Copertina
Autore Gianfranco Salvatore
Titolo Miles Davis
SottotitoloLo sciamano elettrico
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2007, Jazz people , pag. 256, cop.fle., dim. 15x21x1,8 cm , Isbn 978-88-7226-971-8
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe musica
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Indice

PREFAZIONE                                           5

MILES LIVES INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE       9

CAPITOLO I   UN UOMO IMPOSSIBILE                    31


CAPITOLO II   L'ARTE DEGLI INCONTRI                 46

2.1 Il jazz e il non jazz                           46
2.2 Along Came Betty                                48
2.3 Rock, soul, funk                                51

CAPITOLO III
L'ERA DEL CORPO (E DELLO SPIRITO) ELETTRICO         56

3.1 Abbagli                                         56
3.2 Prima di Miles                                  59
3.3 East/West e Psichedelia                         61
3.4 Graffiti del jazz-rock                          65

CAPITOLO IV   COLORI, SILENZI, ENIGMI               69

4.1 Colori da Vienna: il ruolo di Joe Zawinul       69
4.2 La via silenziosa                               73
4.3 Gli enigmi dell'oracolo                         77

CAPITOLO V   IL GIOCO DELLO SPAZIO E DEL TEMPO      81

5.1 Il brodo primordiale                            81
5.2 Un doppio rituale                               85
5.3 Le formule dell'incantesimo                     89

CAPITOLO VI   LA FOLLE CORSA                        93

6.1 La svolta                                       93
6.2 Un appuntamento mancato                         97
6.3 Il ruolo di McLaughlin                         101

CAPITOLO VII
UN ANNO "FREE" E OTTO MESI DI FANTASMI             105

7.1 Free Miles!                                    105
7.2 Pro e contro Ornette                           108
7.3 Vita (e musica) spericolata                    110
7.4 Il salotto indiano                             113
7.5 Pugilato funky                                 118
7.6 Il boxeur e il suo doppio                      122

CAPITOLO VIII   STARDOM                            128

8.1 Sempre più elettrico                           128
8.2 La star                                        134
8.3 Con Jarrett                                    139

CAPITOLO IX   ALLUCINAZIONI                        145

9.1 Vivo e cattivo                                 145
9.2 L'Africa a Darmstadt                           152
9.3 "Flusso" e "processo"                          156

CAPITOLO X   LA CARNE, LA MORTE, IL DIAVOLO        161

10.1 Indecisioni                                   161
10.2 I piccoli Hendrix crescono                    167
10.3 Incompreso                                    170
10.4 All'inferno e ritorno                         175

CAPITOLO XI   LA PERDITA DEI SUPERPOTERI           180

11.1 Tra giaculatorie e reprimenda                 180
11.2 Kryptonite                                    183
11.3 L'artista pop                                 187

CAPITOLO XII
LA MUSICA DEL SECONDO PERIODO ELETTRICO            191

12.1 Paradossi                                     191
12.2 Gli elementi di continuità                    194
12.3 Nuove tattiche compositive                    196
12.4 Le costanti rinnovate: pop, soul, rock        198

CAPITOLO XIII   DISCHI E DISCORSI                  202

13.1 Un nuovo (o vecchio?) stile elettrico         202
13.2 La deriva elettro-pop                         206
13.3 La trilogia milleriana                        209
13.4 Il fattore orchestrale                        213
13.5 Il Principe (delle Tenebre) e il principìno   215
13.6 Si vive solo dal vivo                         219

Bibliografia                                       227
Note                                               235

 

 

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Pagina 5

PREFAZIONE


Riesco a ricordare il giorno esatto in cui la fusion entrò nella mia vita attraverso Miles Davis. Dal 1969 ero attivamente coinvolto nella scena newyorkese, assieme a musicisti come George Cables, Steve Grossman e il giovane Lenny White. Stavamo suonando un piccolo ingaggio pomeridiano nel quartiere di Queens, a New York. Ricordo che George attaccò una linea bassistica sul suo piano elettrico Fender Rhodes e tutti cominciammo a suonarci sopra. Ci disse che proveniva dall'ultimo disco di Miles, IN A SILENT WAY. Quello fu il vero inizio, anche se c'erano stati dei preannunci fin dal 1965 con il brano Eighty-One in E.S.P. nel 1965, o nelle registrazioni del 1968 di MILES IN THE SKY e FILLES DE KILIMANJARO. Ma dopo IN A SILENT WAY non si poteva più tornare indietro.

