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| << | < | > | >> |Indice1. città città, identità, cittadinanza 6 complessità da governare e mediazione sociale 17 un laboratorio di pensiero e azione sociale per concepire un cammino verso la felicità 29 2. salute globale e locale 48 bisogni che mutano e sistemi sanitari muti 55 3. migranti la violenza che accade 64 il paradigma feroce dell'«emergenza migranti» 73 4. psicopolitica tempi di assedio ed empowerment 90 complessità: descrivere, cambiare, educare 102 salvaguardare i cammini di liberazione 115 perché bisogna dire «no» 130 |
| << | < | > | >> |Pagina 6città identità cittadinanzaPiù della metà della popolazione mondiale vive in aree urbane. La popolazione delle città è cresciuta significativamente negli ultimi trent'anni: nel 1975 il 26% degli abitanti dell'Africa viveva in città, oggi sono il 39% e nel 2030 saranno il 63%; in Asia il salto sarà dal 29% al 64% e in Europa dal 66% al 79%. Dunque il mondo si metropolizza. Il Fondo delle Nazioni unite per la popolazione (Unfpa) stima che l'85% dell'aumento della popolazione mondiale nei prossimi trent'anni si verificherà in contesti urbani. La popolazione delle città nei paesi in via di sviluppo passerà da 2 miliardi nel 2000 a 4 miliardi nel 2030, mentre la popolazione generale del globo passerà da 6 a 8 miliardi. La crescita urbana sarà molto più marcata nelle città piccole rispetto alle megalopoli. Nel 1975 esistevano solo 5 città con più di 10 milioni di abitanti e nel 2015 le megalopoli saranno 23. Nel 2015 ben 564 città avranno più di un milione di abitanti e si definiscono città le conurbazioni di almeno centomila abitanti. L'assenza di opportunità lavorative, l'isolamento sociale, la mutazione degli immaginari giovanili rendono le campagne sempre meno popolate e le città sempre più attrattive per i giovani. All'aumento massiccio della popolazione urbana corrisponderà un declino (meno clamoroso) della popolazione rurale. La crescita della popolazione urbana è determinata, tuttavia, non solo dalla migrazione ma soprattutto dall'aumento della popolazione già inurbata. La concentrazione urbana di individui ha dimostrato di essere una componente importante dello sviluppo economico (e per questo gli individui lasciano le campagne per la città) così come lo sviluppo economico ha mostrato di essere un potente determinante di agglomerazione urbana. La città determina sviluppo e povertà al tempo stesso. La maggior parte delle città del mondo mostra una crescita della popolazione urbana povera. Ovviamente in misura minore nei paesi ad alto reddito rispetto a quelli a medio e basso reddito. Il 43% della popolazione urbana nei paesi in via di sviluppo vive in slum. Questa percentuale sale al 78% nei paesi a bassissimo reddito. Va notato che anche nei paesi sviluppati la povertà si concentra nelle aree urbane: la popolazione di poveri cresce più rapidamente in città di quanto cresca la popolazione di quella città. Ossia per ogni tre nuovi abitanti due sono poveri. La povertà urbana si organizza per ubicazione topografica (villa miseria, favelas, slum, quartieri cosiddetti difficili o sensibili) e/o per aggregazione etnica (rom, immigrati illegali, immigrati legali ma di basso reddito). L'ubicazione topografica povera si caratterizza in misura diversa per la mancanza di servizi basilari (acqua, elettricità), abitazioni malsane, affollamento abitativo, impiantistica pericolosa, igiene abitativa scadente, insicurezza abitativa dovuta a illegalità, povertà nutrizionale, mancanza di servizi sanitari di prossimità, esclusione sociale, ghettizzazione, violenza. Non è dunque strano che la povertà urbana sia uno dei maggiori fattori di rischio per la salute delle persone. Le malattie infettive sono prevalenti fra i poveri urbani dei paesi in via di sviluppo (per la mancanza di acqua, fogne e per la densità abitativa e la promiscuità), mentre le malattie