Autore Federico Sanguineti
Titolo Le parolacce di Dante Alighieri
EdizioneTempesta, Trevignano Romano, 2021, Filologia minima essenziale , pag. 98, cop.fle., dim. 14x21x0,8 cm , Isbn 978-88-85798-17-5
PrefazioneMoni Ovadia
LettoreGiovanna Bacci, 2021
Classe critica letteraria , storia letteraria , classici italiani , femminismo









 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Il Divin Poeta delle parolacce di Moni Ovadia       7


 1.  Chi mescola parole e parolacce                13

 2.  Le parolacce dalla Bibbia in poi              19

 3.  Le parolacce prima e dopo Dante               25

 4.  Le parole ridotte a parolacce                 31

 5.  Poema di parole e parolacce                   35

 6.  L'Inferno Egitto delle parolacce              39

 7.  Parolacce all'inizio del Poema                47

 8.  Parolacce maschili o femminili                51

 9.  Parolacce corrette da Beatrice                57

10.  Parolacce e parole per Cristina               65

11.  Le parolacce aggiunte dai copisti             73

12.  Parolacce cercate dai filologi                79

13.  Parolacce dantesche e non dantesche           85

14.  Parolacce apparenti nel Poema                 89


Poscritto dopo tante parolacce                     95


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

1.
Chi mescola parole e parolacce



Senza evocare la vexata quaestio relativa alla cosiddetta tenzone con Forese, l'idea di un libro intitolato Le parolacce di Dante Alighieri mi fu raccomandata da un compianto amico mio e non de la ventura, che - pensando al VII centenario della morte del Poeta - mi suggerì di scrivere un opuscolo divulgativo su questo aspetto del capolavoro: la presenza, più o meno esplicita, soprattutto nell' Inferno, di parole ignobili, oscene, sconce o, altrimenti detto, di un linguaggio opposto al dolce stile del volgare illustre, alla parola ornata di Virgilio o all'angelica, soave e piana, voce di Beatrice. Si pensi, quanto al lessico di registro basso e comico, anti-sublime e anti-tragico, a sostantivi e aggettivi, attestati nel canto XVIII dell' Inferno, come «sterco» (v. 113), «merda» (v. 116), «merdose» (v. 131) e «puttana» (v. 133). O a un verbo, nel XIX canto dell' Inferno, come «puttaneggiar» (v. 108).

Dove c'è «ontoso metro» (...), accade di tutto: ci si imbatte in un verso come «ed elli avea del cul fatto trombetta» () e persino si incontra chi le mani alza «con ambedue le fiche, / gridando: "Togli, Idio, ch'a te le squadro"» ().

Il Poema si rivela insomma la sede, non soltanto del sublime, della poesia e delle parole, ma anche, in particolare nella prima cantica, dell'anti-sublime, della contro-poesia e delle parolacce. Per dirla nei termini di Aulo Gellio nelle Noctes Atticae (), oltre che scrittore classico e impegnato («classicus adsiduusque aliquis scriptor»), Dante è proletario («proletarius»).

Ma, per cominciare, chi è il Poeta che mescola nel suo capolavoro parole e parolacce? Si sa che Dante ha l'ambizione di presentarsi:

~ come toscano di «nobil patria natio» (), vale a dire originario di Firenze;

~ come discendente della «sementa santa» () degli antichi Romani fondatori della città;

~ come «fiorentino» all'orecchio di un pisano ().

Inoltre:

~ come autore di una canzone commentata nel terzo trattato del Convivio, Amor che ne la mente mi ragiona (), ma ricordata anche nel De vulgari eloquentia () a fianco della consolatoria di Cino per la morte di Beatrice, Avegna ched el m 'aggia più per tempo, dove il Pistoiese non solo replica lo schema metrico del componimento centrale della Vita nova (), Donna pietosa e di novella etade ma, evocando i tre argomenti più nobili («tria nobilissima») nel trattato dantesco (), «Salute» (), «Virtute» () e «Amor» (), dà modo a chi legge di ascoltare - per la prima volta in assoluto - se non la voce della donna amata da Dante, almeno una qualche eco, facendole dire quanto segue: «Mentre ched io fui / nel mondo, ricevei onor da lui, / laudando me ne' suoi detti laudati» ();

~ come autore della canzone Donne ch'avete intelletto d'amore (), inserita nella Vita nova e citata due volte nel De vulgari eloquentia: la prima in quanto più che eccellente modello di stile sublime («tragica coniugatio»), in opposizione a comica «cantilena» (); la seconda dopo Donna me prega, essendo entrambe, sia quella di Cavalcanti che quella di Dante, canzoni di soli endecasillabi ();

~ come chi nella Vita nova fu tale «virtüalmente, ch'ogni abito destro / fatto averebbe in lui mirabil prova» ().