È difficile, oggi, immaginarsi le polemiche che circondarono la decisione di Miles di lasciarsi alle spalle il jazz acustico, e che continuarono lungo gli anni Settanta. Cosa spinse il "Principe delle Tenebre" a passare dall'acustico all'elettrico e a suonare su un beat rockeggiante sopra statici vamps bassistici? Dopo tutto, il gruppo con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Tony Williams e Ron Carter aveva creato un intero repertorio su cui molti giovani musicisti di oggi stanno ancora lavorando. Le grandi registrazioni davisiane degli anni Sessanta avevano messo in primo piano il concetto di "tempo senza schemi armonici". Per i musicisti ciò significa suonare senza una struttura armonica predeterminata, diversamente da come si usava nel Bebop e nei linguaggi ad esso collegati (Hard Bop, cool, blues, etc.). L'uso di linee cromatiche opposte ad aggregazioni armoniche dissonanti, fluttuanti sopra un sostegno poliritmico, era molto sofisticato e complesso. Da dove venivano queste linee? Come si sviluppavano le voci degli accordi? Sulle modulazioni metriche che ascoltiamo in abbondanza in FOUR AND MORE e LIVE AT THE PLUGGED NICKEL, tanto per nominare un paio di dischi, Herbie, Tony e Ron si erano esercitati o no? E che dire delle astrazioni e riarmonizzazioni, apparentemente istantanee, delle familiari melodie di Round Midnight e I Fall in Love Too Easily che si possono ascoltare su nastri registrati abusivamente dal vivo nei vari tour europei di quel periodo? Dopo i periodi delle grandi collaborazioni con Gil Evans, Bill Evans e John Coltrane, un'incredibile quantità di musica indimenticabile!

Le questioni restano aperte. Si trattava della pressione della Columbia su Miles per vendere piú dischi? O dell'ego onnipresente di Miles Dewey Davis, che lo spingeva a sovrastare e sopravanzare chiunque altro? Era la grande popolarità del rock ad influenzarlo? Voleva forse solo restare giovane, si sentiva annoiato? A mio giudizio, fu una combinazione di tutti questi aspetti a orientare la trasformazione iniziata nei tardi anni Sessanta. Ma, qualunque fosse la ragione, la verità incontestabile è che ancora una volta Miles diede origine a un intero movimento che cambiò completamente il quadro della musica moderna. Se ciò accadde per il solo effetto di quel che fecero i suoi collaboratori di questo periodo nei vent'anni successivi, è oggetto di riflessione e di indagine.

Si può inquadrare il periodo fusion di Miles in tre fasi fondamentali. La prima, iniziata con IN A SILENT WAY e ancor piú con l'album successivo, BITCHES BREW, prosegue fino al 1972. Con Corea, Jarrett, DeJohnette, McLaughlin, Airto e altri, la musica aveva un'atmosfera quasi tribale. Fu, in un certo senso, un equivalente rock di ASCENSION, il disco coltraniano – contrassegnato da un'epica energia collettiva – che rappresentò una pietra miliare del movimento del free jazz. Per quanto nel gruppo di Davis vi fossero ancora tre ruoli solistici (tromba, sax, tastiere), l'accompagnamento era profondamente diverso dalle normali convenzioni jazzistiche. Ciò produceva una concorde macchia sonora, coi musicisti che sembravano suonare per conto proprio invece di mettersi in relazione col solista: un costante turbinio di testure e di ritmi. La linea bassistica e il beat della batteria si mantenevano apparentemente costanti, anche se, con DeJohnette e altri, la sezione ritmica suonava con grande abbandono. L'armonia era piuttosto dissonante e vi si potevano ascoltare sfumature d'avanguardia, particolarmente evidenti nell'album dal vivo AT FILLMORE: un tuffo nella precoce utilizzazione della distorsione e di altri effetti elettronici. A volte sembrava che il gruppo stesse suonando da un'altra stanza! Ricordo di aver visto molte volte la formazione con Chick Corea, Jack DeJohnette e Dave Holland: quando Miles finiva un assolo e lasciava il palco, la band suonava come una versione elettronica del gruppo di Cecil Taylor. Appena Miles si riavvicinava al palco, tutto tornava a calmarsi.

