Autore Bernie Sanders
CoautoreHuck Gutman
Titolo Un outsider alla Casa Bianca
EdizioneJaca Book, Milano, 2016, Attualità internazionali , pag. 282, cop.fle., dim. 15x23x1,8 cm , Isbn 978-88-16-41358-0
OriginaleOutsider in the White House [2015]
PrefazioneMarco d'Eramo, John Nichols, Carlo Formenti
TraduttoreSara Crimi, Laura Tasso
LettoreFlo Bertelli, 2016
Classe politica , paesi: USA , destra-sinistra , movimenti












 

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Indice


Ringraziamenti                                               7

L'ala sinistra del possibile,
di Marco d'Eramo                                             9

Prefazione                                                  19

Introduzione                                                27

Capitolo 1 DA QUALCHE PARTE OCCORRE COMINCIARE              31

Capitolo 2 IL SOCIALISMO IN UNA SOLA CITTΐ                  65

Capitolo 3 LA LUNGA MARCIA                                  93

Capitolo 4 VITTORIE                                        111

Capitolo 5 IL CONGRESSO DEI CAPRI ESPIATORI                139

Capitolo 6 IN GIRO PER IL VERMONT                          169

Capitolo 7 IL RUSH FINALE                                  199

Capitolo 8 DOVE ANDIAMO DA QUI?                            221

Postfazione OUTSIDER NELLA CORSA ALLA PRESIDENZA
di John Nichols                                            245

Da Occupy Wall Street a Bernie Sanders,
di Carlo Formenti                                          275

Glossario                                                  281


 

 

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L'ALA SINISTRA DEL POSSIBILE
di Marco d'Eramo



Largo in media 6 km, il lago Champlain, dal nome dell'esploratore francese Samuel Champlain (1574-1635), si estende per 200 km da sud verso nord fino a sconfinare in Québec, Canada, dove il suo emissario sfocia nel maestoso fiume San Lorenzo. Attorniato da boschi sterminati che ricoprono gli Adirondack e le Green Mountains (pochi europei sanno che questa è una delle zone più selvagge, disabitate e boscose degli USA), il lago segna íl confine tra lo Stato di New York a ovest e quello del Vermont a est. Sulla sua riva orientale si adagia la graziosa cittadina di Burlington, che con i suoi 40.000 abitanti è la più popolosa del Vermont (ma non la sua capitale, che è Montpelier). Molti anni fa ci soggiornai per una settimana ed era quasi impossibile immaginare che quest'agghindato, benestante centro urbano sarebbe stato all'origine di quella scossa che nel 2016 per quattro mesi ha destabilizzato il sistema politico statunitense, ha fatto tremare l' establishment, e ha rischiarato il plumbeo orizzonte delle sinistre mondiali. L'esito era segnato, ma questa scossa ha dato un segnale chiaro, ha fornito un'indicazione nitida per un possibile percorso alternativo. Un segno che va indagato, a partire dal porticciolo sul lago Champlain.

Θ qui infatti che nel 1980 Bernie Sanders si candidò alla carica di sindaco, ed è da quella campagna elettorale che, dopo un breve antefatto, prende davvero il via la sua autobiografia politica che presentiamo ai lettori italiani. Contro ogni previsione, nel 1980 Sanders fu eletto e divenne sindaco, e fu rieletto per altri tre mandati (biennali), fino al 1988, quando si candidò come indipendente a deputato al Congresso degli Stati Uniti a Washington: il sistema politico americano è complicato da tradurre perché bisogna distinguere i deputati (e senatori) di uno Stato che siedono nel Congresso federale di Washington, e invece deputati e senatori del parlamento di quello Stato che siedono nella capitale statale (Montpelier nel caso del Vermont). Le elezioni del 1988 Sanders le perse di misura, ma poi vinse le successive nel 1990 e fu rieletto per altre sette volte consecutive, l'ultima nel 2004: il mandato dei deputati degli Stati Uniti è biennale, mentre quello dei senatori dura sei anni. Senato a cui nel 2006 Sanders si candidò (ogni Stato USA, indipendentemente dalla sua taglia e popolazione, manda a Washington due senatori), e – ancora contro ogni previsione – vinse col 55% dei voti: come racconta John Nichols nella sua utile postfazione, il Vermont era stato una roccaforte repubblicana per oltre un secolo e mezzo. Sanders è stato rieletto con un margine ancora superiore nel 2012, ed è storia presente l'incredibile cavalcata nei primi quattro mesi della campagna per la nomination democratica alle elezioni presidenziali del 2016.

Uso la parola «incredibile» in senso proprio. Perché, a stare alle lezioni impartite dall'ultimo mezzo secolo di campagne elettorali statunitensi, Bernie Sanders aveva tutto contro di sé, non avrebbe dovuto nemmeno presentarsi o, candidatosi, avrebbe dovuto esser spazzato via immediatamente. Perché viene da uno Stato del nord-est degli USA, è ebreo, non appartiene a nessuno dei due grandi partiti ed è socialista. Ognuno di questi elementi basterebbe ad affossare la più promettente delle candidature, e quella di un settantaquattrenne politico di lungo corso non era tale.

Negli USA, un candidato che è stato sindaco di Burlington è come un valdese di Torrepellice che voglia fare campagna a Napoli o a Bari. Per di più, almeno da dopo John E Kennedy, la politica statunitense è stata dominata dal Sud: Lyndon Johnson e George W. Bush jr. texani, Richard Nixon e Ronald Reagan californiani, Jimmy Carter georgiano, Bill Clinton dell'Arkansas: dal 1963 al 2016, su 53 anni, solo per 14 gli USA sono stati presieduti da Presidenti non del sud: Gerard Ford (però mai eletto, e salito al potere grazie all' impeachment di Nixon), George Bush padre, e Barack Obama.

Non solo, ma la questione meridionale ha dominato tutto il dibattito politico statunitense, tanto che la svolta politica impressa da Ronald Reagan alla fine degli anni '70 fu chiamata la Southern strategy: ricordiamo che nel Sud, quello democratico era storicamente il partito degli schiavisti (l'emancipatore Abraham Lincoln era repubblicano) e per questo l'elettorato bianco meridionale (nostalgico dei bei tempi schiavisti) aveva sempre votato democratico; solo negli anni '30 del XX secolo, con Franklin Delano Roosevelt, i democratici avevano coinvolto i neri nel proprio apparato, e solo negli anni '60 avevano sostenuto le lotte per i diritti civili, ma proprio quell'appoggio aveva alienato gli elettori bianchi meridionali dai democratici e li aveva gettati nelle mani dei repubblicani. La campagna reaganiana per la riduzione delle tasse aveva (e ha) negli Stati Uniti un risvolto razziale che è difficile da cogliere in Europa: chiedendo di far pagare meno tasse agli abbienti e soprattutto proponendo che gli introiti fiscali siano spesi là dove sono stati incassati, e non altrove (localismo fiscale), in realtà si chiede che le tasse pagate dai benestanti bianchi non vadano a finanziare scuole, ospedali, stato assistenziale per i neri disagiati: ecco in cosa consiste la Southern strategy reaganiana (in Italia questa strategia è stata tradotta dalla Lega Nord in regionalismo fiscale in chiave «anti-terrona»). Più recentemente, il successo del Tea Party sarebbe incomprensibile senza tenere conto della sua componente razziale.

In secondo luogo, Sanders è nato nel 1941 a Brooklyn, New York City, da genitori ebrei emigrati dalla Polonia, il padre venditore di vernici. Contrariamente al luogo comune, negli Stati Uniti è forte e diffuso un pregiudizio sugli ebrei, come su altre minoranze: così come prima di John Kennedy (origine irlandese) non c'era mai stato un Presidente cattolico e discendente di white ethnics (europei non anglosassoni), così non c'è mai stato un Presidente di origine italiana o greca (Michael Dukakis fu sconfitto da George Bush padre, mentre come candidata alla vicepresidenza, l'italo-americana Geraldine Ferraro fu sconfitta, insieme a Walter Mondale, da Ronald Reagan e George Bush sr.). Come i discendenti di italiani e greci, gli ebrei possono essere governatori, senatori, sindaci, ma non Presidenti degli Stati Uniti. In 240 anni di storia americana, Sanders è il primo ebreo che abbia mai vinto una primaria per la nomination presidenziale.

In terzo luogo Sanders non appartiene a nessuno dei due grandi partiti: la conventio ad excludendum regna sovrana nel sistema politico statunitense: i tentativi di fondare un terzo partito sono sempre stati respinti e neutralizzati. I vari candidati «indipendenti» hanno sempre avuto vita difficile, proprio per le regole elettorali studiate apposta per mantenere saldamente alle redini della politica USA il duopolio democratico/repubblicano, non ultimo il sistema rigidamente uninominale. Nella storia del dopoguerra si è visto come i vari candidati indipendenti abbiano raccolto poco: il 13,5% George Wallace nel 1968, il 18,9% Ross Perot nel 1992 (miglior risultato di sempre per un candidato indipendente, davanti al 16,6% ottenuto dal progressista Robert La Follette nel lontano 1924), il 2,4% da Ralph Nader nel 2000. Ma lo stesso Ross Perot, pur col 18,9% dei voti popolari non era riuscito ad avere nessun «Grande elettore». Θ questa la ragione per cui Bernie Sanders, pur essendo indipendente, ha deciso di non presentarsi come candidato indipendente alle presidenziali, ma di partecipare alle primarie democratiche, perché queste gli avrebbero offerto una «esposizione» mass-mediatica infinitamente più efficiente.

Infine Sanders si è sempre dichiarato socialista nel senso delle socialdemocrazie europee. Ora, fin dall'800 negli USA c'è stato un fortissimo pregiudizio antisocialista: con interventi di milizie private della Pinkerton contro scioperanti e manifestanti, vere e proprie persecuzioni nei confronti del sindacalismo degli Industrial Workers of the World (gli wobblies), imprigionamento del leader socialista Eugene Debs. Ma tutto ciò fu nulla in confronto all'isteria generata dagli anni '50 dalla guerra fredda, dal maccarthismo, dalla caccia al nemico interno, alle quinte colonne. Ovunque quel termine che cominciava con «S» era diventato una parolaccia. Presentarsi come candidato affermando di essere socialista era come concorrere a un posto di maestro elementare dicendo di essere pedofilo.

