Copertina
Autore Eric Salerno
Titolo Mosè a Timbuctù
Edizionemanifestolibri, Roma, 2006, Società narrata , pag. 160, cop.fle., dim. 14,5x21x1 cm , Isbn 978-88-7285-506-5
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe viaggi
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Indice

SONO NERO                        9
SONO BIANCO                     11
VERSO L'IGNOTO                  15
DA NORD A SUD                   19
AUTOSTOPPISTA                   25
I MISTERI DI TIMBUCTÙ           27
ANTONIO MALFANTE                35
CON VOI VIVRÀ MEGLIO            43
LE NOSTRE MOSCHEE               47
LA BOTTEGA SULLA RUE            59
LIBRI NEL DESERTO               63
UN MITO ASHANTI                 65
CAROVANE E LIBRI                81
LA REGINA DEGLI EBREI           85
VIVERE SENZA CONFINI            95
MILLEFIORI                      99
LIBRI MURATI                   107
ANTICA SAGGEZZA                113
UN MUSULMANO A PARIGI          115
I DISPERATI                    119
LA SOMMA DI MOLTI MOMENTI      125
ABDOUL NON PREGA               127
DU'TI, KUTI, QATI              139
SIAMO EBREI                    149
CHI SONO?                      151
IDENTITÀ                       157

 

 

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Pagina 9

SONO NERO



La mia fuga coincise con il compimento dei miei diciotto anni. Ero riuscito a studiare e avevo imparato molto della nostra storia e anche del Corano. Erano gli anni prima della grande siccità. Il Mali era uscito dal colonialismo da una decina d'anni ed ero angosciato dalle incertezze tipiche della pubertà. I griot, che qualcuno cominciava già a chiamare con i loro nomi originari, «finah» per quelli che raccontavano la storia, «jali» per i poeti-musicisti, depositari e propagandisti delle conquiste moderne del nostro eroe nazionale, l'uomo della rivoluzione anti-coloniale e del nuovo Mali, Modibo Keita, furono costretti al silenzio quando l'uomo in cui credevamo venne deposto dai militari e, in catene, spedito a nord di Timbuctù, in pieno deserto, dove le antiche miniere di sale di Taudenni, trasformate in prigione, facevano scempio di corpi e menti. C'era, nonostante tutto, ancora speranza nel futuro, ma lavoro niente e così decisi di affrontare l'avventura, o meglio di infilarmi in quella corrente della storia che si chiama emigrazione e che trascina le genti verso sponde dove, per anni o per sempre, rischiano di sentirsi totalmente estranei o dove, perché anche questa è un'importante realtà, si amalgamano con le popolazioni locali alle quali portano in dote esperienze, cultura e tradizioni sovente complementari. Non fu difficile arrivare da Timbuctù fino a Gao, anche se la pista era irta di ostacoli, sabbie mobili nelle quali affondano le ruote delle macchine, spine, animali sonnacchiosi accasciati in mezzo alla via. Ancora oggi è un percorso non facile. Ebbi la fortuna di ottenere un passaggio su un camion. Io e altre venti persone, tutte arrampicate come mosche su una montagna di fetide pelli instabili e scomode che il mercante nigeriano aveva scambiato con stoffe e altri prodotti portati dal sud. Gao, comunque, in qualche modo era ancora casa, stessa nazione, stesse genti, stesso passato.

L'ignoto, quello vero, mi attendeva oltre. Fare l'autostop per attraversare il Sahara, quello spazio sterminato che conoscevo appena per essere nato ai suoi margini estremi, costituiva una sfida. E dopo? Riuscire a passare dall'Algeria in Europa e imboccare la strada giusta per il mio futuro, o parte di esso. Avevo scelto come meta la Francia dove viveva già un mio parente e perché tra le lingue che parlo c'è, ovviamente, anche il francese, dono, uno dei pochi, dei colonialisti. Eravamo agli inizi degli anni Settanta, l'emigrazione africana verso l'Europa stava appena incominciando e se fossi riuscito ad arrivare a Parigi mi avevano convinto che trovare un'occupazione non sarebbe stato troppo arduo e forse, con un po' di fortuna, sarei stato in grado anche di proseguire gli studi.

