, dell'Italia fascista, e anche dell'indifferenza dell'America di Roosevelt, nella Shoah. Non intendo fare, qui, paragoni, mettere sofferenze a confronto. Ogni popolo che soffre ritiene che il proprio dolore sia più importante di altri dolori. Centomila libici morti, di fronte alle cifre dell'Olocausto degli ebrei, del sistematico tentativo di eliminare un popolo intero, possono essere considerati «poca cosa», ma se paragoniamo quella cifra alle dimensioni della popolazione libica di allora diventa più facile, per noi, renderci conto del peso che quei morti ebbero sulla società nordafricana. Gli effetti della storia non possono essere determinati esclusivamente da un ragionamento scientifico basato sugli eventi, devono tenere conto della percezione della storia stessa da parte dei suoi protagonisti.

[...]

Un capitolo fondamentale del comunicato congiunto Italia-Libia sottoscritto nel 1999 comincia con le seguenti parole: «Il Governo italiano esprime il proprio rammarico per le sofferenze arrecate al popolo libico a seguito della colonizzazione italiana e si adopererà per rimuoverne per quanto possibile gli effetti, per superare e dimenticare il passato, avviare una nuova era di amichevoli e costruttive relazioni tra i due popoli». Un passo diplomatico importante, da parte dell'Italia ma, in apparente contraddizione con la sostanza riparatrice di questo impegno di Roma, nel 2004, il vice premier italiano Gianfranco Fini, poco prima di assumere anche l'incarico di ministro degli esteri ha pronunciato un discorso agli esuli italiani dalla Libia, i rappresentanti dei ventimila connazionali cacciati nel 1970. Le sue parole, tra l'altro: «Non c'è ombra di dubbio che il colonialismo ha rappresentato, nel secolo scorso, uno dei momenti più difficili nel rapporto tra i popoli e nel rapporto tra l'Europa e, in questo caso, il Nord-Africa ma, e ovviamente parlo a titolo personale, quando si parla di colonialismo italiano, credo che occorra parlarne ben consapevoli del fatto che sono altri in Europa che si devono vergognare di certe pagine brutte perché anche noi abbiamo le nostre responsabilità ma, almeno in Libia, gli italiani hanno portato, insieme alle strade e al lavoro, anche quei valori, quella civiltà, quel diritto che rappresenta un faro per l'intera cultura, non soltanto per la cultura Occidentale».

È una frase che ho trovato sconcertante. E non sono stato l'unico, tra gli italiani, a sobbalzare di fronte all'affermazione del nostro ministro degli esteri. Lo storico Del Boca ha sottolineato immediatamente, in un'intervista a un quotidiano italiano, come il vice premier abbia voluto scordare i centomila e passa libici morti per difendere la loro patria, i tredici campi di concentramento in Cirenaica e nella Sirtica, la deportazione dei libici verso l'Italia, l'uso dei gas contro la popolazione civile. È mai possibile che ci sia ancora oggi un uomo di governo italiano che trova accettabile dal punto di vista storico, e non soltanto morale, portare avanti il mito dell'italiano colonialista buono?


Per anni, la Libia rivendicava e si aspettava un'esplicita ammissione della colpa coloniale italiana. La giudicava forse ancora più importante del risarcimento dei danni materiali. La prima vera, inequivocabile, condanna del colonialismo italiano in questo paese risale alla visita dell'allora presidente del Consiglio, Massimo D'Alema nel dicembre 1999. «Qui - disse rendendo omaggio ai martiri di Sciara Sciat e di Henni - qui gli eroi nazionali sono stati giustiziati dagli italiani». Nella sua seconda giornata di visita ufficiale, D'Alema consegnò ai libici la Venere di Leptis Magna. L'opera risale al II secolo dopo Cristo, e fu regalata nel 1939 dal governatore di Libia, Italo Balbo, al maresciallo tedesco Göring. Dopo la scopertura della statua, D'Alema commentò: «Splendida. Il fatto che l'Italia abbia voluto recuperare questa statua a Berlino, restaurarla e restituirla è il senso di volere riparare una ferita. Anche noi abbiamo subito il trafugamento di molte opere d'arte nel corso della storia».

[...]