La seconda fase, che si estende fino al 1975, fu quella in cui io stesso e poi Sonny Fortune suonammo con Miles. La sera che Miles mi scritturò, prelevandomi dal gruppo di Elvin Jones, andai nel suo appartamento a Manhattan, sulla Settantottesima Strada, per sentire quello che aveva intenzione di fare. Ma tutto quello che mi fece ascoltare fu un brano da un disco di Sly & The Family Stone, FRESH. Il beat molto funky prodotto da basso e batteria, con una spiccata influenza di James Brown, costituiva l'ingrediente principale di questo periodo.

Divenne sempre piú interessato a mantenere il ritmo stabile e definito, senza badare piú di tanto ad armonie e melodie: e in effetti, a parte qualche piccolo motivo di un paio di battute, le melodie erano assenti. Attorno a questa combinazione c'era un incremento nell'uso delle percussioni e degli effetti elettronici (adesso Miles usava il pedale wah-wah con la tromba), e duri sfregamenti chitarristici. Una notte mi disse: «Dave, non so in che tonalità sto suonando!». Quella musica, per il pubblico, era difficile da digerire, e abbastanza inaccessibile. Per certi versi era anche piuttosto disorganizzata, ma prometteva di aprire prima o poi un nuovo territorio, finché Miles, nel 1975, si ritirò dalle scene.

Naturalmente, la fase conclusiva – dal ritorno nel 1981 fino alla sua scomparsa – è una storia a parte. A eccezione di Al Foster, recuperato dal periodo precedente, i gruppi che Miles ebbe negli anni Ottanta si basavano su una nuova generazione di musicisti cresciuti con la musica pop non meno che con svariati linguaggi jazzistici. Il nuovo Miles Davis fu una leggenda vivente e una pop star: la sua musica rifletteva l'esigenza di comunicare col pubblico. Anche la sua personalità divenne piú generosa ed aperta, facendo emergere un maggior controllo e una certa mansuetudine, e stavolta c'erano melodie riconoscibili e perfino giri d'accordi. Era diventato un prodotto. Dal mio punto di vista, a quest'ultima fase mancarono il fuoco e la fantasia a cui mi ero abituato con lui. Ma una cosa, fino alla fine, rimase sempre vera: suonava ancora come se l'indomani non ci sarebbe piú stato nessun concerto, e non smise mai di dedicarsi alla tromba.

La verità è che, dovunque si guardi nella musica di Miles, si troverà sempre qualche cosa di valore. Anche di fronte a una personalità complessa come la sua, non sorge mai alcun dubbio circa il suo impegno nella musica: era la cosa piú importante della sua vita!

David Liebman

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Pagina 46

Capitolo II

L'ARTE DEGLI INCONTRI


2.1 Il jazz e il non jazz

Il jazz, come la vita, è l'arte dell'incontro. L'orizzonte della musica afroamericana di fine Ottocento e poi il jazz classico già si espandevano verso le soglie estreme della comunicazione tra le sfere musicali: il puro intrattenimento, o le forme eurocolte. Jelly Roll Morton guardò anche alla tradizione cubana, ed Ellington, che ebbe intuizioni costanti e una carriera lunga, si spinse ancora più lontano, misurandosi – sia pure in chiave poetica, non filologica o etnografica – con le tradizioni musicali di mezzo mondo. Poi arrivò il jazz moderno, e gli incontri si moltiplicarono.

Charlie Parker visse poco. Gettò le fondamenta velocissimamente, nel cuore degli anni Quaranta, poi inseguì vanamente il sogno della proiezione sinfonica: in questo senso, le sue ambizioni erano ancora quelle del jazz classico. Costretto dalle sue vicende, drammi e tragedie personali, poté solo alludere, nella sua opera tarda, agli sviluppi possibili. Ma il suo messaggio resta percepibile negli aspetti più sperimentali del suo tardo stile solistico. È lui ad aprire il jazz alla pura visionarietà, al senso pagano e cosmico di una musica capace di spingersi oltre le regole, perfino quelle che egli stesso aveva istituito. Coltrane, che visse un po' di più, riuscì a muovere passi ulteriori: stabilito il canone con Giant Steps, lo superò – proprio come aveva fatto Parker – e intraprese attivamente l'arte degli incontri musicali: l'Africa, l'India, il sentimento arabo-andaluso cifrato nel flamenco e nel duende. Qualcosa del genere aveva fatto anche Gillespie scoprendo l'Afroamerica nelle Antille e nei Caraibi, esplorandola ulteriormente nel sud del continente americano, e restituendola al jazz. Ma Gillespie era un realista, sia pur pieno di spirito. Invece Coltrane, come già l'ultimo Parker, scelse di proiettarsi verso il puro afflato. Il suo contemporaneo Ornette Coleman aveva preso la via breve: da Parker (e dal blues) al free jazz, quasi senza tappe intermedie, se non quelle della mera incubazione linguistica (già stupenda) del 1958-59, in una concezione olistica del jazz che aveva le proprie fondamenta in una pratica citazionistica piegata alla decontestualizzazione e alla risemantizzazione. Ornette fu tranciante, lucido, netto; dritto al cuore dell'ignoto, ma con raziocinio. Coltrane, da buon mistico, aveva voluto percorrere invece la via difficilis, l' iter in silvis, il Labirinto: tortuoso itinerario iniziatico che pure conduce – ma solo se non ci si smarrisce – all'incontro con l'ignoto. L'ignoto (il free) di Coltrane è molto diverso da quello di Ornette: un free mistico contro uno laico, tanto sapienziale e profetico quanto l'altro è razionale e logico.