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Pagina 11

SONO BIANCO



Una cascata di frecce scintillanti tagliava di sguincio la vetrina impolverata della bottega conferendo una grana grossa, come quella delle vecchie pellicole ipersensibili in bianco e nero, all'altera statua lignea appoggiata sul piedistallo improvvisato, una diecina di libri vecchi più che antichi accatastati alla rinfusa. Il raggio dorato aveva perso la sua forza ma appariva riscaldato dalla luce del tramonto. Dondolavamo a destra, poi a sinistra sul marciapiede stretto per cercare di fissare qualche dettaglio oltre ai contorni di quella opera di un'artista senza nome dell'Africa occidentale, ma più ci muovevamo più la figura scolpita nel legno appassito della foresta tropicale si confondeva con il riflesso mio e, appena più in basso, con quello di Ugo. Un balletto inutile, frustrante, ma era domenica, il negozio era chiuso e il cartellino bianco e un po' sbiadito infilato nella vecchia cornice marrone della porta a vetri avvertiva i passanti che solo più tardi si sarebbe potuto entrare e più tardi sarebbe stato troppo tardi per noi.

Avrei voluto osservare da vicino quella statua, con il suo volto insolitamente tondo, occhi e bocca stilizzati, misterioso, o meglio intrigante come lo sono molte opere plastiche del continente nero, e mi chiedevo anche quanto potesse costare. Il negozio non era di quelli pretenziosi che espongono oggetti d'arte o d'artigianato modesti per qualità e dimensione in spazi vasti, possibilmente bianchi, cercando di farli risaltare come gioielli, autentici o meno, che siano. La montagna di libri, un tavolo colmo di carte indistinguibili a distanza attraverso quel vetro quasi opaco, una patina di polvere segno di sistematica incuria che copriva tutto ciò che si intravedeva dietro la vetrina, facevano pensare a un negoziante poco esigente e ancora meno raffinato. O forse, al contrario, a un vero amatore o meglio a un innamorato perso, di quelli che stabiliscono di volta in volta i prezzi degli oggetti in base alla simpatia che provano per il potenziale acquirente e li esagerano inconsciamente nella speranza di non doversene mai privare.

Appoggiati su un tavolo basso c'erano delle riviste, una copia dell'immancabile Le Monde, alcune cartelline colme di ritagli, o almeno così mi sembrava, un libretto nero, forse un'agendina telefonica o un diario. Sulla parete di fronte, un manifesto, la parte inferiore invisibile, coperta com'era da una libreria di quattro o cinque ripiani al massimo, molti volumi vecchi, alcuni oggetti d'artigianato povero, di quelli che si possono trovare nei mercatini di mezzo mondo, sculture dei makonde della Tanzania, braccialetti di metallo pesante come quelli che alcune tribù mettevano alle caviglie delle donne-schiave, una cornice piccola in cui era stato sistemato un frammento di policroma stoffa kente dal Ghana, statuine di metallo giallo che dovevano aver fatto parte di un gioco di scacchi. Stavo ancora completando questa specie di inventario quando alle immagini che riempivano la vetrina — Ugo, io e i contorni della statua — si aggiunse una sovrapposizione improvvisa. Un uomo si era accostato alle nostre spalle e il suo volto riflesso si era mescolato alle figure impresse sul vetro come se un fotografo d'altri tempi, scusate se ricorro ancora all'immagine delle pellicole una mia vecchia passione, avesse esposto più volte e con tempi sfalsati la sua fragile lastra ricoperta d'argento. Non volevo voltarmi per non dare all'intruso l'impressione che la sua presenza mi avesse infastidito, ma quando senza fretta e cercando di apparire indifferente, la piccola mano di Ugo nella mia, mi girai verso di lui, trovai gli occhi dell'Africano fissi sui miei. Non è facile per un bianco capire al primo impatto l'età di un nero, o di un orientale o di un indio. Invecchiano diversamente da noi. Qualche volta meglio, altre più rapidamente, segnati dalla qualità del loro ambiente e dalle condizioni di vita, clementi o impietose. Sicuramente quell'incertezza, quella incapacità di determinare a prima vista da quanto tempo siamo di questa Terra, vale anche per loro. Lui, l'Africano alle nostre spalle, non portava la barba, i suoi capelli erano corti e brizzolati. La pelle del suo volto nemmeno tanto nero non era più liscia e tesa, ma non rivelava sofferenze o una storia di vita troppo difficile. Probabilmente, pensai, doveva essere molto più vecchio di me; poi rendendomi conto che tendo sempre a dimenticare la mia di età accettai, con un pizzico di nostalgia più che di invidia, il fatto che tutto sommato era probabilmente più giovane. Otto, dieci anni. Non potei resistere alla tentazione di voltarmi nuovamente per paragonare il suo viso alla statua appena segnata dai tarli che nella foresta fanno rapidamente scempio di utensili e oggetti d'arte e di culto ricavati dal legno. Da dove si trovava, a un passo e più dalla vetrina opaca e impolverata, l'Africano poteva ancora meno di me scorgere i contorni della scultura. Mi scostai per lasciargli spazio ma lui, invece di avanzare per vedere all'interno della bottega come avevo fatto io, gli occhi protetti dalle mani strette a forma di imbuto, continuava a fissarmi. Appariva a dir poco incuriosito dal mio di volto, si concentrava sui dettagli e fui portato a fare lo stesso con il suo. C'era qualcosa nello sguardo di quello sconosciuto, nella forma peraltro non insolita della sua faccia, a coinvolgermi. I suoi occhi credo. Qualcosa nei suoi occhi. Che strana sensazione. Si conoscevano già i nostri occhi? Si erano già incontrati? Stavo per dire qualcosa, in inglese o in francese non so, e credo che anche lui fosse sul punto di parlarmi quando Ugo, con una leggera pressione della mano, mi fece capire che mi ero troppo distratto. Il giorno prima, mentre passeggiavamo nelle gallerie degli espressionisti nel museo del Quay d'Orsey avevo già cominciato a spiegare al mio giovane nipote le origini delle sculture africane e di come avevano influenzato una generazione di artisti europei. Ugo, mesi fa, mi aveva chiesto di portarlo in Africa a vedere gli animali, io, per motivi banali ma non per questo meno validi, avevo preferito la capitale francese e poi Eurodisney, e lui aveva apprezzato la scelta e continuava, con la sua curiosità stimolata al massimo, a dimostrare con i gesti, con le parole, con gli sguardi attenti di essere soddisfatto.