non trasmissibili (diabete, obesità, ipertensione, tumori, asma) prevalgono fra i poveri urbani dei paesi sviluppati. Tuttavia va notato che questa distinzione è sempre meno netta (basti pensare all'aumento allarmante di tubercolosi resistente in città di paesi sviluppati come Milano) e si assiste a un ritorno di malattie infettive nei paesi sviluppati e alla comparsa di malattie non trasmissibili nei paesi in via di sviluppo. Restano da sempre trasversali a tutte le categorie di paesi l'uso di sostanze psicoattive (lecite e illecite) e la violenza domestica e giovanile. I problemi di salute mentale e di salute più in generale saranno quindi sempre più problemi di salute (e sofferenza) «urbana». La Banca mondiale e l'Organizzazione mondiale della salute stimano che le malattie mentali rappresentino il 13% del carico totale di mortalità e disabilità generato da tutte le malattie. In altre parole, il contributo delle malattie mentali alla disabilità e mortalità globali è molto significativo (superiore al cancro o alle malattie cardiovascolari). Questi dati si riferiscono alle malattie mentali definite dalle classificazioni internazionali delle malattie e non tengono conto delle numerose condizioni di sofferenza psicologica e sociale generate dalla povertà, dalla violenza, dall'insicurezza e dall'abbandono durante infanzia e adolescenza, dall'emigrazione forzata, dall'esclusione che colpiscono individui, famiglie e comunità. Fra coloro che soffrono per una malattia mentale formalmente classificata e riconosciuta e coloro che soffrono per quelle «altre» condizioni di vulnerabilità psicosociale vi è tuttavia molto in comune: stigma, discriminazione, abbandono, violazione dei diritti. Inoltre, entrambi i gruppi vivono in istituzioni: definite, visibili, ad alta densità come i manicomi, le carceri, i campi per rifugiati oppure indefinite, invisibili, diffuse, a bassa densità come le strade, le stazioni della metropolitana, le favelas, gli slum. Vi è permeabilità fra il primo gruppo, i malati psichiatrici, e gli «altri» che, per la natura ed eterogeneità della loro sofferenza, non possono avere altro nome che «altri». | << | < | > | >> |Pagina 90tempi di assedio ed empowermentEra il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l'epoca della fede e l'epoca dell'incredulità; il periodo della luce, e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l'inverno della disperazione. Charles Dickens Viviamo in tempi di assedio: foolishness, incredulity and darkness. Stagione della disperazione? Il senso di appartenenza a una comunità nazionale, a un modello consolidato e condiviso di società, a un sistema di valori morali condiviso, a una religione comune, e, in generale, il senso di appartenere a un gruppo vasto di soggetti che si sentono uniti è un'esperienza innanzitutto altamente emotiva che, a partire dall'emozione dell'identità, viene successivamente a dotarsi di un corpus di idee e valori con connotati pseudo-morali e infine si dichiara anche come scelta di campo politico. I molti americani, sovente accomunati dall'appartenenza alle medesime sette religiose, e che votano repubblicano, conoscono molto bene questa esperienza ed essa si intensifica in un'emozione collettiva e vibrante ogni qualvolta vi sia un pericolo (spesso percepito più che reale) che minacci la nazione, i suoi valori e i suoi miti. È dagli anni Trenta, fra la Prima e la Seconda guerra mondiale, che gli europei avevano la fortuna di non conoscere più il fenomeno diffuso e massiccio del bisogno di appartenere a una «patria» (a una nazione sovrana e non riconoscibile come Europa ma come Stato nazione storicamente definito: Francia, Italia, Polonia), una nazione che abbia confini sempre meno permeabili, una nazione fatta di cittadini legittimati dalla comunanza di valori cristiani, famigliari, xenofobi, popolari e dunque ostili alle classi dirigenti politiche viste come corrotte e prone