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| << | < | > | >> |IndicePSICHEDELIA, LIGHT-SHOW, MIXED-MEDIA 7 "LET THERE BE MORE LIGHT" IL TEATRO MUSICALE DEI PINK FLOYD 8 1. Alle radici del teatro rock 8 1.1 Pop art, pop music, underground, psichedelia 12 1.2 Sinestesia, tecnologia, eredità culturali, creatività 12 2. Per una storia del light-show 18 2.1 La luce come spettacolo sinestesico 18 2.2 Per una storia del light-show in Inghilterra 23 2.3 I precedenti nelle avanguardie artistiche europee 28 2.4 Per una storia del light-show negli Stati Uniti 37 2.5 La consapevolezza britannica: Syd Barrett e Mark Boyle 45 2.6 Ascesa e declino del light-show 51 3. La controcultura britannica e la vocazione teatrale dei Pink Floyd 57 3.1 Controcultura e multimedia 57 3.2 I catalizzatori della scena underground e i Pink Floyd 60 3.3 Peculiarità della controcultura britannica: dalla poesia all'happening 63 4. Il teatro musicale dei Pink Floyd 74 4.1 La progettualità di un gruppo in crisi 74 4.2 Palcoscenico e altri 'media' 79 4.3 Il suono concreto e il teatro sonoro 84 4.4 I grandi allestimenti 89 4.5 Dietro il muro 97 4.6 Scomparire: istruzioni per rendersi invisibili 101 BIBLIOGRAFIA 109 NOTE 112 IL DISCO, IL PROTAGONISTA, IL FILM 123 IL "MURO" DI ROGER WATERS DRAMMATURGIA MUSICALE NELL'ALBUM "THE WALL" 124 1. Dal disco alla multimedialità 124 1.1 Introduzione 124 1.2 Genesi, 'abula' e significati del disco 126 1.3 "THE WALL" come opera multimediale 136 2. La veste musicale di "THE WALL" 140 2.1 Macrostruttura 140 2.2 Citazioni stilistiche 150 2.3 Riprese e motivi di reminiscenza 156 2.4 Ostinati e arpeggi 168 2.5 Conclusioni 177 BIBLIOGRAFIA 184 NOTE 186 PINK UN'ANIMA IN SCENA 187 1. Una forma di vita 187 1.1 Premessa 187 1.2 Genesi dell'opera 189 2. Lettura psicologica di "THE WALL" 196 2.1 La metafora del palcoscenico 196 2.2 Il personaggio e il suo viaggio 201 3. Conclusioni e postille 233 3.1 Conclusioni 233 3.2 Postille musicali 235 BIBLIOGRAFIA 241 NOTE 242 "THE WALL" E IL CINEMA DEI PINK FLOYD 244 1. I Pink Floyd al cinema 244 1.1 La 'Swinging London' 244 1.2 Antonioni e i signori della psichedelia 245 1.3 Schroeder ("More" e "La Vallée"): alla ricerca del paradiso perduto 246 1.4 Breve (e perverso) ritorno a casa: "The Body" e "Rollo" 250 1.5 Un sogno floydiano 251 1.6 "Echoes" 253 2. "Pink Floyd-The Wall": il film di Alan Parker 254 2.1 Il muro 254 2.2 "When the Tigers Broke Free" (parte 1) 255 2.3 "In the Flesh?" 256 2.4 "The Thin Ice" 259 2.5 "Another Brick in the Wall" (part 1) 260 2.6 "When the Tigers Broke Free" (parte 2) e "Goodbye Blue Sky" 261 2.7 "The Happiest Days of Our Lives" 263 2.8 "Another Brick in the Wall" (part 2) 264 2.9 "Mother" 266 2.10 "Empty Spaces" e "What Shall We Do Now?" 268 2.11 "Young Lust" e "One of My Turns" 269 2.12 "Don't Leave Me Now", "Another Brick in the Wall" (part 3) e "Goodbye Cruel World" 271 2.13 "Is There Anybody out There?" 273 2.14 "Nobody Home" 273 2.15 "Vera Lynn" e "Bring the Boys Back Home" 275 2.16 "Comfortably Numb" 276 2.17 "In the Flesh", "Run Like Hell", "Waiting for the Worms" e "Stop!" 277 2.18 "The Trial" 280 3. Attorno al muro 281 3.1 "Pink Floyd-Earls Court" 281 3.2 "The Other Side of the Wall" e "Retrospective" 282 3.3 "The Wall-Live in Berlin" 284 3.4 "Pink Floyd behind the Wall" 285 4. Schede dei film contenenti brani dei Pink Floyd 288 5. Altri film e video 298 NOTE 305 |
| << | < | > | >> |Pagina 8IL TEATRO MUSICALE DEI PINK FLOYD 1. Alle radici del teatro rock 1.1 Pop art, pop music, underground, psichedelia Nel 1964, allo scoccare del primo decennio di vita del rock'n'roll, lo spettacolo rock non aveva ancora una sua identità. Per dieci anni, l'ancor giovane tradizione musicale aveva modellato il proprio potenziale scenico sulla vecchia scuola afroamericana, attinta alla showmanship dei chitarristi di blues di ogni tempo (poi codificata da Jimi Hendrix), alle acrobazie dei sassofonisti honkers, e alla mimesi di passi "animalistici" coreografati dal prototipico