Ci incamminammo in direzione della Senna e ripresi il dialogo sospeso. Ma non riuscivo a concentrarmi. Si era messo in moto un angolo del cervello che, come il computer di un moderno laboratorio della polizia scientifica, scomponeva il volto dell'Africano, lo ringiovaniva, restituiva il colore del passato ai suoi capelli, lisciava le poche rughe, allungava il viso per privarlo di un leggero appesantimento sicuramente prodotto dall'età che lo rendeva più tondo di quanto probabilmente non fosse stato anni prima. Soltanto gli occhi, nel computer improvvisato della mia testa, rimanevano gli stessi, come se non potessero essere stati mai diversi, impronte digitali, segni di riconoscimento che riconducevano a un incontro lontano nel tempo. Non ebbi il coraggio di tornare sui miei passi e di affrontare l'Africano. Mi ricordava qualcuno ma non sapevo chi. Troppo tardi, pensai mentre ci allontanavamo, distratti dall'apparizione improvvisa del fiume.

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Pagina 115

UN MUSULMANO A PARIGI



La vita è un insieme di cicli, la vita del singolo un percorso a tappe. La storia tende a ripetersi, passaggi prevedibili e imprevedibili allo stesso tempo. Le stagioni si alternano nell'arco dei mesi del nostro calendario, poi ricominciano daccapo e quando non sono identiche, quando il tempo della pioggia non compare e la siccità prende il suo posto, guardiamo al passato per rassicurarci perché sappiamo che la natura ha fasi corte ma anche lunghe, non sempre precise. L'acqua tornerà, prima o poi. La siccità andrà via. I campi riprenderanno a fiorire. L'europeo, l'occidentale, ha difficoltà ad accettare questo concetto basato su tempi insolitamente estesi. Gli sembra un tradimento. Lui corre tanto per vivere, una corsa contro il tempo, contro la brevità dell'alito vitale stesso. Il laico soffre di più, naturalmente, perché la sua vita è tutta contenuta nello spazio degli anni che la sorte gli ha consentito. La funzione della religione, la mia, la tua, quella degli animisti che ci precedettero, serve anche a comprendere e accettare quei cicli che sono più lunghi della vita dell'uomo. I credenti riescono a superare con meno fatica le difficoltà dell'esistenza terrena quando lo spazio tra nascita e morte è particolarmente inclemente. C'è chi guarda al dopo, chi pensa alla reincarnazione, chi si addormenta senza pensieri perché attribuisce la colpa di tutto, anche quando dovrebbe sapere che non è così, alla volontà del Cielo. A sud di Timbuctù, sui monti di Bandiagara, vive il popolo dei Dogon. Hanno una religione legata più di altre all'esistenza delle stelle e dei pianeti ai loro spostamenti nello sterminato, misterioso, Universo. Qualche azzardato europeo ha voluto vedere nel loro modo di guardare il firmamento, di seguire i movimenti degli astri, e soprattutto nel fatto che nelle loro leggende compaiono da sempre stelle che soltanto di recente con l'ausilio dei potenti strumenti sono state individuate dagli astronomi, un'influenza extra-terrestre, come se nell'antichità astronavi venute da chissà quale località del cielo fossero scese sulla terra per insegnare ai Dogon ad apprezzare i cicli della vita.