La visita del presidente del Consiglio italiano Berlusconi nell'ottobre 2004, la decisione della Libia di trasformare la «giornata della vendetta» in una «giornata di amicizia» tra i nostri due popoli, la visita di una delegazione di italiani della Libia che per la prima volta sono riusciti a rivedere i luoghi dove sono cresciuti, dove hanno lavorato, sono tutti elementi importantissimi. La cacciata degli italiani fa parte del passato e si è aperto un capitolo nuovo nella storia millenaria che lega i nostri popoli ma, come ha detto recentemente Valentino Parlato, nato e cresciuto a Tripoli ed espulso dall'amministrazione britannica, non perché italiano ma perché comunista: «Questo atto di riconciliazione guarda al futuro dei rapporti tra Italia e Libia, non è, né può essere, un colpo di spugna su tutte le nefandezze compiute dagli italiani in Libia».

Nel dicembre 2004, in una lunga intervista a Rai educational, Gheddafi ha risposto, indirettamente, alla frase di Gianfranco Fini, citata all'inizio. «Per lei il Fini, ministro degli esteri, è un problema o una opportunità?», la domanda del giornalista. E Gheddafi: «Veramente io non lo conosco, però le informazioni che ho su di lui dicono che era un fascista. Ora è diventato antifascista, e questa è una cosa giusta. So che ha anche chiesto scusa agli ebrei, per quello che è stato fatto dai fascisti italiani agli ebrei. Se facesse la stessa cosa anche verso i libici, chiedendo scusa ai libici, in questo caso potrebbe essere elogiato».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 17

LE ATROCITÀ NASCOSTE



«Ciò che l'Italia ha commesso nella località di el Agheila rappresenta oggi una lezione storica per l'umanità e un tragico esempio di aggressione, brutalità e barbarie. Esso rispecchia l'arroganza dei forti quando aggrediscono i popoli poveri e deboli». Il 7 ottobre 1975 Muammar el Gheddafi, presidente della Jamahiria libica, iniziava con queste parole un discorso celebrativo dell'anniversario della cacciata dei «fascisti italiani». Cinque anni prima, pochi mesi dopo il sollevamento militare che aveva portato alla caduta della monarchia senussita, il Consiglio della rivoluzione libico aveva deciso di espellere dal paese i ventimila italiani che erano sopravvissuti alla fase propriamente coloniale. Agricoltori, commercianti, piccoli industriali, barbieri, ristoratori, albergatori, artigiani dovettero lasciare il vasto paese che avevano imparato a considerare «casa», anche se una casa del tutto particolare, per tornare in Italia ed inserirsi in un mondo per loro quasi completamente nuovo. Il regime fascista li aveva avviati verso lo «scatolone di sabbia», così qualcuno in epoca coloniale aveva definito la Libia, perché conquistassero e gestissero un intero popolo. E per anni l'avevano fatto con uno spirito che, nella pratica, non era cambiato nemmeno dopo la guerra, quando l'ex colonia venne affidata alla corrotta gestione della monarchia.

L'avventura coloniale in Libia ha inizio nel 1911 con la guerra contro la Turchia, che come impero ottomano estendeva la sua potenza e controllo su buona parte del nord Africa. Per gli italiani era un po' come impostare un film con dei continui flashback. Proliferavano libri, studi eruditi si fecero conferenze per dimostrare, con l'aiuto della Storia, che in fondo andare in Libia era come tornare a casa. Non erano romane le città di Sabrata, di Leptis Magna, di Cirene? I romani non avevano conquistato e portato la loro civiltà all'interno del paese fino a domare anche i bellicosi e fieri Garamanti? La Libia era una specie di «terra promessa».

