Copertina
Autore Aldo Santini
Titolo Cucina maremmana
EdizioneMuzzio, Roma, 2006 [1991], Cucine regionali 25 , pag. 280, ill., cop.fle., dim. 14x21x1,8 cm , Isbn 978-88-7413-123-5
LettoreGiovanna Bacci, 2006
Classe alimentazione , regioni: Toscana
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Indice

Prefazione 7

Dalla Maremma degli Etruschi a "porca Maremma!" 9

Il romanzo dell'acquacotta: una per ogni paese 17

Amore e pappardelle per le donne maremmane 41

Zuppe maremmane: cucchiaio nella destra e cipolla nella sinistra 53

Gli altri "primi" cambiano il volto della Maremma 69

Nelle storie del cinghiale troviamo anche il Tiburzi 89

La scottiglia: che abbia pure due padri o addirittura due madri 117

Castellina Marittima festeggia le ricette del suo passato 123

Chicchirichì nel cortile per una buona cucina 129

La Maremma dei pecorai ci ha dato il buglione 149

Per i cacciatori la Maremma non è più quella di una volta 153

Tanti bovi da dipingere ma pochi da mangiare 167

Crostini come majorettes tra antipasti e contorni 175

Parlando di chiocciole e ranocchi troviamo un poeta: Cardarelli 187

Il caldaro dell'Argentario e le anguille di Orbetello 197

Funghi e castagne sull'Amiata, la sentinella della Maremma 211

I dolci? Eccone qualcuno. E niente dieta, per carità 235

E Pitigliano divenne la Piccola Gerusalemme 247

La Maremma del Sassicaia ci offre anche il Morellino 257

Indice delle ricette 267
Indice dei nomi 273
Indice dei ristoranti 279


 

 

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Pagina 9

Dalla Maremma degli Etruschi a "porca Maremma!"


Intanto mettiamoci d'accordo sulle dimensioni da dare alla Maremma. Dove comincia, dove finisce, fin dove s'allarga, in quali province si estende. E perciò quali confini dare alle sue tradizioni, ai suoi costumi, alle sue usanze, ai suoi modi di vivere che, messi tutti insieme nel mixer dello sviluppo sociale, ci offrono anche i sapori e i profumi della cucina, espressi magari in ricette per consentirvi di realizzarle sui fornelli di casa vostra. Poi, visto e considerato che partiamo dall'abbiccì, non guasta davvero spiegare per filo e per segno cosa significa Maremma. Anzi, prendiamo le mosse proprio da qua.

La parola maremma nasce con la emme minuscola perché sta a indicare una qualsiasi regione bassa e paludosa vicina al mare dove i tomboli, ovvero le dune, ovvero i cordoni di terra litoranea, impediscono ai corsi d'acqua di sfociare liberamente in mare provocandone il ristagno. Con il risultato di creare acquitrini, paludi. Non Maremma, allora, bensì maremma.

E siccome la maremma più vasta della penisola, la più nota, la più micidiale, quella dove la malaria ha imperversato spietata per secoli interi, era la zona costiera della Toscana meridionale e del Lazio occidentale, al punto che nella storia della medicina, e anche della letteratura popolare, la malaria legò il suo nome, il teatro delle sue rabbrividenti nefandezze, a questo territorio, la maremma tosco-laziale prese la emme maiuscola. Divenne Maremma per indicare la regione abitata un tempo dagli Etruschi. Una regione così grande che Maremma passò ben presto al plurale. Si parlò di Maremme.

I carbonai dell'Appennino pistoiese che l'inverno lasciavano i loro paesi assediati dalla neve per calare al piano, dicevano: "Andiamo nelle Maremme." Chi nella Maremma di Vada, chi nella Maremma di Bolgheri, o di Scarlino, o di Castiglione della Pescaia, chi nella Maremma di Grosseto. E dovunque l'aria era pestifera. Tanto che Maremma assunse il valore dirompente di una bestemmia. "Maremma cane!" si inveiva. "Porca Maremma!" "Maremma boia!" eccetera eccetera. Sempre con la emme maiuscola. La Maremma aveva ormai un'identità precisa, era un nemico da combattere e maledire. Però era sempre lei a vincere. Fra le sue paludi, animali e cristiani morivano come le mosche.

Meno precisa, invece, era la sua identità geografica. Nel 1746, allorché una legge impose ai proprietari, ai latifondisti, di mettere a coltura i loro terreni entro un anno, pena l'esproprio, legge che non venne mai applicata, la cosiddetta "Maremma pisana", o anche "Maremma volterrana", aveva inizio dalle estreme pendici dei monti livornesi, e precisamente da Rosignano Marittimo, da Montescudaio, da Guardistallo.

