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| << | < | > | >> |IndiceNon si scappa: bisogna parlare subito di lei, di Caterina 9 E con Maria, l'altra regina, fantastico pranzo di nozze 35 A Firenze, promossa capitale, si mangia in lingua francese 53 L'Artusi rilancia da Firenze l'unità dell'Italia a tavola 65 Le tagliatelle "spente a ova" esaltano la cucina toscana 83 Ribollita e pappa al pomodoro: viva il pane, gran protagonista 103 Pasta e fagioli con Indro. Guai a chi ci critica 129 Il romanzo della bistecca ci porta negli Stati Uniti 151 I barroccini dei trippai danno ancora sapore a Firenze 167 L'anatra all'arancio è buona ma non dimenticate le polpette 179 "Era porco di gran riverenza degno di Cosimo duca di Fiorenza" 201 Il baccalà del campanilismo: alla fiorentina o alla livornese? 215 Per i fagioli americani un posto d'onore a Palazzo Pitti 229 Ora i dolci vanno meno. Addio "schiccherona", addio 249 E dopo tanto mangiare curiamoci con il Pagliano 265 Sì, brindiamo con il Chianti: apre il rinascimento dei vini 273 Postfazione di Marco Guarnaschelli Gotti 293 Bibliografia 295 Indice delle ricette 297 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Non si scappa: bisogna parlare subito di lei, di CaterinaSeduti e zitti. Ascoltiamo la voce della Storia. Appena si comincia a discutere (più che a trattare) sulla cucina toscana in genere e fiorentina in particolare, bisogna rassegnarsi a fare subito i conti con Caterina de' Medici. Non c'è maniera di liberarsene. Grande regina e grande sponsor dell'arte italiana in Francia, ma anche rompiballe terribile per chi deve occuparsi delle sue avventurose imprese, carattere di ferro e ingegno da vendere, la nipote di Lorenzo il Magnifico rappresenta il nostro jolly ogni volta che i critici sputa sentenze della gastronomia lombarda o piemontese o veneta accusano noi toscani di non saper cucinare, e con irritante sicumera aggiungono: "Siete capaci solo di cuocere". Diciamo la verità: quelli dell'Italia settentrionale ce l'hanno a morte con noi toscani, soprattutto i lombardi. Più dei veneti e dei piemontesi, sono i lombardi che si sentono a disagio davanti ai toscani, al nostro modo di guardare giudicando, e di sorridere dissentendo, di congratularsi compatendo, di inchinarsi sfottendo. "In fondo siete dei simpaticoni" ripetono senza crederlo. Ma la nostra ironia al vetriolo li rende nervosi, e non digeriscono la nostra aria di superiorità assunta con il vecchio disco della lingua italiana che come la parliamo noi non la parla nessuno. Alla lunga dobbiamo riconoscerlo: noi toscani, e in primis i fiorentini, siamo pieni di difetti. Siamo presuntuosi, siamo arroganti, quasi sempre siamo avari, abbiamo la battuta troppo facile, crediamo di essere i sacerdoti della madre lingua nazionale, ripetiamo fino alla nausea lo spot del Manzoni che venne a sciacquare I promessi sposi nell'Arno d'argento della canzone di Odoardo Spadaro. E alziamo regolarmente la voce, ci mangiamo le parole, ci crediamo più intelligenti degli altri italiani, più furbi, più eleganti, più bravi con le donne. Anche se in realtà (rimanga tra noi) intelligenti come i toscani, in Italia, si contano sulle dita di una mano. [...] Caterina, è evidente, trova nella buona tavola un sollievo al peso del tradimento continuo (stavo per scrivere con eccessiva malagrazia "al peso delle corna") da parte del marito. Ed ecco a noi un'immagine inattesa della sovrana fiorentina. Che si diverte a cucinare di persona per i propri figli, mettendosi il grembiule e rubando il mestiere ai cuochi di corte. Che spende e spande per la tavola guadagnandosi la fama di avere le mani bucate. Che a forza di mangiare in barba a tutte le diete, imperanti anche nel Cinquecento tra chi aveva la fortuna e i mezzi di poter ingrassare, diventa rotonda come una modella di Botero. Che ride di gusto ai lazzi dei suoi tre nani da salotto, Merlino, Rodomonte e Mandricardo. Che anche nei banchetti ufficiali, a Parigi