L'espansione era sentita come una necessità demografica e anche come un'operazione di prestigio di fronte alle altre potenze europee. E poi l'invasione della Libia, una vasta distesa di sabbia e di ricchi palmeti lungo la costa mediterranea abitata solo da una relativamente modesta popolazione di arabi e berberi sottomessi all'impero ottomano, appariva come un'impresa facile. Negli anni che seguirono, e attraverso le alterne vicende che caratterizzarono gli sforzi della potenza coloniale per sottomettere il popolo libico, la stampa italiana di regime dipinse un quadro idilliaco e da grande epopea. Nei libri di storia, molti dei quali, con le ovvie modifiche, arrivano fino ai nostri giorni, si racconta la storia di un colonialismo all'acqua di rose, dell'italiano buono che si integrava con il popolo colonizzato, di uno sforzo comune di sviluppo. Le grandi arterie in asfalto, le scuole moderne in stile nuovo impero, le cittadine tutte Sabaudie e Latine per i coloni venuti dall'Italia accompagnati fino al porto da Balbo e dagli altri gerarchi, le enormi piantagioni dei latifondisti, vengono ancora oggi portate come esempio di come l'Italia ha sì conquistato ma ha anche trasformato un paese e civilizzato il suo popolo. Una trasformazione e una conquista, si è continuato a dire, quasi indolore. I resoconti di atrocità, di rappresaglie, di massacri, la decimazione della popolazione libica cominciata, come vedremo, sotto la spinta dell'Italia liberale costituiscono, dice ancora oggi qualcuno, solo fenomeni episodici che non intaccano la validità della conquista e della colonizzazione.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 23

La conquista della Libia si svolse in due fasi quasi distinte: la prima, superficiale e approssimativa anche dal punto di vista militare, portò gli italiani ad impossessarsi di parte del paese (nel 1911) prima di essere respinti e confinati sulla costa intorno a Tripoli (1914-5). La seconda, che venne definita la «riconquista», fu portata a termine dal regime fascista mussoliniano. Strumenti di guerra più efficaci e micidiali furono messi a disposizione dell'esercito da un governo disposto a vedere la decimazione della popolazione autoctona pur di «pacificare» lo «scatolone di sabbia» e di renderlo abitabile e ospitale per le decine di migliaia di coloni che vi sarebbero stati trasferiti dall'Italia. Se nella prima fase le atrocità denunciate potevano essere «giustificate» dall'inesperienza e dall'approssimazione, nella seconda la repressione ad ogni livello fu una scelta ben precisa, codificata, messa in atto con determinazione e, dunque, senza attenuanti. Fernando Gori nel suo Legionari d'Africa (1932) scriveva:

Qualcuno a Bengasi allora sospirava e diceva: «Ma le Camicie nere spopolano la Cirenaica». Pazienza, la colpa non era delle Camicie nere. Esse volevano, secondo gli intendimenti dei capi, completamente pacificare la Cirenaica; e d'altronde in casa nostra si è in tanti che si poteva ripopolarla in un batter d'occhio.

Le cifre del genocidio non possono essere complete. Mancano anche negli archivi i dati reali. I calcoli che sono stati compiuti attraverso una rilettura dei censimenti (approssimativi anch'essi) vengono contestati da chi cerca, ancora oggi, di salvare l'immagine dell'Italia coloniale. Ma non si tratta di stabilire se i morti, le vittime della fame, della repressione, dei bombardamenti indiscriminati e sperimentali, furono mezzo milione o centomila. L'essenza non cambia. L'Italia coloniale ha condotto una guerra che per alcune sue fasi si potrebbe definire di sterminio. E gli esempi non mancano: nei piani per le operazioni militari del 1927-1928 in Cirenaica si parla di «affrontare e risolvere il problema dell'assoggettamento o dell'annientamento della tribù Mogarba, che, approfittando della sua privilegiata posizione di popolazione sirtica, non era ancora entrata nell'orbita del nostro dominio». E Gori, sempre in Legionari d'Africa, scriveva, a operazioni concluse: «Quelle popolazioni remote sentirono il peso della potenza italiana. La tribù uscì decimata in uomini e distrutta nei beni».