Miles Davis ha praticato l'arte dell'incontro durante l'intera sua carriera. Chi gli è stato vicino sa che egli teorizzava di continuo su come «incorporare diverse forme musicali nel suo modo di suonare». Era il suo modo di essere sempre moderno, anzi, sempre un passo avanti. In privato amava spesso usare il termine "avanguardia", eppure non l'adoperò mai in un'intervista, a scanso di equivoci. La sua avanguardia infatti non era quella degli altri: ma coincideva con l'inesausta tensione personale verso il cambiamento, la trasformazione, il divenire continuo. Miles fu un Proteo del jazz: per lui, l'arte dell'incontro consiste nell'assumere identità altrui. Per il pubblico volle essere come Jimi Hendrix, Sly Stone, Prince: ma l'incapacità di compromettersi lo spinse verso una musica che trasfigurava queste identificazioni in inediti orizzonti musicali. Nondimeno, la musica dei suoi due periodi elettrici scaturisce proprio dagli incontri che perseguì con la soul music e il funky, con il rock e la psichedelia, con il pop e l'elettronica, e infine più episodicamente con il reggae e il metal, il ragamuffin e lo zouk, il go-go e il rap. Di tutti questi incontri, quello che ha creato più controversie, ma anche spalancato più orizzonti, fino a far coniare nuove definizioni per nuovi generi ibridi, è stato quello con il rock: le sonorità, il volume, l'elettricità del rock. L'incontro gli diede gloria e controversie, ricchezza e disprezzo, gli fece perdere il favore di parte del pubblico e della critica jazz, e conquistare nuovi pubblici e nuovi esegeti.

Ma Miles fu semplicemente un catalizzatore. La storia del jazz non poteva non incrociare il rock. Lincontro era ineludibile perché naturale: tutto conduceva verso quella direzione. Innanzitutto la natura stessa del jazz, che fin dalla nascita non fece altro che contaminarsi, sempre pieno di curiosità e di propensione: tanto verso le altre musiche afroamericane (di tradizione afrolatina, da ballo, di puro e scanzonato consumo) quanto verso gli orizzonti della musica europea (barocca, classica, romantica, impressionista, seriale, atonale, elettronica, senza escludere le tradizioni folkloriche, dal flamenco ai Balcani). Coltrane morì l'anno in cui furono pubblicati SGT. PEPPER'S dei Beatles e ARE YOU EXPERIENCED di Hendrix: molti musicisti intesero la coincidenza come un segno del destino, una trasmigrazione, un passaggio di consegne.

