Autore James Salter
Titolo Tutto quel che è la vita
EdizioneGuanda, Parma, 2014, Narratori della fenice , pag. 352, cop.fle., dim. 14x22x2,8 cm , Isbn 978-88-235-0659-6
OriginaleAll That Is [2013]
TraduttoreKatia Bagnoli
LettoreElisabetta Cavalli, 2014
Classe narrativa statunitense












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


      1. L'alba                            9
      2. La grande città                  22
      3. Vivian                           44
      4. Come una persona sola            58
      5. Decima Strada                    76
      6. Natale in Virginia               85
      7. La sacerdotessa                 100
      8. Londra                          112
      9. Dopo il ballo                   123
     10. Cornersville                    134
     11. Interim                         144
     12. Espaρa                          151
     13. Il paradiso terrestre           161
     14. Moravin                         170
     15. Il cottage                      185
     16. Summit                          195
     17. Christine                       204
     18. Come lo faccio ora              215
     19. Pioggia                         227
     20. La casa sul piccolo lago        236
     21. Azul                            251
     22. Sapore di mare                  263
     23. In vino                         270
     24. La signora Armour               277
     25. Il Cantinori                    284
     26. Niente è per caso               293
     27. Perdono                         303
     28. Tivoli                          313
     29. Fine dell'anno                  324
     30. Un matrimonio                   334
     31. Senza fine                      338
_________________________________________________


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

1
L'alba



L'acqua correva veloce nella lunga notte buia.

Due metri sottocoperta, livelli su livelli di cuccette di ferro dove giacevano silenziosi centinaia di uomini, supini, con gli occhi ancora aperti, benché fosse quasi mattina. Le luci erano basse, i motori pulsavano senza sosta, i ventilatori aspiravano l'aria umida; i millecinquecento uomini con i loro zaini e le loro armi, pesanti quanto bastava per trascinarli a fondo come un'incudine caduta nell'oceano, facevano parte del vasto esercito che navigava verso Okinawa, la grande isola a sud del Giappone. In realtà Okinawa apparteneva al Giappone, l'arcipelago ignoto e misterioso. La guerra che si combatteva da tre anni e mezzo era giunta all'ultimo atto. Entro mezz'ora i primi gruppi di uomini si sarebbero messi in fila per la colazione, da consumare in piedi, stretti l'uno all'altro, solenni, muti. La nave scivolava sull'acqua con un rumore lieve. L'acciaio dello scafo cigolava.

La guerra nel Pacifico era diversa da quella che si combatteva altrove. Intanto per le distanze, enormi. Giorni e giorni di oceano sconfinato e località dai nomi strani, distanti migliaia di miglia. Una guerra fatta di isole strappate ai giapponesi una a una. Guadalcanal, poi diventata leggendaria. Le isole Salomone e New Georgia Sound, «The Slot». Tarawa, dove i mezzi da sbarco approdarono sugli scogli, lontano dalla spiaggia, e gli uomini vennero massacrati dal fuoco nemico, fitto come uno sciame d'api, l'orrore delle spiagge, i corpi gonfi dei figli della nazione che venivano a galla, alcuni di loro bellissimi.

All'inizio i giapponesi avevano conquistato tutto con impressionante velocità, le intere Indie Orientali olandesi, la Malesia, le Filippine. Grandi roccaforti, fortificazioni profonde che avevano la fama di essere inespugnabili, spazzate via nel giro di pochi giorni. C'era stato soltanto un contraccolpo, la prima grande battaglia di portaerei nel mezzo del Pacifico, vicino a Midway, dove quattro insostituibili navi giapponesi erano affondate con tutti i loro aerei e i loro equipaggi esperti. Un colpo fatale, eppure i giapponesi non cedevano. La loro morsa di ferro sul Pacifico andava allentata un dito per volta.

Le battaglie erano interminabili e spietate, nel folto della giungla, con un'umidità asfissiante. Dopo, lungo la spiaggia, le palme crivellate di colpi restavano spoglie come pali. I nemici erano furie selvagge, con le loro navi da guerra dalle strane strutture a pagoda, la lingua segreta e sibilante, i soldati forti e spietati. Non si arrendevano. Combattevano fino alla morte. Giustiziavano i nemici sollevando sopra la testa con due mani le spade affilate come rasoi; feroci nella vittoria, esultavano in massa alzando le braccia trionfanti.

Nel 1944 erano cominciate le grandi manovre finali. L'obiettivo era avvicinarsi con i bombardieri pesanti in modo da raggiungere il cuore della nazione. Saipan era la via, un'isola grande e molto ben difesa. L'esercito giapponese non veniva sconfitto in battaglia da oltre trecentocinquant'anni, se non si contavano gli avamposti come la Nuova Guinea e le isole Gilbert. I venticinquemila soldati schierati sull'isola di Saipan non dovevano cedere niente, neppure un palmo di terra. Nell'ambito delle cose terrene, tenere Saipan era considerato di importanza vitale.