Di parere diverso, nel primo '800, era Ferdinando Tartini, "segretario della Direzione del Corpo degli Ingegneri" lorenesi: per lui i domini pisani della Maremma, a partire dal 1200, si estendevano tra Lerici e Castiglione della Pescaia.

Anche per Emanuele Repetti, autore di un Dizionario fisico storico della Toscana (1845), la Maremma cominciava molto a nord: dalla foce del Magra. Per Antonio Salvagnoli, uno dei manager dell'opera di bonifica durante il regno di Leopoldo II, cominciava invece da Rosignano. E Leopoldo in persona, detto "Canapone", che ci ha consegnato un diario emozionante dei suoi sopralluoghi in Maremma, scrive: "Sotto la parola Maremma s'intende il paese situato lungo la spiaggia dal mare di Livorno sino ai Stati dei Presidi e poi da quelli sino al confine delli Stati della Chiesa...". Lo Stato dei Presidi comprendeva Orbetello, Talamone, Porto Ercole, l'Argentario, Porto Santo Stefano e Porto Longone nell'isola d'Elba, e venne consegnato alla Spagna nel 1500 per proteggere le sue linee marittime nel Tirreno.

I geografi del nostro tempo hanno trovato un'intesa sulla dimensione da attribuire alla Maremma, stabilendo perfino la sua superficie: circa 5.000 chilometri quadrati. Con una distanza massima dal mare tra i 50 e i 70 chilometri. Confini: a nord il fiume Cecina. A sud: Civitavecchia. Baluardi naturali: la costa e i contrafforti montagnosi, da Volterra all'Amiata giù giù fino ai monti Cimini e a quelli della Tolfa. Province inglobate: Livorno, Grosseto e Viterbo. Perfino di Roma. Con grossi contributi di Pisa e soprattutto di Siena che dominò a lungo la Maremma grossetana, influenzandola e rimanendone influenzata, tanto è vero che parecchie ricette maremmane, o comunque conosciute in Maremma, le ho trovate a Montalcino, tra le vigne del Brunello, al di là dell'Amiata, dove i carbonai dell'Appennino scendevano abitualmente nella stagione invernale, lavorando con generoso impegno.

Gli etimologi spiegano che Maremma deriva dal latino Maritima: sarebbero stati i Longobardi, poi, a trasformare questo nome in Maremma per indicare un distretto amministrativo della Tuscia, la regione etrusca occupata dai Romani, ridotta oggigiorno alle dimensioni della provincia di Viterbo. E furono di sicuro i Longobardi, sotto re Agilulfo (siamo nel 600 dopo Cristo) a introdurre dall'Africa i bufali, e dall'Asia i buoi con le grandi corna a semiluna che piacevano tanto al Fattori e ai pittori macchiaioli ospitati a Castiglioncello, e quindi nella Maremma ottocentesca, dal loro mecenate Diego Martelli.

Carlo Cassola, lo scrittore che amava la Maremma e vi ha ambientato i suoi libri migliori (un titolo per tutti: Il taglio del bosco), diceva che la sua storia è un dramma in tre atti: fioritura, decadenza, rinascita. Il primo abbraccia più o meno cinque secoli, il periodo della dominazione etrusca. Il secondo dura due millenni. Il terzo si è aperto meno di due secoli fa mettendo a segno prima la vittoria contro la malaria e poi la bonifica con il rilancio agricolo.

Gli Etruschi fecero della regione che poi fu chiamata Maremma una piattaforma di civiltà. Lo dimostra la presenza di floridi centri tanto sulla costa che in pianura e sui monti: da Volterra a Sovana, Pitigliano, Saturnia, Tarquinia, da Talamone a Populonia, Vetulonia, Vulci, Castro, da Tuscania a Roselle, Magliano, Allumiere, Marsiliana. Era una civiltà che si esprimeva anche a tavola. Sappiamo che gli Etruschi conoscevano il vino. E gli piaceva, altroché! Sappiamo che andavano a caccia suonando i doppi flauti per attirare gli animali nelle reti con le loro musiche melodiose. Lepri e cinghiali davano sostanza ai loro banchetti che vedevano bisbocciare anche le donne, eleganti e ingioiellate. Peccato che non avessero il caffè. Digerire il cinghiale non è mai stato troppo facile.