Guerre e conquiste e migrazioni sono anche esse cicli nella storia dei popoli. Nella Francia, dove ho vissuto e che considero ormai una seconda patria, anche se non tutti i francesi sono felici di questo mio sentimento di appartenenza, quindici milioni di cittadini hanno almeno un nonno o una nonna di origine straniera. Quarantamila maliani sono immigrati in Francia, fanno parte dei due, dico due milioni di emigrati dal mio paese su una popolazione di appena nove milioni di abitanti. E così pensavo alle origini della mia famiglia, così complesse e ancora incerte, mentre leggevo le parole di Abdel Haqq Salaberria, un cristiano convertitosi all'Islam che parlava di rinnovamento della religione di Maometto. Cinquecento anni dopo la riconquista cristiana della penisola iberica che mise fine nel 1492 a ben ottocento anni di splendido regno islamico, non molto tempo fa è stata inaugurata la «Grande Moschea» di Granada.

«Questa moschea è il simbolo di un ritorno dell'Islam tra il popolo spagnolo e tra gli europei indigeni che spezzerà il concetto malevolo che lo considera come religione straniera, «immigrata» in Europa. Sarà il punto focale della rinascita islamica in Europa». Le parole di Salaberria hanno infastidito molti spagnoli che temono, come altri europei, che la rinascita di cui parla sia una riconquista e l'inizio della fine della cultura del cristianesimo. Le suore di un convento adiacente alla moschea hanno innalzato un muro per difendere la loro privacy e non essere costrette a guardare cosa fanno gli «infedeli» nel loro, nuovo, minaccioso tempio. Un mio amico francese mi ha inviato un articolo pubblicato da un quotidiano israeliano. L'editorialista, preoccupato, non ha trovato spazio per le parole di convivenza pronunciate dal presidente della fondazione che ha costruito la moschea: «Siamo ritornati, non per riconquistare il paese, ma per riprendere il nostro posto di diritto». Ha preferito mettere in luce il discorso di una personalità più radicale e le parole con cui chiedeva ai musulmani di tutto il mondo di «distruggere il sistema capitalista americano».

Cinquecentomila musulmani risiedono oggi in Spagna, sono oltre l'uno per cento della popolazione e anche se quasi tutti si considerano spagnoli guardano con rabbia agli avvenimenti in Iraq e nel resto del Medio oriente. Anche io vedo le cose con un occhio più critico da quando ho viaggiato e studiato in Europa. L'Islam ha forgiato un anello di congiunzione che parte dalla Mecca, attraversa il mar Rosso, scende sotto il Sahara e risale per arrivare al Marocco e, se vogliamo, varcare di nuovo lo stretto di Gibilterra per tornare laddove era stato glorioso e costruttivo molti secoli prima della scoperta dell'America. A qualcuno fa paura. C'è chi nella costituzione europea vorrebbe porre l'accento sulle radici cristiane della cultura del vecchio continente, chi a quelle radici vorrebbe aggiungere, giustamente, anche la cultura ebraica e allora, perché non ricordare quanto ha fatto anche la cultura cresciuta all'ombra dell'Islam? Noi, in Mali, non abbiamo motivo di preoccuparci. Non siamo più una melting pot. Le nostre culture si sono mescolate già nei secoli passati, lingue, popoli, usanze, e oggi il Mali è un paese tollerante. L'Islam domina, ma la legge dello Stato difende chi crede in altro o non vuole rinnegare la propria identità o il proprio bagaglio culturale.

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