e in provincia, vuole dimostrare di essere una superforchetta e una bevitrice di lungo corso. Che rischia addirittura di allungare gli stinchi (voce popolare toscana per dire "lasciarci la pelle") nell'aprile 1549, dopo il pranzo del suo trentesimo compleanno, per un'indigestione di rigaglie di pollo, un rinomato piatto fiorentino noto come cibreo, dotato (si crede) di irresistibili molle afrodisiache. Che riesce a far parlare delle sue specialità toscane non solo in Francia ma anche oltre Manica. Un poeta elisabettiano, infatti, cita "creme, torte e spiritose donne fiorentine, per addolcire il palato e la mente". Del cibreo non se ne parla. Il poeta è prudente. Meglio tenerle calme, le allegre comari di Windsor. Ho un'altra chicca godereccia a questo proposito. E riguarda il figlio di Caterina, Enrico III re di Francia, successore del fratello Carlo IX, morto troppo presto, a ventiquattro anni, dopo che il fratello maggiore Francesco II era morto ancora più giovane, a diciassette anni. Dunque: Enrico III decide di trascorrere le ferie in Italia, viene accolto con lusso forsennato a Venezia e rimane nauseato dai ricevimenti dove il preziosissimo zucchero trionfa in misura grottesca. Perfino i tovaglioli sono di zucchero. Lui fa per asciugarsi delicatamente le labbra, afferra il tovagliolo e quello gli si spezzetta tra le dita. "Ohibò!" esclama. E una volta ritiratosi nella camera che gli è stata assegnata, chiede che per rifarsi la bocca gli portino "del vino, del pane trinciato e poi unito insieme per far soppa in acqua, com'è suo costume". Ovvero, commenta la Lotteringhi della Stufa, "per farsi il pane intinto all'uso fiorentino, come sua madre gli aveva insegnato a preparare". Non dovete stupirvi più di tanto dinanzi a Caterina de' Medici, sovrana e genitrice di sovrani, che mangia a quattro palmenti, infischiandosene della cellulite e della pancia. Già prima di lei i re e tutti i nobili, coloro che detenevano il potere, hanno sempre voluto (e dovuto) manifestare a tavola una bravura da tramandare ai posteri e da incutere rispetto ai sudditi, ai dipendenti, ai testimoni. Il loro prestigio cresceva quanto più mangiavano e bevevano, quanti più avversari disarcionavano nei tornei cavallereschi, quanti più capi di selvaggina abbattevano a caccia, quante più pulzelle convincevano con le buone o le cattive a giacere seco loro. D'altronde, a forza di rigaglie, e malgrado le corna (mi sono scappate: chiedo perdono) inflittele dalla duchessa di Poitiers, laureata in scienze erotiche, e da altre volontarie del sesso, la nostra Caterina ha dimostrato di avere tutte le carte in regola come madre, sia pure dieci anni dopo le nozze di Marsiglia. Nove figli li ha messi al mondo. E quelli, malgrado non scoppino di salute, zittiscono tutti i suoi detrattori. Niente, certo, rispetto a Dianora Salviati, consorte di Bartolommeo de' Frescobaldi, vignaiolo esimio, che a Firenze, nel suo palazzo d'Oltrarno in Santo Spirito, partorisce ben cinquantadue marmocchi e mai meno di tre per volta. | << | < | > | >> |Pagina 48Pollo alla GuicciardiniI Guicciardini: un'altra famiglia celebre di Firenze. Su tutti Francesco Guicciardini, politico e storico, scrittore, il più importante del nostro Rinascimento con Niccolò Machiavelli. E con il loro nome, quasi certamente, il pollo consegnatoci dal Benucci fu servito al matrimonio di un Francesco più vicino a noi, che nel 1882, appena eletto deputato, sposò la principessina Luisa Strozzi. Il matrimonio, celebrato a Palazzo Strozzi, ebbe echi sovranazionali per il suo splendore. Gli invitati superavano i cinquecento e un intruso, calamitato da tanta magnificenza, venne affrontato dalla padrona di casa, nota e temuta per la sua severità ma anche per il suo gelido umorismo, con queste parole: "Caro signore, ella deve sicuramente annoiarsi a morte, non conoscendo nessuno a cominciare da noi Strozzi". Il conte Francesco Guicciardini numero due è stato il numero uno del suo