Insomma Bernie Sanders aveva tutto per essere liquidato già ai primi round, come era successo nel 2004 a un altro politico del Vermont, il progressista ex governatore democratico Howard Dean che si ritirò dopo tre successive sconfitte in Iowa, New Hampshire e Winsconsin.

Invece, anche se alla fine la favola si è conclusa, nel frattempo Sanders è riuscito a vincere le primarie in ben 18 Stati (oltre che tra i democratici residenti all'estero), in un filotto di successi che non si era mai visto.

Allora il punto non è capire perché alla fine Sanders abbia perso, ma spiegare come mai un politico del nord, ebreo, indipendente e socialista abbia potuto far tremare una candidata dell'establishment, così ben finanziata, così conosciuta, così esperta come Hillary Clinton, ex first lady, ex senatrice dello Stato di New York, ex Segretaria di Stato. Come è potuto succedere che un anziano di 74 anni abbia elettrizzato ed entusiasmato proprio l'elettorato più giovane?

In primo luogo, paradossalmente è stata la cronologia a venire in soccorso a Sanders: non è un caso se il 71% dei giovani che sono andati a votare alle primarie democratiche hanno scelto Sanders, con punte dell'86% in Nevada, dell'84 in New Hampshire, dell'80% negli Stati del Midwest.

Perché questi giovani sono i cosiddetti Millennials, nati o cresciuti quando l'Unione sovietica era ormai un ricordo. Il muro è crollato 27 anni fa, l'URSS si è dissolta 25 anni fa. Chiunque abbia meno di 30 anni non ha più un ricordo personale del comunismo sovietico, dei Gulag, dello stalinismo. A fare facile ironia si potrebbe dire che per questi giovani il socialismo è qualcosa di esotico, di diverso, una forma di aromaterapia della politica.

Ma vi è un'altra ragione per cui i giovani hanno votato in massa per il più vecchio tra i candidati in lizza nelle primarie, ed è la coerenza delle sue posizioni. A differenza di Hillary Clinton, Sanders non ha mai votato a favore della guerra in Iraq; a differenza di Barack Obama, non è uno che promette di chiudere Guantanamo e dopo 8 anni quella vergogna sta ancora lì; né è uno che scende a patti con le banche. Non che Sanders non mercanteggi mai compromessi: sulla questione — nevralgica negli Stati Uniti — del possesso delle armi, la sua posizione è stata sfumata (il Vermont è uno Stato di cacciatori); sulla criminalità, nel 1994 votò a favore della legge clintoniana che ha riempito le prigioni statunitensi. Ma in un sistema in cui i politici fanno la fila per mendicare favori e fondi dai banchieri e dalla finanza, Sanders ha sempre tenuto un linguaggio che ricorda quello di Franklin Delano Roosevelt.

Rispondendo a Jeff Immelt, amministratore delegato di General Electrics (305.000 dipendenti, 120 miliardi di dollari di fatturato, 6,2 miliardi di dollari di profitto) che gli aveva dato del «bugiardo», e a Lowell McAdam, amministratore delegato del gruppo Verizon (177.000 dipendenti, 131 miliardi di dollari di fatturato, 17,8 miliardi di dollari di profitto) che aveva definito contemptible, «disprezzabili», le sue opinioni, il 13 marzo Sanders aveva twittato «Io non voglio l'appoggio di McAdam, Immelt e i loro amici miliardari, ben venga il loro disprezzo – I welcome their contempt». Come non ricordare le frasi che 80 anni prima aveva pronunciato E. D. Roosevelt nel comizio di chiusura della sua campagna elettorale del 1936? «Noi abbiamo dovuto combattere con í vecchi nemici della pace, con i monopoli industriali e finanziari, con la speculazione, con la spregiudicatezza bancaria... Costoro avevano cominciato a considerare il governo degli Stati Uniti come una mera appendice dei propri affari. E noi sappiamo che il Governo del denaro organizzato è pericoloso esattamente quanto il governo del crimine organizzato. E mai prima nella nostra storia queste forze sono state tanto unite contro un candidato come sono schierate oggi. Sono unanimi nell'odio nei miei confronti – and I welcome their hatred. "Ben venga il loro odio"».

Oggi questi toni verrebbero tacciati subito di «populismo».

Ma certo Sanders non avrebbe colto di sorpresa i politologi di tutto il mondo se la sua campagna del 2016 non fosse stata preceduta dal movimento Occupy a cavallo tra il 2011 e il 2012. Quel movimento è stato accusato di essersi evaporato senza lasciare traccia, ma un'eredità invece ce l'ha consegnata, ed è quella di avere ridato legittimità al problema della disuguaglianza, alla reazione del 99% della società contro la sfacciata ricchezza dell'1%.

Il voto per Sanders ha espresso l'indignazione (l'equivalente statunitense degli Indignados spagnoli) dei giovani di fronte allo strapotere delle banche, di fronte alla doppia legalità, una che vale per i comuni cittadini e una che vale per Wall Street e per la grande finanza che può sperperare miliardi di dollari e che comunque non pagherà mai perché sarà sempre salvata da uno Stato complice. Per usare una bella espressione citata da John Nichols nella sua postfazione, in Bernie Sanders i giovani hanno visto «l'ala sinistra del possibile». Un'ala sinistra lontana anni luce dal funzionamento corrente dell'economia e della società.

Ed è questa vera e propria alienazione dell'elettorato rispetto all' establishment della finanza e della politica che motiva le inattese performances di Sanders e, ancor più, di Donald Trump, nelle primarie del 2016.

Guardiamo però questi due fenomeni da una prospettiva più di- staccata, senza farci distogliere dal capello finta carota dell'uno e dall'entusiasmo giovanile dell'altro. Va ricordato che in campo repubblicano l'improbabile candidatura di Trump era stata preceduta dall'ancora mal studiato movimento del Tea Party, e prima ancora dall'altrettanto improbabile apparizione dell'alaskana Sarah Palin nel 2008, e poi dalla balzana candidatura del mormone Mitt Romney nel 2012 (un mormone ha meno probabilità di essere eletto negli USA di un comunista omosessuale). E che in campo democratico, la comparsa di Sanders era stata preceduta dal ricorso a un nero (Obama) e/o a una donna (Clinton), ambedue figure improbabili rispetto alle regole classiche del sistema politico statunitense.

Ciò vuol dire che in ambedue i grandi partiti negli ultimi dieci anni è stata chiara la percezione di una crisi profonda del sistema politico USA. Un sistema anacronistico, ottocentesco, pensato per quando le campagne elettorali si facevano a cavallo o in strada ferrata, solo tra notabili. L'idea che i deputati siano eletti ogni due anni e che per di più ogni campagna elettorale sia preceduta da un'altra estenuante campagna per le primarie, fa sì che il sistema viva in campagna permanente. Il meccanismo delle primarie presidenziali che agonizzano per quasi sei mesi è un altro anacronismo. Il sistema dei Grandi elettori che inquina il voto popolare non rispecchia ormai più la realtà antropologica degli Stati Uniti. Il finanziamento della vita politica distorce a tal punto la volontà popolare da stravolgerla, soprattutto dopo la sentenza della Corte suprema del 2010 Citizens United vs. Federal Election Commission che ha dato via libera alla più totale deregulation del finanziamento della politica da parte degli interessi e dei patrimoni privati.

Ma le magagne di questo sistema non sarebbero venute alla luce e non si dimostrerebbero così ingestibili senza la grande crisi iniziata nel 2008, che ha esasperato gli effetti negativi della globalizzazione sui cittadini, almeno quelli del primo mondo. Ormai anche il mondo della finanza teme che questi effetti negativi possano ritorcersi contro di sé come un boomerang e cerca di correre ai ripari, se è vero che si preoccupa persino un personaggio cinico e arrogante come Larry Summers che da economista capo della World Bank divenne famoso per aver suggerito in una nota interna di dislocare le imprese inquinanti in Africa; da segretario del Tesoro di Bill Clinton si distinse per aver gestito la disastrosa privatizzazione dell'economia ex sovietica in Russia; poi da consigliere economico di Obama, si fregiò di aver appoggiato il condono per le banche che avevano causato il grande crack del 2008. Ebbene, questo stesso personaggio scriveva il 10 aprile 2016 sul «Financial Times»: «Sta prendendo forma una rivolta contro l'integrazione globale. Tutti e quattro i principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti – Hillary Clinton, Bernie Sanders, Donald Trump e Ted Cruz – tutti sono contrari alla principale iniziativa di libero commercio di questo momento, la Trans-Pacific Partnership. Le proposte di Trump, il candidato repubblicano in testa, di murare fuori il Messico, abrogare gli accordi commerciali e perseguitare i musulmani sono molto più popolari di quanto sia lui stesso. Il movimento a favore di un'uscita inglese dall'Unione europea riceve un appoggio significativo. Sotto pressione per l'afflusso di rifugiati, l'impegno a un'Europa senza frontiere sta sfaldandosi... Certo, dietro quest'opposizione alla globalizzazione c'è una parte sostanziale d'ignoranza... Però, il nucleo della rivolta contro l'integrazione globale non è l'ignoranza. Θ il sentimento, non del tutto infondato, che quest'integrazione sia un progetto realizzato dalle élites per le élites, con scarsissima considerazione per gli interessi della gente ordinaria – gente per cui il programma della globalizzazione è pianificato dalle grandi compagnie che giocano gli Stati l'uno contro l'altro. Questa gente legge le rivelazioni dei Panama papers e conclude che la globalizzazione offre ai pochi fortunati opportunità per eludere ed evadere le tasse che non sono accessibili agli altri. E vede la disintegrazione che accompagna l'integrazione globale, perché le cittadinanze soffrono quando i grandi datori di lavoro cedono di fronte alla competizione straniera».