rhythm&blues del dopoguerra: una scuola cresciuta tra il retroterra estatico del gospel nelle chiese battiste e il retaggio ritualistico della musica e della danza africane. Sue stilizzazioni furono l'atteggiamento convulsivo di Little Richard, il pianoforte suonato letteralmente "con i piedi" da Jerry Lee Lewis, il passo saltellato su una gamba di Chuck Berry; sue edulcorazioni di massa, il bacino sensuale di Elvis Presley e l'innocente scuotimento del ciuffo da parte dei Beatles. La dimensione spettacolare del rock'n'roll era tutta fisica, la sua visualizzazione ancora focalizzata su modelli coreutici; la nazionalità, prevalentemente americana. L'Europa si limitava ad imitare, attenuando, o stilizzando ulteriormente. Nulla comunque, al di là o al di qua dell'Atlantico, faceva presagire lo sviluppo di una vera e propria teatralità. Solo tra il 1965 e il 1967, in Europa, la ricerca di una dimensione teatrale nel rock si mise a fare i primi, incerti passi. Una teatralità ancora primordiale, espressa dalla figura carismatica del "guitar hero", cominciava ad emergere nelle chitarre platealmente distrutte da Pere Townshend e poi morse, violate, cosparse di fiamme da Hendrix. Casi ancora sporadici, relativamente isolati, che riproponevano in forme esasperate due idee fisse di per sé piuttosto stagionate ed autoreferenziali del rock'n'roll: machismo e aggressività, violenza e catarsi. Idee che oltretutto la filosofia hippy, in alternativa ai mods, stava rimpiazzando con la predicazione di una liberazione di tutti i sessi e di un pacifismo floreale. Pochi gruppi bizzarri, come la Bonzo Dog Doo-Dah Band o The Crazy World of Arthur Brown, coltivavano un gusto più propriamente teatrale, legato però per vie diverse al vaudeville e al music-hall: dunque a un teatro minore, di genere, ben consolidato nella vecchia tradizione europea. Il passo successivo forse più lungo della gamba fu l'elaborazione, tra il 1968 e il 1969, di un nuovo ibrido, la "rock opera", introdotta dai Pretty Things di "S.E Sorrow", dai Kinks di "Arthur", dagli Who di "Tommy". Si trattava ancora di un adattamento, traduzione in lingua rock di altro genere storico, l'opera, il teatro musicale per antonomasia. Tali "opere", per giunta, non videro mai veri e propri allestimenti, se non cinematografici (Tommy, Quadrophenia). Quanto al resto, nulla: le grandi scenografie, l'attrezzistica tecnologizzata e i costumi rutilanti del rock progressivo o del glamour ambivalente alla David Bowie erano ancora di là da venire. Nel 1967 un teatro rock semplicemente non esisteva. Quel poco che affiorava in superficie ricalcava tradizioni e stereotipi che nascevano già démodé, senza alcuna consapevolezza né delle correnti teatrali contemporanee, né delle sperimentazioni dei molti maξtres à penser delle avanguardie artistiche di quegli anni. Diverso è il discorso per i Pink Floyd, che proprio in quel 1967 cominciarono ad elaborare un proprio formidabile teatro musicale (destinato a trasformarsi profondamente nel tempo) proprio perché quella consapevolezza ce l'avevano. Li distingueva, dalla maggior parte dei musicisti loro coetanei, un cumulo di vantaggi: il particolare contesto culturale di Cambridge, nel quale erano cresciuti Syd Barrett e Roger Waters, gli elementi più creativi del quartetto; gli studi d'arte e di architettura; lo stretto contatto, a Londra, con i più importanti artefici della controcultura inglese; e la fortuna di aver fatto la gavetta nei luoghi in cui si sperimentavano le prime contaminazioni delle arti e dei generi: i light-show, gli happening, la multimedialità. Una storia della spettacolarità e della teatralità del rock non è mai stata scritta. Ma anche questi singoli fattori formativi, fondamentali per interpretare scelte e intuizioni dei Pink Floyd, restano poco indagati. Viene spesso ricordato che molti fra i principali artisti rock inglesi emersi negli anni Sessanta (tra cui Keith Richards, John Lennon, Ray Davies, Pete Townshend, David Bowie, e alcuni fra i massimi solisti