tempo, a Firenze. Deputato eletto in un collegio cittadino per due legislature e per sette in quello del feudo di San Miniato, sindaco fiorentino per tre anni, si schierò con il centrosinistra di Zanardelli e poi di Sonnino. Fu ministro dell'Agricoltura nel governo Rudinì e degli Esteri nel governo Sonnino. Più che meritata, dunque, una citazione nel libro della gastronomia toscana. Breve la ricetta, com'è nello stile di Benucci: "Prendete un pollastro, tagliatelo in cinque parti, togliete alle coscie l'osso dell'anca e incidete la carne della coscia lungo l'osso che vi è rimasto. Mettete in un sauter con olio e burro dei gambi di prezzemolo e 200 grammi di filetti di pomodori pelati e privati dei semi, di più ci unirete 300 grammi di cipolline bianchite e lo farete partire a fuoco lento fino a che non abbia preso colore tutto intorno. A questo punto bagnatelo con poca marsala e un ramaiuolo di brodo o buon sugo. Lasciatelo cuocere e servitelo con la sua salsa". È consentito fare un passo indietro? Era d'uso nei romanzi d'appendice. E questo vuole essere proprio un romanzo a puntate sulla cucina fiorentina. Non si può andare avanti dimenticando i Bardi. Non solo perché furono banchieri potentissimi e come tali aiutarono il Vaticano e la fabbrica di San Pietro, non solo perché un Enrico Bardi fu tenuto a battesimo dal re d'Inghilterra, non solo perché i loro feudi nell'Alto Bisenzio e presso Dicomano risalgono al primo Trecento, non solo perché sul finire del Quattrocento acquistarono per quattromiladuecento fiorini "larghi" d'oro il Palazzo alle Grazie in via dei Benci, attribuito al Brunelleschi, dove nel Cinquecento istituirono la Camerata dei Bardi per rinnovare il canto e là nacque il Melodramma, antenato delle nostre opere musicali (in questo palazzo, oggi adibito a scuola, l'ultimo Bardi si spense nel 1954), ma soprattutto perché, a noi buongustai, i Bardi hanno lasciato un ricettario, databile fra il Quattrocento e il Cinquecento. Un'emerita studiosa, Clotilde Vesco, poetessa e scrittrice, nominata "Ambasciatore del Chianti" (un titolo che le invidio parecchio), ha tratto questo ricettario dalla polvere dei secoli dell'Archivio di Stato. E qui di seguito vi offriamo in lettura la descrizione di alcune minestre, arrangiata in un italiano più vicino a noi, che la dicono lunga su come i ricchi fiorentini dell'età d'oro mangiassero abitualmente in casa propria. Minestra di cavolo bianco "Piglia il grumolo del cavolo, lavalo bene e mettilo nell'acqua bollita. Che bolla per due-tre ore. Poi mettilo nell'acqua fredda. Da qui in un pentolo con brodo buono e salsiccia. Fai un battuto di lardone e prezzemolo con poco pepe. Aggiungilo nel pentolo con il cavolo, un poco di finocchio e un capo d'aglio. Cuocere tutto insieme. Ora piglia delle fette di pane e falle arrostire: mettile nel piatto, inzuppale con il brodo e mettici sopra il cavolo. Prima di mandare in tavola togli l'aglio." | << | < | > | >> |Pagina 65L'Artusi rilancia da Firenze l'unità d'Italia a tavolaInfine arriva Pellegrino Artusi. E gli italiani hanno una cucina italiana. La ricevono da Firenze, dove l'Artusi, romagnolo di Forlimpopoli, ha sciacquato i suoi panni nell'Arno, in una lingua italiana corrente e corretta. Fino a un certo punto ha ragione Piero Camporesi, in cattedra nell'ateneo bolognese, l'esploratore più erudito e più stravagante delle cucine e delle mense, dei sensi e dei piaceri, del gusto di ieri l'altro, allorché, presentando il celebre ricettario tra i classici della letteratura nelle edizioni Einaudi (anno 1970), afferma che quest'opera, pubblicata la prima volta a spese dell'autore nel 1891 "in Firenze per tipi di Salvadore Landi, direttore dell'Arte della Stampa", con il titolo La Scienza in cucina e l'arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie, svolse "in modo discreto, sotterraneo, impalpabile (cito le sue parole) il civilissimo compito di unire e amalgamare, in cucina prima e poi, a livello