Perciò, seppure in modo diverso e inconciliabile, i diversi fenomeni che scuotono gli Stati Uniti e l'Europa, sono tutti segni che il progetto di globalizzazione è arrivato al redde rationem nel primo mondo (diverso, ma non troppo, sarebbe il discorso per le economie cosiddette emergenti): si sta rivelando una pia, e micidiale, illusione l'idea che i ceti medio-bassi del primo mondo possano non essere troppo penalizzati dall'integrazione mondiale del capitale. Non solo, ma sia negli Stati Uniti che in Europa, i sistemi politici stanno scricchiolando in modo sinistro: ovunque la loro legittimità è in crisi, ovunque il contenuto delle elezioni è svuotato, ovunque la democrazia sta riducendosi a vuoto rituale, a palcoscenico su cui sono mandati a recitare pagliacci. Sanders non ha vinto, ma ha dimostrato che si può lottare, con risultati anche al di là di ogni aspettativa, e che la via per «l'ala sinistra del possibile» non è ancora del tutto preclusa, e non solo sul lago Champlain.

Roma, 4 maggio 2016

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PREFAZIONE



Quando la gente mi dice che sono troppo serio, lo prendo come un complimento. Ho sempre considerato la politica come un'impresa seria, che riguarda il destino delle nazioni, gli ideali e gli esseri umani, che non possono permettersi di essere semplici pedine di un gioco. Immagino che questa mia visione delle cose faccia di me un outsider nell'attuale politica americana. Tuttavia, se nei riguardi della politica sono più serio dei candidati che saettano da una raccolta fondi all'altra, o da un summit sponsorizzato dai fratelli Koch alle «primarie» di Sheldon Adelson, non penso di essere più serio del popolo americano.

Il popolo americano vuole che, nelle campagne politiche, i candidati affrontino i problemi, non che si occupino di raccolte fondi, sondaggi o pubblicità negativa che soffocano il dibattito onesto. Le elezioni dovrebbero essere influenzate dai movimenti di base e da coalizioni spontanee, non dal culto della personalità o dal libretto degli assegni di qualche miliardario.

Da quando ho iniziato a fare politica, da organizzatore delle proteste per i diritti civili all'Università di Chicago, da attivista pacifista ai tempi della guerra del Vietnam, da sostenitore delle lotte operaie e sindacali, ciò che maggiormente mi ha offeso della politica elettorale è stata la grettezza. Sembrava che i media e i partiti politici incoraggiassero gli elettori a prendere decisioni di cruciale importanza giudicando i candidati in base al loro sorriso smagliante o alla capacità di rispondere a tono alle frecciate, non a partire da idee o filosofie, per non parlare dell'idealismo. Io non ho mai voluto appartenere a questa politica senz'anima e, negli anni in cui ho fatto campagne in favore di questa o quella causa, o in occasione delle elezioni, penso di essere riuscito piuttosto bene a evitare tutto ciò.

La prima edizione di questo libro, che in origine si chiamava Outsider in the House, è stata scritta vent'anni fa, dopo la mia elezione alla Camera dei rappresentanti per il Vermont, ma ben prima che mi passasse per la testa di correre per la presidenza. Questo libro racconta la storia di come abbiamo costruito una politica progressista e indipendente, prima in una città e poi in uno Stato. Θ la storia di una ribellione che prima si è aggiudicata la carica di sindaco di Burlington, la più grande città del Vermont, e poi un seggio al Congresso americano. Soprattutto, però, è la storia di come abbiamo usato l'autorità derivante da queste vittorie per apportare cambiamenti per migliorare le vite delle persone che, di solito, non hanno molti alleati nelle posizioni di potere.

I lavoratori del Vermont sono i veri eroi di questo libro, perché sono rimasti fedeli alla lotta per la giustizia economica e sociale anche quando i media e le élites politiche si aspettavano che avrebbero gettato la spugna. Non si sono limitati a partecipare in prima persona, ma hanno coinvolto amici e vicini, incrementando l'affluenza elettorale in un momento storico in cui nel resto del paese era in declino. Dico sempre che il nostro più grande risultato a Burlington non è stata la prima vittoria che ci ha portato alla guida della città nel 1981, per quanto sia stata un'enorme soddisfazione. I nostri più grandi risultati sono state le vittorie che sono arrivate con le elezioni successive, quando la maggiore partecipazione degli elettori — specie delle persone a basso reddito e dei giovani — ci hanno permesso di contrastare gli sforzi congiunti delle élite economiche e politiche, intenzionate a fermarci. Non abbiamo battuto i nostri avversari con il denaro, li abbiamo sbaragliati con i voti, come dovrebbe accadere in ogni democrazia.

Di recente, rileggere Outsider in the House mi ha ricordato fino a che punto questa sia la storia di una lotta. Non è la storia di un facile e costante successo. Θ la storia di un duro lavoro, di un piccolo passo nella giusta direzione, seguito da un passo indietro, di sconfitte e vittorie elettorali, e di svolte che pochi di noi avrebbero ritenuto possibili, finché non sono accadute.

Una politica di lotta è radicata nei valori e nella visione, ma soprattutto nella fiducia. Richiede un patto fra il candidato e le persone che ne condividono i valori, che ne abbracciano la visione. Questa politica non dice, «Votate per me e io risolverò tutto», ma dice «Se sarò eletto, non solo lavorerò per voi, ma lavorerò con voi». E per lavoro intendo, per esempio, implementare un programma a livello locale, sponsorizzare una legge a livello federale, ma soprattutto creare una connessione fra le persone e i rappresentanti che hanno eletto, una connessione in virtù della quale qualcuno, all'interno delle stanze del potere, lotterà per i cittadini che da queste stanze sono esclusi. Quando i cittadini capiscono che questa battaglia è stata intrapresa, si entusiasmano. A quel punto fanno richieste più coraggiose, danno vita a movimenti più forti, e costruiscono una politica che va oltre la semplice vittoria elettorale, mirando a una politica che vuole trasformare una città, uno Stato, una nazione e, forse, il mondo.

Da giovane attivista, ho abbracciato questo modello di politica di lotta per la giustizia razziale. Poi ho iniziato a partecipare alla politica elettorale perché credevo che l'attivismo dei movimenti per i diritti civili, delle donne e del lavoro, e le azioni in favore della tutela dell'ambiente e della pace dovessero concretizzarsi nell'urna elettorale e nelle stanze del potere. Ho iniziato piano piano, perdendo e imparando. Alla fine, grazie all'aiuto di amici e alleati, la fedeltà e l'impegno dei quali è tutto per me e per il nostro successo condiviso, abbiamo iniziato a vincere. Non ci siamo limitati a vincere le elezioni, abbiamo realizzato quel genere di progresso trasformativo che nasce solo quando l'attivismo politico si concentra sul quadro più ampio, non solo sull'elezione successiva. La mia decisione di correre per la presidenza degli Stati Uniti nel 2016 è stata ispirata dagli eventi descritti nella prima edizione di Outsider in the House e dalle esperienze che ho fatto dopo la sua pubblicazione nel 1997, alla Camera, al Senato e, soprattutto, in occasione di picchetti, marce, incontri e assemblee municipali contro la disuguaglianza economica, per denunciare il fatto che la dignità e l'umanità degli immigrati venivano calpestate, per protestare contro guerre inutili, ingiustizia razziale e catastrofi ambientali.

I due decenni che sono trascorsi dalla prima edizione di questo libro non sono stati facili per gli americani. Il divario fra i ricchi e i poveri si è ampliato oltre il punto di rottura rispetto a quelle che dovrebbero essere in una società civile e un'economia sana. Anziché affrontare la povertà, i politici di entrambi i partiti l'hanno criminalizzata e hanno accettato tassi di incarcerazione che sono osceni e razzisti; i devastanti effetti del cambiamento climatico sono stati ignorati; abbiamo accolto un senso delle priorità deviato, secondo il quale l'America trova sempre i fondi per finanziare la guerra, ma non per le infrastrutture, o i programmi educativi o alimentari. La nostra democrazia è stata resa quasi del tutto disfunzionale da sentenze della Corte Suprema che permettono a miliardari e grandi aziende di comprarsi le elezioni e rendono sempre più difficile la partecipazione al voto delle persone di colore e degli studenti. Gli Stati Uniti stanno degenerando nella plutocrazia, mentre la democrazia viene sopraffatta dal denaro, dalla cattiva pubblicità e dal pessimo giornalismo.

Quando ho annunciato che avrei corso per la Casa Bianca, ho detto che ci sarebbe voluta una rivoluzione politica perché un socialista democratico del Vermont potesse vincere. Secondo molti commentatori, questa era un riconoscimento di impossibilità. Non lo era. Era una indicazione di ciò che sarebbe stato necessario per rimediare ai danni che sono stati fatti e strappare la nazione dalle mani degli oligarchi. I commentatori e i consulenti politici ancora non riescono a capire questo punto di vista, mentre alle persone è chiarissimo. I cittadini si presentano a migliaia, a decine di migliaia, alle nostre marce. Mandano contributi da 5 o 10 dollari, perché capiscono che, se tutti diamo ciò che possiamo, potremo finire per battere i miliardari.

Sì, sono serio come dicono. Le campagne simboliche non fanno per me. Ho deciso di correre per la presidenza perché credo fosse necessario, e credo che possiamo vincere. Ce l'abbiamo fatta a Burlington. Ce l'abbiamo fatta in Vermont. E ce la stiamo facendo in America. Il cambiamento arriva, anche contro tutti i pronostici. E riconoscere i cambiamenti che abbiamo già ottenuto, riconoscere le nostre vittorie, ci induce a lottare con ancor più determinazione.

Quando ho iniziato a scrivere la storia del mio percorso politico, ho accettato l'etichetta di «outsider». Mi sono collocato ai margini della politica americana tradizionale. Ho rifiutato lo stato delle cose. Ho votato da solo, combattuto da solo battaglie che nessuno aveva voluto intraprendere, portato avanti campagne solitarie. Adesso però non mi sento solo. Noi «outsider» siamo tanti e ci stiamo organizzando per portare il salario minimo a 15 dollari l'ora, per avere programmi per l'impiego volti a sconfiggere la disoccupazione strutturale, per realizzare un'assistenza sanitaria basata su un unico ente pagatore, per l'istruzione universitaria gratuita, per il rinnovamento delle nostre città, per la ricostruzione delle infrastrutture e la creazione di milioni di posti di lavoro, per una riforma equa e umana di un sistema giudiziario ormai deviato e razzista, per una vasta riforma delle politiche sull'immigrazione e per aprire la strada alla cittadinanza.