In giugno cominciò l'invasione. Nella zona i giapponesi disponevano di pericolose forze navali, incrociatori pesanti e corazzate. Sbarcarono due divisioni della Marina seguite da una divisione dell'Esercito.

Per i giapponesi sarebbe diventato il disastro di Saipan. Venti giorni dopo erano quasi tutti morti. Il generale e l'ammiraglio Nagumo, che aveva combattuto a Midway, si tolsero la vita, e centinaia di civili, uomini e donne terrorizzati all'idea di essere massacrati, persino madri con i figli stretti al seno, saltarono dalle scogliere sfracellandosi sulle rocce acuminate.

Fu il segnale. Ora si potevano bombardare le isole principali, e nel raid più massiccio, il bombardamento di Tokyo, in una sola notte infernale persero la vita oltre ottantamila civili.

Poi cadde Iwo Jima. I giapponesi pronunciarono un'ultima promessa: cento milioni di morti, tutta la popolazione se necessario, la resa mai.

Okinawa si trovava nel mezzo.


Nasceva il giorno, una pallida alba sul Pacifico priva di orizzonte, con i pennacchi delle prime nubi che si illuminavano a poco a poco. Non c'erano altre navi in vista. Il sole comparve lentamente e inondando l'acqua la sbiancò. Un sottotenente di nome Bowman era salito sul ponte e stava di guardia appoggiato al parapetto. Kimmel, il suo compagno di cabina, lo raggiunse in silenzio. Bowman non avrebbe mai dimenticato quella giornata. Nessuno dei due l'avrebbe dimenticata.

«Qualcosa in vista?»

«Niente.»

«Θ che non lo vedi» disse Kimmel.

Scrutò a prua e a poppa.

«Troppo tranquillo» disse.

Bowman era ufficiale di navigazione e per di più, lo aveva scoperto due giorni prima, ufficiale di guardia.

«Signore» aveva chiesto, «quali sono i miei doveri?»

«Tieni il manuale» gli aveva risposto il tenente comandante. «Leggitelo.»

Bowman aveva cominciato subito, piegando man mano gli angoli di alcune pagine.

«Che cosa fai?» gli aveva chiesto Kimmel.

«Lasciami in pace.»

«Che cosa studi?»

«Un manuale.»

«Cristo, ci troviamo in acque nemiche e tu te ne stai lì a leggere un manuale? Non c'è tempo per queste cose. In teoria dovresti già sapere che cosa fare.»

Bowman lo aveva ignorato. Erano sempre stati insieme, fin dal corso cadetti all'Accademia, dove il comandante, un capitano di Marina la cui carriera era finita quando il suo cacciatorpediniere si era incagliato, aveva fatto mettere sulla cuccetta di ogni recluta Un messaggio per Garcia, un testo edificante dell'epoca della guerra ispano-americana. Il capitano McCreary non aveva futuro, tuttavia restava fedele ai valori del passato. Ogni sera beveva fino a istupidirsi, ma al mattino era sempre in ordine e ben sbarbato. Conosceva a memoria il codice navale e aveva comprato le copie di Un messaggio per Garcia pagandole di tasca propria. Bowman aveva letto il libro con attenzione e a distanza di anni ne sapeva ancora recitare lunghi brani a memoria. Garcia si trovava in un luogo imprecisato nelle sconfinate montagne cubane, nessuno sapeva dove... La tesi del libro era semplice: Fa' il tuo dovere fino in fondo e senza mai fare domande o accampare scuse inutili. Kimmel ridacchiava, vedendoglielo leggere.

«Sissignore, signore. Ai posti di combattimento!»

Magro e scuro di capelli, Kimmel camminava con un passo dinoccolato che lo faceva sembrare più alto. Le sue uniformi avevano sempre l'aria di essergli servite da pigiama. Il suo collo era troppo magro per il colletto. Gli uomini dell'equipaggio lo chiamavano il Cammello, però non mancava di un certo aplomb e piaceva alle donne. A San Diego aveva cominciato a frequentare una ragazza vivace, Vicky, il cui padre aveva una concessionaria di automobili, Palmetto Ford. Vicky portava i capelli biondi raccolti e aveva un temperamento ardito. Si era sentita immediatamente attratta da Kimmel, dal suo fascino indolente. Bevvero Canadian Club e Coca-Cola in una camera d'albergo che lui aveva preso con altri due ufficiali, dove, le spiegò, sarebbero stati al riparo dal frastuono del bar.