d'inconscio collettivo, nelle pieghe insondate della coscienza popolare, l'eterogenea accozzaglia delle genti che solo formalmente si dichiaravano italiane". L'Artusi meglio di Garibaldi e del Manzoni, dunque? Camporesi non ha dubbi. "In quei tempi in cui i mass media erano ben lontani dal fare sentire la loro irresistibile azione (solo D'Annunzio stava mettendo in pratica le tecniche della manipolazione delle masse), l'arguto libretto tosco-romagnolo dell'amabile banchiere di piazza D'Azeglio a Firenze (tutta Italia ne conosceva l'indirizzo perché il volume poteva essere richiesto personalmente all'autore) s'insinuò bonario e sornione in moltissime case di tutte le regioni del Paese." Per Camporesi è l'Artusi che con le sue ricette unisce l'Italia. "Mai occulta persuasione fu più semplice e umana, mai il prodotto in vendita conobbe un livello tanto elevato di buon gusto, cultura, civile divulgazione. Le varie cucine regionali vi trovarono un accorto dosaggio e quindi un rilancio su scala nazionale: fu estratto da esse non diciamo il meglio, ma quanto poteva essere confezionato per il gusto comune senza eccessive ripugnanze campanilistiche, quanto poteva arrivare alla tavola dell'italiano medio, tenuto presente il potere d'acquisto della famiglia medio-borghese." Durante un pranzo in un ristorante di Lungarno Corsini, a Firenze, il giorno in cui gli consegnarono il Premio Antico Fattore 1990, il professor Camporesi mi raccontava che una delle soddisfazioni più genuine l'ha avuta a Imola: nella piccola vetrina di una cartolibreria, su un velluto rosso, unico libro esposto, squillava il suo Artusi di Einaudi. Segno che il messaggio era stato recepito, che l'importanza dell'Artusi come unificatore del Bel Paese era stata compresa. Ma quale Italia aveva saputo riunire, nel 1891, da Firenze, il libro dell'Artusi? L'Italia dei ricchi o anche l'Italia dei poveri? Questo è molto importante da capire. Nel titolo leggiamo Manuale pratico per le famiglie. Ma quali famiglie, di grazia? Di quale classe sociale? Di quale condizione economica? Di quale livello? Camporesi chiarisce: le famiglie della borghesia media, avendo ben presente il loro potere d'acquisto. Della nuova classe sociale in formazione. In parole povere: gli italiani che andavano a votare. Solo loro potevano leggere con profitto, e senza schiattare di rabbia, La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene. Dieci anni prima che l'Artusi pubblicasse il suo libro, nel periodo in cui stava raccogliendo le ricette tra le famiglie amiche, quelle appartenenti al suo medesimo ceto medio borghese, gli italiani chiamati alle urne per eleggere i deputati della Camera furono appena 621.896, pari al 2,20 per cento degli abitanti residenti, e votarono solo 369.624 persone, pari al 59,40 per cento degli elettori iscritti nelle liste. Questa era l'Italia cui parlava l'Artusi. Ed è assai più esplicito l'Artusi di Camporesi perché ha la coscienza (o l'arroganza?) di premettere: "S'intende bene che io in questo scritto parlo alle classi agiate, che i diseredati dalla fortuna sono costretti, loro malgrado, a fare di necessità virtù e consolarsi riflettendo che la vita attiva e frugale contribuisce alla robustezza del corpo e alla conservazione della salute". Riflettete, riflettete, o diseredati! Tutto il male non viene per nuocere. | << | < | > | >> |Pagina 145Pasta e fagioliCon la pasta e fagioli le dispute regionali diventano guerre di religione. Cos'è, se non religione, la gastronomia sbandierata dal campanile? In nome della loro civiltà gastronomica, Padania e Veneto sono pronti a scendere in campo contro la Toscana. Qualche tempo fa, esattamente nell'ottobre 1985, Massimo Alberini, senatore del giornalismo a tavola e maestro di cucina in Venezia all'accademia estiva dell'hotel Gritti, sparò su Montanelli con la seguente lettera. Leggiamola insieme, è molto divertente. "Caro Montanelli, l'incomprensione gastronomica fra voi, concittadini di Lorenzo