Oggi, gli americani sono per lo più «outsider», specie nelle stanze del potere, dove vengono prese le decisioni sulla nostra economia. E noi resteremo tali, almeno finché l'equilibrio politico giocherà a sfavore della stragrande maggioranza degli americani, e finché lo stato delle cose sarà caratterizzato da disuguaglianza e ingiustizia. Ci vorrà tutta l'energia dei grandi movimenti di questa nuova epoca per apportare il necessario cambiamento. Questi movimenti hanno preso le mosse dall'esterno, ma persino adesso stanno cominciando a essere ascoltati dall'interno, e stanno cambiando la nostra politica, le nostre leggi. Stanno cambiando l'America. Le città e gli Stati stanno aumentando i salari; stanno iniziando ad affrontare le disparità razziali nelle operazioni di polizia e le politiche che hanno portato all'incarcerazione di massa. Stanno chiedendo un emendamento alla Costituzione che abbatterà Citizens United per ripristinare elezioni libere e giuste. In America sta succedendo qualcosa, qualcosa che ha il sapore di una rivoluzione politica. Io sono stato un outsider alla Camera. Sono stato un outsider al Senato. Adesso sono candidato alla presidenza. Credo che questa rivoluzione politica potrebbe portare un outsider alla Casa Bianca e che, insieme, possiamo ricostruire la politica e il governo di questo paese, affinché nessuno sia più un outsider.

Penso di poter essere serio e ottimista. Credo che possiamo riconoscere le enormi probabilità a nostro sfavore e creare coalizioni per vincere contro ogni pronostico.

Il punto di partenza non è una strategia politica, ma un senso di necessità condiviso, e la consapevolezza che dobbiamo agire. Credo che gli americani, sfiniti dalla disoccupazione e dalla stagnazione salariale, arrabbiati per la disuguaglianza e l'ingiustizia, siano arrivati a capirlo. Sento gli americani dire a gran voce e senza mezzi termini: quel che è troppo, è troppo. Questa grande nazione e il suo governo appartengono al popolo, a tutto il popolo, e non solo a un manipolo di miliardari, ai loro potenti comitati di azione politica e ai loro lobbisti.

Viviamo nella nazione più ricca della storia mondiale, ma questo significa poco, perché quasi tutta la ricchezza è nelle mani di pochissimi individui. C'è qualcosa di profondamente sbagliato nel fatto che un decimo dell'un per cento della popolazione detenga ricchezze quasi pari a quelle del restante 90 per cento dei cittadini, e nel fatto che il 99 per cento dei redditi nuovi finisca nelle tasche dell'un per cento al vertice. C'è qualcosa di profondamente sbagliato nel fatto che una famiglia vanti ricchezze superiori a quelle di 130 milioni di americani poveri. Questo tipo di economia immorale e insostenibile non è ciò che dovrebbe essere l'America. Tutto questo deve cambiare e, insieme, lo cambieremo.

Il cambiamento inizia quando diciamo ai miliardari: «Non potete avere tutto. Non potete ottenere immensi sgravi fiscali, quando in questo paese ci sono bambini affamati. Non potete continuare a delocalizzare i nostri posti di lavoro in Cina, mentre qui ci sono milioni di disoccupati. Non potete nascondere i vostri profitti alle Cayman o in altri paradisi fiscali, quando in ogni angolo della nazione ci sono esigenze insoddisfatte. Questa avidità deve finire. Non potete prendervi tutti i vantaggi dell'America, se rifiutate le vostre responsabilità in quanto americani».

Quando diciamo «Quel che è troppo, è troppo», stiamo chiedendo una nazione e un futuro che soddisfino i bisogni della stragrande maggioranza degli americani: una nazione e un futuro in cui sia difficile comprare le elezioni e facile votare; una nazione e un futuro in cui il gettito fiscale sia investito in posti di lavoro e infrastrutture, anziché in carceri; una nazione e un futuro in cui la forza-lavoro sia adeguatamente formata e tutti, bambini e adulti, abbiano a disposizione la più ampia gamma di scelte possibile; una nazione e un futuro dove facciamo i passi necessari per mettere fine al razzismo sistemico; una nazione e un futuro in cui siamo certi – una volta per tutte – che chiunque lavori quaranta ore la settimana non sarà mai povero.

Adesso non è il momento di pensare in piccolo. Non possiamo accontentarci della vecchia politica e fermarci alle idee ormai consolidate a Washington. Non possiamo permettere ai miliardari di usare il loro denaro e i loro mezzi di comunicazione per dividerci. Adesso è il momento che milioni di famiglie — bianchi e neri, latinos e nativi americani, gay ed etero — si uniscano, diano nuova vita alla democrazia americana, mettano fine al collasso della classe media americana e facciano in modo che i nostri figli e i nostri nipoti possano godere una qualità della vita che dia loro salute, prosperità, sicurezza e gioia. Tutto questo farà nuovamente dell'America il paese leader mondiale nella lotta per la giustizia economica e sociale, per la salute dell'ambiente e per la pace nel mondo.

Adesso tocca a noi fare dell'America la nazione che la stragrande maggioranza dei suoi cittadini vuole che sia. Per cambiare servirà una rivoluzione politica. Le esperienze che racconto in questo libro, però, mi hanno insegnato che le rivoluzioni politiche sono possibili. Le rivoluzioni politiche non sono fatte dai miliardari o da quanti si muovono nei corridoi del potere: sono fatte dagli operai che vedono minacciati i loro posti di lavoro, dagli studenti schiacciati dai debiti, dai pensionati con un reddito fisso, dagli outsider che capiscono che quando è troppo, è troppo, e che si devono organizzare, protestare e votare per qualcosa di meglio. Se siamo uniti non c'è niente, niente, niente che non possiamo realizzare.

Bernie Sanders, Settembre 2015

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Capitolo 8
DOVE ANDIAMO DA QUI?



7 gennaio 1997. Presto giuramento per il mio quarto mandato come rappresentante del Vermont. Sono ancora l'unico indipendente del Congresso, sono ancora un outsider alla Camera. C'è molto da fare e un indipendente non ha un percorso prestabilito da seguire.

Dopo tre mandati al Congresso, però, so qual è il mio lavoro. Il Vermont è piccolo e ha un solo deputato: me. Come tutti i colleghi, il mio primo dovere è quello di rappresentare il mio Stato. Quindi mi occuperò delle esigenze e delle preoccupazioni del Vermont e dei vermontiani che mi hanno eletto. Lotterò per ottenere tutto quello cui ha diritto il mio Stato.

Eppure ho una seconda responsabilità. Devo continuare a difendere i diritti di tutti i lavoratori quando i problemi che li riguardano vengono presentati al Congresso. Devo continuare a rappresentare le esigenze della grande maggioranza degli americani: operai, classe media, poveri, anziani, bambini. Tutti gli americani hanno il diritto di vivere una vita decorosa e dignitosa, e io non abbandonerò questa lotta.

[...]

Esaminiamo con calma alcuni dei maggiori problemi dell'America.


Mentre i ricchi diventano più ricchi, quasi tutti gli altri diventano più poveri; lo standard di vita di gran parte degli americani è in declino; la democrazia è in crisi e l'oligarchia incombe; quello che sappiamo è determinato dai media più importanti; il nostro sistema di assistenza sanitaria è in rovina; il nostro sistema di istruzione è in crisi.

Il quadro è fosco. La distribuzione della ricchezza in America è la più iniqua del mondo industrializzato. La classe media è in contrazione, la classe operaia a stento sbarca il lunario e i poveri affondano sempre più nell'indigenza. Le nostre istituzioni democratiche sono in pericolo al punto che un osservatore acuto potrebbe concludere che non viviamo in una democrazia, ma in un'oligarchia. I media, che instillano e forgiano la nostra percezione dei problemi sociali, sono di proprietà di un minuscolo gruppo di grandi aziende potenti che hanno particolari interessi, pesantemente protetti. Milioni di americani sono privi di assicurazione, e la qualità dell'assistenza sanitaria è notevolmente calata negli ultimi anni. Il nostro sistema democratico di istruzione, che un tempo era la via per l'uguaglianza economica e politica, spesso non fornisce ai bambini neppure capacità rudimentali, e potrebbe essere smantellato ben presto.

[...]

Nessuna nazione industrializzata ha un divario fra ricchi e poveri grande quanto quello degli Stati Uniti.

L'uno per cento degli americani più ricchi detiene ora il 42 per cento della ricchezza della nazione, una percentuale che nel 1976 era pari al 19 per cento. Quell'uno per cento al vertice possiede più del 90 per cento di quelli che sono in basso. Fra il 1983 e il 1989, il 62 per cento dell'incremento di ricchezza del nostro paese è andato a quell'uno per cento, mentre il restante 99 per cento al venti per cento dei più ricchi. Gli amministratori delegati delle grandi aziende americane adesso guadagna 170 volte più dei loro dipendenti, e si tratta del divario più ampio fra le grandi nazioni. Nel 1982, negli Stati Uniti c'erano dodici miliardari, oggi sono 135.

Nel frattempo, negli ultimi vent'anni l' 80 per cento di tutte le famiglie americane hanno visto declinare o ristagnare il proprio reddito.

[...]

Invertire queste tendenze, oscene e terrificanti, non è difficile quanto affermano gli esperti. La soluzione comporta, fra l'altro, parlare di imposte. Vi siete mai chiesti come mai la prima dichiarazione di qualsiasi repubblicano è sempre «Niente nuove tasse»? Perché una politica tributaria progressiva è il sistema più efficace e potente per garantire un distribuzione più corretta del reddito. I repubblicani, e molti democratici, non sono favorevoli all'equa distribuzione della ricchezza anche se, come è ovvio, non dichiarano mai apertamente di favorire la disuguaglianza. Ripetono semplicemente il loro mantra: «Niente nuove tasse».