La conquista romana segnò l'inizio del tracollo. Per incuria o incompetenza, l'ingegnoso sistema idraulico etrusco andò in rovina e le acque dei fiumi, del Cecina e del Cornia, dell'Ombrone, del Fiora, dell'Albegna, strariparono. Si formarono paludi e acquitrini. Durante il Medioevo la civiltà sopravvisse sulle alture. Massa Marittima ce ne offre la prova. E anche Sovana, patria di Gregorio VII, il papa santo, uno dei maggiori protagonisti religiosi della sua epoca, quello che applicò la riforma ecclesiastica imponendo il celibato e lottando contro la simonia.

Tutti i paesi dell'entroterra si costituirono intorno alle rocche e ai castelli feudali dove il clima era più sopportabile: Roccastrada, Roccatederighi, Roccalbegna, Castel del Piano, Sassofortino. Eppure la malaria non li risparmiò. Solo i centri oltre i 700 metri di quota si salvarono dal flagello.

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Pagina 17

Il romanzo dell'acquacotta: una per ogni paese


La maestra di un paese della provincia grossetana ha dato di recente un tema in classe: "Cos'è il maiale?". E uno dei suoi alunni, evidentemente spiritoso, lo ha svolto in poche righe: "Il maiale è una bestia che non finisce mai. Ha quattro zamponi, quattro prosciutti crudi o cotti e un musetto. Cucinato in mille modi lo troviamo a tutti i pranzi della Maremma."

Uno svolgimento abbastanza simile avrebbe potuto avere un tema sul cinghiale, sulla zuppa di funghi, sui crostini, sulle pappardelle alla lepre e in primo luogo sull'acquacotta. Eccoci al punto. Nessun'altra pietanza maremmana ha tante variazioni come l'acquacotta. E se è vero che, senza la malaria che per secoli interi ha gravato mortale sulla pianura isolando i paesi e le cittadine abbarbicati ai crinali dei monti, probabilmente la Maremma non avrebbe avuto così numerose interpretazioni dei medesimi piatti, questo è ancora più vero per l'acquacotta. Essendo la zuppa più primitiva della cucina maremmana, la più semplice e in sostanza la più povera, quella che ha bisogno di meno ingredienti, i meno costosi, i più facili da reperire, si è prestata più di ogni altra a divenire l'espressione di una famiglia, di una comunità, di un paese.

E così l'acquacotta, che evoca in un flash la Maremma del Fattori, del Fucini, la Maremma dei butteri, degli armenti, dei paduli e, diciamolo, della "mal'aria", ed è ormai la protagonista di un romanzo, di un'età entrata nella leggenda, di un'avventura scandita dal galoppo in technicolor dei cavalli, ci permette di capire una verità legata alla storia maremmana.

Abbiamo dieci, cento interpretazioni dell'acquacotta, tutte simili e tutte squisite, tutte diverse, non tanto per la sottile diversità dei prodotti forniti un tempo con avarizia dal territorio, quanto per il diverso carattere dei paesi e delle cittadine vicini uno all'altro, ma rimasti isolati troppo a lungo, eppure simili per il minimo comune denominatore della loro cultura, del loro sviluppo sociale sotto lo stesso cielo, fra le stesse difficoltà. Capite? La malaria ha tenuti lontani i centri di una medesima regione, nati dalla medesima matrice.

Certo, l'avventura maremmana appare fascinosa oggi che ne parliamo uno, due secoli dopo, anche tre, seduti comodamente a tavola, nel caldo di una sala o nella penombra di una veranda, allorché il romanzo acquista i tratti definiti di un affresco a tinte vigorose. Oggi la Maremma è un bacino di fertilità, Grosseto vanta alberghi di lusso e i ricordi di quando d'estate aveva appena 40 abitanti sono affidati alla letteratura. L'acquacotta ha ormai il ruolo di un "primo" di successo in tutti i ristoranti, irrobustito da ricchi ingredienti, uova, brodo di carne, olio extravergine d'oliva.

Chi ci pensa più alle sue origini? Per fortuna interviene una raffinata scrittrice, Mara Cini, con il suo libretto Maremma cucina, ad avvertirci che l'acquacotta conserva il nome antico di quando era fatta di sola acqua, pane e qualche verdura, di quando in Maremma prosperavano i "mignattai", i venditori di sanguisughe. E questa immagine dei "mignattai", forse, serve più di tanti discorsi a illuminare il passato di una regione che ai turisti, adesso, appare splendida e serena, e su, verso Montemerano, addirittura dolce.