Il colonialismo italiano non era diverso da quello francese o inglese o belga. Questo libro, che preferirei definire dossier, raccoglie le prove e le testimonianze di questa realtà.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 31

La città di Misurata, duecento chilometri ad ovest di Tripoli, venne occupata dalle truppe italiane nel 1912 dopo un combattimento durato dieci ore e abbandonata il 19 luglio 1915 quando gli arabi si risollevarono. Il cuore della città moderna è lo stesso di quello sviluppato dopo la riconquista e la «pacificazione»: gli edifici amministrativi in stile littorio servono ancora ai gestori della cosa pubblica mentre accanto ad essi stanno sorgendo complessi edilizi per uffici e abitazione. Alle spalle del municipio, proprio davanti alla chiesa cattolica, c'è in più un piccolo monumento. È il ricordo di un massacro. Quello della famiglia Mathus. Nel 1911 Mohammed Mohammed Abbas aveva soltanto nove anni. Oggi insegna in una piccola scuola coranica alla periferia della città. Siamo andati a trovarlo. Ha parlato a lungo degli avvenimenti successivi alla riconquista di Misurata, ma gli è rimasta ancora più impressa la storia della famiglia Mathus:

Una famiglia intera. Uomini, donne e bambini. Non ricordo bene: dovevano essere trentasette o trentotto. I soldati italiani erano usciti sconfitti da una battaglia con i nostri combattenti proprio il giorno prima. Ritornavano in città. Sono passati davanti ad una casa piuttosto grande e i libici, tutti arrampicati sui muri a vedere rientrare gli italiani sconfitti, li deridevano. La soddisfazione da una parte, la gloria ferita dall'altra. Allora gli italiani presero tutti. Uomini, donne e bambini di ogni età. Li portarono dentro la casa e cominciarono a sparare per ucciderli tutti. Poi appiccarono il fuoco. Molti, credo, debbono essere morti bruciati vivi. Ho visto i loro corpi. Ho visto le loro ossa quando le rovine di quella casa furono scavate per dare degna sepoltura alle Vittime della ferocia.

Non ho trovato traccia di quest'episodio nella abbondante letteratura italiana sulla conquista della Libia, né in quella, più modesta, quantitativamente, non certo qualitativamente, apparsa nell'Italia repubblicana, ma la storia della famiglia Mathus, di un processo che si doveva fare ma che si è preferito evitare per onore di patria, è scritta e sepolta negli archivi del Ministero degli esteri. Cerchiamo di ricostruire, con i documenti ufficiali, questa storia emblematica.

Il consigliere politico di Misurata, Alessandro Pavoni, scriveva l'8 ottobre 1915 queste parole indirizzate a Giacomo Agnesa, direttore per gli affari politici del Ministero delle colonie:

Il giorno 24 maggio erasi svolto a Misurata, nelle immediate vicinanze delle trincee, un accanito combattimento che durò, con maggiore o minore intensità, dall'alba alle ore 17,30. Scopo del combattimento era stato quello di occupare alcune posizioni ad est della camionabile indispensabili per riallacciare o mantenere le comunicazioni con Misurata Marina. In città non era accaduto per tutta la giornata alcunché di notevole.

Alle ore 18, mentre mi trovavo al caffè Truccato, la mia attenzione venne richiamata da alcuni colpi di fucile provenienti dalla direzione di Fonduco Mathus, che trovasi nella Piazza Vittorio Emanuele di fronte al Castello e distante da questo non più di duecento metri e presso a poco ad uguale distanza dal caffè. Uscii immediatamente sulla Piazza e vidi accorrere al Fonduco, dove già trovavansi alcuni soldati, molti altri soldati, zaptiè [truppe coloniali, N.d.A.], carabinieri e borghesi. Erano presenti il proprietario del caffè signor Truccato, il signor De Gregori, il signor Craveri, l'aiutante del Genio civile signor Mola e molti altri dei quali non rammento i nomi. Si diceva nel crocchio che dal Fonduco erano stati sparati alcuni colpi di fucile e che i soldati stavano ora reprimendo la rivolta. Il sergente del Genio correva a prendere bombe a mano e latte di benzina e frattanto sei soldati avevano dato la scalata al Fonduco e dal tetto sparavano colpi di fucile nel cortile. La scena si svolse in circa quindici minuti, poi cessò il fuoco.

Fra gli altri era accorso anche il capitano dei R.R carabinieri Jovine e questi ordinò che il Fonduco venisse incendiato. Così iniziavasi l'opera di devastazione e di rapina, poiché borghesi e militari e zaptié asportarono dal Fonduco tutto quanto poteva interessare e cioè bestiame, suppellettili, indumenti, ori, carri, finimenti ecc.