alla svendita della sovranità nazionale. Si tratta di un populismo che ha preso forma compiuta nel fascismo degli anni Venti e Trenta e che tende a riprodursi in terreni di cultura propizi. L'Europa post Seconda guerra mondiale, intrisa di volontà di pacificazione e di ritrovamento della democrazia, ha fatto da baluardo alla riproduzione di questo fascismo dal 1945 fino a pochi anni fa. La Polonia e l'Ungheria di oggi si sono decisamente orientate a consolidare un regime dichiaratamente fascista e autoritario; l'estrema destra francese spera (e con qualche chance) di affermarsi sulle rovine della corruzione dei governi della destra e delle insostenibili ambiguità della sinistra; l'Italia populista è quella che ambisce a riunire fascismo nero, egoismo rabbioso e cripto-violento della cultura xenofoba del nord e la cinica corruzione privatista di padroni e padroncini di sempre. Sembra, comunque, che tutti ambiscano a creare movimenti popolari, verbalmente violenti anche se privi di ogni ratio di governo, magari invocando il ritorno alle monete nazionali oppure la chiusura delle frontiere alla manodopera di migranti. Tutti, comunque, alimentano pericolosamente la violenza verbale (dalle ruspe per sgombrare donne e bambini, ai barconi che si vorrebbero affondati in mezzo al mare, al compiacimento disumano quando gli immigrati non riescono ad arrivare in terra di immigrazione ma muoiono in itinere, al richiamo infine a bombardare a tappeto i territori di Daesh). Tutti promuovono la retorica delle tradizioni in funzione xenofoba e islamofobica («il presepe prima di tutto») cancellando per ignoranza, ma spesso anche per dolo, le vere radici religiose di tali tradizioni che richiamano ai valori di solidarietà e di fratellanza del cristianesimo (fino a insultare il papa e gli esponenti della chiesa qualora, invece che affannarsi a difendere il presepio, si preoccupino invece di promuovere il Vangelo). Ovviamente le religioni e le culture «altre» sono parte costitutiva e dominante della minaccia all'identità e dunque si promuovono le nuove e vecchie forme di discriminazione: no ai luoghi di culto per i musulmani (ogni moschea è una caserma di terroristi), no al velo integrale perché cela una potenziale terrorista, sì alla repressione di ogni forma di discriminazione delle donne invocata dall'islam ma indifferenza verso la violenza perpetrata sulle donne dai maschi nostrani, denuncia della violenza potenziale celata in ogni musulmano ma solidarietà e simpatia verso la violenza dei nostrani che sparano ai ladruncoli stranieri uccidendoli. Se tutte le religioni altre sono minacciose non c'è dubbio che vi sia un gradiente: massima pericolosità avvertita per i musulmani e minima per gli ebrei che grazie alla politica di Israele sono entrati a far parte di diritto dell'impero del bene che lotta contro quello del male. Ignoranza, violenza, discriminazione, consenso facile sono gli ingredienti di questo assedio che silenzia e isola gli operatori di pace, che irride i promotori di ragionevolezza e i predicatori di tolleranza e fratellanza. «Buonismo» è la parola che serve a squalificare ogni azione che protegga e tuteli i più vulnerabili. Dunque diritti acquisiti e legittimi di carcerati, di tossicodipendenti, di immigrati cessano di essere considerati diritti ma diventano pericolose espressioni di buonismo. Essere «cattivi» sarebbe, dunque, una virtù che contrasta la «mollezza» del buonismo. Così si è convinta la popolazione che non si parla più di certezza del diritto ma di semplici opzioni per la bontà «molle» o la cattiveria rigorosa. Ma la Costituzione non è né molle né dura, né buona né cattiva, bensì è la carta del patto fra i cittadini. Ma pochi se lo ricordano, pochi lo sanno e a tutti fa più comodo pensare che la Costituzione e le leggi sono optional dei buoni. Tuttavia, tutto quanto fin qui schematicamente descritto non rappresenta che un solo lato del