"Chi lavorava in campagna si portava dietro un pignattino e a mezzogiorno lo riempiva ai ruscelli mettendo a cuocere quello che dava la stagione. Un capo d'aglio, un cipollotto, qualche pomodoro, un po' di sale e tanto pane a fette. Oggi è un'altra cosa" conclude la Cini.

Appunto, è un'altra cosa. Anche se Luciano Momini, chef di talento, commenta: "Tutti gli ingredienti usati oggigiorno, cipolla, sedano, bietola, le massaie d'un tempo li avevano nell'orto. O comunque sottomano: il pane raffermo, il cacio pecorino. E non è vero che solo oggi l'uovo arricchisce l'acquacotta. Le uova la massaia le trovava nel pollaio, belle calde."

Ma l'acquacotta della Maremma romanzesca, quella dell'affresco sociale, era fatta di sola acqua, pane e qualche verdura. Era la minestra dei carbonai, dei pastori, dei guardiani di bestiame. Fortunati noi che possiamo gustarla nei ristoranti, discettando sulle cento versioni paesane e riempiendoci la bocca (a parole) di cucina povera.

E i ristoranti, le trattorie, le osterie dei cento paesi della Maremma ci propongono, quasi sempre, la ricetta dell'acquacotta del loro paese, e spesso le ricette, perché gli ingredienti cambiavano con il mutare delle stagioni. Non è più, mi sembra chiaro, l'acquacotta povera di cui parla Mara Cini. In fondo ha ragione Luciano Momini: quella che di paese in paese ci entusiasma, ogni volta diversa, è l'acquacotta delle massaie, con le verdure nell'orto e le uova nel pollaio. Con la speranza, s'intende, che il cuoco del ristorante, della trattoria o dell'osteria rimanga fedele al modello ricevuto o ereditato. Anche se a Montemerano, dove la cucina maremmana ha trovato da qualche anno la sua espressione più alta, hanno avuto l'onestà di mettermi in guardia: "Stia attento. Ogni famiglia l'acquacotta la preparava a modo suo. Non ce n'era una uguale all'altra, nel paese."

Dovremmo parlare, allora, non più di un'acquacotta per ogni paese ma per ogni famiglia di ciascun paese. Non esageriamo. E non allarmatevi. I paesi dove mi sono fermato, o da cui ho avuto l'informazione, non sono cento, ci mancherebbe! E oltretutto nella Maremma livornese e in quella pisana l'acquacotta c'è arrivata di straforo, senza mettere radici profonde.

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Pagina 41

Amore e pappardelle per le donne maremmane


Sissignori, le pappardelle meritano un capitolo tutto per loro, anche se molto breve in confronto a quello torrentizio appena dedicato all'acquacotta.

"Che cosa sono le pappardelle?" si è domandato Marco Guarnaschelli Gotti allorché ha sostato nell'Alta Maremma livornese durante una delle sue scorribande mangia-e-bevi per il settimanale "Panorama". (Guarnaschelli dirigeva questa collana di libri sulle cucine regionali e io ne profitto per citarlo allo scopo di guadagnarmi (a posteriori) con molta discrezione la sua benevolenza e, in soprammercato, per dare più condimento alle nostre amatissime pappardelle.)

Risposta del Guarnaschelli: "Una parola, si potrebbe dire parafrasando Falstaff a proposito dell'onore. Infatti: assodato che si tratta di pasta tirata a sfoglia e tagliata, le certezze terminano. Chi afferma che si fanno con 2 uova per 400 grammi di farina, chi con 4 uova per mezzo chilogrammo, chi le vede come strisce larghe 2 centimetri e mezzo, chi addirittura nello stesso libro le individua una volta come quadrati, di 7-8 centimetri di lato, un'altra come strisce larghe tra 5 e 6 centimetri."

Di conseguenza le ricette si moltiplicano. Una per ciascun paese. E nel paese una per ciascuna famiglia, alla maniera dell'acquacotta. È un destino, in Maremma. Ma solo in Maremma? Non è la caratteristica, e la vitalità, di tutte le cucine regionali? Un solo esempio: andate in Lunigiana, tra Aulla, Pontremoli e Fivizzano, e provate a contare in quanti modi preparano le torte di erbe.