Infine:

~ come autore della canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete (), commentata nel secondo trattato del Convivio;

~ come colui il cui «sopranome» (oggi si direbbe cognome) deriva da una donna, Alighiera, moglie di Cacciaguida, nata in «vai di Pado» (), cioè in Val Padana;

~ come costretto, lasciando «ogni cosa diletta / più caramente», a liberarsi di ogni forma di proprietà privata, feudale o borghese, e a provare, a causa dell'«essilio», «sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale» (). Questa riduzione alla condizione di proletario, profetizzata nel Poema come destino, non fa che riassumere quanto si legge in apertura o quasi di Convivio (), dove l'espressione «in fino al colmo de la vita mia» è un endecasillabo che anticipa, almeno per il contenuto, l' incipit del Poema («Nel mezzo del cammin di nostra vita»):

Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno - nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato - per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m'aveano imaginato, nel conspetto de' quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare.


In breve, nel corso della sua esistenza, Dante acquista coscienza che la sua classe di origine, la «poca» o piccola «nobiltà di sangue» (), per quanto egli possa vantarsene, è un abito da dismettere, giacché, necessitando continuamente di rattoppi, non ha futuro ():

    Ben sè tu manto che tosto raccorce:
    sì che, se non s 'appon di dì in die,
    lo tempo va dintorno colle force.

Sono versi chiosati, come meglio non si potrebbe, nel Capitale di Karl Marx: «La struttura economica della società capitalistica è derivata dalla struttura economica della società feudale. La dissoluzione di questa ha liberato gli elementi di quella», per cui ne consegue che coloro che si trovano sciolti dalla servitù della gleba e dalla coercizione corporativa divengono «venditori di sé stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie offerte per la loro esistenza dalle antiche istituzioni feudali» ().

A chiarire le cose fino in fondo, occorre aggiungere che all'antagonismo fra nobiltà feudale e borghesia si accompagna quello generale fra sfruttatori e sfruttati, fra ricchi oziosi e lavoratori poveri, ragion per cui - si legge nell'Introduzione all' Anti-Dühring di Friedrich Engels - accade quanto segue:

[...] fin dalla sua origine la borghesia era affetta dall'antagonismo che le è proprio: non possono esserci capitalisti senza operai salariati, e nella stessa misura in cui il maestro della corporazione medievale evolveva nel borghese moderno, il garzone della corporazione e il giornaliero che non apparteneva a nessuna corporazione evolveva nel proletariato. E sebbene nel complesso la borghesia avesse il diritto di pretendere di rappresentare contemporaneamente, nella lotta contro la nobiltà, gli interessi delle diverse classi lavoratrici dell'epoca, pure, in ogni grande movimento borghese, scoppiavano dei moti autonomi di quella classe che era la precorritrice più o meno sviluppata del proletariato moderno.


A Firenze si ha infatti:

~ nel 1343, la prima organizzazione politica del proletariato in Corporazione d'arti e mestieri (o Parte) dei Tintori e dei Farsettai;

~ nel 1345 il primo sciopero generale organizzato da Ciuto Brandini;

~ il 20 luglio 1378 la prima rivoluzione proletaria della storia capeggiata da Michele di Lando, il cosiddetto «Tumulto dei Ciompi».


Riassumendo, nello svolgersi della vita di Dante, si possono individuare tre momenti:

~ il primo, nel quale il Poeta, esponente della piccola nobiltà fiorentina, fa riferimento al maggior rappresentante culturale dell'aristocrazia di Firenze, il magnate Guido Cavalcanti, primo dei suoi amici (è il periodo in cui nascono i componimenti che costituiscono la Vita nova);

~ il secondo, in cui, dopo la disfatta a Firenze dell'aristocrazia magnatizia e la vittoria della borghesia, i cosiddetti «Ordinamenti di Giustizia» (1293), il Poeta, assunta durante il priorato (1300) una posizione politica avversa all'élite finanziaria filo-angioina alleata alla Chiesa e uscendone sconfitto, si relaziona al più progressista intellettuale laico del tempo, il giurista e poeta Cino da Pistoia, secondo dei suoi amici (Convivio e De vulgari eloquentia);