Vidi fra gli altri il signor... proprietario dell'Albergo..., asportare mobili ed altro.

Chiesi se si fossero sequestrati i fucili e mi si rispose che gli uomini che avevano sparato erano stati uccisi ma che di armi non se n'erano rinvenute nel Fonduco.

Verso le ore 20 poi udii un vivo schioppettio al Fonduco, mi affacciai alla finestra e vidi che tutta la trincea di fronte al Castello sparava contro al Fonduco. Uscii di casa ed andai dal colonnello Russo per avere notizie ed egli mi raccontò che, in seguito ad alcuni spari partiti dal Fonduco Mathus, era stata fatta una pronta repressione e che l'ultima fucileria era stata causata da un falso allarme avvenuto per lo schioppettio delle munizioni che trovavansi nel Fonduco incendiato.

Il mattino successivo, alle ore 7.30, mi recai al Fonduco per costatare l'effetto dell'incendio. Vi trovai una pattuglia di carabinieri che si aggirava nei vari locali, oltre un centinaio di soldati che andavano e venivano dalle trincee asportando roba, parecchi borghesi che facevano altrettanto e fra questi i signori... e .... il primo con un carro, il secondo trasportante un finimento da carretto. Esternamente al Fonduco era ancora un rogo fumante sul quale trovavansi tre cadaveri di uomini non ancora completamente bruciati. In alcune stanze scure vidi i cadaveri di donne nere, di giovanetti e di bambini. In un cortile vidi i cadaveri di due donne bianche completamente nude, l'una colla schiena a terra, le gambe leggermente piegate e le cosce divaricate, l'altra inginocchiata col volto a terra e le cosce divaricate. Accanto ad esse giacevano i cadaveri di due bambini, la cui età non era superiore ad un anno. Uno di questi aveva una ferita d'arma bianca in un occhio.

Il Pavoni racconta di aver riferito quanto visto al colonnello Russo che gli disse di ignorare tutto. Aggiunge poi:

Nel Fonduco Mathus trovavansi in quel giorno da trentadue a trentaquattro persone; di queste otto erano uomini, le altre erano donne, bambini e giovanetti. Il signor Naldini, impiegato al Commissariato, il quale presenziò al seppellimento, disse che i cadaveri rinvenuti erano trentadue ma non esclude potessero essere in maggior numero poiché nella notte qualcuno era già stato buttato nella cisterna.

Il giorno 25, poi, l'Arma dei R.R. carabinieri, in seguito ad ordini del comando di zona, vuotò il magazzino di Mathus, sito sulla piazza del mercato e ben fornito di merci, di tappeti e di stoffe e tutto fu dichiarato preda bellica.

Ignoro come poi tale preda venne distribuita.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 62

[...] Esiste anche un altro racconto dei fatti di Gife. Non è ufficiale. Fa parte di Ali sul deserto, di Vincenzo Biani, un volume di ricordi di guerra presentato in termini elogiativi dal maresciallo Balbo:

Una spedizione di otto apparecchi fu inviata su Gifa, località imprecisata dalle carte a nostra disposizione, che erano dei semplici schizzi ricavati da informazioni degli indigeni; importante però per una vasta conca, ricoperta di pascolo e provvista di acqua in abbondanza. Ma senza oasi e senza case: un punto nel deserto.

Fu rintracciata perché gli equipaggi, navigando a pochi metri da terra, poterono seguire le piste dei fuggiaschi e trovarono finalmente sotto di sé un formicolio di genti in fermento; uomini, donne, cammelli, greggi; con quella promiscuità tumultuante che si riscontra solo nelle masse sotto l'incubo di un cataclisma; una moltitudine che non aveva forma, come lo spavento e la disperazione di cui era preda; e su di essa piovve, con gettate di acciaio rovente, la punizione che meritava.

Quando le bombe furono esaurite, gli aeroplani scesero più bassi per provare le mitragliatrici. Funzionavano benissimo.

Nessuno voleva essere il primo ad andarsene, perché ognuno aveva preso gusto a quel gioco nuovo e divertentissimo. E quando finalmente rientrammo a Sirte, il battesimo del fuoco fu festeggiato con parecchie bottiglie di spumante, mentre si preparavano gli apparecchi per un'altra spedizione.