Per cominciare a invertire la crescente disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, possiamo abrogare gli sgravi fiscali concessi ai ricchi negli ultimi vent'anni. Dal 1971 al 1981 il costo combinato della Sicurezza sociale e dell'imposta sul reddito per le famiglie a reddito medio è schizzato verso l'alto del 329 per cento, mentre la somma delle imposte sul reddito di singoli e famiglie con introiti per oltre un milione di dollari è sceso del 34 per cento. Reagan, con il sostegno di un Congresso democratico, ha tagliato l'aliquota più alta dell'imposta federale per gli americani più ricchi dal 70 al 28 per cento. Nel frattempo Carter e Reagan hanno sostanzialmente aumentato l'imposta regressiva della Sicurezza sociale per gli americani che lavorano.

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Come mai la grande maggioranza degli americani non elegge un governo che si occupi dei loro interessi e si batta per una più corretta distribuzione della ricchezza? Possiamo rispondere a questa domanda solo se guardiamo direttamente in faccia la sgradevole verità. E la verità è che, in questo momento, il tessuto della democrazia americana è estremamente fragile e che il governo americano, così come è attualmente costituito, non rappresenta gli interessi dei normali cittadini.

Anche se i media delle grandi aziende non ne discutono troppo spesso, i fatti sono chiari. Alle presidenziali del 1996 ha votato meno della metà degli aventi diritto. Due anni prima, quando era stato eletto il Congresso dominato da Gingrich, aveva votato solo il 38 per cento degli americani. Queste percentuali vanno raffrontate con una partecipazione superiore al 70 per cento in gran parte degli altri paesi industrializzati. In Sudafrica milioni di cittadini neri hanno atteso pazientemente in fila, alcuni anche per tre giorni, per esercitare per la prima volta il diritto di voto. Nel complesso le percentuali di affluenza alle urne raccontano solo una parte della storia. Fra i poveri il voto non esiste o quasi. Nei diversi gruppi di età, la percentuale di votanti più bassa si ha fra i giovani. Il cinismo pubblico riguardo al processo democratico non è mai stato così alto e la convinzione dei singoli sulla possibilità di un cambiamento democratico non è mai stata più minacciata.

Questi dati cosa ci dicono rispetto allo stato di salute della democrazia? Oggi l'America corre il rischio di diventare un'oligarchia.

L'oligarchia è una forma di governo nella quale il potere è nelle mani di un ristretto gruppo di persone. Sembra chiaro che il futuro della nostra nazione sia determinato da un gruppo sempre più sparuto. I poveri vengono privati del diritto di voto, non per legge, ma nei fatti. I giovani pensano che votare abbia poco a che vedere con loro o le loro speranze. I cittadini normali hanno deciso che il processo politico probabilmente tradirà le loro aspettative, quindi i votanti sono sempre meno.

Alle recenti elezioni il concetto «una persona, un voto» è stato soppiantato dall'influenza delle grandi ricchezze. Più soldi hai, più potere hai. Alcuni cittadini partecipano distribuendo centinaia di migliaia di dollari a politici e partiti di loro scelta. La maggioranza dei cittadini non dà contributi e non vota. Per parafrasare Orwell, alcuni cittadini sono chiaramente molto più uguali degli altri.

Θ nell'interesse di chi possiede grandi ricchezze e un immenso potere aziendale indebolire la democrazia. Meno potere ha la gente, meno viene controllato chi già controlla l'economia americana e le sue risorse. Più si crede che la partecipazione al processo politico non faccia una vera differenza, più è probabile che le persone perdano la speranza di poter mai avere una società giusta e uno standard di vita decente.

Ma non interpretiamo male: i ricchi, e i loro rappresentanti politici, si stanno dando molto da fare perché la gente resti lontana dai seggi elettorali. E si sono opposti vivacemente a una legislazione che avrebbe reso più facile il voto. Hanno corrotto i finanziamenti alle campagne elettorali così che i cittadini hanno perso fiducia nel processo politico. Hanno trasformato in arte le campagne negative, con il risultato che un gran numero di elettori dimostra il disgusto per la politica di infimo ordine rifiutandosi di votare. Hanno dato il via allo smantellamento dei programmi sociali, cosicché i cittadini hanno sempre più la sensazione che il governo non possa far nulla, né lo farà, per andare incontro alle loro esigenze.

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Ridimensionamento, fuga dal lavoro e guerra ai lavoratori:
la corsa verso il fondo


Sono abbastanza vecchio da ricordare la presidenza di Lyndon Johnson, quando il governo dichiarò «guerra alla povertà». Negli anni più recenti i rappresentanti di entrambi i partiti l'hanno trasformata in una guerra ai poveri. E un fatto ancora più importante, anche se meno pubblicizzato, è che negli anni successivi all'elezione di Ronald Reagan, l'America delle grandi aziende ha dichiarato guerra ai lavoratori della nostra nazione.

[...]




Cosa serve per ricostituire la classe media e ridurre la povertà:
posti di lavoro con uno stipendio decente

So che non va di moda parlare di quello che il governo dovrebbe fare per i cittadini. Viviamo in un'epoca di «amore violento», di sopravvivenza del più forte, e si presume che ognuno di noi guardi solo a se stesso. Oggi gli apologeti dell'America delle grandi aziende ritengono che una politica industriale nazionale sia un anacronismo, anche se sono le stesse persone che non hanno mai dovuto affrontare a muso duro gli enormi sforzi del governo per assistere il «capitalismo del libero mercato» o decidere che il «libero commercio» è la nostra politica industriale. Non sentiamo le grandi aziende chiedere a gran voce un «intervento del governo» quando il Consiglio della Federal Reserve prende decisioni che portano all'aumento della disoccupazione. Mentre si assiste alla corsa ai tagli del welfare per i poveri, il welfare aziendale viene accanitamente difeso dalle persone più ricche d'America. A quanto pare noi abbiamo il socialismo per i ricchi e un rozzo individualismo per i poveri.

Francamente, gran parte della nostra politica economica è una vergogna, studiata per beneficiare i pochi benestanti a spese del lavoratore medio. Abbiamo i «premi per i licenziamenti» nell'industria della difesa, sgravi fiscali per i ridimensionamenti e politiche commerciali come NAFTA, GATT e clausola della nazione più favorita con la Cina che facilitano alle aziende lo spostamento all'estero dei posti di lavoro.

Θ arrivato il momento di sviluppare un programma economico che funzioni per la gente comune, che ricostruisca la classe media e le permetta di crescere in numero. Non vedo perché, nella nazione più ricca del mondo, ogni americano non debba avere un lavoro che gli permetta di vivere decorosamente. E questo governo può fare molto perché tutto ciò avvenga.

In primo luogo, íl governo può dare ancora una volta le stesse opportunità a capitale e lavoro. Grazie principalmente ai sindacati americani abbiamo la giornata lavorativa di otto ore, la settimana lavorativa di cinque giorni, benefit sanitari e piani pensionistici forniti dal datore di lavoro, sicurezza sul lavoro e una legge sul lavoro minorile. Sono stati i sindacati a guidare gli sforzi per avere Medicare, Medicaid, case popolari e molti altri programmi dei quali oggi milioni di americani beneficiano. I sindacati forti sono stati il motivo per cui, vent'anni fa, i lavoratori americani erano i meglio trattati al mondo quanto a salari e benefit. E non è una coincidenza se oggi quegli stessi lavoratori si trovano al tredicesimo posto in classifica.

[...]




Assistenza sanitaria per tutti
attraverso un sistema con unico ente pagatore

Gli Stati Uniti sono l'unica nazione industrializzata, a parte il Sudafrica, priva di un sistema nazionale di assistenza sanitaria. In qualsiasi altra nazione sviluppata, l'assistenza sanitaria è un diritto e non un privilegio.

Dopo il fallimento della riforma del sistema sanitario di Clinton, siamo finiti in un sistema di assistenza sanitaria scomodo, dettato dal profitto, ostile ai consumatori e inefficiente, un sistema dominato dalle compagnie di assicurazione. E intendo proprio dire dominato.

La gestione delle cure pretende di essere efficiente. Questo perché apporta tagli all'assistenza sanitaria per molti di noi, e la raziona per gli altri. E un indice di quanto sia brutta la situazione è che il Congresso ha dovuto approvare una legge che permettesse a una madre di restare in ospedale per almeno ventiquattro ore dopo il parto. Le compagnie assicurative avevano deciso che, se il modello «mordi e fuggi» funzionava per le banche, doveva andare bene anche per le neomamme.

[...]




Θ in arrivo la crisi dell'istruzione

I conservatori sono brillanti. Sanno che in tutta l'America c'è scontento per il nostro sistema educativo. Anziché migliorare le scuole e incrementare le opportunità di istruzione, però, pensano di sfruttare quello scontento per smantellare ulteriormente la democrazia. Lo strumento per farlo si chiama «sistema dei voucher».

La destra vuole fornire ai genitori un voucher, una specie di assegno che attinge a fondi pubblici e che permette loro di acquistare l'istruzione di loro scelta. I genitori ricchi possono utilizzarlo per ridurre i costi delle preparatory schools; quelli religiosi possono mandare í figli alle scuole parrocchiali (con questo progetto viene abbandonata la separazione fra Chiesa e Stato). Nel frattempo le scuole pubbliche riceverebbero meno fondi (ovvero la cifra corrispondente ai fondi utilizzati per altre scuole). E, naturalmente, sono proprio le scuole pubbliche quelle dove verranno educati i figli dei poveri e dei lavoratori. Si restringeranno così i loro orizzonti educativi e si farà più marcata la loro alienazione dalla società americana.

La società non avrà più interesse che i giovani conoscano la storia americana, le nostre tradizioni di dissenso e tolleranza. La nostra istituzione più democratica — il luogo dove ricchi e poveri, bianchi e neri, nativi e immigrati venivano riuniti in progetto reciproco — cesserà di esistere.

E un risultato ancor più sinistro sarà che, una volta reciso il legame diretto fra governo ed educazione pubblica, sarà molto facile apportare tagli significativi al sostegno all'istruzione. Certo, se la destra riesce a sostenere tagli al welfare che aggiungeranno un altro milione di bambini al novero dei poveri, e tagli a Medicaid che negheranno l'assicurazione sanitaria a milioni di bambini a basso reddito, non c'è motivo di credere che siano molto lontani importanti tagli al supporto governativo alla pubblica istruzione.

[...]




Verso un futuro progressista e democratico

Quello che ho delineato qui è un programma di base per ricostruire la società americana. Ma c'è molto altro da fare.