«Come è successo?» chiese lui.

«Come è successo cosa?»

«Che abbia incontrato una come te.»

«Non te lo meritavi di certo» rispose lei.

Lui rise.

«Θ stato il destino» disse.

Lei sorseggiava la sua bibita.

«Il destino. Vuoi dire che ti sposerò?»

«Santo cielo, siamo già a questo punto? Non ho nemmeno l'età per sposarmi» disse lui.

«Probabilmente mi mentirai una decina di volte soltanto nel primo anno.»

«Non lo farei mai.»

«Ah ah.»

Lei sapeva benissimo che tipo era, ma pensava di poterlo cambiare. Amava la sua risata. Gli fece notare che prima avrebbe dovuto incontrare suo padre.

«Sarei felice di conoscerlo» rispose Kimmel con aria apparentemente sincera. «Gli hai parlato di noi?»

«Pensi che sia pazza? Mi ucciderebbe.»

«Ma perché? Per cosa?»

«Per essermi fatta mettere incinta.»

«Sei incinta?» chiese Kimmel allarmato.

«Chi lo sa?»

Con il suo vestitino di seta, Vicky Hollins attirava gli sguardi dei passanti. I tacchi la facevano sembrare più alta. Le piaceva usare il cognome. Sono Hollins, diceva al telefono per annunciarsi.

Si stavano per imbarcare, era questo a far sembrare tutto reale o a dargli un'apparenza di realtà.

«Chissà se torneremo a casa» disse lui in tono distaccato.

Le lettere di Hollins erano arrivate nei due sacchi postali che Bowman aveva portato da Leyte. Il tenente comandante lo aveva mandato a cercare la loro corrispondenza all'ufficio postale della Flotta – da dieci giorni non ricevevano niente – e lui era tornato, trionfante, su un aerosilurante TBM. Kimmel leggeva alcune parti delle lettere di Vicky ad alta voce, soprattutto a beneficio di Brownell, il terzo ufficiale con cui lui e Bowman condividevano la cabina. Brownell era un giovanotto sensibile e moralmente puro, con una mascella pronunciata che conservava qualche traccia di acne. A Kimmel piaceva provocarlo. Annusò una pagina della lettera. Sì, era il profumo di Vicky, disse, lo avrebbe riconosciuto ovunque.

«E magari c'è dell'altro» congetturò. «Chissà. Pensi che potrebbe essersela strofinata sulla... Senti» disse porgendo la lettera a Brownell, «dimmi cosa te ne pare.»

«Non saprei» rispose l'altro, imbarazzato. Contrasse la mandibola.

«Ma certo che lo sai, vecchio cacciatore di fica che non sei altro.»

«Lasciami fuori dalle tue perversioni.»

«La perversione non c'entra, mi scrive perché siamo innamorati. Θ qualcosa di puro e bellissimo.»

«Come fai a dirlo? Che ne sai tu di purezza?»

Brownell stava leggendo Il profeta.

«Il profeta. Che roba è?» chiese Kimmel. «Fammi vedere. A cosa serve, ci dice quello che succederà?»

Brownell non rispose.

Le lettere erano meno eccitanti di quanto ci si sarebbe aspettati da una pagina fitta di grafia femminile. Vicky era una chiacchierona e mandava resoconti dettagliati e ripetitivi della sua vita, che consisteva in parte nel ripercorrere i luoghi dov'erano stati insieme, di solito in compagnia della sua migliore amica, Susu, o di altri giovani ufficiali della Marina, ma sempre pensando a lui. Il barista si ricordava di loro, diceva, una coppia favolosa. Chiudeva ogni lettera con il verso di una canzone in voga. I didn't want to do it, scriveva.

Bowman non aveva fidanzate, né fedeli né infedeli. Non aveva ancora conosciuto l'amore, sebbene fosse restio ad ammetterlo. Quando si parlava di donne, si limitava a ignorare l'argomento, comportandosi come se la scintillante relazione di Kimmel fosse un terreno a lui familiare. La nave e i doveri di bordo erano tutta la sua vita. Nutriva un senso di lealtà nei confronti della nave e di una tradizione alla quale portava rispetto. E provava un certo orgoglio quando il capitano o il tenente comandante lo chiamavano «Signor Bowman!» Apprezzava la loro fiducia in lui, per quanto espressa in modo sbrigativo.