Ci si dava il cambio nelle diverse missioni. Alcuni andavano in ricognizione portandosi sempre un po' di bombe con le quali davano un primo regalo ai ribelli scoperti, e poi il resto arrivava poche ore dopo. In tutto il vasto territorio compreso tra El Machina, Nufilia e Gifa i più fortunati furono gli sciacalli che trovarono pasti abbondanti alla loro fame.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 70

L'uso dell'iprite, che doveva diventare un preciso sistema di massacro della popolazione civile in Etiopia qualche anno più tardi, fu certamente una scelta sia militare che politica, come i bombardamenti della popolazione civile in Libia doveva corrispondere a scelte di colonizzazione ben precise. L'Italia fascista era pronta ad inviare in Libia migliaia di coloni che avrebbero potuto coesistere con la popolazione locale soltanto se questa avesse non solo accettato di sottomettersi all'autorità di Roma, ma soprattutto di modificare radicalmente la propria esistenza nomade e «anarchica». L'Italia, comunque, aveva scelto per la Libia una forma di colonizzazione basata sulla gestione delle ricchezze della terra attuata direttamente da coloni italiani con lo sfruttamento, ove fosse possibile, di manodopera locale. Per Graziani, che aveva carta bianca sul terreno, e per i dirigenti politici e militari che da Roma lo spronavano a concludere al più presto una «conquista» cominciata quindici anni prima, la decisione di servirsi di gas tossici non poteva prescindere dalla consapevolezza che essi, colpendo in modo particolare la popolazione civile, avrebbero finito per distruggere, almeno in parte, quella forza-lavoro locale che un giorno, altrimenti, si sarebbe potuta mettere a disposizione dei coloni italiani. Probabilmente, nascosti negli archivi, giacciono ancora i documenti che potranno dimostrare — come già sembrano fare quelli finora reperiti — la non casualità della scelta italiana di utilizzare i gas tossici in Libia.

Molto tempo era passato da quel lontano 1911 quando i primi aviatori italiani atterrarono in Libia, avanguardia di un'Arma che con il passare degli anni si sarebbe affinata e ingrandita. Dal novembre 1929 alle ultime azioni del maggio 1930 l'aviazione della Cirenaica eseguì, secondo fonti ufficiali, ben 1605 ore di volo bellico lanciando 43.500 tonnellate di bombe e sparando diecimila colpi di mitragliatrice. Le fonti, però, non precisano quante tonnellate di bombe erano cariche di iprite.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 139

CRONOLOGIA DELLO SBARCO ITALIANO A TRIPOLI FINO
ALLA «PACIFICAZIONE» DELLA CIRENAICA




1911

29 settembre  L'Italia dichiara guerra alla Turchia.
 2 ottobre    L'ammiraglio Farinelli intima al comandante
              turco della piazza di Tripoli la resa della
              città.
 3 ottobre    Le corazzate italiane bombardano Tripoli.
 4 ottobre    Nell'estremo est della Cirenaica le truppe
              italiane occupano Tobruch.
 5 ottobre    Comandati da Umberto Cagni, sbarcano a
              Tripoli 1732 marinai.
10 ottobre    Al generale Caneva viene affidato il comando
              del corpo di spedizione.
11 ottobre    Sbarcano i primi contingenti del corpo di
              spedizione.
14-16 ottobre Ad Hamura e Bumeliana le forze arabo turche
              passano al contrattacco.
19-20 ottobre Dopo violenti combattimenti viene occupata
              Bengasi.
22 ottobre    Vengono effettuati i primi voli militari da
              parte del pilota capitano Piazza.
23 ottobre    La battaglia di Sciara-Sciat: le forze arabe e
              turche attaccano i bersaglieri alle spalle
              decimandoli. Colti di sorpresa i reparti
              italiani riescono a riprendere il controllo
              della situazione effettuando una repressione
              indiscriminata. Vengono massacrati oltre
              mille tra uomini, donne e bambini.


1912

6-27 gennaio  Una serie di combattimenti nella zona di
              Bengasi tra le forze italiane e quelle
              arabo-turche.

[...]

| << |  <  |