il Magnifico - i suoi piatti preferiti, come si vede nella poesia I beoni, sono sempre gli stessi - e noi fedeli, sia pure in Terraferma, di San Marco, continua. Nella prefazione al recente libro di Cesare Marchi, Caro Montanelli, lei si vanta di essere insorto onde evitare un delitto gastronomico proibendo al suo collaboratore, durante una cena al veronese '12 Apostoli', di cospargere col parmigiano la pasta e fagioli. E aggiunge: 'Mostrai come versarci sopra una C d'olio di frantoio (toscano) cospargendo poi di pepe macinato'... "Si trattò, dato il luogo e il tipo di cucina realizzato da Giorgio Gioco, oste in Corticella San Marco, all'ombra di Madonna Verona, di un tipico esempio di prepotenza toscana. Ogni religione - in certi casi con varianti cittadine - italiana ha la 'sua' pasta e fagioli. Voi, anche per ragioni storiche - mangiavate i dolichos, ossia i fagioli dall'occhio, prima della Scoperta - preferite i cannellini, detti anche - ma non da voi - toscanelli. Noi abbiamo aspettato che la Grande Anima di Pietro Valeriano, canonico in Belluno, iniziasse, anno 1528, gli esperimenti di acclimatazione dei fagioli americani, rossi, marrone, e screziati, per avere i teneri, saporiti, entusiasmanti - e oggi quasi introvabili - fagioli di Lamon da cui ha origine la nostra pasta e fagioli, densa e vellutata come un altro tesoro d'America, il cioccolato. "Ma ben altra, e più profonda, è la differenza. Per voi, olio crudo nel piatto (la 'C', ma anche la croce), per noi, fedeli alla cucina padana, lardo, grasso di maiale, talvolta ritagli di prosciutto, da far cuocere a lungo in pentola. Una componente, la nostra, che rende assurda e controindicata l'invadenza dell'olio crudo, toscano o no. La nostra 'complementazione' - i dietologi la chiamano così - ammette, invece, come il consimile riso e fagioli, il parmigiano. Quanto al pepe, nessuna obiezione. Purtroppo, voi toscani vincete. Poco tempo addietro, mentre stavo per godermi la 'mia' pasta e fagioli, il fratello di Giorgio Gioco si è avvicinato al tavolo, impugnando il bottiglione dell'olio bono. L'ho scacciato, dicendogli di vergognarsi. Ha finto di farlo: ma è andato a offrire l'esecrato - in questo caso - liquido tosco, a un tavolo vicino." E Montanelli come reagì? Con questa scudisciata. "Carlo Alberini. Ogni tanto di notte mi sveglio di soprassalto perché sogno di essere diventato dittatore. Dittatore infatti è l'unica parte che mi sentirei di fare, se avessi qualche vocazione alla politica. Non ce l'ho, e quindi per fortuna dittatore non sarò mai. Per fortuna, perché se lo fossi, lei a quest'ora penzolerebbe da qualche lampione della sua Venezia per truffa concettuale e oltraggio al pudore. "Non giuochiamo ora sugli equivoci, signor Alberini. Io di Venezia ho il culto, e anche della sua cucina sono un grande estimatore: la considero quasi a pari merito con quella toscana. Ma quando sento qualcuno dire che la pasta e fagioli si mangia col formaggio, che la sublimazione dei fagioli sono quelli di Lamon, e che - reggetemi, reggetemi! - il nostro olio è roba da vergognarsi, la mano mi corre alla fondina della pistola, dove la pistola non c'è, ma se ci fosse sparerebbe anche senza la mano. "Con chi avventa simili dichiarazioni, non vale nemmeno la pena di polemizzare. In questi casi l'eutanasia diventa un dovere morale e sociale. Come si può infatti redimere una mente arrivata a tale punto di perversione da sostenere che ogni regione ha la 'sua' pasta e fagioli? Se così fosse, dovremmo dar ragione anche ai comunisti quando dicono che quella loro è democrazia, visto che ognuno ha diritto alla 'sua'. E che dire di un cultore di gastronomia che esalta i fagioli di Lamon (e qui ha ragione) ma ignora quelli di Sorana? Il mio amico Gioco di Verona è un dio come lo è Cipriani, come lo è Gabriele dell"Antica Locanda' di Borghetto sul Mincio, come lo era Alfredo del 'Tulà', come lo sono alcuni altri del raffinato Veneto. Ma hanno sbagliato profeta."