campo sottoposto all'assedio. Gli assediati - gli operatori e costruttori di pace, i promotori di ragionevolezza, i predicatori di tolleranza e fratellanza - sono trincerati all'interno di un campo sottoposto ad assedio plurimo. Infatti, anche altri sottopongono i difensori indifesi a un assedio: i violenti e i rappresentanti dei fondamentalismi (e primo e di gran lunga il più minaccioso quello islamico di Daesh) assediano, infatti, un altro lato del campo. E assediano con durezza, determinazione, efficacia e soprattutto con totale insensibilità verso ogni forma di umana pietà e più in generale con totale disprezzo verso ogni forma umana dell'umano. Ecco, dunque, che l'assedio è duplice ma, a ben guardare, un terzo assedio si sviluppa accanto ai primi due: infatti la guerra ai violenti e ai fondamentalisti viene condotta in forme opache e ambigue da altri violenti che si suppone veglino sulla pace dei nostri territori ma che, ahimè, fanno anche altro: fanno affari con i supposti nemici e sostengono gli amici dei nemici, occultano i loro affari, manipolano l'informazione e ci chiamano alla crociata del bene contro il male. Che quel male sia il male non ne abbiamo alcun dubbio ma molti dubbi nutriamo su quel bene cui i nuovi crociati ci appellano. E così, siamo sotto assedio o meglio sotto gli assedi. E si assottigliano le forze della ragione, della pace, della virtù e della fratellanza, della solidarietà e della tenerezza dell'umano. Gli antichi alleati, gli intellettuali della sinistra, non si vedono più in giro sia perché la sinistra è evaporata fra le fumisterie ciniche e retoriche di quello che fu il partito storico della sinistra e quelle miopi delle «altre» sinistre incapaci sia di essere di governo sia di essere di opposizione, ossia forse incapaci di essere tout court. Gli intellettuali della sinistra, che non c'è più, non ci sono e dunque la resistenza ai molteplici assedi è un affare di pochi, dispersi e scarsamente coordinati. Ognuno sa che l'altro c'è da qualche parte ma nessuno sa bene né dov'è, né su chi contare. | << | < | > | >> |Pagina 115salvaguardare i cammini di liberazioneDifficilmente potremmo dirci ostili al riformismo socialdemocratico inteso come una strategia complessiva che favorisca una diminuzione delle disuguaglianze economiche e sociali. Le stagioni alte della socialdemocrazia (pensiamo alle esperienze svedesi o al laburismo degli anni di Harold Wilson in Gran Bretagna o, infine, al primo governo Prodi in Italia) sembrano tuttavia tramontate per dare spazio a una nuova retorica riformista che scandisce politiche di aggiustamento strutturale penetrate nel cuore dell'Europa in modo particolarmente violento dall'inizio della cosiddetta crisi del 2008 (basti pensare alla vera e propria strage prodotta dal darwinismo sociale in Grecia). Blair in Gran Bretagna, Schroeder in Germania, Renzi in Italia sono gli esponenti più noti di questo distorcimento della cultura politica alta della socialdemocrazia e hanno replicato nei loro paesi le politiche neoliberali tipiche di governi conservatori, utilizzando il riformismo ideologicamente «per nuovi processi di recinzione e svendita dei beni pubblici comuni, il che comporta privazione e sofferenza sociale ed ecologica». La crisi finanziaria iniziata nel 2008 si è sommata a più vasti mutamenti degli equilibri geopolitici. Sei grandi fenomeni hanno caratterizzato l'ultimo decennio: 1. le ripetute guerre americane ed europee per il controllo del petrolio che hanno generato una crescente conflittività sistemica fra paesi occidentali e paesi musulmani; 2. l'inasprirsi non più controllabile del terrorismo islamico; 3. il ritorno della Russia come potenza coloniale; 4. l'affermazione economica e militare della Turchia; 5. i massicci fenomeni migratori che l'Europa si è mostrata drammaticamente incapace di gestire;
6. il grave indebolimento ideale, politico ed economico dell'Unione europea.