Era diligente. Aveva gli occhi azzurri e portava i capelli scuri ravviati all'indietro. Era stato diligente anche a scuola. Un giorno, dopo la lezione, la professoressa Crowley lo aveva preso in disparte e gli aveva detto che aveva le doti per diventare un eccellente latinista, ma se ora lo avesse visto in uniforme, con le mostrine brunite dalla salsedine, ne sarebbe rimasta colpita. Da quando si era imbarcato sulla nave insieme a Kimmel, a Ulithi, Bowman aveva l'impressione di aver sempre fatto bene il suo dovere.

Quella mattina, mentre scrutavano l'oceano straniero e misterioso, e poi il cielo, che si stava già facendo più luminoso, lo tormentava il pensiero di come si sarebbe comportato in azione. Il coraggio e la paura, e come reagirai sotto il fuoco nemico, non erano argomenti di discussione. Si sperava di essere all'altezza del proprio compito, una volta arrivato il momento. Bowman aveva una certa fiducia in se stesso, e ancor più nei suoi capi, i comandanti esperti che guidavano la flotta. Un giorno, in lontananza, aveva visto la New Jersey, la nave ammiraglia, bassa e rapida, con Halsey a bordo. Era stato come vedere da lontano l'imperatore a Ratisbona. Aveva provato un senso di fierezza, si era sentito realizzato, persino. Non chiedeva di più.

Il vero pericolo era atteso dal cielo, con gli attacchi suicidi dei kamikaze: la parola significava «vento divino», per via delle tempeste che secoli prima avevano salvato il Giappone dalla flotta degli invasori guidata da Kublai Khan. Anche in questo caso si trattava di un intervento dall'alto, ma con aerei armati di bombe che si schiantavano sulle navi nemiche con il pilota ai comandi.

Il primo attacco del genere era avvenuto qualche mese prima nelle Filippine. Un aeroplano giapponese si era lanciato su un incrociatore pesante uccidendo nell'esplosione il comandante e molti membri dell'equipaggio. Da allora gli attacchi dei kamikaze si erano moltiplicati. I giapponesi spuntavano all'improvviso, in gruppi irregolari. Gli uomini guardavano affascinati e spauriti, quasi ipnotizzati, i velivoli che scendevano in picchiata attraverso il fuoco fitto della contraerea o volavano a pelo d'acqua. Per difendere Okinawa i giapponesi avevano programmato il loro più massiccio attacco di kamikaze. Le perdite per gli invasori dovevano essere talmente pesanti da respingerli e annientarli definitivamente. Non era soltanto un sogno. L'esito delle grandi battaglie a volte dipende dalla determinazione.

Per tutta la mattina, tuttavia, non accadde niente. Le onde, bianche e spumeggianti, si gonfiavano e scivolavano sullo scafo, frangendosi. Il cielo, sotto un tetto di nuvole, era sereno.

Il primo avvertimento della presenza di aerei nemici arrivò con un segnale dal ponte; Bowman stava correndo in cabina a prendere il giubbotto salvagente quando l'allarme risuonò negli alloggi, sovrastando tutto. Passò accanto a Kimmel che, con in testa un elmetto troppo grande, correva su per le scale d'acciaio gridando: «Ci siamo! Ci siamo!» Era cominciato il bombardamento e ogni bocca da fuoco della loro nave e di quelle vicine stava rispondendo. Il frastuono era assordante. Il fuoco della contraerea volteggiava verso l'alto come uno sciame in mezzo a nuvolette scure. Sul ponte, il comandante batteva sul braccio del timoniere per richiamare la sua attenzione. Gli uomini stavano ancora cercando di raggiungere i propri posti. Tutto accadeva a due velocità, quella del rumore e dell'incalzare disperato dell'azione, e una più bassa: la velocità del destino, con quei puntini scuri che volavano nel cielo in mezzo al fuoco dell'artiglieria. Erano lontani e sembrava che la contraerea non potesse raggiungerli, quando di colpo accadde qualcos'altro, e nel fragore si vide un aereo scuro scendere come un insetto cieco, puntando con precisione su di loro, con il sole rosso sulle ali e la fusoliera nera, scintillante. Ogni bocca da fuoco della nave sparava e i secondi collassavano l'uno sull'altro. Poi, con un'enorme esplosione e un geyser d'acqua, la nave si inclinò su un fianco sotto i loro piedi: il caccia li aveva centrati, oppure aveva colpito sottobordo. Nel fumo e nella confusione nessuno era in grado di dirlo.

«Uomo in mare!»

«Dove?»

«A poppavia, signore!»