di chitarra: Eric Clapton, Jeff Beck, Jimmy Page) erano studenti delle scuole d'arte: eppure rimane curiosamente oscuro e scarsamente studiato il collegamento esistente tra le arti e il rock, o quanto meno tra le rispettive avanguardie. Sfugge l'osmosi di contenuti culturali, di concezioni dell'arte, di visioni estetiche della performance, nonché lo scambio diretto di idee e tecniche da un dominio all'altro. Eppure, una (autentica) storia culturale del rock non potrà mai essere configurata, se si continuano a ignorare i contesti culturali o a dare per scontata, senza approfondirla, la contiguità fra rock e studi artistici verso la fine degli anni Sessanta. Sguardi e scambi tra i due ambienti invece esistevano realmente, ed erano reciproci. Nei primi anni Sessanta, David Hockney non solo s'impose come il giovane artista più interessante della nuova generazione pittorica, fra i padri della pop art britannica; egli grazie al suo abbigliamento hip: capelli tinti di biondo, occhiali "da gufo", giacca di lamé influì tremendamente sul look e sulle idee dei giovani musicisti che a Londra stavano costruendo il nuovo pop britannico. D'altronde gli artefici della pop art ascoltavano la stessa musica dei loro coetanei, e ne erano ovviamente influenzati. Nel 1964 Peter Blake dipingeva, in stile pseudo-cartellonistico, ritratti di Bo Diddley, l'eccentrico bluesman elettrico chicagoano che aveva fatto sensazione nel suo recente tour britannico, lasciando una traccia profonda e fecondissima sulle nuove band musicali (dagli Animals agli Yardbirds passando per i Pretty Things, che presero il nome da un suo brano), e radicandosi in quel nuovo suono del rock inglese già impostato dai Rolling Stones (con il suo repertorio, ricordiamolo, anche i primi Pink Floyd si cimentarono a lungo). I contatti tra pop art e pop-rock, in Inghilterra, si trasmettevano certo per contiguità, ma godevano anche di affinità e solidarietà più profonde. In generale, meriterebbe maggiore attenzione al di là dell'omonimia il rapporto tra pop music e pop art, meno slegato e superficiale di quanto possa apparire a prima vista. La via britannica all'arte popular passava certamente attraverso i sentieri molto democratici e molto "commerciali" dei consumi di massa: che però, a quell'epoca, esprimevano una straordinaria ricettività verso le nuove tendenze dell'arte. Anche settori come la moda o il design d'interni, che ricevevano impulsi dalla pop art (e da correnti parallele come l'arte optical) e li trasferivano nello stile di vita dei musicisti pop e del loro pubblico, esprimevano strumenti comunicativi capaci di veicolare con grande immediatezza ed efficacia nuove idee, tendenze, attitudini e comportamenti: il mito della Swinging London fu costruito - dalla Stampa amerirana... - anche su quest'aria generale di creatività diffusa e di diffusa qualità. Il mondo metamusicale della psichedelia, con tutti i suoi addentellati estetici ed estatici, forniva a sua volta un territorio di riflessione e di ricerca che, di poco sfasato con l'elaborazione americana del fenomeno, contribuiva a far maturare una sensibilità tutta britannica verso certe tensioni della modernità. Questo terreno, d'altronde, condivideva con la sperimentazione artistica un vero e proprio percorso di emancipazione culturale. Pop art e psichedelia sono infatti le due principali sfere espressive attraverso le quali l'arte britannica degli anni Sessanta seppe incrociare i percorsi americani in maniera autonoma e originale, non assorbendo passivamente le influenze statunitensi, ma rielaborandole e ritrasmettendole, spesso anticipandone aspetti rilevanti, coltivando e difendendo sempre un proprio spiccato carattere. In Inghilterra fu proprio il movimento artistico degli anni Sessanta, già subalterno per anni alle innovazioni americane, a conquistare per primo un'identità nazionale e ad affermare nel mondo le sue peculiarità. Fino agli anni Cinquanta le arti inglesi scontavano ancora un ritardo culturale e un isolamento di