Due belle pagine. La cucina è un campo di tenzone ubertoso come pochi. E noi
toscani sappiamo difenderci con indubbio successo. Oltrettutto ci aiuta la bontà
della nostra tradizione, non sempre aiutata da un'uguale bontà delle nostre
materie prime, come vedremo nel prossimo capitolo dedicato alla bistecca.
Intanto prendiamo nota di una ricetta per la pasta e fagioli.
Ingredienti per 6 persone - 1 kg di fagioli toscani - Un quarto di litro d'olio d'oliva - 2 fette di rigatino - 1 fetta di pancetta affumicata - 3 spicchi d'aglio - 1 cipolla piccola - 1 zenzero - 4 pomodori pelati - 1 cucchiaio di concentrato - 150 g di tagliatelle - Sale e pepe Cuocere i fagioli, passarli al passatutto, rimetterli a bollire, aggiungere pancetta, rigatino, cipolla, aglio, zenzero e pelati, il tutto finemente tritato e cotto in precedenza nell'olio (il concentrato a piacere). Mettere la pasta e a cottura ultimata servire con la bottiglia dell'olio di frantoio a isposizione dei clienti. Ricetta della trattoria "Antico Fattore". | << | < | > | >> |Pagina 151Il romanzo della bistecca ci porta negli Stati UnitiSì, parliamo della bistecca, il monumento della cucina fiorentina. L'Artusi v'insegna l'abbiccì di questo piatto ineguagliabile per la sua semplicità e la sua possente gradazione nutritiva: "Da beefsteak parola inglese che vale costola di bue, è derivato il nome della nostra bistecca, la quale non è altro che una braciuola col suo osso, grossa un dito o un dito e mezzo, tagliata dalla lombata di vitella". E spiega: "I macellari di Firenze chiamano vitella il sopranno non che le altre bestie bovine di due anni all'incirca; ma se potessero parlare, molte di esse vi direbbero non soltanto che non sono più fanciulle, ma che hanno avuto marito e qualche figliolo". Altri tempi i suoi. Erano quelli di Gino Sabatini in via Valfonda o della trattoria di Gaetano Picciòlo sul viale Regina Margherita dove D'Annunzio andava a farsi una bistecca di un chilo con la "divina" Eleonora Duse, o dei locali di Giovacchino Mariottini in via Tosinghi, di Vincenzo Del Lungo in Borgo San Lorenzo, della "Buca del Lap" e della "Buca di San Giovanni". Oggi i vitelli d'allevamento non hanno certo il modo di invecchiare. E per concludere con l'abbiccì sulla bistecca: una storiella fa risalire al Cinquecento la nascita del suo nome. Festa in San Lorenzo, bue allo spiedo, distribuzione di carne al popolo, nella ressa ci sono dei mercanti inglesi che allo spettacolo del taglio delle fette di carne con l'osso si entusiasmano e le chiedono gridando: "Beef-steak, please! Beef-steak! Thank you!". Da qui la traduzione simultanea di "bistecca" da parte dei fiorentini. È un'abitudine di noi toscani italianizzare la parole straniere raddoppiando le consonanti finali e aggiungendo una vocale a chiusura: tramme per tram, autobusse per autobus, Buicche per Buick, Lucchestricche per Lucky Strike, cognacche per cognac eccetera. Prima di allora le bistecche avevano un nome più logico: carbonate. Oggi le bestie non solo vivono poco, e finiscono il più presto possibile al macello, ma rispondono di rado alle esigenze della cucina fiorentina. L'autentica bistecca, infatti, vuole la carne chianina. E trovare la carne chianina è sempre meno facile. Per molte ragioni che cercherò di spiegarvi. Il bue chianino (in Toscana, però, si dice bove. V'immaginate il Carducci che canta "T'amo pio bue") è la fabbrica delle bistecche vere, le cosidette "fiorentine" che, perduto il filetto, i milanesi chiamano costate. Per loro la bistecca è la fettina alta due millimetri. Roba da piangere. Senza carne chianina la bistecca non ha senso e non ha patria: non ha sapori. Il bove chianino ha la carne succosa. Masticandola senti la polpa compatta e vellutata che cede sotto i denti senza opporre resistenze biliose, come succede con la