Era Kimmel, il quale, convinto che l'arsenale a mezza nave fosse stato colpito, si era buttato in mare. Il frastuono era ancora tremendo, si sparava su tutto. Nella scia della nave Kimmel cercava di nuotare fra i marosi e i rottami, ma stava scomparendo dalla loro vista. Non potevano fermarsi né tornare indietro a riprenderlo. Sarebbe annegato, se non fosse stato miracolosamente avvistato da un cacciatorpediniere, affondato quasi subito da un altro kamikaze, ma il cui equipaggio venne raccolto da un secondo cacciatorpediniere che, neanche un'ora più tardi, venne demolito fino alla linea di galleggiamento. Kimmel finì in un ospedale navale e divenne una specie di leggenda. Era saltato giù dalla sua nave per sbaglio e in un giorno aveva visto più azione di quanta ne avrebbero vista gli altri nell'intero conflitto. Bowman perse le sue tracce. Negli anni a venire provò più volte a rintracciarlo a Chicago, senza mai riuscirci. Quel giorno erano state affondate più di trenta navi. Per la flotta americana fu la prova più dura di tutta la guerra.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 48

La Virginia di Vivian Amussen era bianca, privilegiata e incestuosa. Era fatta di dolci colline boschive, un paesaggio bellissimo, profondamente ricco, con muretti di pietra e strade strette che lo avevano preservato. Le vecchie case erano di pietra, con stanze dotate di finestre sui due lati opposti che lasciavano entrare la brezza durante le estati canicolari. In origine, prima della Rivoluzione, la terra era stata data in concessione, enormi latifondi trasformati in territori agricoli, prima con le piantagioni di tabacco e in seguito con le fattorie. Negli anni Venti o Trenta del Novecento Paul Mellon, che amava la caccia, arrivò nella zona e acquistò grandi appezzamenti; i suoi amici lo imitarono. Diventò una regione di cavalli e cacciatori, con i segugi che correvano all'impazzata, abbaiando, mentre dietro di loro, dagli alberi, spuntavano i cavalli al galoppo con i loro cavalieri, che saltavano muretti di pietra e fossati, su e giù per le colline, ora rallentando un po', ora riprendendo il galoppo.

Era un luogo ordinato ed elegante, il Kingdom, da Middleburg a Upperville, un luogo e una vita a parte, per lo più di intensa bellezza, con campi sconfinati intrisi di pioggia o dolci e illuminati dal sole. In primavera c'erano le corse, la Gold Cup a maggio, sulle colline, il pubblico che guardava distrattamente dalle file di automobili parcheggiate, con cibo e bibite in bella vista. In autunno c'era la caccia, che proseguiva fino a inverno inoltrato, fino a febbraio, quando il terreno diventava troppo duro e i torrenti ghiacciavano. Tutti possedevano dei cani. Se avevi dato il nome a un cane, quando non serviva più per la caccia, maschio o femmina, l'animale diventava tuo a tutti gli effetti, e capitava che te lo scaricassero davanti alla porta di casa.

Le belle dimore appartenevano ai ricchi, ai dottori, e le proprietà – fattorie, le chiamavano – conservavano i loro antichi nomi. Si conoscevano tutti, gli sconosciuti venivano guardati con sospetto; erano bianchi, protestanti, con una tacita tolleranza per i rari cattolici. Gli arredi delle case erano inglesi e spesso antichi, passati da una generazione all'altra. Terra di cavalli e di golf. Gli amici migliori te li facevi praticando uno sport.

La contea si trovava a meno di un'ora di auto da Washington e dalla zona del centro dove lavorava Vivian, a cui era collegata da una strada diritta a due corsie. Il lavoro di Vivian era più o meno una formalità, faceva la centralinista in un ufficio del catasto e nei fine settimana tornava a casa, alle corse o alle vendite di purosangue o alla caccia in collina. Le battute di caccia erano come i club, e per partecipare alla migliore, come lei e suo padre, bisognava possedere almeno venti ettari. Il maestro di quella battuta di caccia era John Stump, un giudice che sembrava uscito da un libro di Dickens, robusto e irascibile, con un'incurabile passione per le donne, che una volta lo aveva spinto a tentare il suicidio perché era stato rifiutato dalla sua amata. Al culmine della disperazione si era gettato da una finestra atterrando su degli arbusti. Era stato sposato tre volte, e ogni volta, si era notato, con una donna dai seni più grossi di quella che l'aveva preceduta. I divorzi erano causati dal fatto che il giudice beveva, il che del resto ben si adattava alla sua immagine di signorotto di campagna, ma comunque come maestro di caccia era preciso ed esigeva un'etichetta perfetta. Una volta, per una piccola scorrettezza aveva fermato tutti i cavalieri e attaccato una severa ramanzina, finché qualcuno lo aveva interrotto: «Senti, non mi sono svegliato alle sei per ascoltare una predica».

«Scendi da cavallo!» aveva gridato Stump. «Smonta immediatamente e torna alle scuderie!»

Dopo si era scusato.