tipo schiettamente "insulare", che solo nella prima metà del decennio successivo avrebbero cominciato a disciogliersi in un'organica apertura d'orizzonti. Fu salutare, inizialmente, anche la funzione di sprovincializzazione svolta dal diffondersi della poesia beat americana nelle principali città universitarie britanniche: frutto di un interesse vasto e trasversale, che investiva tanto il mondo accademico quanto i primi vagiti delle controculture giovanili. Se la pop art inglese seppe tracciare sentieri propri, le arti psichedeliche non furono da meno. Sulla strada dei Pink Floyd, anche la musica trovò intuizioni e percorsi dagli esiti del tutto autonomi rispetto a quelli dei gruppi californiani (Grateful Dead e Quicksilver Messenger Service in primis), anche perché più vicina agli orientamenti estetici europei nella ricerca elettronica e nella sperimentazione di sonorità concrete (Stockhausen, Berio, Maderna, Schaeffer...). Si distinsero per autonomia e originalità di prospettive anche le arti psichedeliche minori, come la grafica (con artisti del calibro di Mike McInnerney, Martin Sharp, la coppia Mike English/Nigel Waymouth), che si rifaceva esplicitamente all'Art Nouveau europea, e come i light-show che sviluppavano vaste reminiscenze della ricerca luministica delle avanguardie storiche. Il light-show in particolare, come vedremo, evidenziava stretti legami tra la ricerca artistica "alta" e lo spontaneismo underground, nonché tra sedi e laboratori istituzionali da una parte, spazi controculturali dall'altra. Un'altra peculiarità della nuova scena culturale britannica va appunto individuata nel modo in cui essa evita una rottura netta con la generazione precedente, e anzi favorisce un "passaggio di consegne" intergenerazionale. Vedremo come furono i giovani protagonisti dei primi anni anni Sessanta, cioè della prima vera stagione di rinnovamento delle arti in Gran Bretagna, a passare le loro esperienze ai "fratelli minori", alla gente della generazione psichedelica, ragazzi che avevano cinque o dieci anni meno di loro. La popolarità a Cambridge (come a Oxford) di alcuni loro totem culturali, come la poesia beat, tracimava su Rogers Waters per sua stessa ammissione fin da quand'era ragazzino. Particolarmente significativo è il fatto che questa trasmissione di esperienze da una generazione all'altra fu consapevole e soprattutto diretta. Della nuova generazione hippy dell'underground e della psichedelia, i "padri nobili" della controcultura inglese furono ispiratori, mentori, promotori e consiglieri, e qualche volta manager e impresari. Tale passaggio di consegne caratterizza fortemente la nascita del mondo artistico dei Pink Floyd, influendo profondamente sul gruppo fin dal suo periodo formativo e ancora all'inizio della sua maturità artistica. Pop art e controcultura, poesia d'avanguardia e circuito underground, sperimentazioni accademiche e psichedelia, design e happening, rock e multimedialità: questi gli elementi del polimorfo fermento culturale nel quale s'inserirono i giovani Pink Floyd. Elementi che essi assorbirono in maniera diretta, e da più direzioni. Se si analizza in profondità il loro lavoro, e in particolare il modo in cui elaborarono una propria idea di mixed-media sotto specie musicale ma in forma squisitamente "teatrale" (nel senso più esteso e moderno del termine), si vede come, fin dall'inizio della loro avventura artistica, i Pink Floyd appaiano profondamente calati nella storia culturale delle arti inglesi degli anni Sessanta. Cioè in quel circolo virtuoso in cui si mescolavano le avanguardie pittoriche e quelle musicali, la poesia beat e quella fonetica, nonché l'elettronica e la musica concreta, la gestualità visiva e sonora, la rottura della "quarta parete" teatrale e le nuove gallerie d'arte, le provocazioni neodadaiste e un certo onirismo post-surrealista, tra funzionalismo e allucinazione, tecnologia e psichedelia. I Pink Floyd, insomma, furono in grado di inventare un teatro musicale, prima e diversamente da