~ il terzo, quando, ormai decaduto a proletario, facendo «parte per» sé «stesso» (), egli dedica alla storia universale un'opera unica dove, come nella Bibbia, mescola parole e parolacce.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 19

2.
Le parolacce dalla Bibbia in poi



Alla base tanto del Poema di Dante come del Capitale di Marx - il quale, a scanso di equivoci, in una lettera indirizzata a Engels, liquida, in data 2 aprile 1851, l'intera economia politica come merda («Scheiße») - c'è la Bibbia, dove, per fare un paio di esempi, si segnalano:

~ nel quarto libro dei Re (), coloro che mangiano i propri escrementi («stercora sua»);

~ in Sofonia (), le viscere sparse come escrementi («et corpora eorum sicut stercora»).

Aggiungendo libri non canonici nella tradizione ebraica e apocrifi per i protestanti, non mancano, per cattolici e ortodossi, i caldi escrementi («calida stercora») che accecano Tobia () e il pigro ridotto a una palla di sterco animale («de stercore boum lapidatus est piger») nell' Ecclesiastico ().

Quanto a «puttana», la frequenza nei testi sacri è davvero impressionante: si va dalla Genesi (), dove Dina, figlia di Giacobbe e sorella di Simone e Levi, è trattata come una baldracca («Numquid ut scorto abuti debuere sorore nostra?»), fino alla meretrice dell' Apocalisse (), menzionata tre volte da Dante ().

[...]

Sullo sfondo di questo silenzio di Beatrice, delimitando il confine, a un tempo labile e invalicabile, di «colpa» e «valor» (), fra chi sprofonda nell'inferno dell'estraneazione capitalistica e chi, per scelta, se ne solleva, posto in compagnia di Raab che «favorì la prima gloria / di Iosuè» (), Folco da Marsiglia denuncia la crescita della potenza finanziaria di Firenze come causa della corruzione borghese della Chiesa ():

    La tua città, che di colui è pianta
      che pria volse le spalle al suo fattore
      e di cui è la 'nvidia tanto pianta,
    produce e spande il maladetto fiore
      c'ha disviate le pecore e li agni,
      però ch'è fatto lupo del pastore.
    Per questo l'Evangelio e i dottor magni
      son derelitti, e solo a Decretali
      si studia, sì che pare ai lor vivagni.
    A questo intende il papa e i cardinali:
      non vanno i lor pensieri a Nazarette
      là dove Gabriel aperse l'ali.



Sono terzine postillate nel Manifesto del partito comunista (1848) di Karl Marx e Friedrich Engels, dove si legge che la borghesia «ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell'esaltazione religiosa, dell'entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese»; e, quindi, con riferimento a Dante in premessa alla traduzione italiana (1893), che «la prima nazione capitalista fu l'Italia».

Con mezzo millennio di anticipo rispetto alla nascita del materialismo storico, nel Poema si condanna l'Italia borghese, bollandola non solo come «serva» e «nave sanza nocchiere» ma anche, con la più inequivocabile delle parolacce, come «bordello» ().

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 51

8.
Parolacce maschili o femminili



Peggiorativo di parola, la parola parolaccia - si perdoni il gioco di parole - non è mai usata da Dante, che tuttavia usa le parolacce (e, per gli antidantisti, persino ne abusa), ma senza preoccuparsi di definirle come tali. Nella storia della letteratura italiana la parola parolaccia è infatti attestata, per la prima volta, nel De iciarchia di Leon Battista Alberti , opera fra le ultime, se non l'ultima, del noto umanista.

[...]

Entrambe le opere di Alberti sono comunque accomunate da un'unica visione misogina: nella prima si raccomanda al marito di tenere la moglie, considerata come proprietà privata, «serrata in casa», riservandole il «governo delle cose minori»; nella seconda si raccomanda ai giovani di non cadere nell'errore di amare una donna, «vile bestiola piena di voglie, sdegno e stizza»; e, soprattutto, di guardarsi dall'amare la propria moglie: «Non che l'altre, ma la moglie propria non veggo io si possa così amare sanza molta parte di pazzia e furore».

[...]