Il giudice Stump era amico del padre di Vivian, George Amussen, che era un uomo ben educato e cortese, particolarmente leale con le persone che riteneva sue amiche. Il giudice era il suo avvocato e Anna Wayne, la prima moglie di Stump, dotata di poco seno ma ottima cavallerizza, prima del matrimonio lo aveva frequentato per un certo periodo e si riteneva che avesse accettato di sposare il giudice solo quando si era convinta che Amussen non l'avrebbe sposata.

Il giudice Stump correva dietro alle sottane, George Amussen no. Erano le donne a correre dietro a lui. Era un uomo elegante, riservato e anche molto ammirato per il suo successo nella compravendita di proprietà immobiliari a Washington e in campagna. Uomo pacato e paziente, si era reso conto prima di altri che la città stava cambiando, e negli anni aveva acquistato, a volte in società con altri, svariati condomini nella parte nordovest della città e un palazzo commerciale in Wisconsin Avenue. Era discreto riguardo ai suoi possedimenti ed evitava di parlarne. Guidava un'automobile qualsiasi e vestiva in modo informale, senza ostentazione, di solito con una giacca sportiva e pantaloni di buon taglio, oppure, quando era necessario, con un completo elegante.

Aveva i capelli chiari brizzolati e camminava con un passo sciolto che sembrava incarnare forza e persino una certa saldezza di principi, l'idea di stare dalla parte del giusto. Da gentiluomo, membro di diversi country club, conosceva per nome tutti i camerieri di colore e loro conoscevano lui. Ogni anno a Natale dava una mancia doppia.

Washington era una città del Sud, letargica e di medie dimensioni. Il clima era atroce, umido e freddo in inverno e caldo in maniera violenta d'estate, il caldo del Delta. La città aveva le sue istituzioni: oltre a quelle governative, i vecchi e amati alberghi come il Wardman, detto familiarmente l'accademia delle cavalcate per via delle numerose amanti che risiedevano lì, la Riggs Bank, che era la banca consigliata, i grandi magazzini di downtown dalle solide tradizioni. Howard Breen, che era uno dei proprietari della compagnia di assicurazioni dove ufficialmente lavorava George Amussen, un giorno avrebbe ereditato le numerose proprietà accumulate da suo padre, compreso il più bel palazzo della città, dove il vecchio signore, con un feltro in testa e una sputacchiera accanto, spesso sedeva nell'atrio osservando ogni cosa con occhi da lucertola. Negli appartamenti erano ammesse soltanto le persone giuste, e persino loro venivano trattate con indifferenza. Se le salutava con un lieve cenno del capo al loro passaggio, cosa piuttosto rara, il suo veniva considerato un segno di cordialità. Comunque gli appartamenti erano ampi, con bei camini e soffitti alti, e prendendo esempio dal padrone i dipendenti erano talmente laconici da risultare insolenti.

La guerra aveva cambiato tutto. Le orde di militari e personale della Marina, i dipendenti governativi, le giovani donne attirate in città dalla richiesta di segretarie... nel giro di due o tre anni la sonnolenta città provinciale era sparita. Sotto alcuni aspetti rimaneva aggrappata alle vecchie maniere, ma il passato stava scomparendo. Vivian era diventata grande in quegli anni. Benché si presentasse al club con calzoncini che suo padre giudicava troppo corti e avesse cominciato a portare i tacchi alti troppo presto, in realtà i suoi modi erano quelli dell'epoca in cui era cresciuta.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 172

In quel periodo tutto era oscurato dall'ombra della guerra in Vietnam. I sentimenti di coloro che si opponevano al conflitto, soprattutto í giovani, erano infiammati. C'erano le interminabili liste dei morti, l'evidente brutalità, le molte promesse di vittoria che non venivano mantenute e la guerra assomigliava sempre di più a un figlio dissoluto di cui non ci si può fidare e che si sa che non cambierà mai, ma che non è possibile abbandonare.

Contemporaneamente emergevano nuove forme di arte, che inondarono il paese come una marea improvvisa e inattesa quasi volessero guarirne le ferite. Erano quadri, soprattutto, ma anche film europei pieni di freschezza e candore. Possedevano un'umanità che in altri campi sembrava minacciata. Bowman si rifiutò di partecipare a una grande manifestazione contro la guerra indossando l'uniforme per un indefinito senso dell'onore, ma era fortemente contrario al conflitto, quale persona ragionevole non lo sarebbe stata?