L'Italia è, evidentemente, parte di queste mutazioni. Da un lato, il tramonto della cultura socialdemocratica alta ha dato spazio a sovranismo, nazionalismo, xenofobia e imbarbarimento dei linguaggi della politica. Dall'altro, le grandi mutazioni geopolitiche globali hanno trascinato l'Italia nella spirale discendente della crisi dell'Europa. Il panorama italiano è costituito da una destra estremista razzista, da una destra neoliberale corrotta, da una soi-disant sinistra riformista che nei fatti altro non è che un centro conservatore, da un ambiguo movimento politico che si dice libero dalla distinzione destra-sinistra ma che, in realtà, esprime la cultura avventurista del primo fascismo italiano, infine da minoranze litigiose di una sinistra che cerca di non perdere l'identità di un riformismo socialdemocratico non degenerato: cinque tendenze che, nei fatti, dipingono il paese come lacerato fra una destra composita (populisti di Lega, Fratelli d'Italia e Movimento Cinque Stelle e neoliberali di Forza Italia), un centro sinistra conservatore (Partito Democratico) e una sinistra molto minoritaria alla ricerca di identità, radicamento reale nei territori e leadership. | << | < | > | >> |Pagina 130perché bisogna dire «no»Dalla fine della guerra a oggi si sono succeduti molti governi in Italia e in Europa: di destra, di centro e di sinistra o, sarebbe meglio dire, di centrodestra e di centrosinistra. Tuttavia è la prima volta che fra le persone (e sono molte) che hanno a cuore la democrazia, lo Stato di diritto e l'amore per la tolleranza e la civiltà, serpeggia un sentimento di paura e di disperazione, come se, questa volta, in Italia e in molti paesi d'Europa, riapparissero i fantasmi del passato fascista. L'alternanza fra governi di destra e governi di sinistra è un fenomeno naturale delle democrazie occidentali ben rappresentato dall'alternanza pacifica di conservatori e laburisti nel Regno Unito. Perché allora questo sentimento di allarme, che va ben oltre la constatazione pacifica della presenza di governi conservatori al timone di molti paesi europei? La risposta è semplice e a tutti nota: gli attuali governi dell'Austria, dell'Italia, della Polonia, dell'Ungheria, non sono governi conservatori ma governi caratterizzati dalle stimmate del populismo, del razzismo, della xenofobia, dell'omofobia, dell'irrazionalismo, della violenza verbale, dell'intolleranza. No v'è dubbio che un autentico governo conservatore certamente non si caratterizza per tali stimmate (basti ricordare John Major in Inghilterra, Jacques Chirac in Francia, Helmut Kohl in Germania e De Gasperi in Italia) ma piuttosto per politiche orientate alla protezione degli interessi economici delle classi privilegiate. Inoltre, perfino governi decisamente di destra, come ad esempio quelli di Cameron, di Sarkozy e di Berlusconi, non si sono caratterizzati mai per una promozione attiva di una cultura razzista, xenofoba, omofoba e intollerante. Dunque, è questa nuova deriva neofascista che allarma e che richiede chiari e sostenuti «no». Perché dobbiamo dire no a questa deriva politica, morale e culturale e ai governi che l'incarnano? Perché essa consolida una cultura di governance emergenziale invece che sistemica. Ossia, invece che aprire cantieri progettuali di esperienze che affrontino in forma sistematica e sistemica l'ineluttabile migrazione di milioni di individui dai paesi della miseria e della guerra verso i paesi della pace e del benessere, lo Stato si mette a urlare, induce paura, distorce le statistiche, predica intolleranza, innalza barriere e ricaccia (in realtà tenta di ricacciare) la storia in qualche campo di concentramento turco o nordafricano. Diciamo «no» perché anche se la rabbia e l'egoismo sono sentimenti spiegabili e spontanei soprattutto nelle comunità più fragili per cultura e per condizione socio-economica, essi vanno governati in modo responsabile e civile e non invece promossi, manipolati e utilizzati per generare consenso. Non va sottovalutata, come ci ricorda Gramsci, la apoliticità fondamentale del popolo italiano (specialmente della piccola borghesia e dei piccoli intellettuali), apoliticità irrequieta, riottosa, che permette ogni avventura, che dava a ogni avventuriero la possibilità di avere un seguito [...]