Così, dietro un'apparente identità di vedute morali rivolte al passato, l'ottica di Dante e quella di Alberti sono inconciliabili. La differenza fra il Poeta antiborghese e l'umanista borghese è radicale, giacché, con il sorgere del modo di produzione capitalistico, la misoginia - inerente a ogni società patriarcale, antica e moderna - si inasprisce sempre più, coinvolgendo tutte le sfere della vita, per cui, posti di fronte all'imperativo espresso da san Paolo nella prima lettera ai Corinzi (), secondo cui la donna deve tacere in pubblico («mulier taceat in ecclesia»), l'uno e l'altro reagiscono in modo diverso:

~ Dante non soltanto, al di là di san Paolo, evoca in nome di Cacciaguida il tempo in cui la donna «usava l'idioma / che pria li padri e le madri trastulla» () e «favoleggiava con la sua famiglia / di Troiani, di Fiesole e di Roma» (), ma - considerando la parola della donna amata punto di riferimento imprescindibile su ogni questione - innalza Beatrice a guida suprema, intellettuale e morale, all'interno di una società ideale, quella del Paradiso, dove la proprietà privata è abolita;

~ Alberti, all'opposto, estendendo il punto di vista di san Paolo dalla sfera pubblica religiosa a quella laicamente privata, pretende che la donna - proprietà privata del marito - resti «sorda, muta e cieca» e, soprattutto, «sempre muta»:

Precetto antiquo che la donna quale vorrà esser pregiata fuor di casa, sia sorda, muta e cieca, non veggia altro che dove ella metta i piedi, e così per casa, massime a tavola, sempre muta. Questo perché? Però che le femine di loro natura sono inconsiderate, e raro dicono cose non degne di reprensione, ciò ch'elle odono interpretano a suo modo, e tutto voglionlo emendare, di ciò ch'elle vedono fanno istoria piena di levità, e sino insulse dicono parolacce da beffarle, e raffermano el detto suo con presunzione e arroganza degna di correzione.


Per Dante, nel Poema, la donna amata fuori da ogni vincolo matrimoniale borghese, cioè Beatrice, a cui spetta comunque l'ultima parola, ha il governo su ogni cosa; per Alberti, viceversa, la moglie borghese, «sempre muta» in quanto proprietà privata del marito, è destinata al «governo delle cose minori». Mentre il Poeta antiborghese pende dalle labbra di lei, per l'ideologo borghese - data l'indole femminile, da lui considerata immutabile e comunque da correggere - le donne, persino provocando i mariti a farsi beffe di loro, «insulse dicono parolacce».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 57

9.
Parolacce corrette da Beatrice



Grazie a uomini di Chiesa, a pochi anni di distanza dal De iciarchia di Leon Battista Alberti, la vita coniugale per la donna «serrata in casa» e «sempre muta» si rivela peggiore di qualsiasi inferno, compreso quello di Dante. Nelle Regole della vita matrimoniale (1477) di frate Cherubino da Spoleto, si spiega che la «cosa, ch'è tenuto lo marito dare alla moglie, si chiama correzione, reprensione, gastigamento». Per ogni errore commesso dalla donna sposata, il compito di intervenire e correggere, tramite misure repressive, vale a dire punizioni corporali, spetta al marito. A questi va l'incarico di ricorrere alla violenza fisica, giustificata a scopo educativo: «Perciò è necessario, che questa tale persona difettuosa ed errante sia gastigata e corretta e ripresa del suo delitto, difetto e peccato, per non fare male e peggio». Lo ius corrigendi maritale è dovere, imposizione e vincolo: «Se tua moglie dunque, o figliuolo mio dilettissimo, facesse, come persona fragile e difettosa, alcuno delitto, o alcuno difetto ed errore che non debbe fare, chi la debbe castigare e riprendere? Certo non altro, se non tu che gli se' marito». A giustificazione, si invoca la relazione sessuale fra i coniugi, sottolineando come, essendo la sessualità della moglie proprietà privata del marito, a uno soltanto può spettare il compito di intervenire: «siccome a nessuno uomo non è lecito congiungersi carnalmente con femmina maritata, altro che il suo marito, così ancora non è lecito a niuno uomo correggere femmina delinquente ed errante, altro che il suo marito». Ma in che cosa consiste la «correzione» che il capo famiglia ha l'obbligo di esercitare nei confronti della consorte? Risponde l'uomo di Chiesa: «e questo intendi di correzione, dove necessariamente occorre punizione, percussione, o vero battitura e flagellamento».