tutti gli altri musicisti rock, perché più e meglio degli altri seppero interpretare lo Zeitgeist, e portarlo alle estreme conseguenze. Gli elementi costitutivi del loro processo creativo erano a disposizione, circolavano. Ma solo loro riuscirono a crearne una sintesi complessa e duratura, perché avevano la consapevolezza dei mezzi espressivi, e perché ne ebbero l'occasione. | << | < | > | >> |Pagina 603.2 I catalizzatori della scena underground e i Pink FloydIl più famoso catalizzatore della scena fu forse Barry Miles (meglio conosciuto come Miles tout court, perché così si firmava): un altro allievo delle scuole d'arte, ma con la passione del libraio colto e controcorrente, presto affermatosi come editore, giornalista, promotore dei poeti beat americani e poi del pop e del rock più avanzati. Miles fu il fondatore di una rivista seminale «It» (acronimo di International Times), autentica bibbia dell'underground inglese e avamposto delle sue relazioni con le altre scene underground internazionali. Pur trattando di ogni branca e ogni tematica delle controculture, la rivista inizialmente non si occupava di musica se non per parlare dei Pink Flovd, che sostenne fin dagli esordi in quanto (presunti) campioni della psichedelia musicale. Infaticabile connettore di arti, stili e persone, gran divulgatore di ogni terreno di ricerca, Miles era diventato amico di McCartney tramite Peter Asher, già membro di un duo rock'n'roll di grande successo internazionale, Peter & Gordon (tra i pochissimi inglesi a raggiungere il primo posto nelle classifiche americane prima dei Beatles). Con Asher, Miles aveva fondato a gennaio 1966 l'Indica, libreria e galleria d'arte di riferimento per tutto il circuito underground, con un assortimento mai visto di libri e riviste internazionali sui poeti beat, la fantascienza, il misticismo tibetano, e su ogni genere di arte purché d'avanguardia o di massa: dal cinema al teatro off, dalla fotografia al fumetto). Amico di lunga data dei Pink Floyd, anni dopo lo stesso Asher avrebbe presentato al gruppo Gerald Scarfe, l'autore delle animazioni per il progetto teatrale e cinematografico di THE WALL. L'altro grande promotore e agitatore della controcultura britannica, oltre che sua massima figura carismatica, era John Hopkins. Anch'egli cultore di poeti beat americani, si era dedicato insieme a Miles alla loro diffusione pubblicando il numero unico della rivista «Longhair Times» e fondando la casa editrice Lovebooks Ltd.; poi, sempre con Miles, aveva ideato «It». Fu proprio Hopkins, il 13 marzo 1967, a pubblicare sulla rivista il primo articolo esteso mai apparso sui Pink Floyd, che egli conosceva bene. «It» nasceva in effetti dalla esperienza di Hopkins come fondatore e gestore della London Free School, sorta nel 1965 con l'intenzione di offrire gratuitamente un'educazione integrativa ai derelitti di Notting Hill Gate, in particolare alla minoranza caraibica, sostenendo la cultura rastafari e la nascita del celebre Carnevale del quartiere. Nelle serate organizzate dalla London Free School furono lanciati i Pink Floyd, che addirittura vi tennero, nel 1966, la metà di tutti i loro concerti di quell'anno. Proprio in quelle esibizioni venne proposto per la prima volta al pubblico il loro "teatro musicale" di suoni, luci e visioni. Si racconta che al loro primo concerto c'erano venti spettatori, al secondo tre-quattrocento, e già dal terzo i seicento posti si esaurivano subito e non si riusciva più a entrare per la ressa. Su queste esperienze dal vivo della London Free School, e sul suo pubblico di riferimento, nacque il progetto dell'UFO: che dalla scuola ereditò il ruolo di collettore delle nuove energie musicali e interculturali, e a «It» l'atteggiamento artistico al tempo stesso rigoroso e spregiudicato. All'UFO i Pink Floyd divennero famosi. | << | < | > | >> |Pagina 974.5 Dietro il muroL'idea di THE WALL scaturì dalla fantasia di Roger Waters come Atena dalla testa di Zeus, già adulta ed armata di tutto punto. Un autentico