Nel frattempo conduceva una vita paragonabile a quella di un diplomatico. Era stimato e rispettato, nonostante í modesti mezzi economici. Lavorava a diretto contatto con persone a volte molto dotate, o persino indimenticabili, come Auden, con le sue pantofole di feltro e la faccia coperta di rughe avvolta nel fumo della sigaretta, che arrivava presto al mattino e beveva cinque o sei martini e una bottiglia di Bordeaux subito dopo; o Marisa Nello, più un'amante dei poeti che una poetessa, che saliva le scale recitando Baudelaire in un francese spaventoso. Era una vita in cui i piaceri superavano i doveri, con uno sguardo privilegiato sulla storia, l'architettura e i comportamenti umani, includeva incandescenti pomeriggi spagnoli, con le imposte chiuse, una lama di sole che bruciava nell'oscurità.

Si era trasferito sulla Sessantacinquesima Strada, non lontano dal palazzo coperto di rampicanti dove tanti anni prima aveva aspettato di essere ricevuto da Kindrigen. Una domestica che veniva tre volte la settimana oltre alle pulizie gli faceva la spesa, lui le lasciava la lista in cucina, scritta su una lavagnetta insieme alle istruzioni su altre eventuali incombenze. Mangiava a casa raramente, a volte lei gli preparava qualcosa e glielo faceva trovare pronto nel forno. Di solito cenava fuori, al ristorante o alle feste. Andava spesso al cinema o a teatro. A volte decideva all'ultimo momento di andare all'opera, senza avere il biglietto. Vestito in giacca e cravatta, si piazzava davanti all'ingresso del teatro con un messaggio scritto su un cartoncino della tintoria: Ho bisogno di un biglietto, e lo trovava quasi sempre. Le sue opere preferite erano Aida e

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 185

15
Il cottage



In una calda giornata di giugno, Bowman, lasciata New York, guidò per più di quattro ore in direzione nord, costeggiando quasi sempre l'Hudson, fino a Chatham, un luogo un tempo considerato sacro da una dea dell'amore, la poetessa Edna Millay, sirena degli anni Venti. Avrebbe passato due giorni a lavorare su un manoscritto insieme a uno dei suoi scrittori preferiti, un cinquantenne con la faccia squadrata, gli occhi azzurri e i capelli ormai radi che da giovane aveva interrotto gli studi a Dartmouth e si era imbarcato per tre anni. Si chiamava Kenneth Wells. Wells e sua moglie – era la terza, benché lui non avesse l'aria di uno che è stato sposato più volte, perché era un tipo casalingo e molto miope; lei era la moglie di un vicino di casa, e un bel giorno erano scappati insieme in Messico – abitavano in una casa che a Bowman piaceva e che fra sé e sé aveva sempre considerato una sorta di archetipo. Era di legno grezzo, sorgeva poco lontano dalla strada e assomigliava a un fienile o a una stalla. Si entrava direttamente in cucina, o comunque ci si doveva passare per forza. Ai lati della cucina c'erano rispettivamente una camera da letto e la sala. La camera da letto padronale si trovava al piano di sopra. Chissà perché le porte interne erano più grandi delle porte normali e alcune avevano un vetro nella metà superiore. Ricordava un alberghetto per famiglie, un albergo dell'Ovest.

Era stata una lunga giornata. L'estate era arrivata in anticipo. Il sole colpiva gli alberi con una violenza abbagliante. Nei paesi che attraversava, ragazze con le braccia e le gambe abbronzate passeggiavano pigramente davanti a negozi che sembravano chiusi. Le donne guidavano con il fazzoletto in testa e i loro uomini, protetti da caschi gialli, erano in piedi accanto a cartelli stradali che annunciavano lavori in corso. Il paesaggio era bellissimo, ma passivo. Il vuoto delle cose si innalzava come un canto corale, rendendo il cielo ancora più azzurro e più vasto.

Era il periodo in cui, a Parigi, le lente e inutili trattative per porre fine alla guerra del Vietnam si trascinavano da mesi senza successo. In America le manifestazioni erano incessanti e violente; la nazione era divisa dalla guerra, ma stranamente Wells non sembrava affatto coinvolto. Era più interessato al baseball, dalle altre passioni si teneva lontano. Era un lettore avido, come la moglie. Ciascuno di loro aveva una biblioteca personale, tenevano i libri separati. Su una vecchia credenza con il piano rivestito in marmo c'erano pile di libri, nuovi, in molti casi. Sulla parete vicina erano appese una cartolina di piazza Maggiore a Bologna, la fotografia di una ragazza in bikini e quella di un piatto di pasta ritagliate da una rivista.

«T T T» disse Wells.

«TTT?»

«Tette, torri e tortellini.»