In primo luogo, dobbiamo liberare il paese da ogni traccia di razzismo, sessismo e omofobia. Sono convinto che i cardini di questo sforzo siano dare un lavoro adeguato a tutti e un'istruzione migliore ai giovani. Troppo spesso i liberal credono che essere «contro» i pregiudizi sia sufficiente per portare a una società più giusta ed equa. Non è vero. Soltanto quando ogni uomo e ogni donna avranno un posto nella società americana — e con questo intendo un lavoro pagato decentemente — cominceremo a sradicare gli odi che nascono da gelosie e insicurezze. E soltanto quando ogni americano avrà sufficiente sicurezza economica per opporsi a insulti di ogni genere, tutti gli americani si saranno liberati del potere dei pregiudizi che li definiscono.

Dobbiamo vigilare sulla protezione del nostro ambiente. Dal punto di vista economico non ha alcun senso degradare il nostro suolo, l'aria e l'acqua nell'interesse di un rapido profitto per poi spendere miliardi fra dieci anni per rimediare al pasticcio che abbiamo fatto. Gli enormi costi che sostentiamo per ripulire le discariche tossiche esistenti rivelano come l'inquinamento sia soltanto un differimento dei costi.

Dal punto di vista della salute, il degrado ambientale ci fa ammalare più di un ambiente sano, e riduce la qualità della vita quotidiana. Un'efficace assistenza sanitaria comincia con la prevenzione, e conservare un ambiente vivibile è uno dei migliori investimenti che si possano fare nel campo della medicina.

Non che i comportamenti da attenti guardiani del nostro ambiente siano inefficienti, come affermano tanto spesso le grandi aziende. La salvaguardia dell'ambiente crea nuove industrie, nuovi posti di lavoro e nuove opportunità perché i lavoratori abbiano una vita decente. E fa in modo che le future generazioni non debbano sostenere i costi — in denaro e malattie — della nostra follia.

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Postfazione
OUTSIDER NELLA CORSA ALLA PRESIDENZA
di John Nichols



Bernie Sanders ha concluso Outsider in the House, l'edizione originale di questo libro del 1997, con un capitolo intitolato «Dove andiamo da qui?». E prendeva sul serio quel «noi», presentando il programma di un movimento che anticipava il messaggio che avrebbe portato nel Senato americano e, infine, nella politica presidenziale: «liberare il paese da ogni traccia di razzismo, sessismo e omofobia»; stabilire una «politica tributaria progressiva» per chiudere il divario, «osceno e terrificante» fra ricchi e poveri; garantire l'«assistenza sanitaria a tutti attraverso un sistema con unico ente pagatore»; mettere fine alle politiche commerciali di «corsa-verso-il-fondo» e agli attacchi ai lavoratori; «ricostruire l'America» con massicci investimenti nelle comunità e nelle scuole e creando posti di lavoro; cominciare ad «affrontare in modo diretto il problema del controllo dei media; e stimolare radicali riforme «per fare in modo che siano i voti, e non il denaro, a determinare la linea dei nostri leader». Quanto a se stesso, però, Sanders ha scritto semplicemente: «C'è molto da fare, e un indipendente non ha un percorso prestabilito da seguire».

Sanders aveva capito di essere in buona posizione per restare alla Camera dei Rappresentanti. Dopo le elezioni del 1996, che lui e Gutman hanno narrato in questo libro, da deputato avrebbe vinto tutte le elezioni successive con oltre il 60 per cento dei voti, e avrebbe alla fine superato il 70 per cento. Alla Camera, però, era uno dei 435 membri di un'aula che tende a neutralizzare anche i deputati più radicali. Erano già stati eletti alla Camera dei socialisti democratici, membri del Partito socialista come Victor Berger di Milwaukee e Meyer London della Lower East Side di New York negli anni Dieci e Venti, alleati dei Socialisti democratici d'America come il californiano Ron Dellums negli anni Settanta e Ottanta. Ma nessuno di loro aveva mai compiuto il salto verso il Senato degli Stati Uniti, per non parlare delle primarie e dei caucus presidenziali. Sanders aveva ragione: non esistevano precedenti storici di membri indipendenti del Congresso ai quali fare riferimento, non esisteva un percorso prestabilito da seguire.

[...]

Nel 2005, trascorrere qualche giorno con Bernie Sanders nelle cittadine del Vermont equivaleva a iscriversi a un seminario sulle lotte della vita reale degli americani che lavorano, come si poteva notare dai problemi che variavano dalla protezione di Sicurezza sociale, Medicare e Medicaid, alla tutela delle pensioni, all'ampliamento dell'accesso all'assistenza sanitaria, all'abbassamento dei prezzi dei farmaci, all'innalzamento del salario minimo, ai contributi all'avviamento di piccole aziende e al lasciare i fattori sulla loro terra. Le conversazioni erano un misto di aneddoti personali e politica riformista, e il candidato le portava sempre verso un dibattito sui pericoli del potere delle grandi aziende e delle lobby, o sull'assoluta necessità che poveri e lavoratori si unissero per contrastare il potere del denaro con quello della gente. A dire il vero, Sanders accettava domande sui problemi del momento, come la guerra in corso in Iraq («Quando il Presidente e il vicepresidente ci dicevano che l'Iraq aveva armi di distruzione di massa, non sono riusciti a convincermi. Ecco perché non solo ho votato contro la guerra, ma ho contribuito a guidare l'opposizione»). Ma anche allora riportava il discorso sull'economia, e su cosa si sarebbe potuto fare per l'America se le risorse non fossero state sperperate in un avventurismo militare. Sanders non evitava nemmeno quelli che spesso sono considerati problemi «scottanti»: anzi, era più esplicito e preciso di gran parte dei candidati nelle sue dichiarazioni a sostegno del diritto di scelta della donna, dei diritti LGBT, di un certo controllo delle armi (maggiore di quello auspicato dalla NRA ma, per la costante frustrazione di molti liberal, minore di quello proposto dalla campagna Brady per prevenire la violenza delle armi). Ma i problemi sui quali tornava sempre, quelli sui quali si soffermava con chiunque incontrasse, erano le preoccupazioni di economia domestica dei lavoratori vermontiani.

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Rifiutare il consenso di Wall Street



Si dà il caso che i democratici non abbiano sentito allora una particolare esigenza di prestare attenzione alla gente. Sanders è arrivato in Senato nel gennaio 2007, quando i democratici avevano ripreso il controllo di Camera e Senato. Nel 2008, il partito avrebbe ampliato quelle maggioranze ed eletto un presidente. I democratici andavano a gonfie vele e, pur accettando Sanders come membro del loro caucus al Senato da indipendente-ma-allineato, i leader del partito non erano inclini ad abbracciare il populismo economico che era il fulcro del fascino del vermontiano. Un fatto che divenne evidente nel settembre 2008, quando il crollo di Wall Street impose provvedimenti urgenti per finanziare il salvataggio delle istituzioni finanziarie che avevano provocato la crisi. Questa era arrivata nel bel mezzo di una campagna elettorale, eppure democratici e repubblicani unirono le forze per sostenere il salvataggio. Alla Camera, Nancy Pelosi e Paul Ryan fecero causa comune. Al Senato, il candidato democratico alla presidenza Barack Obama votò sì, come il candidato repubblicano alla presidenza John McCain. E altrettanto fecero il leader democratico Harry Reid e il leader repubblicano Mitch McConnell.

Sanders, tuttavia, obiettò. E alzando la voce.

«Se è necessario un salvataggio, se il denaro dei contribuenti deve essere messo a rischio, se andremo in soccorso di Wall Street, dovrebbero farlo le persone che hanno causato il problema, le persone che hanno beneficiato degli sgravi fiscali del presidente Bush per milionari e miliardari, le persone che hanno tratto vantaggio dalla deregulation: loro dovrebbero pagare il conto, non le persone normali che lavorano», ruggì mentre annunciava che avrebbe votato «no» al piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari.

Quel discorso di fuoco che Sanders tenne nell'aula del Senato il 1° ottobre 2008 diede idea di come sarebbe stato il suo mandato. Mentre gli altri si allinearono, lui si chiamò fuori, rifiutando di accettare un consenso che, a suo dire, trascurava i veri problemi economici che l'America doveva affrontare.

Toccando temi che sarebbero diventati il suo mantra, Sanders affermò:

Oggi, nel nostro paese, esiste la distribuzione più iniqua di reddito e ricchezza di qualsiasi grande nazione del globo, una distribuzione dove l'un per cento che sta in alto guadagna più del 50 per cento che sta in basso, e quell'un per cento possiede più ricchezza del 90 per cento in basso. Viviamo in un'epoca che ha visto un massiccio trasferimento di ricchezza dalla classe media alle persone ricchissime di questo paese dove, fra gli altri, gli amministratori delegati delle aziende di Wall Street ricevevano bonus per cifre incredibili e, fra questi, 39 miliardi di dollari in bonus per il solo 2007 unicamente nelle cinque grandi società di investimenti. Abbiamo visto l'incredibile avidità del settore dei servizi finanziari manifestarsi nelle centinaia di milioni di dollari che hanno speso in contributi per le campagne elettorali e i lobbysti in modo da liberalizzare il loro settore e far prosperare í fondi di investimento speculativi e altre società finanziarie non regolamentate. Li abbiamo visti giocare con migliaia e migliaia di miliardi di dollari in strumenti finanziari esoterici, in settori deregolamentati che solo un pugno di persone arriva appena a comprendere. Abbiamo visto il settore dei servizi finanziari caricare tassi di interesse del 30 per cento per prestiti sulle carte di credito e aggiungere ai clienti ignari competenze e altri costi vergognosamente alti. Lí abbiamo visti impegnati in pratiche di prestito spregevolmente predatorie che sfruttavano le persone vulnerabili e ignoranti. Li abbiamo visti spedire miliardi di solleciti ingannevoli a quasi tutti gli indirizzi d'America.

Ma la cosa più importante è che abbiamo visto il settore dei servizi finanziari attirare persone in mutui ipotecari che non si potevano permettere di pagare, ed è questo uno dei motivi principali per cui noi siamo qui adesso.