carne di certe bestie che arrivano da lontano: ma senza nemmeno abbandonarsi molle e insipida, puttanesca. Paragonata a una donna (il rapporto gastronomia-sesso è molto stretto) la Chianina ricorda l'amore intenso di una femmina di gran carattere, bruna, del calibro, per intenderci, di una Raquel Welch, sostanziosa e con attributi aggressivi, fianchi da serrare con le mani che non lasciano la stretta e occhi da sprofondarci. Una donna tutte curve ma senza un filo di grasso più del necessario. La Chianina ha solo il grasso indispensabile alla mole del bove da cui nasce. È una carne moderna, il suo scarto è minimo. Il bove chianino è il più alto e il più maestoso del mondo. È quello che in proporzione al suo peso rende di più. Mario Sanesi, che a Lastra a Signa ha una trattoria storica, un'ex posta di cavalli che talvolta ammannisce ancora le bistecche chianine, racconta: "È da un secolo che la mia famiglia cucina bistecche chianine in questo locale. Ma ora per trovare un vitello chianino bisogna girare come matti. E quando lo trovi devi pagarlo l'iradiddio". Che magnificenza quando a Lastra a Signa giungevano i contadini per la sfilata dei bovi chianini, tutti infiocchettati, bianchi come la porcellana, e robusti, di chiappe alte. Al più bello andava un premio. "Allora i vitelli, a peso morto, erano sui settecento chili" dice il Sanesi. "Oggi quelli che ci mandano dal Nordeuropa non superano i quattrocento-cinquecento chili, e sembrano tisici. Quando devo mettere in tavola una fiorentina tagliata da un vitello straniero mi vergogno come un ladro." | << | < | > | >> |Pagina 215Il baccalà del campanilismo: alla fiorentina o alla livornese?Fra i piatti tradizionali della cucina marinara, Firenze ha solo il baccalà. Quando era collegata a Livorno con le diligenze, il viaggio durava dieci ore. E molte di più con i barrocci-express. Troppe per la buona conservazione del pesce fresco. Nel 1848 la ferrovia Leopolda li ridusse a quattro. Ma le triglie i fiorentini preferivano andarsele a ciucciare direttamente nelle osterie labroniche. Sulle loro mense il pesce fresco rimase a lungo un genere commestibile fuori del normale. Al contrario del baccalà sotto sale, che costava poco e anche il popolino poteva permetterselo. Era il piatto del venerdì di magro, con i ceci di contorno. Un piatto povero che oggi è valorizzato dai buongustai. Con una differenza: nel prezzo. Il baccalà non è più un piatto povero. C'è un'altra differenza: il baccalà del nostro tempo è diverso da quello di ieri. La pesca del merluzzo sui banchi di Terranova non è più quella che descriveva Pierre Loti, con i battelli carichi di sale che salpavano ogni primavera dai porti dell'Atlantico e i merluzzi, appena catturati, erano sventrati, decapitati, aperti a libro, deliscati, salati e messi in barile. Ora la pesca obbedisce a rigorosi criteri industriali. I pescherecci surgelano in diretta i merluzzi e al ritorno li cedono alle fabbriche che li lavorano, li spazzolano togliendo lische e pelle, e regolando la salatura.
Di qui un maggiore impegno a cucinarlo bene, il baccalà, a insaporirlo, a
trasformarlo in una pietanza prelibata. Abbiamo già visto il procedimento
suggerito da Pellegrino Artusi per il cosiddetto "baccalà alla fiorentina". E
abbiamo già ascoltato le rimostranze dei livornesi che sostengono il loro
diritto a chiamarlo "baccalà alla livornese". Il solito campanilismo toscano. In
realtà il metodo dell'Artusi di versare del sugo di pomodoro, o della conserva
diluita, sul baccalà rosolato nella teglia non gode i favori, e la stima, dei
cuochi professionisti. Nel Chianti, dove il baccalà, per evidenti
ragioni economiche, è stato adottato da almeno due secoli, lo preparano in modo
più razionale, più convincente. E al "Montagliari" di Ponzano dicono di
interpretare il sistema livornese.