. Si viene così creando in molti paesi europei (compresa l'Italia) quella «illusione dell'identità unica» di cui parla Amartya Sen quando scrive: È più che naturale che quelli che per mestiere fanno gli istigatori di violenza cerchino di creare l'illusione dell'identità unica, da sfruttare per creare una contrapposizione, e non è un mistero che questo tipo di riduzionismo sia un obiettivo perseguito. Al contrario, tolleranza e solidarietà, multiculturalismo e rispetto dei diritti sono sentimenti e valori che possono e che devono essere edificati da chi ha responsabilità pubblica attraverso strategie e azioni che dichiarino la possibilità concreta di un progetto di società più giusta, più tollerante e accogliente. Diciamo «no» perché oggi, invece, chi governa dichiara come valori l'egoismo e la rabbia e dichiara come disvalori la bontà, la tolleranza, la solidarietà. Diciamo «no» alla cattiveria che cessa di essere un deficit individuale e diventa ideologia organizzata che assume forme istituzionali potenzialmente sovversive, nel senso negativo del termine «sovversivo» che, ancora Gramsci ci illumina, altro non è che l'avversione contro la burocrazia in cui si vede unicamente lo Stato [...]. Questo odio generico è ancora di tipo «semifeudale», non moderno, e non può essere portato come documento di coscienza di classe: ne è appena il primo barlume, è solo appunto la posizione negativa e polemica elementare. La cattiveria, quando cessa di essere deficit individuale ma diviene ideologia affermata come segno di potenza e determinazione dello Stato, diviene molto presto malvagia: «Dobbiamo riabituarci a essere crudeli con la coscienza pulita», raccomanda Hitler in Mein Kampf (testo di cui non darò referenza bibliografica). È forse venuto il momento di affermare, chiaro e forte, che non è inscritto in alcuna idea di società che la bontà, nella sua accezione pubblica, non possa trovare le forme istituzionali che facciano di un governo non solo un buon governo ma anche un governo buono. Diciamo di «no» perché un buon governo deve stare al fianco dei poveri invece che semplicemente usare il loro malessere per poi, in realtà, lasciarli indietro. «Prima gli americani, prima gli italiani», ma questa illusione di identità nazionale che trascende le differenze sociali ed economiche, in realtà, maschera scelte che non sono in favore dei poveri (americani o italiani), bensì protegge gli interessi dei privilegiati che vedono le loro imposizioni fiscali diminuire e crea nemici fantasmatici (i rom o i migranti). Invece di colpire le criminalità organizzate. Tutti questi «no» segnano la sostanziale differenza fra una possibile e pacifica opposizione a un governo pacifico ma conservatore e la necessaria, dura e determinata lotta a governi bellicosi e neofascisti. Questi «no», dunque, segnano la differenza fra opporsi pacificamente a un progetto di società conservatore che non si condivide (come è naturale per le opposizioni nelle civili alternanze democratiche) o, invece, lottare contro una fondamentale assenza di progetto di società. Tale assenza di progetto viene sostituita da poche e semplicistiche ideologie brutali (armi per tutti, difesa armata della proprietà a ogni costo, promozione dell'identitario nazionale e religioso, ostilità verso il sapere tecnico e scientifico, ecc.). Il populismo sostituisce così alla nobile idea di democrazia popolare quella assai meno nobile di eccitazione della rabbia popolare ove le iper-semplificazioni dei problemi complessi servono a giustificare le loro pseudo-soluzioni semplicistiche, ove al riconoscimento del sapere, della competenza, della razionalità si sostituiscono il culto dell'ignoranza: democrazia non è più aspirazione al culto del sapere accessibile a tutti ma culto del non sapere esteso a tutti. E così, con i vecchi stereotipi dell'intellettuale debosciato e borghese, l'intelletto e la conoscenza diventano pericolosi nemici e gli ignoranti sono portati a esempio di vicinanza al popolo.
Tuttavia, dire «no» significa non soltanto combattere il governo
che c'è ma anche combattere dentro noi stessi la tentazione al pessimismo
passivo che ci fa rinunciare all'indispensabile ottimismo militante di cui, come
abbiamo già scritto, parla Ernst Bloch: utopia e
speranza non sono, infatti, il regno dell'impossibile ma quello del
«non ancora». Si tratta di fare della speranza un progetto di lavoro
politico per potere rinnovare sia gli strumenti di comprensione
della realtà sia quelli di azione nella realtà.
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