[...]

Il Paradiso è il luogo dove la donna amata da Dante parla più di chiunque altro, non ha da ascoltare in silenzio la lezione di nessuno e in ogni campo del sapere ha qualcosa di nuovo da insegnare. Mentre nell' Eneide virgiliana e nelle Lettere paoline, dove non c'è posto per le parolacce, il femminile è subordinato al maschile, nel Poema il femminile prevale sul maschile: dal cielo della Luna fino al Primo Mobile, le parolacce di Dante - cioè tutte le questioni mal poste in precedenza nel Convivio, da quella delle macchie lunari fino a quella delle gerarchie angeliche - sono corrette da Beatrice.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 65

10.
Parolacce e parole per Cristina



C'è da chiedersi se, nel corso dei secoli durante i quali è avvenuto il passaggio dal modo di produzione feudale a quello capitalistico, con la conseguente trasformazione della società feudale in borghese, la donna, benché per lo più «serrata in casa» e «sempre muta», abbia letto Dante e, se mai lo ha fatto, che impressione ne abbia ricavato. La risposta non può che dipendere dal ruolo che lettrici e scrittrici occupano nella storia della letteratura italiana.

Nella monumentale Storia della letteratura italiana in nove tomi (1772-1782) - la prima pubblicata con tale titolo - Girolamo Tiraboschi dedica l'intero primo volume alla cultura «degli etruschi, e de' popoli della Magna Grecia, e dell'antica Sicilia, e de' romani fino alla morte d'Augusto», allegando scrittrici come Teano e Nosside da Locri (IV-III sec. a.C.) o Sulpicia (I sec. a.C.); e, nei tomi successivi, letterate come:

~ la «celebre Cristina da Pizzano» (1365-1430), che ha visto la luce un secolo dopo la nascita di Dante, «donna poco nota in Italia, a cui pure accrebbe non poco onore»;

~ Isotta Nogarola (1418-1466);

~ Cassandra Fedele (1465-1558), nata due secoli dopo il cantore di Beatrice;

[...]

Ma cent'anni dopo, in un'altra Storia della letteratura italiana (1870), Francesco De Sanctis fa tabula rasa sia del mondo antico che di quanto hanno operato nel corso dei secoli le scrittrici, avviando un vero e proprio femminicidio culturale. Agli occhi di un intellettuale organico alla borghesia come De Sanctis, il femminile «compiutamente realizzato», anziché in una donna concreta, va infatti ricercato, proprio per «quel suo complesso di amabili qualità», nel sesso opposto, cioè «nel senso più elevato» in Petrarca e in Tasso; anzi, più che altrove, in un personaggio letterario della Gerusalemme liberata, Tancredi.

Inaugurando il pensiero unico maschile nella storiografia letteraria, De Sanctis scrive nel XVII capitolo della sua Storia: «se vuoi trovare l'ideale femminile compiutamente realizzato nella vita in quel suo complesso di amabili qualità, déi cercarlo non nella donna, ma nell'uomo, nel Petrarca e nel Tasso, caratteri femminili nel senso più elevato, e in questa simpatica e immortale creatura del Tasso, il Tancredi». Di conseguenza, per dirla oggi con Jacques Lacan , la donna non esiste («la femme n'existe pas»); o, più precisamente, non ha che due opzioni:

~ restare «sempre muta»;

~ ripetere «serrata in casa», o professoressa o studentessa in aule scolastiche e universitarie, presunti canoni e valori ereditati e trasmessi dal passato, cioè il sapere maschile borghesemente dominante: per esempio, quello che è scritto nei manuali di storia letteraria da De Sanctis in poi.

La realtà è tuttavia diversa dall'ideologia che si presenta istituzionalmente egemone, giacché a riconoscere la grandezza internazionale di Dante è, in anticipo su chiunque altro, proprio una donna, Cristina da Pizzano , di origine italiana, ma fin da giovane emigrata in Francia e pertanto nota all'estero come Christine de Pizan. Studiata e tradotta in ogni angolo del mondo, a lei è intitolata, a parte Christine de Pizan Database online a cura dell'Università di Edimburgo, una istituzione internazionale ubicata in due sedi:

~ Francia (Société Internationale Christine de Pizan branche européenne);

~ Stati Uniti (International Christine de Pizan Society North American Branch).