progetto multimediale: album, concerto, film. La paranoia di Waters nelle esibizioni pubbliche, l'insensatezza che vi attribuiva, il masochismo degli spettatori, coagularono nell'immagine di un muro che chiudesse il fronte del palco. Un'idea squisitamente, tremendamente teatrale. Il concerto rock diventava metafora di una guerra, la guerra dell'incomunicabilità fra artisti e pubblico. Inevitabilmente vi associò il dramma autobiografico della perdita del padre, la guerra vera, quella che lascia ferite anche su chi sopravvive. Il principale fra i molti collaboratori esterni necessari a realizzare il progetto fu Bob Ezrin, musicista e produttore canadese già noto per aver lavorato, fra gli altri, per Alice Cooper, i Kiss, il Lou Reed di BERLIN (e di cui la nuova compagna di Waters era stata segretaria: come sempre, i Pink Floyd ricorrevano agli amici degli amici). In una sola notte, a partire dalla collezione di canzoni che Waters aveva impostato, Ezrin sviluppò e montò il soggetto del disco in una sequenza narrativa coerente, quaranta pagine di appunti e abbozzi, spostando, escludendo o sostituendo i momenti incongrui, e soprattutto suggerendo a Waters di rendere i resti più universali e più vicini all'orizzonte sempre giovanile del rock (nella stesura, il protagonista aveva trentasei anni come l'autore...). Fu sempre Ezrin a intuire, già durante il lavoro preliminare, che il progetto avrebbe meritato di diventare un musical per Broadway: un'idea che Waters avrebbe ripreso in considerazione solo venticinque anni dopo. La completa realizzazione multimediale di THE WALL impegnò il gruppo per quattro anni, dal lavoro preparatorio iniziato a metà 1978 fino all'uscita del film a luglio 1982. Il dispiego di mezzi fu praticamente illimitato. La sola realizzazione delle animazioni prese un anno. Il disco doppio (che costò settecentomila dollari) conteneva ventisei brani: più di quanti fossero inclusi in tutti i loro album dei sette anni precedenti. Il fonico Nick Griffiths dovette sobbarcarsi un viaggio da Londra agli Stati Uniti soltanto per registrare dal vivo un effetto sonoro di demolizione. L'eroico scenografo fu Mark Fischer, che aveva già collaborato a progettare le creature gonfiabili per il tour di ANIMALS, e che i Pink Floyd conoscevano da quando studiava alla Architectural Association negli anni Sessanta. Per le luci trovarono invece una soluzione all'ultimo momento, convocando su due piedi Marc Brickman (il quale possedeva un cognome particolarmente adeguato a un progetto intitolato THE WALL). Restava il problema di come e dove mettere in scena un allestimento dalle dimensioni senza precedenti nella storia dello spettacolo rock. Dato il soggetto e il suo spunto iniziale il senso di alienazione di cui il gruppo soffriva nell'esibirsi in arene da decine di migliaia di posti i Pink Floyd avevano bisogno di servirsi di spazi abbastanza grandi da contenere lo spettacolo, ma abbastanza intimi da non trasformarsi in una cittadella dall'ingresso a pagamento. Verso la fine del 1978, recuperando il vecchio sogno di viaggiare con una propria struttura logistica al seguito, progettavano di dotarsi entro un anno di una sala da concerto viaggiante, perché i teatri inglesi non potevano contenere le quarantacinque tonnellate di strumentazione e l'impianto da oltre 45000 watt. La struttura, battezzata "La Lumaca", fu disegnata come un tendone gonfiabile di forma vermicolare, centoventi metri per trenta, capace di ospitare il loro grande palco e cinquemila spettatori: purtroppo, come sempre, bisognò rinunciarvi per i costi insostenibili. I Pink Floyd si rassegnarono (ormai accadeva da anni) ad affrontare l'ennesimo tour in perdita, ma questa volta decisero di limitare la fatica e i danni. Erano previsti solo sette concerti, che alla fine si allungarono a ventinove date tra il 1980 e il 1981, in soli quattro luoghi (la Los Angeles Sports Arena, il Nassau Coliseum a New York, Earls Court a Londra e la Westfallenhalle a Dortmund), gli unici al mondo arene