Sogghignò mostrando gli spazi vuoti tra i denti, zanne di tricheco che puntavano in direzioni diverse. C'era anche una fotografia in bianco e nero con delle donne tedesche che piangevano per l'emozione durante una parata nazista e, al piano superiore, benché nessuno la vedesse, la foto incorniciata di una donna con ventre e gambe nudi, buttata su un letto. Wells scriveva sofisticati romanzi gialli, in cui l'investigatrice era una cinquantenne sovrappeso di nome Gwen Godding che aveva avuto quattro mariti: il secondo, con il quale aveva vissuto più a lungo, era un agente di pattuglia su una statale californiana. Era rimasta vedova due volte e contava di sposarsi di nuovo. Era affascinante e intelligente e usava il trucco per travestirsi, scriveva Wells, oppure si faceva truccare da un impresario di pompe funebri. Wells era meticoloso nelle sue ricerche e lavorava sodo come un contadino, e in effetti le sue mascelle muscolose lo facevano sembrare uno che lavora nei campi. Portava occhiali con la montatura in acciaio, a volte due paia contemporaneamente, ma quando doveva osservare qualcosa da vicino se li spingeva entrambi sulla fronte. I suoi libri vendevano molto bene, e il primo era stato comprato da una casa cinematografica per assicurare il successo a un'attrice ormai avanti con gli anni.

Wells amava scrivere, leggeva seduto alla sua scrivania e poi si metteva a battere a macchina. Parlava raramente del periodo in cui era andato per mare, la sua vita lavorativa, come la chiamava, quando al mattino tornava a bordo barcollando, il lembo della camicia fuori dai pantaloni, con una confezione da sei birre sottobraccio e la gonorrea. Raccontò di quando a Samoa aveva dormito in un albergo in cui c'era un cartello che diceva SERVIZIO IN CAMERA LIMITATO — TROPPA DISTANZA DALLA CUCINA.

«Di questa casa non si potrebbe dire lo stesso» commentò.

Erano seduti in cucina.

«Che cosa vi ha convinti a venire a vivere qui?» chiese Bowman.

«Volevamo allontanarci dal mare» rispose Wells. «Quando siamo tornati dal Messico – mi ero stancato del Messico, zanzare enormi, animales, li chiamavano – siamo andati a vivere a Saint Croix, a Frederiksted. Abitavamo nella casa di un vecchio capitano danese, sul mare, con le imposte di legno, l'ibisco e le palme. Sei mai stato a Frederiksted? Θ un paese quasi interamente nero. Pare che non lavori nessuno. Sulla porta della banca c'era il cartello AFFITTASI, ma di notte vedevi uscire dall'albergo stupende donne nere con abiti da sera bianchi. La nostra casa era proprio davanti alla biblioteca. Oltre le finestre si vedevano alte studentesse sdraiate sulle scrivanie, le braccia penzoloni sopra le sedie, e i ragazzi chini su di loro a bisbigliare per tutto il giorno. Non era difficile capire le ragioni della schiavitù. I libri – nessuno leggeva niente –, gli unici libri richiesti erano quelli sulla gravidanza.»

Sua moglie Michele – Mitch, la chiamava lui – era una donna tranquilla, sulla quarantina, pacifica, attenta e tollerante nei suoi confronti. Conosceva le sue opinioni e il suo temperamento. Sebbene non vi fossero segni di discordia, qualche contrasto tra loro doveva esserci, tuttavia era una coppia che ispirava a Bowman una forte attrazione per la vita coniugale, una vita insieme, da qualche parte in campagna, il mattino presto, i campi nebbiosi, il serpente in giardino, la tartaruga nel bosco. Sul fronte opposto c'era la città con le sue infinite attrattive, l'arte, la carnalità, l'amplificazione dei desideri. Era come un'opera gigantesca con un cast di attori infinito e scenari allo stesso tempo tumultuosi e solitari.

Avvertiva la mancanza di qualcosa, non necessariamente del matrimonio, ma di un centro tangibile nella propria vita intorno al quale le cose potessero formarsi e trovare il loro posto. Si rese conto di che cosa aveva fatto nascere in lui quel sentimento: la casa, la casa dei Wells, e la descrizione della casa del capitano a Frederiksted. Nella sua mente, seppure in modo confuso, immaginò una casa sua. Inspiegabilmente la vedeva in autunno. Pioveva, i vetri delle finestre erano appannati e lui aveva acceso il fuoco per scaldarsi.

Decise di cercarla.

«Vorrei una casetta con una o due stanze eccezionali» disse all'agente immobiliare.

Era una donna dai modi bruschi che faceva parte del consiglio direttivo del club di golf della zona.

«Non capisco cosa intende per stanza eccezionale» disse lei.

«Be', potremmo cominciare a vedere qualcosa. Mi mostri una casa o due tra le sue preferite.»

«Quanto vorrebbe spendere, più o meno?»

| << |  <  |