Baccalà alla chiantigiana Ingredienti per 6 persone - 1 kg di baccalà già ammollato - Farina - Olio - 6 spicchi d'aglio - 1 mazzetto di prezzemolo - 1 barattolo di pomodori pelati - Sale e pepe Pulire e asciugare il baccalà, dividerlo in pezzi e infarinarli. Padella. Friggerlo, abbondando con l'olio: metterei uno spicchio d'aglio. Sgrondare bene i pezzi su carta da cucina. Nel frattempo preparare la salsa: soffriggere in poco olio il resto dell'aglio e il prezzemolo tritati, aggiungere i pomodori passati dal passaverdure con il loro liquido, salare appena un po' e, nella teglia della salsa, unire i pezzi di baccalà fritti continuando la cottura per qualche minuto, dandogli modo di insaporire a perfezione. Ricetta del ristorante "Montagliari" di Panzano. | << | < | > | >> |Pagina 273Sì, brindiamo con il Chianti: apre il rinascimento dei viniParlare per un intero libro della cucina fiorentina, senza allargare il discorso al suo vino, al Chianti, non avrebbe senso. Sarebbe come mettersi a tavola, apparecchiata di tutto punto, e mangiare senza bere. O bere acqua che, per i ghiottoni del nostro stampo (posso coinvolgervi tutti quanti?), è una cosa orribile, tremenda. Il Chianti è una delle glorie di Firenze. È la sua linfa, la sua musa ispiratrice, il suo nettare. È lo specchio arrubinato della sua personalità. Bevete a sorsi intelligenti un bicchiere di buon Chianti, un vero Chianti, e avete la scheda del carattere di Firenze: asciutto e severo, nemico delle sdolcinature, ricco di spirito, di humour pungente: ma guardingo. Se il Barolo è sontuoso e cardinalizio, se il Barbaresco ha la forza lucente di un capitano di ventura, se il Valpolicella sorride morbido, pronto alle ciacole, se nel Brunello trovate i sapori autunnali dell'Amiata, se il Lambrusco è tutto uno scherzo goliardico, il Chianti non scherza e nemmeno sorride. In compenso non si dà arie. Non dice, come fa il Nobile di Montepulciano, "Io dei vini sono il re". Per l'amor di Dio! Questo no. I senesi, a Firenze lo sappiamo bene, hanno il vizio di montarsi troppo spesso la testa. Il Chianti pare semplice. Pare facile da bere, da capire. Ma ha una sua nobile alterigia. Come certi paesaggi delle nostre parti: belli, meravigliosi, e insieme austeri. Dice bene Geno Pampaloni, il critico letterario nato in Maremma ma di civiltà fiorentina: "Il Chianti è un vino che incute rispetto. Ci vuole una certa frequentazione perché dia confidenza. È un vino intimamente fiorentino, anche se in parte nasce nel Senese. Sa di case-torri medioevali, di mura merlate, di pietra serena o addirittura basaltina". I patrizi fiorentini vivevano di mercatura, facevano i banchieri ed esportavano i tessuti di pura lana vergine, i broccati, i velluti, ma tutti quanti commerciavano il vino delle loro terre. Molti dei loro palazzi hanno ancora le finestrelle, oggi ovviamente murate, per la vendita al dettaglio del vino. Gli Antinori imbarcavano già il loro Vermiglio nel porto pisano verso la fine del Trecento. I Frescobaldi, banchieri della casa reale britannica, podestà, poeti e musici, che nel 1252 costruirono di tasca propria il ponte di Santa Trinita per arrivare più agevolmente nel centro di Firenze dalla loro magione d'Oltr'Arno, con i profitti del vino crearono la villa Montecastello, sopra Empoli, già nel 1380.
Certo, non era un gran vino quello che i fiorentini
bevevano al tempo dei Medici. D'altronde, il Montaigne, nel suo saggio
sull'ubriachezza, sostiene che per essere dei buoni bevitori non bisogna avere
un palato troppo delicato. L'importante è amare il vino. Berlo con serietà,
senza tracannarlo. E senza ubriacarsi. Diffidate di chi beve solo acqua. Non mi
stancherò mai di ripeterlo. Luigi XVI, prima di salire sulla ghigliottina,
scrisse una lettera davanti a un semplice bicchiere di vino affermando che i più
feroci tra i suoi nemici bevevano acqua. A cominciare da Robespierre.
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