escluse a poter contenere lo spettacolo al coperto. Solo per la parte audio del tour occorrevano venti fonici, a gestire un mixer lungo quattro metri, tuti gli equalizzatori grafici necessari ad analizzare e compensare i difetti dell'acustica delle sale da concerto, e circa ventimila watt di amplificazione frontale, più altri trentamila nei tre banchi di altoparlanti quadrifonici sospesi sopra il pubblico e alle sue spalle, per una potenza di suono di 106 decibel. Tre proiettori a 35mm in configurazione orizzontale lavoravano in sincrono per proiettare direttamente sul Muro i trittici delle immagini animate da Gerald Scarfe, per una larghezza totale di venti metri. L'insieme dell'equipaggiamento tecnico e scenografico comprendeva: un bombardiere Stuka che precipitava disintegrandosi; i tre "cattivi" della storia realizzati da Scarfe come gigantesche marionette dalle fattezze grottesche, alte da sette a nove metri, con proiettori al posto degli occhi; l'ennesimo maiale volante (sei metri per nove) che sorvolava il pubblico e veniva fatto ballare nell'aria in Run Like Hell; per non parlare dei trecentoquaranta mattoni di cartone speciale rinforzato, 120x90 centimetri, che servivano a costruire ogni sera, durante la prima parte del concerto, un muro bianco lungo circa cinquanta metri e alto più di dieci, il cui montaggio richiedeva un'intera squadra di operai. Si dovettero anche progettare reti protettive per evitare danni fisici al gruppo al momento del crollo del Muro. In tutto, fu speso mezzo milione di dollari solo in supporti e apparecchiature, mentre gli effetti costarono, in totale, quasi due milioni di dollari.
Un annunciatore apriva lo show, e mentre lo Stuka attraversava la sala,
andando ad abbattersi su un'immagine "preventiva" del muro, i musicisti salivano
sul palco tra bagliori e fragori, lampi e tuoni. Prima sorpresa, prima metafora
dell'alienazione dell'artista nel grande circo del rock: non erano i Pink Floyd,
ma un quartetto di alter ego che indossavano maschere con le fattezze di Waters,
Gilmour, Wright e Mason. Dopo alcuni minuti, al culmine di un tripudio di
fuochi pirotecnici ed effetti luminosi, i quattro "surrogati" si immobilizzavano
mentre i veri Pink Floyd apparivano sul palco dietro di loro: il pubblico ne
restava sempre sconcertato. Durante la prima parte del concerto la squadra di
operai costruiva il muro, un mattone dopo l'altro, lasciando aperte alcune
feritoie per lasciare parzialmente visibili i musicisti fin quasi alla fine. In
questo primo atto lo spettacolo di luci andava a intrecciarsi con l'emblema
araldico dei due martelli incrociati (simbolo di tutte le forze
dell'oppressione) riprodotto e proiettato dappertutto, e con la proiezione delle
animazioni, tra cui quella, ormai un classico dell'immaginario rock, dei fiori
che prima fanno l'amore e poi si divorano l'un l'altro. Nell'intervallo, a luci
accese, l'enorme Muro ormai completamente eretto campeggiava sinistro nella sala
il più grande e inquietante monumento della storia del rock, quasi un monito per
gli spettatori. Durante il secondo atto il gruppo suonava per lo più dietro di
esso, a realizzare la terrificante metafora di Waters, con due principali
diversivi. Una botola si apriva sul Muro rivelando l'autore in una stanza di
motel illuminata al neon, con un televisore acceso e l'insegna del "Tropicana
Motor Hotel" (autentico rifugio losangelino di molti gruppi rock in trasferta),
a cantare
Nobody Home.
E Gilmour saliva con un ascensore idraulico in cima alla grande muraglia, a
suonare l'ultimo assolo di chitarra in
Comfortably Numb,
in piedi, così alto, lontanissimo, proiettando un'enorme ombra rossa sul
pubblico. Verso la fine del concerto, a conclusione della scena del processo in
The Trial,
il Muro veniva abbattuto con un tremendo, fragorosissimo rombo in
sensurround;
vestiti da menestrelli, con gli strumenti acustici a tracolla, gli otto
musicisti suonavano l'ultimo brano sulle sue rovine.
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