Nel bel mezzo di tutto questo, abbiamo un pacchetto di salvataggio che chiede alla classe media di mettere a rischio 700 miliardi di dollari, vale a dire 2200 dollari per ogni uomo, donna e bambino di questo paese. E vi si chiede di fare questo per rimediare al danno provocato dall'eccessiva avidità di Wall Street. In altre parole i «Padroni dell'Universo», quelle persone brillanti e ben introdotte a Wall Street, che hanno guadagnato più soldi di quanto l'americano medio possa mai sognare, hanno portato il nostro sistema finanziario sull'orlo del collasso. Ora, mentre il sistema finanziario americano e quelli mondiali vacillano sulla soglia del crollo, quei multimiliardari chiedono che la classe media, che ha già sofferto per la disastrosa politica economica di Bush, raccolga i cocci che loro hanno rotto. Questo è sbagliato, e io non darò il mio appoggio.


Sanders affermava che non solo il sistema economico si era spezzato, ma che si era spezzato l'intero sistema politico, corrotto dal netto rifiuto della Washington ufficiale di sfidare le élite economiche anche in un momento di crisi.

«Con questo disegno di legge, gli amministratori delegati e i ben introdotti a Wall Street continueranno ancora, con un pizzico di immaginazione, a cavarsela come banditi», tuonò Sanders. «Questo disegno di legge non affronta affatto anzitutto il perché ci ritroviamo in questa crisi né la necessità di smantellare la corsa alla deregulation che ha creato migliaia di miliardi di dollari in strumenti finanziari complessi e privi di regolamentazione come gli swap che trasferiscono il rischio di credito e i fondi speculativi», proseguì il senatore. «Questo disegno di legge non affronta il problema che ci ha portati dove siamo oggi, il concetto del "troppo grande per fallire...". In questa legge non si trova una sola parola sul problema del "troppo grande per fallire", e questo in un momento in cui quel problema di fatto sta aggravandosi».

Poi fece i nomi.

«Questo disegno di legge non di occupa dell'assurdità che sia una volpe a custodire il pollaio», disse Sanders. «Sarò forse l'unico in America a pensarla così, ma ho faticato a capire come mai stiamo dando 700 miliardi di dollari al segretario del Tesoro, ex amministratore delegato di Goldman Sachs, che, insieme ad altre istituzioni finanziarie, ci ha cacciato di fatto in questo problema. Ora, forse sarò l'unica persona in America che crede che sia un po' strano, ma è esattamente quello che penso».

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Una rivoluzione politica



Sanders disse come «i grandi capitali possono destinare cifre incredibili per la pubblicità in radio e in televisione per distrarre l'attenzione dai problemi reali del popolo americano». Il concetto di distrarre l'attenzione non sfuggì a Bill Moyers, che era stato su entrambe le barricate della politica e dei media, come addetto stampa della Casa Bianca nell'amministrazione di Lyndon Johnson, come editore di un quotidiano e come stimato giornalista televisivo.

«Questo è interessante» disse Moyers, «Sa, l'ho vista di recente in televisione. Sempre la stessa domanda, e sempre gli stessi cinque titoli sui giornali. Qual è la storia che i media delle grandi aziende non le fanno raccontare?»

«Oddio. Vede, questo è il problema» rispose Sanders. «Intendo dire che sono stato ospite milioni di volte di quelle trasmissioni. Dicono: "Ecco la storia del giorno. Che ne pensa dei Servizi segreti? Cosa pensa di questo? Cosa pensa di Ebola?" Sono tutti problemi importanti. Ma i problemi delle persone normali? Chiedono perché, malgrado la produttività, la gente lavora di più per uno stipendio più basso. Ne abbiamo già discusso, Bill? Hai mai sentito qualcuno che ne parla?».

E il membro indipendente del Congresso da più tempo al servizio della nazione aveva appena cominciato.

«E questo problema della disuguaglianza del reddito e della ricchezza, cavolo: in America l'uno per cento possiede il 37 per cento della ricchezza, mentre il 60 per cento che sta in basso possiede solo l'1,7 per cento. Una famiglia, la famiglia Walton di Walmart, possiede di più del 40 per cento che sta in basso», disse. «Pensa che dovremmo parlare di questo problema? Impossibile trasmettere il discorso in televisione».

Poi arrivò lo scambio fondamentale.

«Perché?» chiese Moyers.

«Perché la società che possiede i network non ha interesse a educare il popolo americano in modo da poter discutere dei problemi veri. Molto meglio distogliere l'attenzione dai problemi e occuparsi della storia del giorno», spiegò Sanders. Moyers insistette con Sanders per sapere quali fossero le soluzioni a quella che definiva «la domanda fondamentale che deve affrontare Bernie Sanders: come riesce a far pervenire direttamente il suo messaggio a chi ne ha più bisogno?» Il che implicava il riconoscimento che, malgrado tutti i suoi sforzi nel Campidoglio e in tutto il paese, malgrado il suo successo elettorale in Vermont, Sanders non aveva esattamente ostacolato le forze della plutocrazia. Gran parte degli obiettivi che aveva messo in evidenza nell'ultimo capitolo di Un outsider alla Casa Bianca restavano irrealizzati, alcuni persino più lontani del 1997 dall'essere raggiunti.

«Vorrei avere una risposta magica», replicò Sanders, «Mi sta facendo la domanda corretta... Mi fa impazzire l'idea che ci siano lavoratori che votano per candidati che rifiutano di aumentare il salario minimo, che rifiutano di fornire assistenza sanitaria ai loro figli, che vogliono mandare il lavoro in Cina, che vogliono dare sgravi fiscali alle grandi aziende. Ed è questo il problema che dobbiamo capire».

[...]

La cosa strana è che, in questo periodo e dopo l'annuncio della candidatura, Sanders non è stato animato tanto da un progetto specifico, quanto da un atto di fede. Sì, ovviamente le possibilità che un socialista democratico ultrasettantenne, proveniente da uno degli Stati più piccoli della nazione, possa vincere la nomination di un partito nel quale ha sempre rifiutato di entrare, per non dire la presidenza, erano molto scarse. Ma altrettanto scarse, così ha suggerito, erano quelle contro gli americani che lavorano in un'economia globale definita da accordi di «libero scambio» che puntano verso il basso; quelle contro i giovani afroamericani dei quartieri urbani deindustrializzati e abbandonati, dove il tasso di disoccupazione sfida quello della Grande depressione; quelle contro il pianeta se non si fosse affrontato subito il problema del cambiamento climatico. Era troppo facile, affermava, sentirsi sopraffatti. Serviva un senso di quello che il grande scrittore Michael Harrington definiva «l'ala sinistra del possibile». Rinunciando al classico programma da candidato, che elenca quello che farebbe, Sanders ha parlato di quello che tutti dovrebbero fare per «riunire quel genere di coalizione che possa vincere, che possa trasformare la politica. Dobbiamo mettere insieme sindacalisti e famiglie di lavoratori, le comunità delle minoranze, ambientalisti, giovani, le comunità delle donne, quelle dei gay, degli anziani e dei veterani, insomma delle persone che, di fatto, costituiscono la grande maggioranza della popolazione americana. Dobbiamo creare un programma progressista e mobilitare le persone intorno a quel programma».

Per realizzare tutto questo, suggeriva Sanders, l'America non aveva bisogno di una campagna politica, ma di una «rivoluzione politica».

«Quando parlo di una rivoluzione politica, mi riferisco all'esigenza di fare qualcosa di più che vincere le prossime elezioni. Significa creare una situazione nella quale coinvolgere milioni di persone in un processo nel quale attualmente non sono coinvolte, modificare la natura dei media in modo che parlino dei problemi che riflettono le esigenze e i dolori che prova gran parte della nostra gente», così il senatore ha commentato la sua corsa alla presidenza. «Una campagna deve essere ben più della raccolta dei voti e dell'elezione. Deve contribuire all'istruzione delle persone, alla loro organizzazione. Se riusciamo a farlo, possiamo cambiare le dinamiche della politica per anni e anni a venire. Se l'80 o il 90 per cento delle persone di questo paese votasse, se sapessero quali sono i problemi (e facessero domande basate sulla conoscenza), Washington e il Congresso avrebbero un aspetto ben diverso dell'attuale Congresso, dominato dai grandi interessi economici, che affronta soltanto problemi suggeriti proprio dai grandi interessi economici».

Potrà forse sembrare un concetto romantico, e forse lo è. Ma la politica, quando è al suo meglio, è ben più di un freddo calcolo. Significa credere in un'«ala sinistra del possibile». Quello che distingue Bernie Sanders, tuttavia, è che una parte di questi concetti romantici ha successo. Per esempio, il discorso della «rivoluzione politica» non è nuovo. In Outsider in the House, Sanders scriveva che la rivoluzione politica non è una possibilità, ma qualcosa che è già avvenuto. «A Burlington è avvenuta una rivoluzione politica», spiegava. «La gente si era espressa, in modo forte e chiaro. Con una percentuale molto alta di votanti, i cittadini di Burlington hanno informato democratici e repubblicani di volere un cambiamento, un vero cambiamento. I progressisti si erano messi in moto».

Bernie Sanders sa qualcosa che i politici più cauti non capiranno mai. Qualche volta gli outsider vincono. Qualche volta l'ala sinistra del possibile diventa semplicemente possibile. Qualche volta avviene una rivoluzione: nelle città, negli Stati e persino nelle nazioni.

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DA OCCUPY WALL STREET A BERNIE SANDERS
di Carlo Formenti



Bernie Sanders è un populista? Sicuramente si autodefinisce tale (in più occasioni ha dichiarato «sono socialista e populista»). Rivendicazione che suona male alle orecchie di una sinistra europea che, pur se simpatizza per lui, è abituata ad associare il populismo ai movimenti nazionalisti e xenofobi di casa propria (nemmeno l'esordio sullo scenario europeo di movimenti come Podemos è riuscito a scalzare del tutto tale pregiudizio). E ancor più suona male sulle pagine dei big media americani, i quali, unanimemente schierati con i candidati «ufficiali» dei due grandi partiti tradizionali, Democratici e Repubblicani, associano Sanders a Donald Trump – l'uomo che sfida l'establishment repubblicano come Sanders sfida quello democratico – considerando entrambi espressione di un fenomeno politico che, soprattutto se uno di loro dovesse vincere la corsa presidenziale, minaccia di sovvertire gli equilibri della società, dell'economia e del sistema politico americani. Ma Sanders e Trump si somigliano davvero (politicamente parlando, visto che, in quanto individui, non potrebbero essere più diversi)? E ancora: il populismo rappresenta davvero una minaccia per la democrazia? Proviamo ad abbozzare qualche risposta a partire dal secondo interrogativo.