"Così descritte", spiega Guarnaschelli "sembrerebbero una delle tante lasagne o lasagnette o lagane di impasto e dimensioni vari di cui il nostro repertorio è tanto ricco. Cosa fa, invece, delle pappardelle una pasta autonoma, che compare nel menù dei ristoranti da Milano alla Sicilia e tende costantemente ad allargare la propria area di presenza? Il suono, perbacco, il suono di questa bella parola toscana grassa e rimbalzante."

Le pappardelle sono toscane al cento per cento. Ne parla addirittura il Boccaccio illustrandole con diligenza eccessiva: "...lasagne cotte in brodo e condite con carne specialmente di lepre". D'Annunzio le cita a proposito di un discorso lungo e noioso. Subito ripreso da un compagno di beffe guerriere, Costanzo Ciano, che interrompeva i suoi sproloqui poetici (vere e proprie pappardelle) arronzandolo da livornesaccio qual era: "O D'Annunzio bello, non farla tanto palloccolosa!"

In Toscana è la Maremma che ha innalzato le pappardelle alla celebrità facendone un "primo" di successo plateale, ovviamente scomunicato dalla nouvelle cuisine data l'abbondanza con cui viene servito.

E qui troviamo gli storici della cucina i quali ci avvertono che le pappardelle sono state introdotte in Maremma, insieme alla polenta, dai carbonai, dai boscaioli, dai tagliatori, dai sugherai, dagli scorzini (da coloro cioè che strappavano la corteccia degli alberi), dagli stagionali, insomma, che scendevano dalla Garfagnana, dal Mugello, e dalla montagna pistoiese per fare la stagione invernale.

D'estate lavoravano a casa loro e ai primi freddi calavano al piano, nelle Maremme rese meno invivibili dai venti ghiacci. Partivano a gruppi, ogni gruppo era autonomo e aveva un contratto sulla parola, i mesi di lavoro per cuocere il legno delle macchie e ricavarci del carbone erano otto, il guadagno dipendeva dalla qualità del carbone che riuscivano a produrre, e perciò dal tempo, dalle piogge, dal legno più o meno buono. Tornavano indietro per San Giovanni, spesso si accompagnavano ai pastori che in Maremma svernavano le greggi, vivevano da pionieri, erano uomini tosti e molti di loro, l'ho già detto, finivano per sposare le ragazze dei paesi vicini alle carbonaie dove andavano a comprare il sale e il tabacco, e il vino.

Parecchi di quegli uomini tosti restavano in Maremma e alle loro donne maremmane insegnavano come si faceva all'amore in montagna. E come si cucinava, lassù. Niente di speciale, s'intende: pietanze povere per gente povera che lavorava duro e aveva bisogno di riempirsi la pancia. Polenta gialla, pasta fresca da condire con il sugo di carne o di funghi. Maccheroni e pappardelle.

Se Guarnaschelli avesse l'occasione di sedere al tavolo di una trattoria di Pistoia o dintorni, scoprirebbe che i maccheroni pistoiesi sono quadrati, a differenza delle pappardelle divenute ormai maremmane a tutti gli effetti gastronomici. Tanto è vero che Renato Fucini, il quale era di Monterotondo, la Maremma riscaldata dai soffioni boraciferi, in una novella de Le veglie di Neri, il libro pubblicato nel 1884, scrive: "Questa me la raccontò nel canto del foco l'amico Raffaello, quella sera che c'invitò a cena a mangiare le pappardelle."

Naturalmente semplifico parecchio. Tiro le somme. Sottolineo l'evidenza. Non analizzo, non studio le varie "bibbie" della cucina italica, non mi riempio la bocca citando il Messi Sbugo, "scalco al servizio dei signori di Ferrara", o il Platina, "cuoco secreto di papa Pio V", e tantomeno l'Artusi che con le sue ricette ha avuto, sì, il merito di unificare l'Italia più di quanto abbia fatto Garibaldi con i suoi giovanotti in camicia rossa, ma era in sostanza un biasciantingoli, troppo debole di stomaco per essere un vero buongustaio, un signore che oltretutto odiava il baccalà e, dissertando sulle pappardelle, diceva: "Non ve lo do come piatto fine, ma per famiglia può andare...".

Ricorre invece all'Artusi, e al Messi Sbugo, uno degli chef più acculturati e più benemeriti della cucina maremmana, Umberto Creatini da Cecina. Nel suo locale, "La Botticella" (niente lussi, niente esibizioni di pessimo gusto per infinocchiare i nuovi ricchi e i poveri ispettori delle guide commerciali condannati a rovinarsi il fegato saltabeccando da un ristorante all'altro), la Maremma ci viene sul piatto con il meglio del proprio repertorio elevato a dignità gastronomica.