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Capitolo VIII

STARDOM


8.1 Sempre più elettrico

Quando Davis si esibì per la prima volta al Fillmore East di New York, il 6 e 7 marzo 1970, come supporter ai concerti di Steve Miller e Neil Young, non aveva probabilmente un'idea precisa di quale e quanto pubblico si sarebbe trovato di fronte. La scadente ripresa sonora, a cura della Columbia, dei due set del secondo giorno, si è potuta pubblicare solo nel 2001, in piena epoca di restauri digitali, nel doppio Cd LIVE AT THE FILLMORE EAST (MARCH 7, 1970). Il disco viene considerato l'unico documento ufficiale dal vivo del lost (o fast) quintet, quello che includeva (oltre a Miles) Shorter, Corea, Holland, DeJohnette e Moreira. In realtà, come si vede, si tratta di un sestetto, dove la presenza del percussionista non è una «mera tecnicalità», come pretende James Isaacs nelle note di copertina della riedizione prodotta da Bob Belden, perché un formidabile impatto ritmico – a cui Moreira partecipa pestando più del solito – è la principale caratteristica della performance. Fu proprio questo imprevisto impatto collettivo a far sì che gli impeccabili tecnici della Columbia non riuscissero a controllare le dinamiche della registrazione, mandando il segnale in distorsione. Il reperto è tuttavia interessantissimo, anche per penetrare i veloci processi decisionali di Davis in quella primavera. Quasi mezz'ora – un terzo della durata del doppio Cd – appare dedicata a brani tratti da BITCHES BREW, non ancora pubblicato; It'sAbout That Time, da IN A SILENT WAY chiude entrambi i set, aperti da Directions, e nel secondo set compare anche Willie Nelson. A parte dieci minuti per Masquelero, l'intero repertorio risulta dunque formato da brani registrati nel 1969. Per la prima volta un'intera esibizione di Miles si basava sulle sue idee più recenti: con DeJohnette in chiave potentemente rockeggiante (e nei brevi episodi free tonitruante) dall'inizio alla fine, la cassa della batteria in continua attività, l'album comunica tutta l'urgenza del nuovo corso. Gli spettatori, comunque, non ci capirono niente. Da un giorno all'altro il gruppo dovette prudentemente ridurre al minimo le escursioni strettamente free, che nella prima serata (come mostrano le registrazioni esistenti solo in collezioni private) invece quasi prevalevano.

Sullo scarso riscontro pubblico di quei pur storici concerti Miles deve aver rimuginato nelle settimane successive, visto che il disco da lui registrato un mese più tardi è JACK JOHNSON, il più rock dell'intera sua discografia. Ma il suo rimuginare produsse effetti anche sui concerti successivi. Dopo l'esperienza al Fillmore newyorkese, e subito dopo la registrazione di Right Off, dal 9 al 12 aprile Davis si esibí infatti per la prima volta al Fillmore West di San Francisco, aprendo i concerti dei Grateful Dead. Fu il suo primo contatto diretto col pubblico hippy californiano, e con i musicisti che guidavano quella tendenza: tutto sommato un ambiente culturalmente meno lontano da lui. Scoprí che il leader del gruppo, Jerry Garcia, lo venerava. Si diceva amante del jazz, conosceva bene Bill Evans e Ornette Coleman (molti anni dopo, nel 1988, avrebbe addirittura suonato nel suo disco VIRGIN BEAUTY). Ma dovette rendersi conto, come lamenta nell'autobiografia, dell'incompetenza musicale di molti musicisti rock. Il concerto del 10 aprile venne registrato, e pubblicato soltanto in Giappone nel 1973 col titolo di BLACK BEAUTY: MILES DAVIS AT FILLMORE WEST. Nel sestetto troviamo Steve Grossman in una delle sue prime partecipazioni dal vivo, come egli stesso ha ricordato: «all'epoca, il piú delle volte Miles registrava con me durante il giorno e suonava con Shorter la sera».

Il disco è pregno di ribollente e talora disordinata energia, suonato senza soluzione di continuità. Le quattro facciate sono intitolate semplicemente col titolo dell'album e una numerazione progressiva, ma si tratta di una medley ininterrotta di una decina di temi diversi, tra cui I Fall in Love Too Easily, Masqualero e il repertorio discografico recente. In particolare, i movimenti tratti da IN A SILENT WAY che emergono qui e là sono per lo piú ridotti al solo giro di basso: è l'anticipazione di un nuovo modo di comporre, prevalentemente basato sui vamps, che (con l'apporto decisivo di Michael Henderson) Davis avrebbe reso pubblico in LIVE-EVIL. La presenza preponderante, comunque, è quella del piano elettrico di Chick Corea, spesso insolitamente funky, ma dedito anche ai suoi prediletti momenti atonali, qui piú differenziati che in passato (come in un duetto con Holland che, pur confinato al basso elettrico, s'inventa su quello strumento che non amava sequenze puntillistiche e materiche, per bicordi straniti dal wah-wah). Il leader non può più contare sulla solidarietà di consumati adepti quali Shorter e Williams, ma riesce a coinvolgere anche i musicisti piú digiuni di quel linguaggio: duetta ad esempio con Grossman che, al soprano, addirittura si scatena in acide manipolazioni dell'ancia simili a quelle praticate, fra gli altri, da Steve Lacy.

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