Il filosofo franco-argentino Ernesto Laclau sostiene che, perché si diano le condizioni di una rottura populista, un sistema democratico non deve più essere in grado di soddisfare le domande che gli arrivano dai vari settori della società, inoltre deve attraversare una radicale crisi di legittimazione, al punto che i cittadini non nutrano più fiducia nei confronti di partiti e istituzioni, della loro capacità di rappresentarne gli interessi e appagarne bisogni ed esigenze. Negli Stati Uniti queste condizioni sono oggi indubbiamene presenti: un Paese fino a poco fa considerato il più ricco del mondo e capace di garantire il benessere, se non la «felicità», ai propri abitanti appare oggi tormentato da un'impressionante serie di problemi: ha il più elevato tasso di ineguaglianza del mondo occidentale; milioni di posti di lavoro se ne sono andati durante la crisi, e quelli che stanno tornando con la ripresa sono di bassa qualità, precari e mal pagati; la lunghezza media della vita si è ridotta; aumentano mortalità infantile e suicidi; le carceri sono piene fino all'inverosimile (solo in Russia e in Cina la situazione è peggiore); le minoranze etniche — afroamericani in testa — continuano a essere oggetto di discriminazioni; la gente non crede più di poter cambiare le cose con il voto e quindi non partecipa più alla vita politica, perché pensa che fra Democratici e Repubblicani non vi sia alcuna sostanziale differenza, ed è convinta che la casta politica faccia solo gli interessi di quell'un per cento di super ricchi che prima ha causato la crisi, poi ne ha fatto pagare le conseguenze al 99 per cento; e l'elenco potrebbe continuare.

Sanders dunque non cade dal cielo. Certo, prima di partecipare alla corsa per la nomination democratica (senza rinnegare il suo status di indipendente), aveva già alle spalle una lunga carriera politica, quella che avete letto nelle pagine di questo libro: sindaco di Burlington, più volte eletto alla Camera dei Rappresentanti e infine senatore del piccolo Stato del Vermont. Certo, le sue imprese avevano già fatto notizia: un socialista che batte ripetutamente la concorrenza di Democratici e Repubblicani nel Paese più antisocialista della storia moderna! Ma il teatro di quelle gesta era la piccola comunità rurale del Vermont, un mondo relativamente chiuso, dove il suo stile «famigliare», il suo approccio diretto e onesto di persona affidabile che mantiene sempre la parola data in campagna elettorale, la sua capacità di raccogliere coalizioni arcobaleno fatte di brave persone più che di movimenti ideologici, gli avevano guadagnato la fiducia e il sostegno di tutti, senza distinzioni di parte. Ma il debutto sulla scena nazionale, l'entusiasmo delle folle accorse ad acclamarlo nelle piazze di tutto il Paese, l'adorazione dei giovani americani (si è calcolato che se votassero solo gli under quaranta vincerebbe a mani basse), lo strepitoso, improvviso quanto inatteso successo di un discorso «vecchio» che ripropone gli stessi temi da mezzo secolo («Bernie il noioso» lo chiamano), controcorrente rispetto a tutti dettami del pensiero unico neoliberista che egemonizza la cultura americana da decenni, sono tutt'altra cosa e si spiegano solo con la rabbia scatenata dalla situazione descritta qualche riga sopra, dal risentimento che milioni di cittadini provano nei confronti di una minoranza che li ha derubati del «sogno americano».

«We the 99%» recitava lo slogan dei giovani militanti del movimento Occupy Wall Street che qualche anno fa ha riempito le piazze delle grandi città, a partire dalla «Acampada» di fronte al tempio della finanza globale. Θ questo risentimento contro le élite dell'un per cento che ha contagiato la società americana, rendendola ricettiva nei confronti del programma politico «eretico» di Sanders: tagliare drasticamente le spese militari e aumentare le tasse sui ricchi, in modo tale da finanziare radicali politiche sociali: istruzione pubblica gratuita dall'asilo all'università (delizia alle orecchie dei giovani costretti a indebitarsi pesantemente per poter studiare); sistema sanitario pubblico e gratuito per tutti con un unico ente pagatore (miraggio per milioni di persone costrette a rinunciare a curarsi perché non possono permettersi costose assicurazioni private); salario minimo a 15 dollari (oggi sono molti coloro che lavorano per meno della metà); ricostruire le infrastrutture che cadono a pezzi (altre opportunità di lavoro e reddito decente); separare le banche di investimento dalle banche commerciali e ridimensionare quelle «troppo grandi per fallire»; riformare la FED, in modo che non possa più arruolare i propri membri fra quelle élite finanziarie che sarebbe suo compito controllare («come affidare alla volpe il compito di proteggere le galline» ironizza Sanders); limitare quei finanziamenti privati delle lobby ai candidati che hanno trasformato i partiti in comitati d'affari della casta dei super ricchi (della quale fanno parte la metà degli eletti alla Camera dei Rappresentanti e al Senato); riportare le persone comuni al voto, restituendogli la fiducia che le loro opinioni politiche possano davvero contare.

Socialismo? Forse, ma nulla di sovversivo, ove si consideri che si tratta di obiettivi già ampiamente realizzati dalle socialdemocrazie scandinave che Sanders assume a modello. Ma soprattutto nulla che possa spaventare le nuove generazioni nate dopo il — o pochi anni prima del — crollo del Muro, insensibili allo spauracchio dell'Impero del Male. Populismo? Sì, perché molte delle caratteristiche che i politologi attribuiscono a tale forma politica sono presenti nel fenomeno Sanders: impegno per abolire o almeno rendere più permeabile il confine che separa l'alto e il basso della società; esaltazione delle virtù delle persone comuni – i common people – contrapposte all'ingordigia e all'egoismo delle élite; mettere le esigenze della comunità davanti a quelle dei singoli individui; sfidare la democrazia sul suo stesso terreno, rivendicandone l'estensione all'intero corpo sociale; sanare il sistema politico, emarginando i corrotti ed evitando che ci sia chi può «comprarsi» una carica pubblica; scegliere leader che rispecchino le virtù delle persone comuni che intendono rappresentare, cioè dei «dilettanti» della politica che si votino a una missione e non smaliziati professionisti. Rivoluzione? Forse la parola è troppo grossa, anche se un Sanders alla Casa Bianca avrebbe certamente dato (il condizionale è d'obbligo, visto che mentre scrivo è sempre più chiaro che la schiacciante potenza della macchina democratica, e delle lobby che la sostengono, finiranno per regalare la candidatura alla donna dell' establishment, Hillary Clinton) una bella spallata a un sistema politico bloccato in un'alternanza incapace di generare reali alternative. La parola è invece del tutto giustificata se riferita al mutamento di rotta che il fenomeno Sanders potrebbe imprimere al campo mondiale – e non solo americano – della sinistra. Il che ci conduce al confronto con Donald Trump.

Ciò che accomuna Sanders a Trump è la forte concentrazione sui temi dell'economia, a partire dalla denuncia degli effetti devastanti della globalizzazione finanziaria e della liberalizzazione degli scambi commerciali sui lavoratori americani, che vedono i propri posti di lavoro volare via verso Paesi dove il costo del lavoro è più basso. Negli ultimi decenni, la propaganda della destra repubblicana ha potuto guadagnare posizioni rispetto alla «sinistra» democratica anche e soprattutto perché quest'ultima ha abbandonato al proprio destino le tute blu, per concentrarsi esclusivamente sui diritti civili della classe medio-alta. Ecco perché gli Stati che ospitano un'elevata percentuale di lavoratori bianchi impoveriti non appoggiano solo Sanders ma anche Trump. Un Trump che rappresenta una minaccia per l' establishment repubblicano, nella misura in cui cavalca temi anti-casta e anti-élite, prospetta misure protezionistiche e alimenta retoriche pauperiste, oltre a incarnare – al pari di Sanders – una figura di leader fuori dalle logiche delle caste politiche professionali. Dunque è vero che i due si somigliano? Assolutamente no. Per Sanders rimettere i temi dell'uguaglianza economica al primo posto non implica rinunciare alla lotta per i diritti civili, laddove Trump non manca di sbandierare le proprie idee razziste, sessiste e xenofobe. Sanders è d'accordo sulla necessità di rinegoziare o disdettare gli accordi per il libero commercio per difendere i posti di lavoro americani, ma ciò non lo induce ad assumere posizioni anti migranti né tantomeno a chiedere, come Trump, di costruire muri al confine con il Messico per bloccare le masse di «concorrenti» che risalgono dal Sud del continente. Insomma: Sanders e Trump pescano nella stessa rabbia popolare ma la indirizzano verso bersagli diversi: il primo verso l'alto, il secondo verso il basso (anche se ricorre a sua volta a retoriche «anti capitaliste»). Infine Sanders è un leader che incarna gli interessi e i sentimenti dei common people, laddove Trump rappresenta quelli degli ordinary people e del popolo-etnia: populismo di sinistra versus «gentismo» e razzismo.

In conclusione: la crisi mondiale e la feroce guerra di classe dall'alto scatenata dal neoliberismo cominciano a produrre reazioni dal basso sempre più forti, reazioni che in molte regioni del mondo tendono ad assumere la forma della rivolta populista. In tale contesto l'avventura politica di Sanders, quale ne sia l'esito, rappresenta (al pari delle rivoluzioni bolivariane in America Latina e dei nascenti populismi europei di sinistra) una lezione fondamentale per la sinistra internazionale: esiste un solo modo che le consentirebbe di tornare protagonista, che consiste nell'abbandonare le vecchie forme organizzative e i vecchi programmi di socialdemocrazie (convertite al liberismo) e micro partiti della sinistra radicale (abbarbicati a un passato irreversibilmente tramontato) e nell'attrezzarsi per contendere l'egemonia della rivolta populista alle nuove destre.

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