Nella storia universale, il suo nome si lega alla circostanza, fino ad allora senza precedenti, di essere una donna in grado di condurre esistenza autonoma in virtù esclusivamente della propria attività intellettuale; inoltre, restando all'Italia, è la prima scrittrice migrante, vissuta lontano dalla patria non meno di Dante e, al pari di quest'ultimo, letta più all'estero che nel paese di origine.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 95

Poscritto dopo tante parolacce



Morale della favola da trarre è che Dante i borghesi l'hanno fatto diventare gran padre della patria, censurando il pensiero del Poeta e scegliendo dei versi assai esemplari per inculcarli sui banchi di scuola.

Così De Sanctis scelse stereotipi come modelli a giovani borghesi addottrinati in nome del sublime. E additò Francesca e Farinata: la prima come donna in carne e ossa; peccatrice ma in fondo perdonabile, perché ogni donna agli occhi del borghese senz'altro è peccatrice per natura, figura femminile o poco più, e in ciò consisterebbe il suo sublime: a ogni dolce parola e paroletta il suo fragile ceder per istinto.

Sì, ciò va bene per le femminucce se sognan di esser bimbe assai romantiche: così il borghese adora la sua femmina. Poesia sublime dell'adultera, lettrice di romanzi e di bei versi! Oh qual bellezza! Quanto sentimento! Com'è elevato il suo colpo di fulmine!

Ma il maschietto che sia tutto l'opposto: occorre che abbia inferno in gran dispitto e per amor di patria sia disposto a finir seppellito in una tomba. Ed ecco Farinata che vien fuori perfetto pedagogico modello.

Se poi non basta più il romanticismo, con il risorgimento ormai finito, nell'era nostra degli imperialismi, con le guerre mondiali e coi fascismi, e col pianeta ormai globalizzato, didattica a distanza e via dicendo, il programma scolastico si cambia.

Occorre che si aggiorni pure quello: non è più Farinata il gran modello, è l'Ulisse dantesco il gran sublime.

Ulisse, col suo slogan favoloso, con quel «nati non foste a viver [...] bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza», si procura consenso insuperato. È superuomo per i nostri tempi, con sue belle parole, il fraudolento.

Scende in campo e forma la sua squadra, con Penelope a casa che lo aspetta e lui avanti, su, con gli altri maschi. Non conosce confini questo Ulisse. Così conquista il mondo a modo suo. Che importa se poi fa una brutta fine?

La scuola questo Ulisse ci propina. Ma Dante cosa c'entra, lui che sogna in paradiso di veder Beatrice, donna la cui bellezza è intelligenza in ogni campo del sapere umano, lui sconfitto e cacciato da Firenze e in giro un po' dovunque da migrante? Dante ci invita pertanto a riflettere su come, percorrendo lunga via di buone intenzioni lastricata, precipitar si possa nell'inferno. Lui certo si dispiace (chi lo nega?), cadendo «come corpo morto cade», ma Francesca condanna e pure Ulisse.

E come ha scritto il poeta Heinrich Heine:

    Kennst du die Hölle des Dante nicht,
    Die schrecklichen Terzetten?
    Wen da der Dichter hineingesperrt,
    Den kann kein Gott mehr retten -

    Kein Gott, kein Heiland erlöst ihn je
    Aus diesen singenden Flammen!
    Nimm dich in acht, daß wir dich nicht
    Zu solcher Hölle verdammen.

    [Non lo conosci l'Inferno di Dante,
    con quelle sue terribili terzine?
    chi il Poeta lì dentro ci ha rinchiuso,
    non c'é più nessun Dio che può salvarlo -

    né Dio, né Salvatore lo redime
    da tali fiamme composte di canto!
    Bada piuttosto tu, a non finirci
    in un siffatto inferno condannato.]



Il Poema è l'uscita da ogni Egitto, da ogni schiavitù (borghese inclusa), per giungere in un mondo, finalmente, che non conosce proprietà privata: il paradiso infatti è proprio questo.

Il '21 è di Dante il Centenario. Invito a questo punto a legger Dante, senza più stereotipi scolastici, imposti dalla classe dominante. Non più come risposta bella e pronta, antologicamente fatto a pezzi o per il tormentone dello studio o per crocette dentro un questionario. Ma per il gusto e il piacere di leggerlo. Parola per parola. E, si capisce, pur parolaccia dopo parolaccia. Dal primo verso proprio fino all'ultimo.

| << |  <  |