Cosa dice il Creatini? Racconta che nel 1300 a Firenze c'era anche l'Arte dei Lasagnai aggregata a quella dei Fornai e che i suoi artigiani, per la festa di San Lorenzo del 10 agosto, preparavano una pasta di forma lunga, larga quattro dita circa e ondulata da un lato, per consentire una maggiore aggregazione con le salse.

Riferisce che nel '500 i maccheroni romaneschi ebbero una svolta strabiliante: da stesi com'erano, furono arrotolati intorno a un bastone e tagliati a cannoli più o meno lunghi dando luogo ai rigatoni, o ai fischiotti o ai sedani, sedanini eccetera eccetera.

Avverte che già nelle ricette venete "ruzantine" si trovano le "paparele". Ricorda che gli Etruschi di Cerveteri chiamavano "làgane" dei dolci conditi con miele e mandorle, fritti o cotti su pietre roventi, tagliati a pezzi piccoli o a sferette di pasta schiacciata. Il mandorlo era considerato il termometro del raccolto attraverso l'abbondanza o meno della sua fioritura. E sostiene che le prime pappardelle furono quelle all'anatra essendo l'anatra, a differenza del pollo, un pennuto allevato senza alcun riguardo particolare. L'anatra è libera, mangia di tutto, si affeziona all'ambiente rurale della corte, non si allontana, ha bisogno solo di un po' d'acqua per la sua condizione naturale di palmipede.

E sulla scia dell'Artusi, che classifica per prime le pappardelle all'aretina condite con la salsa fatta con l'anatra, il Creatini azzarda un'ipotesi personale: le pappardelle avrebbero la loro patria nel comprensorio di Arezzo. In ultimo confessa: è difficile catalogare e codificare l'origine della loro ricetta.

Questo non mi obbliga a togliere la bandiera delle pappardelle dal cielo gastronomico della Maremma. Se gli storici non riescono a individuare il luogo preciso delle loro origini, noi ghiottoni sappiamo bene dove hanno trovato la loro platea: in Maremma. Ed è la Maremma che può vantarsi con pieno diritto di essere la loro patria. Così come la Spagna considera spagnolo Cristoforo Colombo, e lo chiama Cristobal Colon, malgrado si sappia di preciso che è nato a Genova. Così come la Francia considera francese Amedeo Modigliani, e lo chiama Modì, malgrado si sappia di preciso che è nato a Livorno. La vera patria è quella che ci accoglie, crede in noi e ci dà la gloria.

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Indice delle ricette


Acquacotta alla Maria 34
Acquacotta alla Pinchiorri 23
Acquacotta all'Oliveto 23
Acquacotta cipollata 33
Acquacotta con il baccalà 40
Acquacotta con la pecora 38
Acquacotta d'estate della Tolfa 32
Acquacotta dei boscaioli 26
Acquacotta dei Poderi di Montemerano 22
Acquacotta del Peccianti 28
Acquacotta dell'Uccellina 37
Acquacotta della Marsiliana 34
Acquacotta di Alberese 38
Acquacotta di Allumiere 31
Acquacotta di Capalbio 19
Acquacotta di Ghirlanda 35
Acquacotta di Massa Marittima 36
Acquacotta di Montalcino 24
Acquacotta di Montemerano 21
Acquacotta di Pianizzoli 37
Acquacotta di Pitigliano 21
Acquacotta di Roccalbegna 26
Acquacotta di Roselle 28
Acquacotta di Sassetta 35
Acquacotta di Saturnia 29
Acquacotta di Scansano 27
Acquacotta di Seggiano 30
Acquacotta di Sovana 33
Acquacotta la "scafata" 32
Acquacotta la "trista" 31
Anatra alle olive 138
Anguille con i piselli 205
Anguille dell'Uccellina 204
Anguille di botro in salsa 127
Anguille in zimino 210
Anguille sfumate 202
Antico peposo 174
Arista al Brunello 147

Beccaccia allo spiedo 155
Beccaccia con lenticchie 156
Beghe della Tolfa 72
Bígné alla crema di castagne 234
Birolli 243
Bocconcini di salsiccia di cinghiale 183
Borricche di Pitigliano 254
Briciolelli 85
Budino alla salvia 237
Budino di castagne 234
Buglione di Arcidosso 151
Buglione di Grosseto 149
Buglione di Semproniano 150
Buglione di Sovana 151
Buione laziale 152
Buttera 172

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